Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
“NON SIAMO COSI’ DISPERATI DA ACCETTARE QUALSIASI COSA”… L’EX DIPLOMATICO RUSSO BONDAREV: “I 28 PUNTI? SCRITTI DA INCOMPETENTI, PUTIN VUOLE MOSTRARE AGLI USA CHI COMANDA”
Più che una proposta negoziale è un ultimatum. Va bene che Donald Trump ha precisato che il “piano di pace” non è definitivo. Ma mantiene il termine del 27 novembre. Gli ucraini devono dire di sì entro giovedì. Li vuole puntuali e senza speranze. Come il tacchino sulla tavola degli americani, che quel giorno festeggeranno il Thanksgiving. Trump vuole far accettare a Kyiv una trattativa prima di ogni eventuale cessate il fuoco. Come ha sempre voluto Vladimir Putin. E che accettino subito.
Sennò, niente più armi e intelligence dagli Usa.
Punti fuori posto
Il problema è che per l’Ucraina avallare i 28 punti del documento Witkoff-Dmitriev significa legittimare presupposti che di fatto negano la sua sovranità. Anche se il piano non è conclusivo, la base di partenza è la peggiore possibile. E non è detto che a Kyiv si sia poi così disperati. Ma c’è anche un altro ostacolo sulla strada dell’iniziativa statunitense: alcune condizioni sembrano inammissibili anche per il Cremlino. A meno che non vengano subito cambiate per farle corrispondere agli obiettivi di guerra russi.
Se così fosse, e se al contempo Volodymyr Zelenskyy acconsentisse al volere di Trump, Putin potrebbe proclamare vittoria su tutti i fronti. Avrebbe sconfitto non solo Kyiv ma anche e soprattutto gli Stati Uniti. Quindi, l’Occidente. Ammesso che l’involuzione autoritaria in corso negli Usa e il sostanziale allineamento con Mosca consenta di considerare ancora il Paese di Thomas Jefferson, Franklin D. Roosevelt e John F. Kennedy parte dell’idea di Occidente.
In realtà il “piano in 28 punti” ha poco a che vedere con un’iniziativa diplomatica. Non si sa bene come nasce, è pasticciato nella forma e poco credibile nei contenuti. Improbabile che possa metter fine alla carneficina.
Queste riflessioni nascono da un’analisi dei termini che il piano contiene, della sua atipica genesi e delle sue prospettive. Corrispondono alle valutazioni di esponenti della élite ucraina
di insider della politica estera russa. Con alcuni abbiamo parlato in via confidenziale. Altre, li abbiamo intervistati.
Compromessi possibili
“Se invece di un ultimatum fosse davvero un’offerta preliminare su cui discutere, sarei quasi ottimista”, dice a Fanpage.it il politico ed economista Timofyy Mylovanov, già ministro dello Sviluppo economico di Volodymyr Zelenskyy, oggi adviser del governo e presidente della Kyiv School of Economics.
“Non sarebbe impossibile accordarsi su alcuni temi. Forse in modo provvisorio. Per definirli in un secondo tempo”. Un esempio? L’entità delle forze armate ucraine. Il piano prevede che vengano dimezzate. “Ma ci si potrebbe venire incontro su dove possano essere dispiegate. E ci si potrebbe confrontare sugli armamenti permessi”, nota l’accademico.
La condizione di escludere la presenza militare di Paesi terzi sul territorio ucraino per assicurare il rispetto degli accordi, a Kyiv viene considerata un falso problema: “Non è una garanzia reale: in caso di un nuovo attacco russo, le ‘forze di pace’ prenderebbero armi e bagagli e se ne andrebbero”. Mylovanov ritiene incontestabile la volontà da parte ucraina di cercare in modo costruttivo soluzioni e offrire alternative credibili, ribadita da Zelenskiyy nel suo ultimo, drammatico discorso alla nazione.
Questione di dignità
Ma il presidente ha anche chiarito come la dignità e la libertà dell’Ucraina non siano negoziabili. Una linea rossa è l’eventuale partecipazione della Russia al sistema per garantire la sicurezza.
“È fuori discussione”, dice Mylovanov. Su questo punto saltò il tavolo di Istanbul nell’aprile 2022, quando, dopo la batosta presa dalle forze armate di Putin nella battaglia di Kyiv, qualche compromesso da parte del Cremlino era sembrato possibile.
“L’Ucraina ha fretta di chiudere il conflitto, ma non tutta la fretta che credete”, spiega Timofyy Mylovanov: “Non diremo di sì a tutto”. Zelenskyy “è più debole” dopo lo scandalo della corruzione, ma “ha fatto pulizia”. E sta aumentando il suo spazio politico: “Potrebbe coinvolgere nel governo esponenti dell’opposizione. Serve una coalizione ampia, perché le pressioni sono enormi”. Pressione sui fronti di guerra, per le inchieste sulla corruzione. E ora, quella di Washington.
A guidare la delegazione ucraina negli incontri con i rappresentanti di Usa e Russia sarà l’“eminenza grigia” della Bankova, il capo dell’amministrazione presidenziale Andryy Yermak. Si vede che non si teme possa esser coinvolto nella “tangentopoli”, come ipotizzato da alcuni media. “Ha fatto da parafulmine ma non ci sono accuse contro di lui”, sostiene Mylavonov, che a Yermak è molto vicino.
Gli chiediamo di definire con due aggettivi l’attuale stato d’animo degli ucraini. “Sprezzante”, risponde. “Ma siamo anche esausti. E demoralizzati per il tradimento statunitense, oltre che per lo scandalo delle tangenti”.
