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RIESUMATA LA SALMA DI AN, ALLA VOGA I CO-AFFONDATORI: ROTTA VERSO L’ISOLA DEL TESORO

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

MA ALTRI PIRATI SI CONTENDONO IL MALLOPPO: SARA’ BATTAGLIA ALL’ULTIMO DOBLONE

“Oggi si riaccende la nostra Fiamma Antica. Il Senso della Nazione e la Nostalgia dell’Avvenire. Forza, Rispetto, Tradizione. Nazione e Stato!”. Roberto Menia (triestino, ex Msi-An, con Fini contro Berlusconi, oggi coordinatore di Fli o, meglio, di quel che ne resta) ci mette la retorica.
E già  qui la platea seduta nella sala dell’Hotel Parco dei Principi di Roma ‘chiamata a coorte’ per celebrare la “Rinascita di An” si fa commuovere.
Ma ancora non è niente.
Siamo solo al terzo intervento in un ‘catino’ che sarà  pure la sala convegni di un hotel di lusso dei Parioli, quartiere ‘fascio’ per tradizione della Capitale, ma già  ribolle di passione per la ‘Cosa Nera’.
Prima hanno parlato Domenico Nania, ex parlamentare e intellettuale, poi Luca Romagnoli a nome della Fiamma Tricolore, ma anche Oreste Tofani e Roberto Buonasorte, leader di sigle non meglio pervenute ma tutte satelliti del solo partito ‘vero’ che si è messa in testa di rifondare An.
Quel ‘La Destra’ fondata e guidata da Francesco Storace (già  portavoce di Fini, colonnello di An, ministro alla Salute, governatore del Lazio, etc.) che voleva far rinascere An già  a luglio, figurarsi se non vuole rifondare una nuova “Cosa Nera” proprio oggi che il Pdl sta andando in mille pezzi.
Il guaio è che pur se Storace fa la sua professione di umiltà  (“sarò un militante”) tra le sigle che dovrebbero ricomporre la ‘diaspora’ post-missina (una dozzina) e che erano dieci solo a luglio, sono già  solo otto.
Di ‘quel che resta’ di Fli c’è anche Antonio Buonfiglio (che dice “certo che Fini sa tutto e non ci ha vietato di venire”), ma non Bocchino nè altri.
Non c’è ‘Forza Nuova’ di Roberto Fiore, culla del neofascismo nostrano (“ed è un bene…”, ghigna Buonfiglio), ma non c’è ‘Fratelli d’Italia’.
I vari La Russa-Meloni-Corsaro-etc. (più Crosetto e altri che con la storia dell’ex-Msi/An non c’entrano nulla) se ne tengono, infatti, assai alla larga come l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che invece con Fd’I flirta.
Non ci sono, soprattutto, tutti gli esponenti dell’ex Msi/An confluiti nel Pdl (i vari Gasparri, Matteoli, etc.), ma che restano gli uomini chiave per ‘scongelare’ beni materiali e non (oltre 550 milioni tra mobili e immobili) della Fondazione di An.
Il cui presidente, Franco Mugnai (senatore Pdl), ieri ha scritto una dura nota (“una diffida fatta via agenzie di stampa e contro un popolo non l’avevo mai vista”, chiosa Buonfiglio) contro Storace&co per ‘diffidarli’ dal tentativo di prendersi simbolo e logo di An.
Storace, però, che è uno tignoso, non demorde.
Venerdì 8 lui e i suoi amici “si sono recati dal notaio per depositare nome e statuto della ‘nuova’ An” in attesa di una causa civile che ‘sblocchi’ anche il ‘piccolo’ problema del simbolo.
Il che vorrebbe dire scongelare anche — e soprattutto – i soldi che servono assai specie in vista della campagna elettorale delle Europee 2014.
Il programma politico della ‘nuova’ An è, invece, molto semplice. “Noi non vogliamo essere di centrodestra nè guardare al centro! Noi siamo di Destra, Destra, Destra!” urla tre volte Adriana Poli Bortone (sindaco di Lecce, prima donna Msi a diventare ministro, pur se nella II Repubblica).
In prima fila, oltre a qualche intellettuale d’area e a Salvatore Tatarella, ad ascoltare compiaciuta “i miei ragazzi” c’è donna Assunta Almirante.
Vedova del leader storico dei missini italiani, si fa fotografare con i fan e tra le bandiere di An e della Fiamma Tricolore in un tripudio di nostalgia.
La presenza della vedova Almirante e la sala che letteralmente esplode (‘saluto romano’ compreso) al grido di “Giorgio, Giorgio!” indicano, però, che la gran parte del reducismo ex-Msi è assai ‘presente!’ nella nuova An.

