Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
IL NEO AMBASCIATORE PHILLIPS E’ UN RICCO INSIDER LEGATO ALL’ENTOURAGE DEL SINDACO DI FIRENZE
L’amore per l’Italia del nuovo ambasciatore a Roma è tutto nel cognome, Phillips,
anglicizzazione dell’originario Filippi; l’amore per la Toscana è nelle pietre rosse di Borgo Finocchieto, pugno di case sulle colline senesi che l’avvocato ha comprato e ristrutturato, assieme alla moglie Linda Douglass, in un momento di lungimiranza mascherata da folle folgorazione sui sentieri della Val d’Orcia.
John Phillips di investimenti se ne intende.
Ha costruito una carriera sulla protezione degli whistleblower, rivelatori di corruzione e malaffare, e quando Barack Obama ha lanciato una stretta contro i truffatori nel settore privato le parcelle di Phillips si sono gonfiate a dismisura.
Lui ha ricambiato diventando il pivot di una raccolta fondi da 3 milioni di dollari per la campagna elettorale del presidente e come ricompensa ha ottenuto l’assegnazione a Villa Taverna.
L’ennesimo buon affare in una carriera passata tra lo studio legale e le poltrone di governo in stretta alleanza con la sua Linda, indefessa socialite che dal 2009 al 2010 ha diretto il delicato ufficio di comunicazione della Casa Bianca per la riforma sanitaria. Phillips ha avuto anche modo di estendere il suo giro di contatti internazionali dall’osservatorio privilegiato della Commission on White House Fellowships, della quale è stato membro durante gli anni di Clinton e poi presidente dal 2009.
Ma le connessioni di Phillips con la Toscana non si riducono a una brochure per turisti americani in cerca di svaghi agresti, perchè a Firenze c’è il più americano dei player politici italiani, Matteo Renzi.
Si dice che Phillips sia un “sostenitore della causa renziana” e si è creata nel tempo una “consuetudine” con il suo entourage, consolidata a Washington ma soprattutto in Toscana, dove Phillips si è recato spesso — il ristorante fiorentino prediletto è “I fagioli”, in Corso dei Tintori — soprattutto da quando la moglie ha abbandonato la vicepresidenza della Atlantic Media Company per “fare esperimenti sul concetto di ‘più tempo libero’”. Due anni fa Renzi ha incontrato Phillips alla Casa Bianca e da allora il rapporto è stato coltivato da quel Marco Carrai che per conto di Renzi ha intessuto una trama di relazioni internazionali che va da Tony Blair all’universo clintoniano fino a pezzi privilegiati dell’Amministrazione Obama.
Trama fruttuosa macchiata da qualche incidente occasionale, su tutti l’incontro con Bill Clinton alla vigilia delle primarie del Pd contro Pier Luigi Bersani, saltato all’ultimo per un pasticcio di comunicazione immediatamente cavalcato dagli avversari di Renzi imbizzarriti per la dose di prestigio che una photo opportunity con l’ex presidente avrebbe concesso al sindaco.
In quell’occasione l’ambasciatore uscente, David Thorne, che pure negli anni romani ha mantenuto buoni rapporti con Renzi, diceva in privato che la galassia renziana si era fatta un po’ troppo “pushy”, insistente, tanta era la foga di capitalizzare aiuti americani per lanciare un’opa credibile alla leadership del partito.
Thorne era agganciato all’Italia dal piano Marshall, Phillips ha addentellati nel cuore della Toscana, dove Renzi è alla costante ricerca di sponde per dare sostanza ai suoi progetti nazionali.
Fra Washington, Londra e l’Arno il sindaco ha abilmente creato una rete per affermare la sua immagine di democratico moderno e internazionale affrancandola dal provincialismo delle correnti e delle faide d’altri tempi; e Phillips, sintetizza una fonte, “è un ottimo interlocutore”.