Pasticcio diplomatico o dezinformatsiya?
“Il testo dei 28 punti è scritto male, senza professionalità né criterio”, commenta a Fanpage.it Boris Bondarev, dimessosi dal
ministero degli Esteri russo perché contrario alla guerra. “Nel documento non c’è alcuna logica diplomatica. Non è una proposta di trattativa. È un ultimatum mascherato”.
Il diplomatico sottolinea come il punto in cui si assicura la sovranità dell’Ucraina sia immediatamente seguito da altri che la negano. Perché limitano l’esercito, vietano l’ingresso nella Nato, danno all’invasore il diritto di dire la sua sulla sicurezza.
“Alcuni punti sono semplicemente ridicoli”, continua Bondarev. “La richiesta che tutti i caccia europei siano concentrati in Polonia non ha senso operativo. Nessuno sa quali aerei, quanti, dove sistemarli. È un esempio di vaghezza e improvvisazione”.
Le incongruenze e la faciloneria del documento creano addirittura il sospetto che sia frutto di una manovra di disinformazione orchestrata dall’inviato del Cremlino Kirill Dmitriev sfruttando i media americani.
Il sito investigativo The Insider ha scoperto che l’incontro di Dmitriev con Witkoff a Miami è durato non tre giorni ma solo poche ore. Troppo poco per elaborare un piano di pace. L’articolo di Axios che ha reso noto il piano citava le parole del solo Dmitriev. Un post dello stesso Witkoff su X, poi cancellato, riferiva che lo scoop di Axios era stato originato da “K”. Kirill Dmitriev, si può supporre.
Fatto compiuto
Strano che la Casa Bianca non avesse alcuna strategia di comunicazione per un documento cruciale per la reputazione del presidente. Strano che il segretario al Tesoro Scott Bessent abbia
bollato Dmitriev come “ignobile propagandista” proprio nel giorno in cui in teoria avrebbe partorito i 28 punti insieme al suo omologo statunitense.
Ancor più strano che il giorno prima gli Usa avessero dato il via libera a Kyiv per colpire il territorio russo con missili ATACMS. E che avessero appena approvato l’invio di sistemi di difesa antiaerea Patriot a Kyiv. Perché, se si stava preparando un documento così amichevole nei confronti del Cremlino? Nel quale si accolgono le sue condizioni massimaliste?
L’ipotesi è che Dmitriev abbia utilizzato colloqui ancora in corso su un piano di pace per mettere gli americani di fronte a un fait accompli. Per quanto coinvolti, hanno dimostrato disorganizzazione interna. Alcuni senatori hanno riferito che secondo il Segretario di Stato Rubio il piano era solo “una lista di richieste della Russia”.
Foggy Bottom — il ministero degli Esteri Usa — ha poi dovuto precisare che il documento è opera statunitense. L’ex inviato di Trump per l’Ucraina, Kurt Volker, continua a ritenere che “sia stato scritto dai russi per costringere Zelensky a rifiutarlo, in modo da avere la scusa per scaricarlo”. E consiglia di far cadere l’iniziativa, chiamando gli europei a dichiararla inaccettabile e proporre alternative.
Non c’è pace senza volontà
Boris Bondarev osserva che la Russia non cerca un accordo con l’Ucraina. Il vero interlocutore è Washington: “L’obiettivo non è la pace, ma imporre la propria volontà agli americani”. Poco
importa se le condizioni poste non rispettano la realtà militare e politica ucraina. E nemmeno quella russa.
“Putin non accetterà mai il consiglio di supervisione a guida americana previsto nel piano”, sostiene Bondarev. L’obiettivo di Mosca è mostrare che gli Stati Uniti e l’Occidente sono deboli. Che la Russia è vittoriosa. “Il segnale agli americani e a Kyiv vuole essere: guardate chi comanda”.
Anche la questione economica è un ostacolo. Difficilmente Putin accetterà la confisca di 100 miliardi di dollari di asset russi per destinarli alla ricostruzione dell’Ucraina. Come lo spiegherebbe agli esponenti della élite che lo sostiene? Sono i loro soldi.
I 28 punti, insomma, non riescono a soddisfare in pieno nemmeno la Russia. Diplomazia infantile. Che deve fare i conti con un popolo intenzionato a rimanere libero in uno Stato sovrano. E con un regime che — come ha ribadito Putin poche ore fa — ha tutta l’intenzione di andare avanti col conflitto se l’Ucraina non capitolerà “a tavolino”. Non c’è pace senza volontà concreta. Difficile che la guerra possa concludersi con questo foglio scritto male.
(da Fanpage)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DA SANGIULIANO A GIULI: TRE ANNI DI IMPICCI E PASTICCI AL MINISTERO DELLA CULTURA… DA ANNI UNO SCANDALO DIETRO L’ALTRO
E meno male che dovevano cambiare la narrazione, smuovere la cappa culturale, rivendicare l’identità nazionale, promuovere la contro-egemonia, costruire un nuovo immaginario. Per quanto in Italia abbondino i chiacchieroni, ci si poteva perfino preoccupare di quei progetti, dietro ai quali non di rado si scorgeva un che di
implicitamente minatorio, un tono e un piglio che dietro l’alta missione patriottica tradiva nuove brame e antichi risentimenti.
Ed eccoci qui invece a dar conto dell’ennesimo impiccetto consumatosi a via del Collegio romano, le dimissioni del portavoce del ministro pizzicato col sorcio in bocca a coltivare interessi elettorali in atti d’ufficio, niente che abbia a che fare con la Cultura, ma ormai è questo che passa l’ex convento dei gesuiti: gelosie, capricci, ripicche, allontanamenti, riavvicinamenti, bizzarrie, soffiate ai giornalisti, lettere anonime, conflitti d’interesse, telefonate registrate e chat delatorie a rischio di sequestro investigativo.