(da “Huffington Post”)

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DONNA ASSUNTA ALMIRANTE IERI: “INUTILE RIFARE AN, SERVONO ALTRI LEADER”

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

“CHI HA GIA’ FALLITO SI FACCIA DA PARTE”…. E OGGI “COERENTEMENTE” E’ ANDATA AD AVALLARE I “FALLITI”

«La rinascita di An? Guardi, alla manifestazione di Storace mi hanno anche invitata, ma non so se ci andrò. Queste operazioni non mi convincono. Ci voglioni altri capi, nuove generazioni. Come fanno i vecchi leader a ripresentarsi davanti agli elettori?».
Donna Assunta Almirante è una sorta di dizionario vivente della destra italiana.
Ha vissuto tutta la parabola politica che ha portato dal Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale da testimone privilegiata e ora sembra non lasciarsi incantare con facilità  da chi vorrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio.
Donna Assunta, perchè non la convince la rinascita di Alleanza Nazionale?
«Innanzitutto perchè io non ho condiviso neanche la prima fondazione di An. All’epoca, quando si seppellì il Movimento Sociale per dar vita alla nuova sigla, preferii andarmene perchè avevo già  capito come sarebbe andata a finire. E cioè che l’obiettivo era soltanto diventare i soci di Berlusconi».
È solo un problema di sigle? L’intento, più nobile, sarebbe quello di riunire tutte le destre…
«E chi dovrebbe farlo? Gli stessi leader che da An sono scappati? Che hanno lasciato il partito dopo aver chiesto sedi e preso i soldi di Giorgio Almirante? Il vero problema di questa “riunione” è che si tratta di un’operazione calata dall’alto. Come se Storace e gli altri fossero i veri proprietari di una storia che, invece, appartiene ai circoli, alle sezioni, agli iscritti».
E loro, i militanti, vorrebbero tornare sotto un unico tetto?
«Io giro l’Italia, parlo con tanti vecchi missini e posso dirle che sono tutti d’accordo: vorrebbero una ritrovata unità . Ma il problema sono i leader. Può Storace essere l’ago della bilancia? Chi è davvero in grado di comandare in questa destra? Chi è pronto a sacrificarsi come faceva Giorgio? Lui ci metteva tutto se stesso anche se non c’era una lira da spendere».
Erano altri tempi.
«Ricordo quando gli dicevo: “Giorgio, ma chi vai a fare in quella città ? Al comizio ci saranno solo poche centinaia di persone”. Lui mi rispondeva: “Anche un solo voto in più mi basta”».
C’è chi dice che dietro questa operazione possa esserci anche Gianfranco Fini.
«Io non credo proprio. Mi sembra impossibile che abbia ancora il coraggio di farsi vedere. Ho persino comprato il suo libro. Soldi sprecati».
In che senso?
«Non c’è scritto niente. Da dove è venuto, chi l’ha messo al comando, neanche una parola per mio marito. Un libro inutile, mi sono pentita d’averlo preso. Un grave colpo alle mie finanze… (ride, ndr)».
Cosa pensa, invece, dell’Officina per l’Italia?
«Non so di cosa si tratta. Me lo spiega?».
È la piattaforma programmatica per la nuova destra lanciata dai Fratelli d’Italia di Meloni e La Russa.
«Mah… Onestamente non mi sembrano persone con la giusta preparazione. Questi sono uomini che sono solo riusciti a distruggere senza creare, nonostante tutti i soldi che avevano a disposizione. La verità  è che i leader di ieri non ci sono più. I De Gasperi, i Berlinguer…».
Insomma, dopo Berlusconi c’è solo il nulla?
«Io, al posto del Cavaliere, avrei già  salutato tutti e me ne sarei andata. Ora non può più farlo, speriamo solo che Napolitano gli conceda la grazia. E comunque non ne possiamo più di questa faida quotidiana nel Pdl. Non ci fanno una bella figura e non fanno il bene del Paese».
Neanche nel Pdl intravede nuovi leader per il futuro?
«Inizialmente ho creduto molto in Alfano. Mi piaceva l’intesa con Letta. Ma ora non credo che abbia il coraggio di portare fino in fondo la sua battaglia».
Donna Assunta tifa per le larghe intese? È una notizia…
«Io guardo al bene del Paese. Se il centrodestra elabora una proposta e il centrosinistra non la vota, è tutto inutile. Stavolta, invece, si può discutere insieme e fare in modo che i provvedimenti utili ai cittadini siano approvati».
In realtà  il governo non sembra così stabile da poter fare granchè…
«Perchè il nostro è un Paese strano. Quando c’è un nuovo presidente del Consiglio si festeggia come se fosse una Pasqua. Poi, dopo qualche mese, si inizia ad attaccarlo e gli si impedisce di lavorare. È stato così per Berlusconi, Craxi, Moro… Ci manca la costanza, ci stanchiamo subito…».