Mattia Ferraresi
(da “il Foglio“)
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
“SE MEDIASET E’ ABUSIVA VA OSCURATA”: PARLANO SENZA CONOSCERE NEANCHE LE LEGGI VIGENTI… COSI’ SI VENDONO IN GIRO L’IMMAGINE DI ESSERE CONTRO BERLUSCONI, NEI FATTI GLI PERMETTONO DI ESSERE SEMPRE DETERMINANTE
Una nuova patacca si prospetta all’orizzonte per Silvio Berlusconi.
A paventarla è il senatore M5S, Michele Giarrusso, al termine della giunta per le elezioni che ha avviato la discussione sulla ineleggibilità del Cavaliere.
“Il Movimento Cinque Stelle si rivolgerà alla Guardia di finanza per accertare in base a quale titolo Silvio Berlusconi ha fatto l’imprenditore della tv in Italia”.
La questione riguarda le concessioni tv che, a quanto pare, non esistono a nome di Berlusconi.
Ma il Pdl respinge facilmente l’attacco: il documento richiesto non esiste in quanto non previsto dalla legge (dlgs n.177 Del 2005), che non prevede alcun atto specifico. In serata è arrivata la risposta di Mediaset: “Abbiamo diritto di trasmettere”.
M5S: “Se abusivo, va oscurato”.
Giarrusso spiega che “esponenti del Pdl ci hanno risposto che non ci sono le concessioni tv che riguardano Berlusconi”. Ma allora Berlusconi è abusivo? “Difatti. Per questo chiediamo l’intervento della Guardia di finanza”, risponde Giarrusso.
“E se la Guardia di finanza dice che non ci sono concessioni e, quindi, c’è un soggetto che trasmette senza titoli è giusto che venga sanzionato, anche oscurato”, aggiunge Giarrusso che ha cosi sparata un’arma di distrazione di massa
Il Pdl ha buon gioco a ribattere: “Non conoscete la legge”.
Il Pdl non ci sta e respinge l’accusa al mittente: “Ma quale oscuramento! Giarrusso parla di cose che non conosce – ha detto Giacomo Caliendo (Pdl), componente della Giunta delle elezioni del Senato -. In Italia la disciplina è sottoposta ad un’autorizzazione generale: non ci sono le ‘concessioni’. Dal 2005 la legge consente di trasmettere a tutti quelli che in passato erano titolari di concessione. Quindi, questa cosa di cui parla Giarrusso non esiste. Si tratta di leggi e questioni complesse che non si possono liquidare in 20 minuti. Spero che nelle prossime riunioni ci sia il tempo per spiegare meglio ai colleghi come stanno veramente le cose”.
La risposta di Mediaset al favore grillino.
Pronta la replica di Mediaset, che in una nota, precisa che l’istituto della “concessione” nel settore televisivo non esiste più dal luglio 2012, data in cui tutto il sistema ha abbandonato la tecnica analogica ed è passato alla tecnica digitale.
Le trasmissioni digitali hanno luogo in base ad “autorizzazione generale”, spiega Mediaset nella nota, e ai “diritti d’uso” sulle radiofrequenze, secondo la normativa europea che ha vietato il rilascio di titoli individuali – quali le “concessioni” – nel settore delle comunicazioni elettroniche come la tv o le telecomunicazioni.
Il gruppo Mediaset possiede sia l'”autorizzazione generale” accordata nel 2008 quale operatore di rete, sia i “diritti d’uso” sulle radiofrequenze rilasciati nel giugno 2012.
Pare incredibile che Giarrusso abbia potuto rimediare una brutta figura basandosi su un concetto parziale espresso da un esponente del Pdl, senza fare alcun approfondimento della materia in proprio prima di parlare.
Alla fine lui ha fatto il suo spottone e Silvio ringrazia per l’assist.
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
MA IL CAPO DELLA POLIZIA IN QUEL MOMENTO ERA VACANTE, L’UNICO SUPERIORE POTEVA ESSERE SOLO IL MINISTRO DEGLI INTERNI…VIENE CITATO UN FA DELL’INTERPOL CHE NEANCHE A FARLO APPOSTA E’ SPARITO
Tra il 29 e il 31 maggio 2013, quando nel quartiere romano di Casal Palocco gli uomini
della Digos di Roma portarono a termine il blitz poi sfociato nel rimpatrio della moglie e della figlia del dissidente kazako Ablyazov, ai vertici della polizia si stava vivendo un momento di passaggio molto delicato.
