Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile IL PROFESSORE ALLARMATO PER LA FUGA DA CONFINDUSTRIA VERSO IL PD
Fiat a parte, i cosiddetti poteri forti, o almeno le parti più forti delle singole categorie, si
stanno schierando con il Pd e Pier Luigi Bersani.
Le ragioni sono due: che il Pd e il centrosinistra continuano a guidare i sondaggi e che il progetto di Mario Monti si snatura di giorno in giorno, ormai mutato in una semplice riedizione del fallimentare
Terzo Polo sull’asse Udc-Fli.
Le liste montiane saranno ufficializzate forse già domani, ma da quanto si conosce è già chiara la tendenza.
Prendiamo Confindustria: con il Pd si è schierato Giampaolo Galli che è stato silurato da direttore generale con l’arrivo di Giorgio Squinzi alla guida degli imprenditori, ma gode di molta stima nell’apparato e ha ottimi rapporti con una lobby pesante come quella dell’Ania, le assicurazioni, che ha diretto in passato.
Monti ha arruolato Alberto Bombassei ed Ernesto Auci, il primo candidato sconfitto alla presidenza (di poco, ma poi non è riuscito a diventare un polo alternativo dentro l’associazione), Auci ex direttore e ad del Sole 24 Ore e poi responsabile relazioni istituzionali di Fiat.
Entrambi, il primo per cultura e rapporti di fornitura (i freni Brembo), l’altro per carriera, sono considerati uomini Fiat.
E il Lingotto non è più in Confindustria.
Il Pd — tramite Matteo Renzi — si è assicurato (gratis) il sapere organizzativo e manageriale della costosa McKinsey, arruolando uno dei vertici italiani, Yoram Gutgeld.
Anche Monti può contare su una figura in grado di tenere i rapporti con il potere milanese, l’ex direttore delle relazioni esterne di Rcs Lelio Alfonso.
Ma la McKinsey è la McKinsey.
Nella carta stampata Bersani si è preso uno dei giornalisti economici più influenti d’Italia, Massimo Mucchetti, che sul Corriere della Sera ha spesso difeso le ragioni di Unipol (coop rosse, prima potenza finanziaria della galassia bersaniana) quando si voleva prendere la Fonsai dei Ligresti.
E poi è arrivato a disegnare scenari — per ora mai realizzati — di fusioni tra Unicredit e Intesa e poi tra Fs e Alitalia.
Da parte sua Monti ha preso il direttore del Tempo Mario Sechi, con un profilo molto più politico e meno legato agli ambienti della finanza e della grande impresa.
Pure i sindacati che contano sono con Bersani: Guglielmo Epifani sarà pure un uomo di un’altra stagione, ma da ex segretario della Cgil ha conservato parecchia influenza sul primo sindacato italiano.
E se Raffaele Bonanni si è presto defilato dal progetto montiano per rimanere nella Cisl, il suo numero due Giorgio Santini dovendo scegliere alla fine è andato con Bersani.
E al premier per conquistare il “mondo del lavoro” non resta che spendere il nome di Luigi Marino, leader della Confcooperative.
Che però, prima che montiano, è amico da sempre di Pier Ferdinando Casini.
Persino tra gli intellettuali si replica lo stesso schema: a Monti alcuni professori di prestigio, da Michele Ainis allo storico Andrea Romano che dirige Italia Futura.
A Bersani invece uno come Carlo Galli, politologo meno noto al grande pubblico ma che vanta un solido radicamento a Bologna, dove è una delle colonne dell’associazione (prodiana) del Mulino.
La lista che doveva essere di professori e società civile, con un po’ di politici, si sta snaturando.
Basta vedere il listone montiano del Senato: in Lombardia Gabriele Albertini soffia la prima posizione a Pietro Ichino (perchè l’ex sindaco di Milano è l’unica speranza di far perdere il Pdl).
Nelle Marche capolista sarà Linda Lanziollotta, ex Api.
In Emilia il primo sarà Marino (voluto da Casini), il secondo un altro Udc, Mauro Libè. Il montiano Giuliano Cazzola, tra i primi ad aderire, è stato retrocesso al terzo posto, ammesso che accetti.
Il Lazio è andato ai finiani, capolista sarà Giulia Bongiorno, mentre Puglia e Veneto sono state destinate a Sant’Egidio, che ha sempre più potere contrattuale.
Del Pdl non resta più nulla tranne Mario Mauro, che ieri si è dimesso dal partito (“un tragico errore l’alleanza con la Lega”) per andare col premier.
Non si candida Alfredo Mantovano — in Puglia non gli si trovava un buon posto — via anche Beppe Pisanu, per i troppi mandati e perchè voleva contendere a Casini la presidenza del Senato.
Fuori Franco Frattini. Sparito anche Corrado Passera, in polemica, e il ministro Andrea Riccardi non si candida.
Tutti cominciano a sentire odore di flop
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile LE GARANZIE SUL CASO ALBERTINI, PIERLUIGI NON SI FIDA
«Albertini sarà capolista al Senato solo se si candida anche per la Regione».
I due non si parlano più da qualche settimana. Dopo tredici mesi di cordialità e reciproco affidamento, la campagna elettorale ha trasformato Mario Monti e Pierluigi Bersani in due “sfidanti”. Incapaci di interloquire.
Ma questa volta il presidente del Consiglio un messaggio al suo “ex alleato preferito” l’ha dovuto spedire.
Il “caso Lombardia”, infatti, si sta innescando come una bomba a tempo. Non un semplice “casus belli” ma la vera partita su cui si gioca il futuro della prossima legislatura.
Che riguarda il successore di Formigoni ma soprattutto la maggioranza che si formerà a Palazzo Madama.
Il premier lo sa e questa volta ha dovuto trasmettere attraverso i suo ambasciatori un messaggio esplicito al leader democratico: «Albertini corre anche per il Pirellone, per non far vincere la Lega. Il Senato è un paracadute».
Una rassicurazione arrivata in extremis.
Perchè nel Pd è scattato un vero e proprio allarme rosso: la paura che l’ex sindaco di Milano potesse ritirarsi dalla sfida regionale per impegnarsi solo nelle elezioni a Palazzo Madama.