Carlantonio Solimene
(da “il Tempo”)

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I DIECI GIORNI DI FUOCO DEL CAVALIERE: RISCHIA UN’ALTRA INDAGINE, IL RUBY TER

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

E ALLA VIGILIA DEL VOTO SULLA DECADENZA USCIRANNO LE MOTIVAZIONE DEI GIUDICI SULLE OLGETTINE

Dieci giorni di fuoco. Dieci giorni che potrebbero imprimere una nuova svolta al futuro giudiziario e politico di Silvio Berlusconi: sabato 23 novembre, mercoledì 27 e per finire il martedì successivo, 3 dicembre.
Tre scadenze che surriscalderanno ulteriormente il clima politico e faranno traballare nuovamente il governo di Enrico Letta.
La prima tappa è fissata esattamente tra due settimane. Ultimo giorno utile per il deposito delle motivazioni del processo sul Rubygate.
In primo grado, il 24 giugno scorso, il processo è finito con una condanna di sette anni per concussione e prostituzione minorile. Le pressioni sulla questura, a fine maggio 2010, per far rilasciare la minorenne Ruby El Marough la prima imputazione. Rapporti sessuali con la diciassettenne marocchina, la seconda.
Tra due settimane si capirà  su quale basi i tre giudici (donne) della quarta sezione penale hanno basato il proprio convincimento. E la loro ricostruzione, è chiaro, solleverà  più di una polemica.
Si capirà  allora la dinamica cristallizzata dal dibattimento, su quelle «cene eleganti » che in realtà  si tramutavano in bunga-bunga.
Ma, soprattutto, spiegheranno le testimonianze sospette rese in aula da uomini vicinissimi al Cavaliere: dall’ex segretario particolare Valentino Valentini alla scudiera Maria Rosaria Rossi e alla europarlamentare Licia Ronzulli, fino al cantante Mariano Apicella.
E verranno anche analizzate le bugie delle Olgettine, le fedelissime frequentatrici di Arcore che a verbale, spesso di fronte a evidenze opposte, hanno parlato solo ed esclusivamente di incontri conviviali.
Giusto il tempo che le polemiche si spengano, e mercoledì 27 sarà  l’aula del Senato a votare sulla decadenza di Berlusconi.
A quasi quattro mesi dalla sentenza definitiva Mediaset — quattro anni di condanna per frode fiscale, tre coperti da indulto — e soprattutto dall’interdizione dai pubblici uffici, recentemente corretta dalla Corte d’Appello.