Secondo alcuni uomini del Viminale, quel momento sarebbe culminato in “alcune ore di vuoto di potere”, dovute al cambio al vertice dell’Istituto. Alessandro Marangoni, nominato da Anna Maria Cancellieri vice capo vicario della Polizia al momento della morte di Antonio Manganelli, aveva saputo proprio in quelle ore di essere arrivato secondo nella corsa alla successione e che la poltrona di nuovo capo della polizia sarebbe andata ad Alessandro Pansa, prefetto vicino al Quirinale, nominato il 31 maggio e insediatosi proprio il 31 pomeriggio.
Quando — cioè — tutto il “caso Kazakistan” si era già concluso con le due donne messe su un aereo a Ciampino noleggiato proprio dal leader kazako, Nursultan Nazarbayev.
Marangoni non fu dunque neppure informato dell’operazione; nel delicato momento di passaggio ai vertici della polizia, con la nomina di Pansa ormai certificata nel comunicato del Consiglio dei Ministri, chi stava tenendo le fila del Viminale era solo il ministro dell’Interno, Alfano.
Che continua a tacere sulla vicenda, lasciando trapelare solo che anche lui sarebbe stato all’oscuro di tutto.
E che, cioè, il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro (che lui avrebbe voluto a capo della polizia) il questore, il capo della mobile e quello della Digos avrebbero agito in autonomia senza informare il livello politico più alto di quello che stava accadendo.
L’indagine voluta da Enrico Letta, che pare determinato, come annunciato durante il question time del 10 luglio alla Camera, a fare “piena luce” sull’accaduto, ha già acquisito alcune importanti testimonianze, quella di Lamberto Giannini, capo della Digos di Roma, uomo di grande esperienza nella lotta al terrorismo politico, che ha dato il via al blitz di Casal Palocco; quella di Maurizio Improta, capo dell’ufficio immigrazione della Questura e quella di Renato Cortese, poliziotto di primo piano nella lotta alla criminalità organizzata che partecipò anche alla cattura di Bernardo Provenzano.
Tre poliziotti “di rango” che hanno avuto un ruolo di primo piano nella vicenda e hanno sostenuto di aver “eseguito ordini superiori”.
E, in quei giorni, l’unico che poteva dispensare un ordine del genere, visto anche il singolare momento di passaggio di consegne ai vertici della polizia, era solo il ministro, Angiolino Alfano.
L’indagine, ora, sta anche cercando di fare luce su un misterioso fax dell’Interpol, arrivato il 28 maggio in Questura a Roma, dove veniva segnalato sia alla Questura stessa che alla prefettura dove andare a prelevare il dissidente Ablyazov, in virtù di un mandato di cattura internazionale del Kazakistan per truffa, bancarotta e una lunga serie di reati economici.
In realtà , com’è noto, Ablyazov è il più grosso — e ricco — oppositore politico del presidente Nazarbayev, caro e grande amico di Berlusconi e quelle incriminazioni non sono affatto certe.
Del fax dell’Interpol, che avrebbe dato il via all’operazione, almeno secondo Alfano, si è comunque persa ogni traccia.
Sara Nicoli
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
ROGATORIA VERSO LA REPUBBLICA DEL CENTROAFRICA PER VERIFICARE VALIDITA’ DEL PASSAPORTO…IL DOCUMENTO DEL KAZAKISTAN ALLA QUESTURA SI PERDE PER STRADA E NON ARRIVA IN TRIBUNALE
La procedura di espulsione della signora Alma Salabayeva, restituita con la figlioletta di 6 anni al Kazakhstan nonostante fosse la moglie del principale oppositore politico, e nonostante lei abbia implorato asilo politico, è stata possibile grazie ad alcuni documenti che ora sono all’esame degli avvocati difensori della signora e che sono anche al centro degli accertamenti ordinati da palazzo Chigi.