Dal Dante liceale (“Fatti non foste”, eccetera) invocato a ogni piè sospinto da Gennaro Sangiuliano aka Genny Delon, al pensiero solare e supercazzolante con scappellamento a destra di Alessandro Giuli, il ministro Basettoni, pare sconveniente scendere al nutrito repertorio di vicende scabrose registrate dalle cronache in questi tre anni.
Sennonché procedere resta pur sempre un dovere civico e dunque, sommariamente e con riserva di qualche dimenticanza: multiplo caso Sgarbi, immenso caso Sangiuliano, fulmineo caso Gilioli, conseguente caso Spano con addentellati, varie ed eventuali. Quindi lite inutilmente dissimulata Giuli–Borgonzoni con inesorabili diramazioni a Cinecittà e relativa sovraesposizione di ulteriori ed esuberanti addetti stampa, per giungere ai sinuosi movimenti del silente, ma fattivo sottosegretario Mazzi cui si deve la geniale orchestrazione del caso Fenice.
E qui, almeno fino a ieri, il triste e stucchevole elenco poteva dirsi concluso, lasciando semmai alla vana malizia di osservatori nullafacenti il compito di trastullarsi su altri fantastici micro-episodi della vita culturale della Nazione. Tipo l’inusitata tarantella sviluppatasi tra la Rai e il San Carlo di Napoli per liberare l’una e incautamente riempire l’altro con il dottor Fuortes; o la nomina a manager degli shop museali del gestore di un autonoleggio di Frosinone; oppure l’indispensabile ritorno dei gladiatori al Colosseo; o anche la meditazione ministeriale il 25 aprile dinanzi al cippo che ricorda la battaglia di Canne, cui è seguito il bacio compensatorio alla tomba di Matteotti; senza ovviamente trascurare, dulcis in fundo, l’ancora misterioso destino delle chiavi d’oro della Città di Pompei.
Ora, un po’ tutto questo dipenderà dai tempi esagerati dell’odierna vita pubblica; un altro po’ sarà colpa della puzzetta sotto il naso dei radical chic che, per paura di perdere i loro privilegi mainstream, disprezzano i grandi sforzi dei patrioti nel valorizzare l’orgoglio italiano.
E tuttavia, anche respingendo la tentazione di addebitare tale caos a radici autoritarie, impreparazione di base, gaglioffaggine istituzionale e incapacità di distinguere tra governo e comando, ecco, detto chiaro chiaro il sospetto è che sia Sangiuliano che Giuli, nonostante ogni pomposa apparenza, amino molto più loro stessi che la Cultura. E comunque quel ministero che sembra un ibrido tra Temptation Island e Il gabinetto del dottor Caligari.
Ormai separata dalle sue antiche e silenziose accompagnatrici (l’istruzione, la ricerca, l’ispirazione, la memoria), sempre più la Cultura, dea oltraggiata, si è ridotta a merce, pretesto, spot, brand, marketing, packaging, broadcasting, illusione e Grandi Eventi da consumare e dimenticare. Giuli, che conosce la mitologia, forse sa anche quali guai comporta offendere quel tipo di divinità.
(da Repubblica)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
L’AFFIDAMENTO DIRETTO ALL’IMPRENDITORE CON CUI LA MAMMA E LA MIGLIORE AMICA DELLA PREMIER AVEVANO FATTO UNA PLUSVALENZA D’ORO
Interessi personali, favori di partito, affidamenti senza gara. Propaganda, potere e affari. Cosa c’è dentro il “braccio” del governo nel mondo dello sport? Come viene amministrata Sport e Salute, la società partecipata dal Tesoro, creata nel 2018 dal ministro Giancarlo Giorgetti, che gestisce circa mezzo miliardo di contributi l’anno?
Ne parlerà Report nella puntata che andrà in onda domenica sera su Rai3. Nel servizio “Fratelli di sport”, firmato da Carlo Tecce e Lorenzo Vendemiale, viene acceso un faro sulla spa, diventata(come raccontato anche da questo giornale) lo strumento che il governo Meloni sta usando per controllare lo sport e alimentare il suo consenso. In che modo? Anzitutto «scegliendo persone – dice il deputato del Pd intervistato dalla trasmissione, Mauro Berruto – che sono estremamente vicine al cerchio molto ristretto della premier».
Ne sarebbe prova pure quanto avvenuto nel centro sportivo di Caivano, inaugurato in pompa magna dal governo con l’obiettivo dichiarato di voler rigenerare le periferie. Nel centro ha trovato lavoro anche un vecchio amico di Giorgia Meloni, Daniele
Quinzi, già candida. Più in particolare, lo scorso anno Sport e Salute ha installato per il periodo natalizio una pista di pattinaggio nella struttura intitolata a Pino Daniele per la cifra di 90mila euro. Così la direzione Sport Community della spa l’ha affidata senza gara all’azienda FattoreQ, che è appunto la società di Quinzi. E cioè dell’imprenditore e attivista di Fratelli d’Italia.
Il legame tra Quinzi e la presidente del Consiglio, come già raccontato da Domani, è profondo: in passato, l’imprenditore è stato in affari con la mamma della premier, Anna Paratore, nella gestione del locale B-place: un lounge bar nel quartiere Eur. Lo gestiva la Raffaello Eventi di Davide Solari e Lorenzo Renzi, due noti imprenditori nel settore della ristorazione, con simpatie di destra, tra gli azionisti anche Quinzi, appunto.