Con il voto palese, le previsioni danno l’esito del voto quasi scontato, anche se le sorprese sono sempre possibili.
Qualsiasi sarà  la decisione di Palazzo Madama, le polemiche ripartiranno forzatamente solo sei giorni dopo.
Proprio per quella data, infatti, sarà  la volta delle motivazioni sul processo «Rubygate due». Quello in cui sono stati condannati a sette anni Lele Mora ed Emilio Fede, e a cinque l’ex consigliere regionale del Pdl, Nicole Minetti.
Erano loro, secondo l’architrave dell’accusa dei pm Sangermano e Forno, ad arruolare le prostitute da offrire al Cavaliere durante le serate del bunga- bunga.
L’ex talent scout di tronisti e cubiste è stato riconosciuto colpevole per induzione e favoreggiamento della prostituzione. Fede e Minetti, invece sono stati assolti dal primo reato e condannati per il secondo.
Anche qui, inevitabilmente, riemergeranno i fantasmi e le finalità  di quelle che il Cavaliere si è sempre ostinato a battezzare come cene tra amici.
E, soprattutto — ed è il punto più delicato che riguarda l’immediato futuro di questa vicenda — tutte le coperture che avrebbero accompagnato i depistaggi per impedire che lo scandalo Ruby travolgesse Berlusconi quando risiedeva a Palazzo Chigi.
Il collegio presieduto da Nunzia Gatto, nelle motivazioni che depositerà  a dicembre, dovrà  spiegare perchè vanno indagati i legali storici del Cavaliere, Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Ruby.
Nel mirino le testimonianze difensive raccolte dagli avvocati a ottobre 2010, quando lo scandalo non era ancora finito sui giornali.
Da chiarire ci sono i versamenti che sempre il Cavaliere continua a garantire mensilmente alle ospiti di Arcore, chiamate poi in aula a testimoniare.
A seconda delle motivazioni di questa sentenza, per Berlusconi e gli uomini a lui più vicini, nel giro di poche settimane potrebbe riaprirsi una nuova «grana» giudiziaria. Questa volta con un’accusa ancora più pesante: corruzione giudiziaria.

Emilio Randacio
(da “La Repubblica“)

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COME TI SGONFIO IL TESSERAMENTO

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

SE I “SIGNORI DELLE TESSERE” DEL PD NON FOSSERO IPOCRITI BASTEREBBE CHE VIETASSERO L’ISCRIZIONE AL PARTITO NEGLI ULTIMI SEI MESI PRIMA DEL CONGRESSO