Atti che potrebbero essere altrettanti problemi per il ministero dell’Interno.
Il primo è un documento della polizia di frontiera che ipotizza il passaggio della signora Alma Ayan nel 2004 dal valico del Brennero.
Ora, il nome Alma Ayan è quello che compare sul passaporto diplomatico emesso dalla Repubblica del Centroafrica, con il cognome da nubile della signora.
Secondo la polizia si trattava di un passaporto taroccato.
Il tribunale del Riesame ha deciso l’opposto.
Potrebbe non finire qui: la procura di Roma sta pensando a una rogatoria internazionale verso il Centroafrica per venire a capo definitivamente del problema.
Ma qui interessa poco.
Il punto è che nel 2004 questo passaporto non esisteva, essendo stato emesso nel 2010, e che la signora Alma Shalabayeva viveva ancora in Kazakhstan con il suo vero nome.
Al prefetto di Roma, per convincerlo a firmare un ordine di trattenimento e di espulsione, comunque è stata consegnata quella nota risalente al 2004 che implicitamente dimostrava che la signora è un’inveterata immigrata clandestina.
Il secondo atto risale al 30 maggio scorso.
La signora Alma è trattenuta al Cie di Ponte Galeria da 24 ore.
La questura di Roma ottiene dall’ambasciata del Kazakhstan l’indispensabile «riconoscimento» che la sedicente Alma Ayan è in realtà Alma Shalabayeva, con cittadinanza kazaka, e che quindi si può procedere all’espulsione forzata verso quel Paese.
Ebbene, il giorno dopo, il 31 maggio, questo documento cruciale non sembra comparire all’udienza di convalida per il trattenimento davanti al giudice di pace.
Mancando il riconoscimento ufficiale di chi fosse in realtà la signora, il giudice di pace ha potuto legittimamente procedere contro una sedicente Alma Ayan, di cui sapeva soltanto che era stata trovata in possesso di un passaporto taroccato della Repubblica del Centroafrica e che era transitata nel lontano 2004 dal valico del Brennero.
Non è un caso, infatti, che l’intero fascicolo del giudice di pace sia intestato alla sedicente Alma Ayan.
E quando gli avvocati, nel corso dell’udienza, hanno fatto presente che la signora era disposta a lasciare volontariamente l’Italia, che il passaporto era valido e che godeva di status diplomatico, il giudice di pace ha ovviamente obiettato che ciò sarebbe stato impossibile dato che non aveva documenti in regola.
«Si osservi – sostiene l’avvocato Riccardo Olivo – che la legge prevede in prima istanza l’allontanamento volontario e solo in subordine l’espulsione forzata». Tornando al giudice di pace, «se il documento ufficiale dell’ambasciata del 30 maggio fosse finito sul suo tavolo – dice ancora il legale – la storia avrebbe necessariamente preso un’altra piega.
A quel punto non sarebbe stato più necessario e forse nemmeno più legittimo il trattenimento nel Cie, figurarsi l’espulsione forzata».
Lo stesso giorno, alle ore 19, la polizia di frontiera di Ciampino certifica che la signora Alma Ayan e sua figlia Alua Ayan, di 6 anni, lasciano l’Italia in esecuzione di un ordine di espulsione a bordo di un jet privato dopo essere stata affidata al console del Kazakhstan.
«Al pilota del jet, invece, la questura di Roma a quel punto consegna correttamente la certificazione che trattasi della signora Alma Shalabayeva».
Francesco Grignetti
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
LA CORTE DEI CONTI HA CHIESTO CHIARIMENTI IN ORDINE AI RIMBORSI “PER SPESE ESTRANEE AL MANDATO CONSILIARE E ATTINENTI INTERESSI PERSONALI”
Danni erariali per 500mila euro sono stati contestati nei confronti di un secondo gruppo di
consiglieri della Regione Lombardia, già appartenenti ai gruppi consiliari di Pdl e Lega, in ordine ai rimborsi ottenuti tramite i gruppi, nel periodo 2008-2011 e nella prima parte del 2012, per spese “del tutto estranee al mandato consiliare e spesso palesemente attinenti interessi personali del singolo consigliere”.