E lasciare così la strada libera a Roberto Maroni.
Una sensazione rafforzata dalla decisione di Roberto Formigoni di mollare l’esperimento Albertini per rintanarsi di nuovo in un cantuccio delle liste piedielline.
«Se è così — aveva avvertito Bersani — per noi cambia tutto. È bene che Monti lo sappia in anticipo».
Un messaggio preventivo.
La battaglia per la successione del “Celeste” è cruciale. Lo è per il centrosinistra e per il centrodestra.
E se il Professore si schiera con il Cavaliere di fatto butta all’aria l’ipotesi di ricomporre un dialogo con il Pd dopo il 25 febbraio.
I democrats non si fidano e lo hanno fatto sapere chiaramente.
«Ma noi — è stato la comunicazione inviata da Palazzo Chigi a Largo del Nazareno — non vogliamo che al Pirellone arrivi un leghista».
I centristi, dunque, sono decisi a condurre una campagna elettorale di «equidistanza» ma non fino al punto di compromettere il rapporto futuro con Bersani.
La battaglia per la regione Lombardia, però, è in un certo senso “double face”.
Se i centristi rassicurano su un versante, sull’altro sparano alzo zero.
Quale versante? Quello del Senato.
Dove la truppa del Professore, Casini e Fini sta puntando tutte le fiches affinchè i Democratici non abbiano la maggioranza.
«Noi — è il ritornello ripetuto in tutte le riunioni, anche nel vertice di ieri sera — abbiamo una sola chance: essere determinanti per la formazione di una maggioranza a Palazzo Madama».
Un obiettivo che sta orientando scelte e candidature.
Che sta definendo il profilo dei concorrenti e l’impegno dei leader. E che sta irritando Bersani e anche Napolitano.
Basti pensare che — al di là di Monti che è già senatore — il capo dell’Udc, dopo trent’anni passati a Montecitorio, stavolta vuole traslocare nella Camera Alta.
E insieme a lui quasi tutti i colonnelli centristi: da Buttiglione a Cesa, da Rao a D’Alia.
Ma anche esponenti di peso come la finiana Giulia Bongiorno, il ministro “supermontiano” Enzo Moavero e il presidente delle Acli Olivero.
Insomma il nocciolo duro di “Scelta Civica” è concentrato a Palazzo Madama. Dove, in vista delle future trattative, il Professore vuole candidare solo persone di «provata lealtà ».
Soggetti insensibili alle sirene che inizieranno a cantare dopo le elezioni. Senatori che, ad esempio, non faranno scherzi se si dovesse ratificare il patto con i Democratici.
Per questo la presenza di ex Pdl — pure reclamata da una parte della Chiesa — è stata fortemente ridimensionata.
E in questa ottica il quadrante in cui si combatte la battaglia decisiva è proprio la Lombardia. Nella quale si eleggono ben 49 senatori.
Un pacchetto talmente sostanzioso da influenzare in modo definitivo le maggioranze.
La coalizione vincente in quella circoscrizione strappa 27 eletti.
Meglio allora, per i centristi, che sia il Cavaliere ad avere la meglio.
L’operazione, dunque, si presenta piuttosto arzigogolata: puntare su Albertini per far perdere Maroni e nello stesso tempo sperare che i lombardi non premino al Senato il centrosinistra. Non solo.
Che l’obiettivo sia quello di obbligare Bersani a trattare l’intesa a Palazzo Madama, lo si capisce dalle scelte che i montiani stanno compiendo in altre aree del Paese.
Basti pensare che in Veneto, altra regione in bilico, i montiani stanno evitando di schierare i “pezzi da novanta”.
Quasi per avere la certezza che anche questa circoscrizione e il relativo premio regionale non vada nelle mani del leader pd.
Monti, insomma, vuole trasformare il Senato nel “laboratorio” dell’alleanza con il centrosinistra. E sarà il luogo in cui si misurerà la tenuta dell’accordo.
A cominciare dall’elezione del presidente dell’Assemblea.
E già , perchè su quella poltrona ha già messo gli occhi proprio Casini.
Il leader Udc dopo aver presieduto l’aula della Camera ora vorrebbe sedersi sull’altro scranno più alto sfidando la pd Anna Finocchiaro.
Anche perchè nello stato maggiore montiano sono convinti che chi viene eletto presidente del Senato parte in pole position per la successiva solo un mese dopo — corsa verso il Quirinale. Forse non è un caso che tra i fedelissimi di Pier stia circolando un paragone storico: Francesco Cossiga divenne capo dello Stato nel 1985 all’età di 57 anni.
Esattamente l’età che ha adesso Casini.
Considerazioni, però, che stanno già aprendo una competizione all’interno del blocco centrista. Perchè anche il Professore potrebbe essere interessato a quel tipo di percorso.
Sta di fatto che nei progetti di “Scelta civica” l’accordo con il segretario democratico non può che passare da quella elezione.
E l’aula di Palazzo Madama sarà nella prossima legislatura il cuore di ogni trattativa politica. Una previsione che sta spingendo perfino Silvio Berlusconi a optare per il Senato.
Claudio Tito
(da “la Repubblica“)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile AL SENATO CANDIDATO RUBEN….IN LISTA NESSUN DIRIGENTE LOCALE E FUORI GLI USCENTI, DENTRO IL SOCIO DELLA MOGLIE: PARTITO A RISCHIO CHIUSURA
Fuori tutti i dirigenti e gli uscenti del partito, dentro il socio della moglie. 
In Puglia il partito di Gianfranco Fini è in rivolta. A un passo dal giorno in cui si dovranno depositare le candidature, Fli Puglia è a rischio chiusura per fallimento. Colpa di una doppia pressione: quella dei suoi dirigenti, tutti, ciascun per sè, fino a qualche giorno fa convinti di poter spuntare un posto in parlamento e tutti lasciati ora a terra dal capo che in Puglia candida solo non pugliesi; e quella della sua base, i circa duecento militanti, autoconvocatisi a Bari due giorni fa, per dire a Fini che il loro partito, quello locale, ha diritto di essere rappresentato in parlamento, ma anche per dire al coordinatore regionale Francesco Divella che, visto che per le liste tenta di far da sè, senza coordinarsi con nessuno, deve dimettersi.