Tra il 2012 e il 2016, in società entrano con una quota del 20 per cento Paratore e Milka Di Nunzio, amica fidata della premier e sua mandataria elettorale alle Comunali di Roma quando la premier si candidò sindaca di Roma.
Ed è proprio nell’anno del voto che la mandataria e la madre di Meloni vendono le loro quote sempre agli imprenditori da cui le avevano acquisite pochi anni prima: un’operazione, svelata da questo giornale, che ha portato nelle casse delle due donne legatissime a Meloni una plusvalenza di quasi 90mila euro, nonostante i bilanci della società non fossero così floridi da spiegare una tale prezzo di vendita delle azioni. Oggi Di Nunzio è al governo come consigliera del ministro Abodi. Quinzi invece ha ottenuto alcuni affidamenti diretti da Sport e Salute
L’amministratore delegato di Sport e Salute, Diego Nepi, alla domanda di Report sull’affidamento a Quinzi, ha risposto che non ci vede «niente di particolare se sono tutte società o persone che sono in grado non solo di poter lavorare, ma lavorare bene, lavorare tanto». Sulla questione di opportunità, però, visti gli affari del passato con la madre di Meloni, nessuno commento.
Amici miei
Proprio Nepi, storico dirigente della società gradito a Giorgetti, ad agosto 2023, con il rinnovo dei vertici di Sport e Salute, viene promosso come ad. Ma soprattutto diventa presidente il costruttore Marco Mezzaroma: cognato di Claudio Lotito e tra gli amici intimi della presidente del Consiglio al punto da partecipare alle sue vacanze estive in Puglia. Nella società c’è anche un altro componente del cerchio magico meloniano: Giuseppe De Mita, figlio dell’ex segretario Dc e presidente del Consiglio Ciriaco, amico dello stesso Mezzaroma.
La modalità con cui è entrato in Sport e Salute De Mita è indicativa dei criteri usati per la selezione: prima con una piccola consulenza da 39mila euro attraverso la sua società Lasim; poi, da gennaio, assunto come dirigente a oltre 200mila euro di stipendio, al termine di una selezione pubblica aperta in piena estate e molto chiacchierata.
De Mita jr, grande amico e soprattutto testimone di nozze del presidente Mezzaroma, nel suo primo matrimonio con l’ex ministra Mara Carfagna. I due in passato sono stati anche soci, nell’investimento in una delle più belle piazze del mondo, quella
del Pantheon, dove la loro società Bidiemme gestiva alcuni bed&breakfast.
Ma non è finita. Nella società pubblica dello sport hanno avuto una consulenza pure Manuela Di Centa, olimpionica di sci di fondo ed ex deputata di Forza Italia, Elena Proietti, segretaria del ministro Giuli. E poi: Bruno Campanile, vicepresidente Asi, cioè l’ente presieduto dal sottosegretario Barbaro, e la figlia Elena; Luigi Mastrangelo, pallavolista già responsabile Sport della Lega di Salvini; Riccardo Andriani, avvocato del Secolo d’Italia; Beppe Incocciati, consigliere di Tajani a Palazzo Chigi.
Così Sport e Salute è diventata Sport e poltrone.
(da Domani)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
VA DIFESA DA NAZIONALISMI BECERI E POPULISTI D’ACCATTO
Stiamo ogni giorno di più interrogandoci sulla democrazia, su cosa la definisca, su come
si sia trasformata a partire dalla seconda metà del Novecento, quando si è affermata sulle rovine della guerra e delle dittature, sul suo declino o forse sulla sua morte imminente, da troppi profetizzata. Era per tutti, almeno per chi come noi viveva in un continente come l’Europa, al sicuro nelle nostre tiepide case, un dato scontato, acquisito, e pensavamo che non sarebbe mai tramontata. Dico un continente, ma dovrei dire la nostra parte, quella occidentale, del continente,
perché nella parte orientale invece imperversavano mancanza di libertà, processi, gulag, invasioni, come nell’Ungheria del 1956 o nella Praga del 1968. E anche in Occidente, come non ricordare la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli? No, era davvero piccola la parte dell’Europa in cui potevamo farci forti della nostra storia passata, richiamare Locke e Kant, la Rivoluzione francese e la lotta contro il nazifascismo, fin dimenticare i nostri crimini coloniali.
Ma la democrazia non resta tranquilla nel suo nido privilegiato, ha bisogno di essere difesa, riedificata ad ogni cambiamento, rinnovata. I nazionalismi, i populismi, ne sono il peggior nemico. Ed ecco oggi il gran parlare che se ne fa, il bisogno di capire cosa effettivamente sia, quale ne sia stata l’origine.
Quali i suoi rapporti con le guerre, negli anni in cui un paese dittatoriale come la Russia attacca un paese vicino per distruggerne la libertà. Quali i suoi rapporti con quella Europa senza confini che stiamo cercando faticosamente di rendere più forte e viva, un’Europa che richiede per esservi accettato alcuni criteri indispensabili, come la democrazia politica, la libertà, e perfino il rifiuto della pena di morte.E poi l’ignoranza: provate a chiedere cosa caratterizzi la democrazia, e tanti avranno un’unica risposta, il voto. Certo, la scelta popolare garantita dalle elezioni ne è una precondizione, ma molte altre ne sono le condizioni, e fra esse la libertà di parola, di coscienza, di religione, l’uguaglianza davanti alla legge, il rifiuto delle discriminazioni, la limitazione delle disuguaglianze sociali. E non tutti i paesi di
questa nostra Europa hanno oggi saputo mantenersi dentro questi limiti. E fin gli Stati Uniti, l’altra patria della democrazia e dello stesso pensiero democratico, assiste ora ad una crisi senza precedenti della sua struttura politica. E tanto sono minacciate le democrazie che si sente il bisogno di inventare altri nomi per definire il loro stato ibrido, come “democratura”.