Lo si legge in una nota della guardia di finanza in cui si spiega che sono stati emessi vari inviti a dedurre da parte della Procura della Corte dei conti.
I consiglieri nel mirino della magistratura contabile sono Giulio Boscagli, Paolo Valentini, Antonella Maiolo, Giovanni Bordoni, Enio Moretti, Massimiliano Orsatti e Angelo Ciocca.
Nel maggio scorso gli inviti a dedurre erano stati recapitati a Gianluca Rinaldin, Alessandro Colucci, Stefano Galli, Fabrizio Cecchetti, Luciana Ruffinelli, Pierluigi Toscani e Nicole Minetti.
Le attività investigative, coordinate e dirette dal procuratore regionale Antonio Caruso e dal sostituto procuratore Adriano Gribaudo e condotte dalla guardia di finanza di Milano, hanno consentito l’accertamento di un danno erariale.
Fra i destinatari delle contestazioni vi sono, oltre ai singoli consiglieri regionali beneficiari dei rimborsi, anche i presidenti dei gruppi consiliari interessati, cui è affidato il compito e la responsabilità di gestire i fondi attribuiti ai gruppi stessi.
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
DOPO QUATTRO ANNI IL TEST DEL DNA SVELA IL MISTERO DEL CADAVERE TROVATO NELL’ASTIGIANO… LA CULTURA DEL PROFITTO E DEL DISPREZZO DEL PIU’ DEBOLE GENERA MOSTRI
Era stato trovato morto quattro anni fa da due cacciatori di cinghiali in una discarica abusiva tra i boschi dell’Astigiano.
I carabinieri e il medico legale non erano riusciti ad attribuire un’identità a quell’uomo di corporatura esile, morto., si disse, per un trauma cranico.
Il volto era parzialmente irriconoscibile e nelle tasche di pantaloni e giacca non c’erano documenti.
Una vicenda che sembrava destinata ad essere archiviata.
La svolta circa un anno fa, quando il procuratore di Asti Giorgio Vitari e il pm Maria Vittoria Chiavazza hanno deciso di riaprire il quel vecchio caso.
I carabinieri hanno ricontrollato le denunce di scomparsa di tutto il Piemonte, individuando possibili collegamenti con la sparizione di un muratore romeno di 45 anni, Mihai Istoc, uscito di casa a Torino una mattina del giugno 2009 per andare a cercare lavoro nei cantieri.
Ultimo a vederlo il fratello, che aveva poi segnalato la scomparsa alle forze dell’ordine.
Il volto di Mihai, che in Romania aveva lasciato moglie e due figlie, aveva una forte somiglianza con quello ricostruito al computer dalla polizia scientifica sulla base delle analisi sulla salma.
Il test del Dna ha fornito la conferma.
I carabinieri hanno scandagliato tutti i contatti di Istoc, fino a giungere ad un altro manovale romeno.
Interrogato ha raccontato di aver trovato il connazionale morto in un cantiere edile di Venaria dove lavoravano entrambi per conto di un imprenditore della zona.
Mihai, assunto in nero, era precipitato da un’impalcatura senza protezioni mentre stava togliendo l’intonaco alla parete di una villetta da ristrutturare.
L’operaio aveva chiamato l’impresario, che sarebbe giunto rapidamente in cantiere insieme ad un altro artigiano edile.
Al romeno sarebbe stato impartito un ordine perentorio: «Per oggi vai a casa, ci occupiamo noi di tutto».
I due impresari avrebbero caricato il corpo su un’auto, andandolo ad abbandonare nei boschi di Montafia, non lontano da dove aveva vissuto uno dei due artigiani prima di trasferirsi nel Torinese.
Dieci giorni dopo, i cacciatori fecero la scoperta del corpo.