Un passo che, a quanto sembra, Divella – che alla sua personale conferma in parlamento ha già rinunciato – starebbe per compiere senza bisogno di sollecitazioni dalla base.
Divella si dimetterebbe insieme a Gianmarco Surico, aspirante parlamentare di cui l’imprenditore della pasta è main sponsor, Carmine Patarino, aspirante a una riconferma difficile data la presenza continuativa da sei legislature, Euprepio Curto, aspirante a un ritorno a Roma dopo quattro legislature esclusa l’ultima, e Paolo Pellegrino, presidente provinciale a Lecce.
In sostanza, i dirigenti pugliesi di Fli (a eccezione di Salvatore Tatarella, europarlamentare in carica), tagliati fuori dai posti che contano e perfino dalla discussione.
I pugliesi che votano Fli, infatti, pare si troveranno a eleggere alla Camera solo dirigenti nazionali: Gianfranco Fini, che potrebbe optare per la Puglia per liberare posti in altre regioni in cui la lista degli uscenti da garantire arriva fino al numero quattro, Italo Bocchino, che però opterebbe per la Campania, e Roberto Menia che sarà candidato solo qui.
Nella più rosea delle aspettative, gli eletti di Fli a Montecitorio saranno due.
Al Senato, poi, dove i finiani concorrono al listone di Monti, il quarto o terzo posto (visto il rifiuto di Mantovano) Fli lo prenota per Alessandro Ruben, consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, fedelissimo di Fini e uscente, la cui riconferma va garantita.
Oppure – e questo davvero è uno smacco per i dirigenti – a Mario Totaro, imprenditore putignanese che alla moglie di Fini, Elisabetta Tulliani, è legato da un accordo commerciale: è la Mafrat di Totaro che distribuisce la linea di moda Dandyl’EN, creata da Nicoletta Romanoff e, appunto, da Elisabetta Tulliani.
Ce n’è abbastanza per far infuriare i finiani pugliesi
Totaro manda una piccata precisazione.
Non per smentire che sia candidato in Puglia e nel listone unico di Fli, Montiani e Udc, ma per sostenere di essere, in quel conglomerato di sigle, espressione di Italia futura, il movimento di Montezemolo.
Per «smentire fantasiose notizie di stampa», dice Totaro che però non smentisce il rapporto commerciale con la società della signora Fini.
«Sono iscritto a Italia Futura dal 2011 – scrive l’imprenditore di Putignano -. Mi è stato chiesto di candidarmi come capolista al Senato nella lista per Monti e ho accettato volentieri l’incarico. Non vi è stata alcuna interferenza al riguardo da parte di altri al di fuori di Italia futura».
Adriana Logroscino
(da “Il Corriere della Sera“)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile IN BILICO AL SENATO LOMBARDIA, CAMPANIA E SICILIA
«Toss up». Per il Senato e quindi per il futuro governo, la partita è aperta, è come quando si lancia in aria una monetina, «toss up», appunto.
Le due coalizioni (centrosinistra e centrodestra) sono distanti circa un dieci per cento, con in testa il centrosinistra, ma….
Ma per effetto del diverso premio attribuito dal Porcellum (su base nazionale alla Camera e su base regionale a Palazzo Madama), la maggioranza della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani è netta a Montecitorio, mentre al Senato sarà l’esito di alcune Regioni-chiave a sancire se il centrosinistra potrà «fare da solo» o se Monti e la sua «Scelta civica» potranno essere l’ago della bilancia.
Il premier, infatti, non ha alcuna possibilità di vincere alla Camera nè in alcuna regione al Senato.
In queste condizioni, per poter pesare nella formazione del prossimo governo, Monti deve sperare che Berlusconi vinca in alcune delle Regioni in bilico.
Se questo accadesse i seggi del «partito di Monti» diventerebbero decisivi al Senato per fare il governo sulla base di una alleanza con la coalizione di centrosinistra. Paradossalmente, insomma, Monti deve «tifare» Berlusconi.
Scenari ipotizzati dal politologo Roberto D’Alimonte che sul Sole24ore ha analizzato le rilevazioni condotte da Ipsos (l’Istituto di Nando Pagnoncelli) in tre Regioni considerate decisive.
Innanzitutto la Lombardia, il cosiddetto «Ohio» italiano, uno swing state che però assegna ben 49 seggi a Palazzo Madama (cioè un sesto di tutti i senatori), e quindi «pesa» come la California nelle elezioni presidenziali americane.
Poi la Sicilia e terza, è questa la vera sorpresa, la Campania.
Dove la lista capitanata dall’ex aggiunto della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, «Rivoluzione civile», sostenuta dal sindaco di Napoli, De Magistris, sta «cannibalizzando» il Pd.
Per D’Alimonte in queste tre Regioni l’esito del voto è oggi assolutamente imprevedibile con una sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra al 32,5%.
La supremazia di una coalizione sull’altra, anche di un voto soltanto, per effetto del premio di maggioranza regionale significherebbe in Lombardia 27 seggi al primo classificato e solo 12 al secondo: uno scarto notevole.
Anche in base alle analisi di Fabio Fois, European Economist presso Barclays Capital, la divisione di investment banking della Barclays Bank, basterà al Pd-Sel perdere la Lombardia e anche una qualsiasi altra Regione, per stare «sotto» – con 157 seggi – la maggioranza assoluta al Senato che è costituita da 158 senatori eletti, esclusi i senatori a vita.
Se la coalizione di Bersani invece dovesse perdere Lombardia, Sicilia e Veneto avrebbe solo 149 senatori (9 in meno della maggioranza assoluta).
«Certamente, stando ai nostri calcoli, qualora la coalizione Pd-Sel non riuscisse a vincere in Lombardia e in una delle altre Battleground-regions, l’eventuale supporto delle forze centriste al Senato diventerebbe cruciale per la governabilità », dice Fois.
Per Andrea Lenci, di Scenaripolitici.com, Monti ha molte chance.