C’è un che di surreale nel dibattito interno al Pd sul tesseramento gonfiato. Non solo i candidati alla segreteria, ma tutti i leader e sottoleader fino all’ultimo peone si dichiarano esterrefatti, scandalizzati, increduli.
Come se l’acquisto di centinaia di migliaia di tessere farlocche in tutt’Italia per truccare il congresso riguardasse un altro partito.
Come fossero dei passanti che assistono allibiti a una scena che non li riguarda.
Come se la colpa fosse del destino cinico e baro, dunque ineluttabile e imperscrutabile.
Escludendo che l’esercito di falsi tesserati a un mese dal congresso sia frutto del caso o delle avverse condizioni meteorologiche, è evidente che i mandanti e gli esecutori hanno nomi e cognomi precisi.
E i capicorrente e capibastone nazionali che si stracciano le vesti, non si sa bene contro chi, li conoscono bene, dopo una vita passata a far congressi e primarie.
Ciascuno ha i suoi luogotenenti nelle federazioni locali, con un controllo del territorio capillare che gli consente di sapere chi sta reclutando chi e a vantaggio di chi.
Matteo Renzi ha imbarcato parecchi dinosauri, fra cui Piero Fassino che anni fa fu eletto segretario Ds dopo che l’intera Uil torinese s’era iscritta al partito in una notte.
E la Margherita, l’altro socio fondatore del Pd che sta in gran parte col sindaco di Firenze, celebrò il suo ultimo congresso nel 2007 fra gli scandali: gente tesserata post mortem in quasi tutto il Sud; iscritti in Calabria che superavano gli elettori delle ultime regionali (168 contro 55 a Gioia Tauro, 205 contro 123 a Locri, 95 a 21 a Siderno), come se il partito fosse talmente malfamato che non lo votavano neppure gli affiliati.
Il rivale di Renzi, cioè il dalemiano Gianni Cuperlo, si avvale in Campania dell’apporto di Andrea Cozzolino. Il quale tre anni fa, candidato favoritissimo a sindaco di Napoli, si giocò la chance e la sopravvivenza del Pd con sistemi talmente spregiudicati da indurre Roma ad annullare le primarie (il partito fu poi escluso dal ballottaggio e vinse De Magistris): code di cinesi — pagati 10 euro a testa — ai seggi; sezioni Speedy Gonzales dove gli elettori di Cozzolino erano così tanti che avrebbero dovuto impiegare 31 secondi netti a testa per entrare in cabina, segnare la scheda e uscire; seggi bulgari dove alle primarie votava più gente che alle politiche; e così via.
Per questo oggi lo sdegno di tutti i leader per un sistema che tutti i big hanno sempre usato e ormai si riproduce per li rami col pilota automatico, suona fasullo e ipocrita.
Almeno finchè qualcuno non comincerà  a fare i nomi. O a proporre soluzioni più praticabili del blocco del tesseramento che chiude il recinto quando i buoi sono già  scappati, anzi entrati.
Per vanificare i tesseramenti truccati, basterebbe sospendere l’efficacia di tutte le iscrizioni degli ultimi due-tre mesi fino al giorno dopo il congresso.
Così gli iscritti fasulli non vi avrebbero alcun peso.
Una regola di buonsenso che potrebbe essere inserita nello statuto per il futuro: nessuno può tesserarsi nei sei mesi precedenti i congressi e le primarie (oggi invece ci si può iscrivere al Pd anche a lavori in corso).
Ma non pare che l’unica soluzione efficace sia stata proposta da alcuno.
Anche perchè, andando un po’ a fondo, i colpevoli salterebbero fuori.
E molti di quanti oggi s’indignano dovrebbero smettere per pudore.
Una tessera del Pd costa 15-20 euro a seconda delle federazioni. Chi ne compra anche solo mille deve sborsare 15-20 mila euro. O è un benefattore, e i soldi li mette di tasca sua; o è un ladro, e li prende da tangenti.
Il primo movente di Tangentopoli, per i politici, era proprio incassare fondi neri per comprare tessere, scalare il partito e arraffare una poltrona pubblica per continuare a rubare e a salire sempre più su.
Un giorno Piercamillo Davigo andò in carcere a interrogare due signori delle tessere, uno della Dc e uno del Psi, reclusi in due celle vicine.
Il primo accusò il secondo: «È un farabutto, tesserava interi caseggiati».
E l’altro: «Parla lui che tesserava i caseggiati che avevo già  tesserato io».
Chissà  che anche quei due non siano passati al Pd.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)

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DELL’UTRI: “IO DELLA GRAZIA A BERLUSCONI NON SO UN CAZZO”.

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

MA IL CAVALIERE DA ARCORE FA SAPERE CHE….