I due imprenditori, che hanno entrambi 50 anni, sono ora indagati per omicidio colposo, occultamento di cadavere e furto dei documenti e del cellulare della vittima. La procura ha chiesto al gip di fissare i tempi dell’incidente probatorio, così da «cristallizzare» le sue dichiarazioni.
Il «pentito» è assistito dall’avvocato Antonio Foti: «È un uomo perbene, incensurato, con due figli piccoli — spiega il legale — Quando i carabinieri gli hanno chiesto di dire la verità , lui non si è sottratto».
(da “La Stampa“)
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
PER GLI AVVOCATI E’ UNA PRASSI NORMALISSIMA IN ATTO PRESSO TUTTE LE PROCURE
“Ma quale stupore? È normale che sia così, il giudice fa di tutto perchè il reato non venga prescritto, succede in tutti i tribunali d’Italia, è un obbligo d’ufficio”, si spazientisce l’avvocato Francesco Siciliano, del foro di Cosenza.
Uno dei tanti avvocati della penisola che ieri mattina, aprendo i giornali, si sono stupiti dello stupore che si è levato dai difensori di Berlusconi.
Anzi, diciamo pure che si sono sentiti presi in giro.
“Per me — spiega Siciliano, rappresentando lo stato d’animo della categoria — l’avvocato Coppi (il neo difensore di Berlusconi, ndr) è una specie di mito, sentirlo dire che è esterrefatto perchè la Cassazione fa di tutto per evitare la prescrizione di un reato mi fa impressione: non è nel suo costume, come se si fosse adeguatoai toni del cliente”.
“Ripeto: il giudice è tenuto a stringere i tempi per evitare la prescrizione, se fa altrimenti può incappare in un illecito disciplinare”, insiste Siciliano.
È capitato anche a lui, di recente.
Il suo cliente — in quel caso — era imputato per percosse e ingiurie, ovvero per aver offeso e picchiato la ex moglie.
Purtroppo, si tratta di reati all’ordine del giorno.
Come raccontano i dati e le statistiche giudiziarie.
Proprio per la sua ordinarietà —spiega Siciliano — il caso gli è tornato in mente leggendo dell’avvocato Coppi esterrefatto per l’accelerazione decisa dalla Cassazione sul caso Mediaset.
Anche i rteati di cui era accusato il suo cliente rischiavano di essere prescritti. I reati per cui il giudice di pace lo aveva condannato a pagare una multa di 516 euro e un risarcimento danni di mille euro, risalivano all’estate 2005. Sarebbero caduti in prescrizione il 3 febbraio 2013.
Ebbene,il 17 gennaio 2013 il giudice del Tribunale penale di Cosenza decide di confermare in appello la condanna.
Con i tempi normali, le motivazioni della sentenza sarebbero state depositate 15 giorni dopo.
E il reato sarebbe caduto in prescrizione.
Il giudice invece per evitare la prescrizione decise di depositare immediatamente le motivazioni. Nonostantei 40 procedimenti che aveva dovuto affrontare nella giornata.
“Una solerzia obbligata”,chiosa Siciliano: “I magistrati sono tenuti ad agire così, altrimenti la prescrizione diventerebbe un’ancora di salvataggio per tutti”.
Oddio, non che non lo sia. Nell’ultimo anno giudiziario, secondo i dati forniti dal primo presidente della Cassazione all’inizio del 2013, i processi finiti con la prescrizione del reato sono 128 mila.
Quindi, che qualche imputato ci speri fino all’ultimo, si capisce.
Ma addirittura stupirsi quando i magistrati fanno il loro dovere e fanno in modo che la sentenza venga decisa in tempo per evitare la prescrizione, è troppo.
Maria Grazia Gerina
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
LA PROCURA DI ROMA STAREBBE VERIFICANDO LE OPERAZIONI ECONOMICHE DELL’EX AN… PER FORMULARE UN’IPOTESI DI REATO CERCANO DI CAPIRE SE SI SIA TRATTATO O MENO DI FONDI PUBBLICI
Un prelievo ‘anomalo’ di 400mila sui conti del Pdl da parte di Maurizio Gasparri sarebbe
finito nel mirino di Bankitalia.