Fra tutte queste riflessioni e queste domande, che tanto ci confortano in questa crisi ma che anche tanto ci inquietano sul nostro futuro, vorrei ricordare l’iniziativa di Gariwo, che ha creato una Carta della Democrazia e che su questo tema si interrogherà nei prossimi giorni a Milano, in presenza di studiosi dell’Occidente e dell’Est, e la proporrà ai rappresentanti della rete dei trecento giardini dei Giusti nel mondo che saranno presenti con le Nazioni Unite. Al centro del dibattito non possono non essere gli esiti della guerra della Russia contro l’Ucraina e le minacce che pesano su questa nostra piccola parte d’Europa, ma anche l’emergere della forza contro il diritto, l’attacco sempre più violento al diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e di Israele, i nazionalismi dilaganti, i crimini contro l’umanità, i nuovi razzismi. «Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino sta accadendo nel mondo qualche cosa di inaspettato per chi ha creduto che i valori della democrazia, del dialogo, della pace e della nonviolenza fossero qualche cosa di garantito su cui si poteva costruire il futuro. Invece, le nuove immagini delle autocrazie del XXI secolo, che perseguitano e mettono a tacere ogni voce
differente, così come il clima di odio e di contrapposizione che si percepisce sulla scena pubblica, ci fanno capire come si sta perdendo il gusto e il richiamo ai fondamenti della democrazia».
Nella nostra agenda però, non potrà esserci solo l’elaborazione di una linea meramente difensiva. Difendere la democrazia di fronte a tutte queste minacce, oggi, non può non comportare un difficile lavoro di ricostruzione, che non può venire solo dall’alto, da un rinnovamento delle istituzioni, ma deve venire anche dal basso, dai giovani che chiedono di capire e di sapere. La mancanza di una prospettiva realmente politica, non solo ancorata ai partiti, ai voti, al potere; i timori di fronte alle assunzioni di responsabilità, propri degli individui come dei governi, l’acquiescenza di fronte alle prepotenze degli Stati e dei potenti, l’ignoranza e l’incultura prese a modello, tutto questo fa parte delle minacce alla democrazia, delle prospettive più angosciose sul futuro nostro e dei nostri figli. Ma forse, se le riconosciamo, siamo ancora in tempo a creare un mondo a misura degli esseri umani.
(da La Stampa)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
SI DIMENTICHI DI RECUPERARE LA REFURTIVA, SIAMO IN TEMPI IN CUI IL LADRO E’ AUTORIZZATO A TENERSELA E HA PURE DIRITTO AD ESSERE AMNISTIATO DI TUTTI I SUOI CRIMINI
È come se il derubato fosse invitato a dimenticare la refurtiva; e il ladro autorizzato a tenersela, e amnistiato di tutti i suoi crimini. In cambio, il derubato avrà salva la vita e dunque deve pure ringraziare la sedicente “comunità transatlantica” per la sua gentile intercessione.
Questa è la pace che Trump offre a Putin e impone agli ucraini, che nessuno potrà biasimare se dovessero accettare: avere i cingoli dei carri armati alle porte di casa e vivere sotto le bombe (in buona parte su obiettivi civili) per quattro anni non è una condizione che possa essere protratta all’infinito.
La pace di Trump per l’Ucraina assomiglia dunque a quella per Gaza, il più debole si arrenda, il più forte canti vittoria, poi ci penserà la ricostruzione a far brillare gli occhi della speculazione che, bontà sua, è transnazionale, non conosce frontiere, non si attarda in inutili patriottismi: dove c’è da fare quattrini si va. E si pretende, per giunta, la gratitudine dei bombardati.
Le macerie sono un business formidabile, specie se chi le ha prodotte (vedi Gaza) chiede una partnership nella ricostruzione: ne ha diritto, no? Distruggendo, ha gettato le basi dei nuovi cantieri.
Dunque non ci stupiremo se un giorno anche gli oligarchi russi, come Netanyahu, dovessero ricavare un vantaggio economico dalla sedicente pace: già la sospensione delle sanzioni è un bel
gol a porta vuota.
Non credo ci siano stati tempi favorevoli ai deboli. Ma questo è il tempo in cui l’esultanza dei forti non ha neppure bisogno del velo dell’ipocrisia. Putin tornerà a sedersi al tavolo dei vincitori. Altre domande?
(da Repubblica)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
USA SOLITI TRADITORI. RUSSIA ORMAI SUBORDINATA ALLA CINA, UCRAINA ABBANDONATA DA UN OCCIDENTE VILE. ITALIA SERVITOR DI DUE PADRONI
Il cosiddetto piano di pace americano per l’Ucraina ne sanziona la fine quale Stato
indipendente, offre alla Russia l’opportunità di spacciare per vittoria la forzosa subordinazione strategica alla Cina e agli Stati Uniti di mascherare con il tradimento del loro ex protetto un fallimento annunciato. Questa svolta coglie l’Italia altrove. Fra referendum sulle carriere dei magistrati che la politica dipinge da ordalia e sapide polemiche sulle chiacchiere a un tavolo di romanisti intorno ai notoriamente dissonanti rapporti fra Quirinale e Palazzo Chigi, sembra che la guerra alle nostre porte passi in cavalleria.