Parte da una premessa generale, Lenci.
«L’elettorato in questa fase è molto mobile, tipico dell’inizio delle campagne elettorali. Stiamo vedendo qualcosa di già sperimentato nel 2006 dove l’elettorato “moderato”, dopo essersi rifugiato nell’astensione o nella protesta (M5s) torna ad esprimersi». Ricorda che «nel 2006 ci fu una buona rimonta di Berlusconi che convinse buona parte dei suoi ex elettori a rivotarlo».
Ma subito Lenci aggiunge: «Ora gli stessi elettori stanno tornando, ma stanno andando verso Monti per la gran parte».
Monti leader dei moderati?
«In effetti tutto questo ha una logica, l’elettore stanco del centrodestra che non è convinto dal centrosinistra e nemmeno da Fini e Casini, trova un nuovo movimento “moderato” al centro della scena. Un’alternativa importante e che pesca anche nel Pd. Per le prossime settimane i trend potrebbero continuare, se Monti dovesse crescere ulteriormente, e noi lo diamo in forte crescita, non escludo terremoti».
Resta un fatto.
Se Pd-Sel dovessero davvero perdere anche la Campania (oltre a Lombardia, Veneto e Sicilia) la loro quota di senatori scenderebbe di almeno altri dieci seggi e allora forse potrebbe non bastare neppure il «fattore Monti» per dare al Paese un governo. Potrebbe delinearsi uno scenario, evocato da Berlusconi nei giorni scorsi, da «grande coalizione».
M. Antonietta Calabrò
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile COSENTINO, LANDOLFI, NESPOLI, LABOCCETTA, STASI, MILANESE, TUTTI IN LISTA NEL PDL… IN COMUNE HANNO I GUAI CON LA GIUSTIZIA E LA RICERCA DI UNA RICONFERMA
Rinviato a giudizio per camorra, o inquisito per bancarotta fraudolenta. 
Oppure in attesa di sentenza per reati contro la pubblica amministrazione.
Nessuno di questi è un impedimento a un posto nelle liste del Pdl in Campania. Tra Camera e Senato, c’è spazio.
E’ il partito in cui l’unico criterio di incandidabilità pare essere quello dell’età e della lunghezza del mandato: rischi di stare fuori solo se hai più di 65 anni o sei hai collezionato più di 15 anni di esperienza parlamentare.
Deroghe a parte.
A cominciare da Nicola Cosentino, 17 anni di parlamento alle spalle e due ordinanze di arresto in carcere respinte dalla Camera ma tuttora valide e culminate in due processi.
Il primo per collusioni con la camorra, il secondo per aver fatto da collegamento tra banca e imprenditori in odor di criminalità organizzata per strappare un mutuo in favore della realizzazione di un centro commerciale a Casal di Principe (Caserta).
Il Gip di Napoli Egle Pilla lo ha definito nella seconda ordinanza di arresto “il referente politico nazionale del clan dei Casalesi”.
La deroga, Cosentino, la deve avere: altrimenti per lui si spalancherebbero le porte della galera.
Anche se proprio Berlusconi, in una delle sue apparizioni televisive di oggi (nello specifico a Porta a Porta) si è spinto a dire che l’ex coordinatore regionale del partito potrebbe rimanere fuori.
Cosentino peraltro si è solo formalmente dimesso da coordinatore regionale del Pdl, carica che di fatto continua a ricoprire a braccetto col commissario Francesco Nitto Palma.
Ha persino partecipato al vertice tra i coordinatori e commissari provinciali Pdl, convocato da Nitto Palma per discutere delle candidature.
Pur non avendo un incarico ufficiale nel partito.
Deroga in vista anche per Mario Landolfi, deputato di Mondragone da 19 anni ed ex ministro delle Comunicazioni di un dimenticabile governo Berlusconi, assurto a imperitura fama quando presiedeva la commissione di Vigilanza Rai per aver passato un bigliettino all’allora direttore del Tg1 Gad Lerner raccomandando l’assunzione di una giornalista precaria.
A maggio Landolfi è stato rinviato a giudizio per concorso in corruzione e truffa aggravate dall’avere agito per favorire i clan casalesi.
Avrebbe corrotto un consigliere comunale di Mondragone facendolo dimettere un mese prima della scadenza del consiglio, del quale si impedì così lo scioglimento; in cambio il parlamentare gli avrebbe offerto un contratto di lavoro di tre mesi per la moglie nel consorzio “Eco4” e un posto nella futura giunta comunale.
In caso di mancata riconferma — ha quattro legislature alle spalle — rischia l’arresto (ma solo ai domiciliari) il sindaco di Afragola e senatore Vincenzo Nespoli, che è riuscito a mantenere entrambe le cariche perchè il Parlamento ha applicato la sentenza sull’incompatibilità dei primi cittadini ai soli deputati.
L’ordinanza cautelare risale al maggio 2010.
Nespoli è indagato di concorso in bancarotta e riciclaggio nell’ambito di un’inchiesta sul fallimento di una ditta di vigilanza e sulla distrazione di fondi verso alcune operazioni immobiliari di una società riconducibile alla moglie.
Mentre l’accusa di corruzione elettorale — promesse di assunzioni nelle società di vigilanza in cambio di voti — è caduta in prescrizione.
In corsa per la riconferma in Campania altri due inquisiti eccellenti, i deputati Alfonso Papa e Marco Milanese. Papa, ex pm di Napoli poi distaccato al ministero di Giustizia, è sotto processo per le trame della P4 ed è indagato per l’uso ‘privatistico’ delle auto blu della Finanza, messegli a disposizione per accompagnare la famiglia al mare e i figli a scuola.
Milanese, già ufficiale della Finanza, ha rischiato il carcere (richiesta rigettata dal voto della Camera) ed è stato recentemente raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Napoli per corruzione: gioielli, soldi, favori e viaggi per circa un milione di euro ricevuti da un imprenditore del ramo assicurazioni a cui avrebbe offerto ‘protezione’ rispetto a indagini in corso.