A riportarlo è il Corriere della Sera, secondo cui l’operazione — visto l’importo particolarmente elevato della cifra — è stata segnalata dagli uffici finanziari di Bankitalia alla Procura di Roma, che adesso verificherà se è tutto in regola o sono state commesse infrazioni.
In seguito alle vicende Lusi e Fiorito, i parametri sulla base dei quali vengono effettuate le segnalazioni sono molto più stringenti, e le denunce si sono moltiplicate. L’inchiesta, comunque, è ai primi passi: per il momento nel fascicolo c’è solo il report dei funzionari della sezione anti-riciclaggio non risultano indagati e non è prevista alcuna audizione per il senatore.
Non prima, almeno, di aver chiarito la natura dei soldi prelevati.
Come si legge sul Corriere, gli investigatori vogliono infatti ricostruire l’insieme delle operazioni effettuate da Gasparri a partire dal settembre del 2012, per verificare se la somma sia stata utilizzata per fini politici o personali.
Ma, soprattutto, capire se i fondi prelevati da Gasparri fossero effettivamente denaro pubblico.
E’ questo, infatti, lo spartiacque fondamentale anche ai fini dell’eventuale formulazione di un’ipotesi di reato.
Raggiunto dai cronisti del Corriere al telefono, Gasparri ha affermato di non sapere nulla dell’indagine: “Non sono stato chiamato dai magistrati, posso solo dire che, al momento, non mi vengono in mente operazioni di importo così elevato”.
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Luglio 11th, 2013 Riccardo Fucile
LUNGA RIUNIONE NOTTURNA DELLO STATO MAGGIORE, DIVISO TRA CHI VUOLE ANDARE ALLO SCONTRO E CHI VUOLE SALVARE IL GOVERNO… NEL MEZZO IL PERICOLO PEONES, PRONTI A TRADIRE PER CONSERVARE POLTRONE E INCARICHI
Stavolta non sanno davvero che pesci prendere.
Perchè il primo a non avere in tasca alcuna soluzione politica è proprio lui, Silvio Berlusconi.
La sensazione, si sostiene a palazzo Grazioli, è che si stia per consumare la fine ingloriosa di un’epoca, “il tentativo di travisare la nostra storia — per dirla con Angelino Alfano — perchè qui è in gioco anche la storia personale di ognuno di noi; una sentenza penale non è solo un atto giuridico”.
Così, almeno, ieri sera, durante un lungo incontro accanto al Cavaliere, apparso anche ai suoi in evidente difficoltà .
La sensazione di impotenza, nel Pdl, ora è molto forte, unita alla paura che si sia davvero vicino ad un punto di non ritorno; la fiammata di ieri, che ha scosso il Parlamento con quella richiesta di fermare i lavori delle aule per protesta contro il partito dei giudici che vuole “giustiziare” il Cavaliere è stata, in realtà , più un diversivo che altro.
Dietro l’alzata di toni non c’è alcuna strategia sulla lunga distanza.
Anzi, dietro non c’è proprio nulla.
E il partito va in pezzi, non più diviso solo tra falchi e colombe, ma sminuzzato anche in una copiosa componente di peones che ora temono lo showdown, pur non avendo alcuna intenzione di votare la sfiducia al governo.
Troppo forte il rischio di tornare alle urne e perdere la poltrona.
Senza Silvio, è il ragionamento, non si va da nessuna parte, ma anche con lui, visto l’andazzo, la remissione è certa.
Una sensazione di blocco di cui si è fatta portavoce Beatrice Lorenzin.
La ministra della Salute ha dato addosso a Daniela Santanchè (“Chi continua a soffiare sul fuoco dell’accanimento antiberlusconiano è contro la pacificazione”), ma anche lasciato aperta ogni possibilità sul futuro (“nell’emergenza possono succedere cose straordinarie”). Chissà quali.