Si conferma un tratto della nostra psiche collettiva: le questioni esistenziali — sì, in guerra si muore — scadono a esotiche, le meno decisive si strillano vitali. Non sappiamo quale effetto avrà l’ultimatum di Trump a Zelensky. Difficilmente più di una fragile tregua negoziale. O forse l’occasione per il presidente americano di rovesciare il tavolo e lasciare che sia il campo di battaglia a decidere. Ovvero a sancire il non troppo graduale crollo del fronte ucraino. E il conseguente rovesciamento del regime, minato dalla corruzione endemica che gli amici americani d’improvviso riscoprono come arma di pressione contro Zelensky.
Se la guerra continua nessuno può illudersi di governarla. E tutti devono temere che possa coinvolgerli sempre meno indirettamente. Noi italiani compresi. Rischiamo di finire in un meccanismo del quale non avremo alcun controllo perché deciso altrove da chi si gioca tutto e non ha quindi alcun interesse a tener conto di noi. Siamo o almeno possiamo sembrare un’isola felice, ma non disponiamo affatto di una polizza vitalizia contro la guerra. Da popolo di pensionati contiamo su immaginarie rendite illimitate che di norma servono più gli assicuratori che gli assicurati. Nella fattispecie, poi, il garante americano ha smesso di garantire chiunque dovendo anzitutto garantire sé stesso. (Tra parentesi: era così anche prima, ma per tacito accordo che conveniva a tutti, nemici compresi, si faceva finta di nulla.) Un computo puramente ragionieristico ci conferma scadute le ragioni della nostra sicurezza.
Scaduta l’Alleanza Atlantica, forma strategica dell’impero europeo dell’America, sotto il cui ombrello abbiamo goduto dei migliori ottant’anni della nostra vita unitaria, che scontiamo irripetibili. Scaduta l’architettura europea, Sagrada Familia inscritta nell’Occidente strategico a guida americana, che funziona semmai al contrario: serve a palesare quindi inasprire le differenze fra i soci. Con i “volenterosi” apparentemente disposti a battersi fino all’ultimo ucraino e convinti che Putin voglia e possa battere il record di penetrazione russa in Europa detenuto da Alessandro I (Parigi, 31 marzo 1814), contro i “filo-russi” (o meglio anti-ucraini, tra cui anche i polacchi già anti-russi e anti tedeschi) e alcuni “volenterosi” in maschera che non vedono l’ora di riaprire i rubinetti del gas moscovita. Scaduta la certezza di vivere nell’intorno relativamente tranquillo ereditato dalla guerra fredda, che abbiamo contribuito a destabilizzare con perizia degna di miglior causa, dai Balcani adriatici fino alle Libie, cedute in comodato d’uso a turchi e russi.
Con l’aggiunta questa sì esistenziale delle guerre di Israele contro sé stesso, che minacciano di culminare in scontro con la Turchia — altro che Iran. Risultato: il Mar Rosso, che per noi significa accesso via Oceano Indiano all’Asia che conta, e per tale fu identificato ad Italia appena unita dal ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini (1881-85), è semichiuso a tempo indeterminato causa sfida huti.
L’ultima cosa di cui un paese in tali condizioni ha bisogno è l’allarmismo. Ma la penultima, che poi sarebbe la prima, è la coscienza della rivoluzione geopolitica in cui siamo immersi come oggetto non identificato. Per scelta propria. Quasi potessimo passare inosservati. L’Italia ha un valore non indifferente al mercato delle potenze. Potrebbe servirsene per partecipare agli scambi irregolari in corso. Oppure rassegnarsi al destino di merce al mercato altrui. Dove il prezzo non lo fissiamo noi. Se ne può parlare?
(da Repubblica)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
PROSSIMAMENTE IL CEO DI UNICREDIT, ANDREA ORCEL, AVRÀ MANI LIBERE PER SCEGLIERE QUALE BANCA PAPPARSI, MENTRE NEI PROSSIMI DUE MESI I GENI DI ‘’PA-FAZZO” CHIGI AVRANNO I NEURONI MOLTO IMPEGNATI PER RISPONDERE CON UNA MODIFICA DELLA LEGGE (CHISSÀ SE AVRÀ EFFETTO RETROATTIVO) ALLA PROCEDURA D’INFRAZIONE DI BRUXELLES
Alla fine, il combo formato dalla commissaria agli Affari finanziari, la portoghese Maria Luis Albuquerque, e da quella alla Concorrenza, la spagnola Teresa Ribera è riuscito a tirar fuori dal cassetto di Ursula von der Leyen la lettera che formalizza la procedura di infrazione contro il governo Meloni per il Golden Power che ha stoppato l’Opa di Unicredit su Banco Bpm, istituto padano caro alla Lega del ministro Giorgetti.
Per non mandare in tilt gli otoliti della Ducetta, la procedura è arrivata annacquata e senza riferimento al caso specifico dell’operazione di Andrea Orcel. Ma come ha sottolineato Claudio Tito su “Repubblica”: “Si tratta di una scelta singolare se si considera che il golden power è stato applicato al settore bancario solo una volta, ossia questa. E che il dossier è aperto da diversi mesi. Con uno scambio di informazioni con il governo italiano puntato proprio sul quel tentativo di scalata”
Di riffa o di raffa, l’Armata BrancaMeloni ha fatto, sul risiko
bancario, l’ennesima figura di merda. Di sicuro, non potrà più far ridere i polli blaterando che Unicredit è una banca straniera, e quindi, per salvaguardare la sicurezza nazionale, vietava di ridurre l’operatività Bpm in Italia, con vincoli sulla clientela, dal momento che Bruxelles ha fatto presente che l’istituto guidato da Andrea Orcel opera nel mercato unico europeo e ha sede a Milano, in piazza Gae Aulenti.