“Io della grazia non so un c…o. Non ho detto niente di che”. Marcello Dell’Utri prova a tirarsi fuori dal gioco. A chiudere il “giallo” della grazia.
Perchè le sue parole a Virus hanno avuto l’effetto di un sisma tra Arcore, il Quirinale e gli uffici legali del Cavaliere.
Raggiunto telefonicamente dall’HuffPost non si sottrae. E spiega: “Non mi sembra di aver detto niente di che. Ha visto come è andata la trasmissione?”.
E allora eccola la precisazione di Dell’Utri: “A domanda di Porro sulla grazia, dopo un servizio, ho risposto che non lo so se è stata presentata. Quando mi hanno chiesto se è stata firmata da alcuni dei figli ho risposto: sarà  firmata da tutti non da alcuni, immagino. È un discorso generico. Mi sono limitato a rispondere alle domande di Porro. Non ho detto: so che è successo o non è successo o che succederà  questo. Non gioco su queste cose”.
E’ il secondo capitolo del giallo. Che arriva dopo le precisazioni del Quirinale e la nota di Ghedini: “Mai presentato domanda nè lo faremo in futuro”.
Dell’Utri è un giocatore, uomo sottile, conosce il peso delle parole.
Senatore, quello che mi sta dicendo è una dichiarazione, non una chiacchierata informale: “Prego, virgoletti che io della grazia non so un c…o. E che, come le ho spiegato, non ho detto niente di che”.
Parole che però confermano che il “great game” della grazia è ancora aperto. Non è stata presentata. Ma la questione non è chiusa. E non lo è per Silvio Berlusconi.
Che non ha gradito la nota di Ghedini. O meglio, non ha gradito una parola della sua nota: il “mai”.
Perchè dire “non presenteremo mai la domanda di grazia”? Perchè chiudere un gioco che va tenuto aperto come lo sta tenendo aperto Dell’Utri? Sono questi i ragionamenti che Berlusconi ha condiviso con qualche amico venerdì sera ad Arcore.
E’ sull’errore di Ghedini, non sulle parole di Marcello che si sofferma l’ex premier. Perchè il dossier, nella strategia berlusconiana, va gestito “politicamente”.
Si mandano segnali o pizzini, si ricevono contro-segnali, non si affrettano le decisioni.
Il Cavaliere, sin da quando Gianni Letta e Coppi salirono al Colle due giorni prima della nota del Quirinale del 13 agosto, è certo che Napolitano usi questa storia per blindare il governo ma che non abbia alcuna intenzione di graziarlo. Il ragionamento dell’ex premier è questo: “Napolitano vuole che la grazia la chieda e che inizi a scontare la pena.
Vuole cioè che non mi dica innocente e perseguitato e che faccia il buono, magari dimettendomi da senatore.
A quel punto valuta. E poi dice no”. Tesi questa sì che coincide con quella di Ghedini. Secondo l’avvocato, il capo dello Stato non darà  mai la grazia a Berlusconi, su cui pendono altre inchieste pesanti, dalla compravendita dei parlamentari ai filoni di Ruby.
Ma il punto è la gestione politica, non solo giuridica del dossier. Silvio Berlusconi fino alla decadenza vuole tenere tutte le vie aperte, nessuna esclusa.
La “mossa” si fa all’ultimo minuto, dopo che capirà  il potere negoziale che ha col ritorno di Forza Italia.
Per ora Berlusconi vorrebbe una grazia “motu proprio” del Colle. Per ora.
Comunque la parola “mai” su tutto ciò che riguarda la sua pelle non è gradita.
Mai.

(da “Huffington post“)

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LA DOMANDA DI GRAZIA FIRMATA MA NON PRESENTATA: IL PRESSING DELLA FAMIGLIA SU SILVIO

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

GLI EREDI, CONFALONIERI E LETTA: “EVITARE ROTTURE CON IL GOVERNO”