Milanese inoltre è imputato a Roma per finanziamento illecito nell’ambito del processo sugli appalti Enav ed iscritto nel registro degli indagati a Milano per corruzione nell’inchiesta sul presidente di Bpm, Ponzellini, dove è indagato un altro parlamentare napoletano in cerca di riconferma, il deputato Amedeo Laboccetta.
Mentre è freschissima la richiesta di condanna di un altro parlamentare Pdl, l’ex prefetto di Caserta Maria Elena Stasi, colei che avviò le procedure per lo sblocco delle interdittive antimafia a carico delle imprese della famiglia Cosentino, attraverso procedure legittime e corrette ma poco applicate in passato.
Nell’udienza dell’8 gennaio il pm Antonello Ardituro ha chiesto per lei due anni e otto mesi di reclusione per fatti risalenti a quando era commissaria prefettizia di Caserta: avrebbe fatto aggiudicare illegalmente un appalto per l’installazione delle centraline dell’aria a una ditta intestata a un prestanome del famigerato ex consigliere regionale Udeur Nicola Ferraro, condannato in primo grado per camorra.
In questo poco idilliaco quadretto di plurinquisiti, il discusso Luigi ‘Giggino ‘a Purpetta’ Cesaro, sfiorato da mille voci e dimessosi da presidente della Provincia di Napoli per farsi confermare per la quarta volta a Montecitorio (pronta la deroga anche per lui), fa la figura di un giglio immacolato. Non ha indagini penali a carico, dopo che la sua posizione nell’inchiesta Cosentino-bis è stata archiviata. Ma è inseguito dalla Corte dei conti di Napoli che gli intima di restituire 700.000 euro di danni erariali per l’abuso di consulenze nella società provinciale dei rifiuti. Lui non si è fatto trovare impreparato all’appuntamento della notifica: pochi mesi prima, infatti, aveva effettuato una serie di donazioni ai suoi familiari, mettendo i beni al riparo.
Insomma, l’unico indagato campano che quasi certamente non tornerà in Parlamento dovrebbe essere il corpulento senatore-giornalista napoletano Sergio De Gregorio: in qualità di ex socio del faccendiere Valter Lavitola ha sul groppone una richiesta di arresto per i 23 milioni di euro di finanziamenti illeciti al quotidiano ‘L’Avanti’.
Il suo nome non ricorre nelle trattative per la composizione delle liste, il suo movimento personale ‘Italiani nel mondo’ pare dissolto tra le disavventure economiche e le inchieste.
Sarebbe l’eccezione che conferma la regola.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile DIECI ANNI DOPO L’EDITTO BULGARO
E dopo un’animazione giocherellona di Vauro, con il solito nanerottolo berlusconide che dice «vado o non vado?», un rullio di tamburi lontani accompagna con effetti assai più drammatici il promo dell’inaudita trasmissione, il grande duello, l’immane circo, lo spettacolo televisivo dell’anno.
Bùm bùm bùm bùm bùm: e si vedono tanti diversi Berlusconi che in diversi ambiti, ma con un medesimo registro di spavalda allegria, confermano che stasera andrà «da Santoro».
Ma quel suono di sottofondo promette guerra.
Poi si farà sempre a tempo a dire che no: è un libero confronto di idee.
Più che di parole, in realtà , la televisione vive e si nutre di segni, luci, rumori e aspettative.
Nessuno lo sa meglio di Michele Santoro, forse solo Silvio Berlusconi.
Negli spettacoli del primo, più che alla vittoria, si punta all’uccisione virtuale dell’avversario. Anche questo il Cavaliere lo sa benissimo.
E infatti per l’occasione s’è definito «un lottatore», «un guerriero ».
Non ha detto «un gladiatore» perchè dopo l’impiccio della Stay behind la parola suona un po’ così, ma avrebbe potuto benissimo farlo, magari con l’aiuto del successo cinematografico.
Una volta, telefonando in diretta a Santoro — cosa peraltro accaduta non di frequente, ma quanto basta per ricordarselo come la Voce che si rivolge a Mosè sul monte Sinai — l’accusò di aver allestito una «trasmissione trabocchetto» e, perchè tutti potessero capire, «una trasmissione trappola».
E si potrà sempre dire che sono elucubrazioni da professori di sociologia dei processi culturali — puà h!, ma questa seconda variante, la trappola, richiama una dimensione spiccatamente venatoria: l’uomo coraggioso a caccia di bestie feroci, non a caso in questi ultimi giorni s’è detto che Berlusconi sarebbe sceso nella «fossa dei leoni».
Fatto sta che a quel punto Santoro, unico nella pur ricca storia del talk-show ll’italiana, un po’ adirandosi, un po’ facendo finta e un po’ godendosi il drammaturgico imprevisto, comunque minacciò di espellere la Voce dal suo programma.
Incredibile a vedersi, Berlusca accusò il colpo, sia pure per un attimo, poi però si riprese abbandonandosi a quella che resta una delle più indimenticabili invettive degli annali televisivi della Repubblica: «Santoro, lei è un dipendente del servizio pubblico, Santoro — e qui la zampata — si contenga!» con la «e» molto stretta).
Crudeli riprese si soffermarono allora sul volto stupefatto dell’incontinente, ma astuto teledivo, il quale ebbe anche lui uno scatto: «Sono un dipendente del servizio pubblico, non un suo — qui calcò — dipendente». E vai con l’audience!
Ora, c’è anche da dire che qualche tempo dopo il Cavaliere si consentì di espellerlo lui, Santoro, dalla televisione, cn il cosiddetto «editto bulgaro».
Che a rivederlo oggi su YouTube colpisce non solo perchè il premier era pelato come nelle vignette di Vauro e negli articoli di Travaglio (quest’ultimo l’altro giorno gratificato di «genio del male»), ma anche per la manifesta sorpresa e l’aria d’incuriosita diffidenza espressa da alcuni dignitari di Sofia rispetto a quanto andava dicendo il presidente italiano.
E va bene: la storia dei rapporti fra i due è lunga, basti pensare che cinque anni rima Santoro, negletto da un presidente Rai che non sapeva neanche chi fosse, era passato con opportuno clangore e debite accuse di tradimento alle reti berlusconiane — peraltro dando vita forse al migliore dei suoi programmi, «Moby Dick».