Ergo: l’intervento del governo italiano è stato considerato dai funzionari europei del tutto sproporzionato rispetto alle eccezioni previste dall’art 21/4, che ammette deroghe soltanto per motivi di sicurezza pubblica. Cioè in un ambito molto ristretto, che non comprende, per esempio, la tutela del risparmio nazionale.
Come, del resto, aveva tuonato indignato Orcel quando presentò il ricorso al Consiglio di Stato contro il golden power del governo che, di fatto, ha bloccato la scalata a Bpm: “Non possiamo accettare l’affermazione secondo cui saremmo una minaccia per la sicurezza nazionale”.
E sulla prescrizione che imponeva l’uscita di Unicredit dalla Russia entro nove mesi, ha risposto recentemente da par suoal al ‘Sixth ECB Forum on Banking Supervision 2025’ a Francoforte, il Ceo Orcel ricordando che quando è iniziata la guerra “avevamo circa il 6% dei nostri prestiti e prestiti locali e depositi in Russia. Avevamo quattro miliardi e mezzo di prestiti transfrontalieri alle aziende russe”.
“Se si passa rapidamente ad oggi, abbiamo lo 0,2% dei nostri prestiti in Russia, circa 700 milioni, di cui 4.500 sono mutui.
Altri 200 probabilmente diminuiranno e poi si fermeranno lì e non li rinnoviamo “. Inoltre, “non abbiamo concesso nuovi prestiti dal momento dell’invasione’’, ha aggiunto Orcel
Gestire le sanzioni sulla Russia, ha spiegato Orcel , “richiede uno sforzo galattico di conformità per assicurarsi di non commettere errori. È una sfida enorme. La seconda sfida, almeno per noi, è quella di non essere nazionalizzati. Io non ho intenzione di fare regali ai russi. Perché se commettessimo quegli errori consegneremmo legalmente su un piatto d’argento i 3,8 miliardi di capitale che ho lì dentro. E non ho alcuna intenzione di farlo”.
Se prossimamente il baldo Orcel, con la questione Russia ultimo ostacolo in via di soluzione, avrà mani libere per scegliere quale banca papparsi tra i tre/quattro dossier che ha sulla scrivania (“Siamo la banca con più opzioni m&a ma il capitolo Bpm è chiuso”), nei prossimi due mesi i geni di ‘’Pa-Fazzo” Chigi e di via XX Settembre avranno i neuroni molto impegnati per rispondere con una modifica della legge che, a giudizio dell’esecutivo di Roma, consentirebbe di superare le obiezioni di Bruxelles.
Per la scelta tra le varie opzioni di acquisizioni che frullano nella testa di Orcel, occorre attendere notizie da Berlino, dove il governo Merz ha stoppato e messo a bagnomaria le ambizioni di Orcel su Commerzbank, di cui Unicredit è socio al 26% con facoltà di salire al 29,9%.
Orcel ha risposto ingaggiando addirittura Christian Lindner, l’ex-ministro delle Finanze che non si oppose alla vendita delle
prime quote pubbliche di Commerz alla banca italiana, facendo incazzare ancor di più Berlino con Merz che si è messo alla ricerca di conflitti di interesse dell’ex ministro.
Comunque vada, lo scorso settembre Orcel ha dichiarato che l’istituto potrebbe vendere la sua partecipazione in Commerzbank a un acquirente extra-UE se ci fosse un’offerta adeguata e gli azionisti di piazza Gae Aulenti fossero d’accordo. In tal caso, una volta intascato il ricco bottino, le opzioni sarebbero senza frontiere e, dopo la smentita di un interessamento su Bper, nulla vieterebbe a Unicredit di lanciare una ricca Opa su Mps di Lovaglio-Caltagirone con obiettivo finale Generali, massima rivincita sul governo smandrappato del golden power).
Come il risiko italico, anche questo tedesco, se ne fotte sonoramente delle parole della commissaria europea agli Affari finanziari, Maria Luis Albuquerque, che all’ultimo Ecofin cinguettava: “Dobbiamo creare un mercato unico per i servizi finanziari. Pertanto, affronteremo tutte le questioni che possono impedire l’attuazione corretta delle regole concordate: quelle che bloccano la prestazione transfrontaliera di servizi, le fusioni e così via” (ciao core!).
(da Dagoreport)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
ALCUNI DETENUTI ERANO MINACCIATI E COSTRETTI A FARE I “CORRIERI”, INGERENDO OVULI DI DROGA… SEQUESTRATI HASHISH, COCAINA, DECINE DI PASTICCHE, ARMI ARTIGIANALI, CACCIAVITE, UNO SMARTPHONE SENZA SIM, UNO SMARTWATCH
Una perquisizione straordinaria ha coinvolto l’intera popolazione del carcere “La
Dogaia” di Prato: il procuratore Luca Tescaroli ha disposto un decreto di perquisizione e sequestro per 564 detenuti, di cui solo 29 indagati, esteso a tutti i reparti, inclusi Semiliberi e aree comuni.
Lo scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”, raccontando come l’operazione nasce da un “fenomeno criminale pulviscolare” che si concentra soprattutto nelle sezioni 8, 5, 6 e 10 ma influenza l’intero istituto, trasformato in quella che il
procuratore definisce un’isola di illegalità.