Di sicuro non quella di dimettersi in blocco in caso di condanna del Cavaliere, perchè lì la spaccatura interna diventerebbe conclamata.
Si naviga a vista, dunque, nel Pdl.
Come spesso è accaduto, anche ieri Berlusconi — che in serata ha visto anche i suoi avvocati — ha ‘mandato avanti’ i suoi falchi, lasciando che si sfogasse tutto il malumore e la rabbia del ventre molle del partito, dove di ora in ora cresce questo timore di ritrovarsi senza leader nel giro di una ventina di giorni.
Anzi, viene spiegato, lo stesso Cavaliere, dopo la decisione della Cassazione, avrebbe esortato il partito ad alzare la voce, a mettere in atto una reazione forte.
Dando così più ascolto ai ‘falchi’ che all’ala moderata del partito, che invitava invece l’ex premier alla cautela.
Poi, dopo i contatti tra palazzo Grazioli e Palazzo Chigi, che si sarebbero poi allargati anche al Quirinale, la decisione di non far precipitare le cose.
Del resto, viene riferito da più fonti pidielline, lo stesso gruppo alla Camera, il più compatto, era diviso sul da farsi.
Ad alcune colombe, infatti, non sono piaciuti i toni ultimativi di Daniela Santanchè, che esplicitamente ha messo in dubbio la vita del governo, legandone le sorti alla sospensione dei lavori parlamentari.
Ad altri, hanno invece dato fastidio le dichiarazioni di Renato Schifani, che ha parlato di “una strategia contro Berlusconi e anche contro il governo, un attacco articolato, basato su regolamenti interni, perchè c’è qualcuno che lavora perchè cada questo governo e non si consolidi la figura di Enrico Letta”, parole che hanno fatto pensare addirittura a una sorta di “golpe interno” contro il leader.
E la temperatura, se possibile, si è alzata ancora di più.
Tanto che sono dovuti intervenire prima Cicchitto e poi Lupi a sedare gli animi e a spiegare che il governo non deve essere attaccato e che — parole dell’ex capogruppo — non bisogna cadere nelle provocazioni.
Del resto, spiegano ancora le stesse fonti, già nella tarda serata di ieri, mentre i deputati erano riuniti alla Camera, il Cavaliere avrebbe frenato sulle diverse ipotesi di protesta di cui si stava discutendo: nessun Aventino, sarebbe stato l’input fatto pervenire da palazzo Grazioli, no dimissioni di massa, ma un momento di necessaria riflessione.
Insomma, non è questo il momento di tirare le somme e prendere in considerazione l’eventualità di una crisi di governo: il popolo pidiellino, ora di nuovo in crescita nei sondaggi, non capirebbe.
E poi è considerato da non sottovalutare l’atteggiamento del Colle in caso di crisi e il timore che Pd e grillini assieme a Sel possano dar vita a maggioranze alternative. Lasciando con il cerino in mano l’intero partito, falchi, colombe e pure chi si sta già guardando intorno con interesse in cerca di una via di fuga senza perdere la poltrona.
Se si andasse ad un voto di fiducia a Letta, è questa la riflessione interna, ci sarebbe il rischio che un discreto numero di pidiellini possa votare, nel segreto dell’urna, a favore del governo.
Polverizzando quel che resta del Pdl meglio di qualsiasi magistrato o sentenza penale. Non ultima, la questione processuale: non aiuterebbe l’esito dei procedimenti giudiziari a carico del Cavaliere, è la convinzione di molti in via dell’Umiltà e dello stesso Berlusconi, se il Pdl fosse l’artefice della caduta del governo.
Ciò non vuol dire, viene sottolineato, che l’ex premier intenda ritirarsi a vita privata per attendere passivamente di essere condannato: “Non farò certo la fine di Craxi”, ha ripetuto ancora, ma c’è chi ormai, dentro il Pdl, lo guarda più come un peso che come un’opportunità per la sopravvivenza della poltrona per tutta la legislatura.
Sara Nicoli
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