Allo stesso modo, o se si vuole con una altrettanto complessa e perfino ambigua corrispondenza, nel chiudere una festa del Pdl a Milano Berlusconi ha chiarito: «I giornalisti più mi attaccano e più mi rafforzano, viva Repubblica viva Santoro!».
Se ne dicono tante. Ma si può riconoscere come sia sempre stata per entrambi una relazione incautamente alla pari e perciò inevitabilmente complementare e pericolosamente competitiva, una specie di conflitto ad alta intensità politicoemozionale, proseguito nel corso del tempo attraverso una narrazione televisiva a base di cori da tragedia greca, tifo da curve, interpretazioni attoriali d’intercettazioni telefoniche, cartoni del genere manga sul bunga bunga, recital tipo cabaret tedesco di «Bella ciao» (sei milioni di telespettatori!) e altre risorse circensi.
Ha notato una volta Marco Pannella, che di tali faccende se ne intende, come quello di Santoro non sia altro che un «Colosseo televisivo»; e in effetti la scenografia delle sue trasmissioni è chiaramente ispirata a quella degli antichi anfiteatri.
Neanche a farlo apposta proprio ieri su Repubblica.it si poteva leggere che recenti indagini archeologiche hanno appurato che sotto la coltre di nerofumo, il Colosseo era di color ocra e rosso, il rosso spicca senz’altro nello studio di «Servizio pubblico», pure segnato dal mosaico pompeiano «cave canem».
Non si dirà qui che l’estetica non solo televisiva di Berlusconi è spesso girata intorno a una romanità di cartapesta.
Se i due personaggi sono diversi e anzi opposti la televisione, o meglio lo spettacolo è uno solo ed è lui che detta legge al giorno d’oggi.
Per cui stasera tutta l’Italia o quasi andrà al circo, e anche se la lotta d’intrattenimento sarà deludente, pazienza, il biglietto infatti è gratis — altro si paga, purtroppo, senza sconti e senza rimborsi.
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile L’ATTESA TRA BATTUTE E TELEFONATE: “ASPETTIAMO LA CHIAMATA”… COL FIATO SOSPESO SCILIPOTI, TASSONE, LUSETTI, MA ANCHE FRANCESCHINIANI E MONTIANI EX PDL
Il parlamento è sciolto, le Camere sono convocate a domicilio. 
Per dire, se scoppia una guerra li richiamano. Ma tanti deputati non stanno a casa.
Sono in Transatlantico, seduti sui divanetti, riuniti in gruppo vicino alle finestre, nel cortile a fumare.
Il ristorante è strapieno, come se si dovesse votare la fiducia al governo.
Invece i monitor sono spenti, l’aula chiusa, il cicalino elettronico che squilla in continuazione durante le sedute, tace.
«Siamo qui per monitorare le candidature», ammette Piero Martino, deputato Pd che aspetta notizie sul suo destino parlando con altri colleghi, i fedelissimi di Dario Franceschini.
Alla ricerca del seggio perduto o in bilico, questo è il tema.
In questa fase Montecitorio è un limbo, nel quale tutti sono sospesi.
I deputati uscenti passeggiano nervosi, simulando una calma che è muta speranza. O disperazione.
Una guerra in corso c’è: quella dell’incertezza, del dentro o fuori. La guerra del posto.
Giorgio Stracquadanio, un tempo pasdaran berlusconiano, ha saltato il fosso da tempo. Attende una nuova collocazione da Mario Monti, nella lista unica del Senato dove saranno recuperati spiccioli di fuoriusciti del Pdl.
«Tengo i contatti, vedo gente. Aspetto una telefonata da Riccardi o dallo staff del presidente ». Riccardi è la zattera.
Stracquadanio discute con Isabella Bertolini, anche lei transfuga.
Li raggiunge Paolo Guzzanti, neomontiano ex Pdl.
Alcuni fanno un giro alla banca interna, per dissimulare le vere ragioni di una presenza inutile, in un edificio svuotato delle sue funzioni.
Renzo Lusetti e Mario Tassone, Udc e parlamentari di lungo corso, s’incontrano allo sportello.
Lusetti è un buontempone. «Mario, sei vecchio. Non ti ricandideranno mai, lascia perdere». Tassone non ha alcuna intenzione di ritirarsi.
Chiede notizie del conto corrente, ma è qui soprattutto per farsi vedere, perchè non gliela facciano sotto il naso.
È in Parlamento da 34 anni, vuole arrivare ai 39. Poi, forse, la meritata pensione.
C’è anche Teresio Delfino, un altro che ha tanti anni di Camera sulle spalle.
Domenico Scilipoti ha fatto poche vacanze.
Ha presidiato Montecitorio tra Natale e Capodanno, tra Capodanno e l’Epifania.
Oggi è di nuovo qui. Il suo “ufficio” è tra la Corea, il corridoio parallelo al Transtlantico, e l’ingresso secondario di Piazza del Parlamento.
Tiene la posizione. Finchè dura, conserva il titolo di onorevole.
Di solito lo segue come un cagnolino Antonio Razzi, l’altro ex Idv che salvò Berlusconi il 14 dicembre del 2010.
Una vita fa. Sono entrambi a caccia di un posto.
Nessuno glielo ha garantito, le antiche promesse sono carta straccia.
«Mimmo — lo chiama un collega — sei tutti noi, ti devono candidare».
Scilipoti sorride e ricomincia il suo moto perpetuo.
Nel capannello dei franceschiniani si vedono Antonello Giacomelli, Francesco Garofani, Alberto Losacco e Martino.
«Non ci vedevamo da un po’, è stata l’occasione per ritrovarci », racconta Martino.
Sono tutti ricandidati, molti di loro erano alla prima legislatura.
Ma i posti sono pochi, il piazzamento in lista un’incognita.
«Non possiamo presentarci nella lista civica di Monti alla Camera — spiega Stracquadanio -. Io e la Bertolini dovremmo essere in quella del Senato».
E Frattini? E Pisanu? «Frattini non si candida, mi risulta ».
Un concorrente in meno. Mors tua vita mea.
Cambia un mondo stavolta. Più delle altre.