Secondo Tescaroli, all’interno del carcere proliferano consegne di droga con i droni che entrano nella Dogaia tranquillamente, minacce ai detenuti con permesso di uscita per costringerli a fare da corrieri, talvolta ingerendo ovuli pieni di droga, pressioni per sfruttare ogni contatto con l’esterno, compresi i colloqui con i familiari, e poi telefonini e internet a go go per coordinare con la tecnologia le attività illegali dalla cella.
I detenuti gestiscono i loro social dalla cella così da mostrare all’esterno chi comanda
Durante i controlli sono stati sequestrati hashish, cocaina, decine di pasticche, armi artigianali, un cutter, un cacciavite, punteruoli, uno smartphone senza SIM, uno smartwatch e denaro contante.
Tra i fattori che hanno favorito la deriva, il procuratore cita la libertà di movimento concessa ad alcuni detenuti e possibili connivenze nella polizia penitenziaria.
Centrale il ruolo dei droni, capaci di trasportare stupefacenti, telefoni e armi, con costi elevatissimi per l’acquisto della droga all’interno, spesso pagata tramite carte ricaricabili.
Nonostante interventi precedenti, molte utenze e dispositivi non erano stati individuati. Dal luglio 2024 erano stati comunque sequestrati oltre un chilo di hashish, 163 grammi di cocaina, eroina, anfetamine, 49 cellulari e router.
Gli indagati sono 29 detenuti di diverse nazionalità, accusati a vario titolo di estorsione, violenza privata, traffico di droga, uso illecito di dispositivi di comunicazione e detenzione di armi.
Lillo descrive episodi di aggressioni violente, anche con punteruoli, contro detenuti permessanti costretti a introdurre stupefacenti. Tre detenuti avrebbero inoltre ricevuto armi e telefoni tramite un drone dotato di una lenza di 20 metri.
Sei detenuti, vittime di violenze e minacce di morte, hanno iniziato a collaborare indicando canali, modalità e responsabili dei traffici. Tescaroli invita altre vittime a denunciare, citando la possibilità di misure di tutela.
Il procuratore chiede al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria telecamere, reti anti-lancio, sistemi anti-drone, schermature per bloccare internet e telefonia, oltre a controlli sanitari radiologici per i detenuti al rientro da permessi.
Alla perquisizione hanno partecipato circa 800 agenti di Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria, conclude Marco Lillo.
(da agenzie)
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Novembre 23rd, 2025 Riccardo Fucile
DATI VERGOGNOSI PER UNA CITTÀ AD ALTISSIMA VOCAZIONE TURISTICA
Per una città ad altissima vocazione turistica come Roma, dovrebbe suonare come un campanello d’allarme: l’85% degli utenti di taxi e Ncc non residenti in città – quindi, prevalentemente turisti e clientela business – considerano insufficiente la disponibilità di auto bianche e nere, i mezzi del trasporto pubblico non di linea
La stessa categoria di utenti, la più “ricca” in termini di spesa media e destinazioni, dichiara nel 63,6% dei casi di aver atteso più del previsto per poter effettuare una corsa in città.
Meno accentuato, ma comunque consistente il tasso di insoddisfazione degli utenti residenti nella Capitale: al 58,4% per la disponibilità di auto on demand, al 47% per le attese prolungate prima di avere una macchina a disposizione.
Questa volta, a inquadrare i limiti del servizio taxi e Ncc segnalati e sperimentati negli ultimi anni da turisti e cittadini è una ricerca della Fondazione Filippo Caracciolo, il centro studi della Federazione Aci, presentato oggi presso l’Automobile Club Roma.
Oltre ai nodi disponibilità e attese l’indagine, condotta nel 2024 su un campione di 1.567 soci Aci, evidenzia anche due criticità solo apparentemente minori, perchè legate in modo specifico alla qualità sperimentata del servizio. Parliamo della difficoltà a pagare le corse con sistemi di pagamento elettronici (carte di credito/bancomat), rilevate dal 32% dei romani e dal 57% dei turisti.
La risposta di dettaglio sugli eventuali casi di rifiuto al pagamento elettronico con carta di credito evidenzia che le esperienze positive (“Non mi è mai successo che venisse
rifiutato il pagamento con carta di credito”) si attestano sul 57,6% per i rispondenti romani e il 30,4% per i non romani, ma se sommate, le risposte negative “Sì, più volte” e “Sì, qualche volta” rappresentano oltre il 32% dei casi romani e il 57% dei rispondenti non residenti.
Altro profilo critico, il rifiuto delle corse: pur non essendo il problema principale, è rilevato dal 16,5% dei residenti e dal 21,1% dei non residenti come un comportamento che mina la percezione di equità e disponibilità del servizio. “Fortunatamente i casi registrati tra i rispondenti sono pochi – rileva lo studio – ma si tratta comunque di casi rilevanti perché costituiscono un grave inadempienza rispetto al dovere di fornire un servizio pubblico”.
Sul fronte delle corse rifiutate, secondo quanto emerge dalle risposte di dettaglio oltre il 30% dei rispondenti (romani e non) hanno dichiarato che il tassista si è rifiutato di prendere la corsa perché il tragitto era “troppo breve”. La quota rilevante di corse inevase con queste motivazioni evidenzia l’impatto relativo dell’aumento delle corsa minima introdotta dal Campidoglio nel luglio del 2024 per incentivare i tassisti a prendere in carico anche le corse brevi, solitamente snobbate.
La corsa minima di 9 euro 24/7, al posto della tariffa minima di partenza da 3 euro, era finalizzata, secondo l’assessorato alla Mobilità, ad evitare le lunghe code di turisti e cittadini in attesa di un taxi tante volte registrate negli ultimi anni.
(da agenzie)
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