I volti nuovi della lista Monti, il ricambio a cui sono chiamati i centristi vigilati da Enrico Bondi.
La rivoluzione imposta da Pierluigi Bersani con le primarie e con l’esercito delle donne elette. Persino Berlusconi si adatta se è vero che gli imputati li dirotterà in Grande Sud, il partito di Miccicchè trasformato nella “bad company” del centrodestra.
E lo sbarco in massa dei grillini, gli alieni del Palazzo.
Il Porcellum aveva messo tutti comodi. Bastava il rapporto di fedeltà . L’antipolitica ha imposto un ricambio culturale.
Si affaccia per un attimo in Transatlantico Beatrice Lorenzin.
Sono i suoi ultimi giorni a Montecitorio, forse. Non sarà epurata, semmai promossa al rango di sfidante di Zingaretti nel Lazio.
Però ha dei dubbi, chiede consiglio. «Che dici, mi conviene?», si rivolge a un deputato del Pdl. «Posso candidarmi anche in Parlamento?».
In questi giorni le Camere sono un purgatorio, nel quale si agitano personaggi, peones, veterani.
La politica è una malattia che nessuno vuole curarsi.
Giacomo Mancini è nipote d’arte, porta il nome del nonno, segretario del Psi.
Per continuare la storia di famiglia non ha esitato a farsi eleggere anni fa con i Ds per poi cambiare casacca più volte: oggi fa l’assessore nella giunta dell’ex An Scopelliti in Calabria.
Ha 40 anni, ma è un politico navigato. C’era anche lui ieri, alla Camera, in attesa di notizie. Tornare a Roma, rivedere l’aula: è un sogno di tanti.
Stracquadanio scruta il cellulare. La chiamata di Riccardi non arriva.
Dallo staff di Palazzo Chigi, tutto tace. «Aspettiamo il giorno giusto. Dovrebbero esserci due posti per me e Isabella. Ma non è detto».
Confabulano i peones. Scilipoti saltella da una parte all’altra.
Al Nazareno è cominciata la direzione del Pd che stila le prime liste ufficiali. I democratici abbandonano il campo. Oggi gli altri però tornano a sperare.
Qui, al centro del loro mondo.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile TRE EURO AL CAPORALE E POI AL LAVORO: 50 CENTESIMI PER OGNI CASSETTA RIEMPITA… MILLE AFRICANI NEI DORMITORI CLOACA
Letti di terra Nel dormitorio abitano mille lavoratori.
Le tende sono fatte con pezzi di plastica, spago, cartoni e lastre di eternit.
Gli africani dormono su letti di terra pressata pronti a trasformarsi in fango alla prima pioggia.
Cucinano riso e ali di pollo in bidoni di risulta.
I bagni sono due fosse a cielo aperto
Baracche di eternit e campi abusivi In alto il campo abusivo sorto a fianco alle tende mandate dal ministero.
Sotto una baracca costruita con lamiere di eternit recuperate in discarica
Sbaglia chi dice che a Rosarno, tre anni dopo la rivolta dei migranti, le devastazioni, la controrivolta degli italiani, la caccia all’uomo e infine la deportazione dei neri, tutto è come prima.
È peggio.
Gli africani sono di nuovo mille, come allora: arrivati in autunno, ripartiranno in primavera dopo aver raccolto agrumi a 25 euro al giorno, anche se adesso i padroni prediligono il cottimo che aumenta la produttività : un euro a cassetta per i mandarini e 0,50 per le arance, in ogni cassetta 18-20 chili di raccolto.
Nel pieno della stagione lavorano trequattro giorni a settimana, a chiamata, versando tre euro al caporale che li carica all’alba sul pullmino.
Nei giorni di magra girano in bici nella piana, fanno la spesa ai discount, cucinano riso e ali di pollo in bidoncini arrugginiti, si ubriacano di birra, litigano tra loro.
I due giganteschi dormitori nei ruderi delle fabbriche dismesse non esistono più da tre anni: uno chiuso d’imperio e abbandonato, l’altro demolito. Bisognava rimuovere, non solo psicologicamente.
Ma la nuova favela tra Rosarno e San Ferdinando è, se possibile, ancora più raccapricciante.
Lamiere di eternit recuperate in qualche cimitero industriale, di cui la Calabria abbonda, fanno rimpiangere gli scheletri di cemento e le pareti di ferro.
Ora i tetti sono di cellophane, cartone, plastica di risulta.
Come calcestruzzo uno spago di fortuna. Cumuli di terra pressata alti venti centimetri sorreggono i precari giacigli, pronti a inondarli di fango alla prima pioggia.
I bagni sono in fondo a destra: due fosse larghe un metro scavate per quaranta centimetri nella terra, a cielo aperto e senza riparo alcuno.
Nella tenda più grande, dieci metri per cinque, si contano non meno di cento posti letto tra materassi rancidi e brandine. Un odore indicibile.
Non ci sono acqua, fogna, elettricità ; solo immondizia a fare da sipario.
«Una cosa incivile, vergognosa, uno schifo», urla Domenico Madafferi, sindaco di San Ferdinando che, sulla base di una relazione sui requisiti igienici «praticamente inesistenti» e sulla «situazione dannosa per la salute» di «baracche fatiscenti» e «dimore abusive senza le condizioni minime di vivibilità » che «potrebbero essere focolai di infezioni», ha scritto di suo pugno un’ordinanza di sgombero.
«Un modo per mettere Regione e governo spalle al muro, dopo inutili riunioni, appelli e solleciti scritti — spiega -. Ma non è cambiato nulla, solo promesse».
Così ieri ha scritto la lettera al prefetto con cui si appresta a eseguire lo sgombero. Un’eventualità drammatica, «perchè il ricordo di tre anni fa sarà niente rispetto a quello che potrebbe accadere se arriviamo con le ruspe»
Eppure in questo stesso posto, solo un anno fa, le autorità inauguravano un campo modello: 280 posti, ampie tende da quattro persone, stufe a olio, tv satellitare, bagni da campeggio, lampioni nei viottoli, rifiuti raccolti ordinatamente, mensa con cucina, presidio medico.
Una Svizzera nella piana di Gioia Tauro.
Il materiale era arrivato dal Viminale dopo l’interessamento del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi.
La Regione aveva messo 55 mila euro per la gestione.
La Provincia pagava la corrente elettrica.
I sindaci Elisabetta Tripodi di Rosarno e Domenico Madafferi di San Ferdinando facevano il resto.
Le associazioni di volontariato più diverse – cattoliche, laiche, evangeliche – si prodigavano per offrire assistenza, cibo, coperte grazie all’aiuto di migliaia di persone (altro che razzismo).
La tendopoli si aggiungeva ai container installati nel febbraio 2011: 120 migranti in moduli da sei con cucinino e bagno in camera. Non solo si smantellavano gli ultimi ghetti, ma l’inedito «modello Rosarno» dava vitto e alloggio a ogni immigrato con 2 euro al giorno, contro i 45 spesi generalmente dalla Protezione Civile.
E dunque, pur con numeri ancora insufficienti (400 posti, un terzo del necessario), in una terra dove lo stato di eccezione è permanente (qualche tempo fa i tre Comuni principali si ritrovarono contemporaneamente sciolti per mafia), aver messo tra parentesi l’emergenza pareva un miracolo. Invece a rivelarsi una fuggevole parentesi è stata proprio la normalità .
Giugno 2012: finiti i soldi della Regione, la tendopoli viene chiusa e abbandonata, in attesa della nuova stagione agricola. In agosto i sindaci si rivolgono a Regione e governo: bisogna organizzarsi per tempo o tornerà il caos.
Cosa che puntualmente accade: a fine ottobre, quando parte la raccolta dei mandarini, la tendopoli priva di gestore viene occupata e saturata dai migranti.
Nelle tende si sistemano in sei, ma non basta perchè altri ne arrivano.
I sindaci reclamano aiuto: non hanno soldi, strutture, personale per farcela.
«Regione e governo latitano, il ministro Riccardi non risponde, solo la presidenza della Repubblica dà un segnale di attenzione comprando e mandando coperte, peraltro inadeguate», dice sconsolato il sindaco. In poche settimane anche la mensa diventa un maxi dormitorio.
Non c’è più spazio e gli ultimi arrivati cominciano a costruire la favela contigua all’insediamento originario.
Senza manutenzione, gli scarichi fognari non reggono a una popolazione quadruplicata, i container con i bagni diventano cloache inservibili, la cucina chiude, i cassonetti dei rifiuti esplodono.
Basterebbero 50-70 mila euro per ripristinare la gestione della tendopoli in modo dignitoso, efficiente e controllato fino a primavera.
Solo lo 0,000006% della spesa pubblica italiana e delle promesse udite tre anni fa. Ancora troppo, per Rosarno.
Giuseppe Salvaggiulo
(da “La Stampa“)
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Gennaio 10th, 2013 Riccardo Fucile PER SALVARSI ORA SI SONO INVENTATI L’ AUTOCERTIFICAZIONE SU APPOSITO MODULO
Sei un candidato del Partito democratico coinvolto in qualche inchiesta giudiziaria? 
Puoi autocertificarti e la commissione di garanzia valuterà se la tua dichiarazione è in linea con il codice etico (ove la segreteria del partito lo richiedesse).
È questo il meccanismo “anti-impresentabili” studiato da Luigi Berlinguer per ripulire le liste elettorali entro il 21 gennaio, giorno della presentazione definitiva.
“Esamineremo caso per caso” aveva detto Pier Luigi Bersani.
Ma la discussione in Direzione nazionale non c’è stata.
Meglio rinviare i nomi più controversi al tribunale interno, sempre che tutti gli aspiranti parlamentari consegnino il modulo con la dichiarazione, e che sia veritiera.
Per esempio: il candidato numero 7 in lista nella circoscrizione Sicilia 2 alla Camera, Vladimiro Crisafulli, dovrà scrivere che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver fatto pavimentare a spese della Provincia la strada comunale che porta alla sua villa.
Inchiesta che, secondo il codice etico del Pd, non ti rende incandidabile.
Potrebbe anche scrivere che è stato filmato mentre parlava di politica e affari con il boss Raffaele Bevilacqua.
Posizione archiviata, sebbene la sentenza parlasse di “dimostrata disponibilità a mantenere i rapporti con il boss”.
Candidabile.
Chi rischia di più è Antonio Papania, piazzato al secondo posto nella circoscrizione Sicilia al Senato, che ha patteggiato 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio.
Anche se il reato non è tra quelli esplicitamente esclusi dal codice etico.
Ha invece deciso di non passare dalle “forche caudine” della commissione di garanzia Bruna Brembilla.
Ex assessore provinciale a Milano nella giunta di Filippo Penati è stata intercettata in un’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, posizione poi archiviata.
Sarebbe stata candidabile.
“Per senso di responsabilità , consapevole della delicatezza del momento politico che stiamo vivendo, decido di rinunciare alla candidatura — ha scritto in una lettera al segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina — per me non è importante un posto, ma l’affermazione delle politiche del Pd, candidato a guidare il paese in una delicatissima fase di transizione”.
La Brembilla aveva partecipato alle primarie e poteva ambire a un posto in lista. Ma alla fine ha rinunciato.
Resta invece Francantonio Genovese, terzo in lista nella circoscrizione Sicilia 2 per la Camera, campione di conflitti d’interesse.
Scriverà nell’autocertificazione che che lo chiamano “Franzantonio” perchè è diventato sindaco di Messina sebbene azionista della Caronte, società dei traghetti nello Stretto?
E che molti dei suoi parenti siedono sulle poltrone di enti e società finanziati dalla Regione? Difficile.
Al dodicesimo posto della circoscrizione Campania 1 per la Camera resiste Massimo Paolucci, tirato in ballo nella “trattativa” tra lo Stato e i Casalesi sui rifiuti a Napoli, mai indagato.
Il suo coinvolgimento era stato denunciato in un articolo della giornalista antimafia Rosaria Capacchione, anche lei candidata con il Pd, ma al Senato.
Le loro strade, per ora, restano divise.
Caterina Perniconi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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