La richiesta di grazia c’è, nonostante la smentita dell’avvocato. È stata sottoscritta da tutti i figli di Berlusconi, in segreto, ma la firma risale ad agosto e non è mai stata presentata in maniera formale al Quirinale.
Tecnicamente dunque non esiste.
Eppure è vera: è rimasta una chimera, uno dei tanti finali possibili del film berlusconiano.
Del resto, al di là  delle contrapposte propagande e della guerra per bande in cui si sta dilaniando il Pdl, lo stesso Cavaliere resta ancora indeciso sul da farsi.
Nell’inverno del suo travaglio, ieri sera è tornato a rifugiarsi ad Arcore, portando con sè più dubbi che certezze. Interrogativi confidati solo agli intimi, che riflettono l’angoscia vissuta in queste lunghe settimane ora che tutto sembra precipitare verso la conclusione della sua esperienza politica.
A Gianni Letta, a Ennio Doris, ai figli, a Confalonieri ripete ad alta voce quello che rimugina ogni notte: «Dopo il voto sulla decadenza sarò arrestato? Come farò a difendermi? Mi conviene sostenere il governo o passare all’opposizione?».
Domande a cui i falchi e le colombe hanno dato in questi giorni risposte totalmente opposte, alimentando in questo modo l’irresolutezza dell’interessato.
Pure il giallo di ieri sera sull’annuncio di Marcello Dell’Utri riguardo alla grazia in fondo conferma che, intorno al corpodi Berlusconi, si sta combattendo una guerra senza esclusione di colpi.
Anzi, è una delle mosse compiute dalla “lobby familiare”.
Possibile che un uomo accorto come Dell’Utri sia scivolato su una notizia totalmente inventata?
O si è trattato piuttosto di un ennesimo scossone dato dalla cerchia stretta del Cavaliere contro il partito dello sfascio, il partito della crisi, ben rappresentato proprio da Ghedini, sempre più consigliere politico che avvocato?
Berlusconi, con la Famiglia e l’Azienda – le due entità  che davvero contano nelle scelte strategiche, ben oltre lo scomposto vociare dei comprimari del Pdl – è apparso di nuovo indeciso.
E proprio nel momento in cui sembrava aver stabilito la rottura del patto di larghe intese, è tornato a ragionare.
«Se restassi in maggioranza – ha riflettuto con un amico – potrei chiedere un aiuto al governo e al presidente della Repubblica».
L’esempio di Giulia Ligresti e della Cancellieri sta lì a dimostrare che l’indulgenza a volte è massima. A spingerlo verso una soluzione di “appeasement” sono i figli, Marina anzitutto.
Il coro famigliare, mentre il padre già  immaginava di «fare campagna elettorale da fuori il parlamento, come Grillo», gli ha ricordato un fatto basilare: «Se passi all’opposizione diventi vulnerabile. Non solo i magistrati, a quel punto li avrai tutti contro: il governo, Letta, Alfano, Renzi, il Quirinale. Non ci sarà  scampo».
Il nuovo governo di emergenza nazionale, creato con il sostegno di una trentina di senatori alfaniani, andrà  avanti come un bulldozer, approvando anche una legge elettorale a doppio turno per emarginare definitivamente Forza Italia.
Uno scenario da incubo per Berlusconi e per le aziende.
Per questo, nei rovelli di queste ore, è tornata un’idea capace di lasciare tutti di stucco. Un colpo a sorpresa: Berlusconi non avrebbe nemmeno escluso di rimandare il Consiglio nazionale già  convocato.
Per evitare di imboccare una strada senza vie d’uscita.

Francesco Bei
(da “La Repubblica”)

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POCA GRAZIA PER BERLUSCONI

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

DELL’UTRI RILANCIA: “TUTTI E CINQUE I FIGLI L’HANNO CHIESTA MA NON GLIELA DANNO”…. GHEDINI: “NOTIZIA DESTITUITA DI FONDAMENTO”. IL QUIRINALE: “A NOI NON È ARRIVATA”

Marcello Dell’Utri riapre il tormentone della grazia al Condannato. “I cinque figli l’hanno già  firmata”. Al Quirinale non risulta: “Non è mai arrivato nulla”. Il senatore-avvocato Ghedini smentisce, ancora una volta, l’esistenza del documento sottoscritto dai figli.
Giovedì era toccato a Confalonieri lanciare la notizia.
Ieri sera, a Virus di Nicola Porro su Raidue, il pizzino dellutriano che trasforma il tormentone in giallo: “Nel momento in cui è stato deciso e gli è stato chiesto di farla chiedere ai figli, i figli l’hanno chiesta, mi sembra ovvio, solo che è brutto il discorso: i figli la chiedono e non gliela danno?”.
Porro chiede: “Non è arrivata al Quirinale?”. Dell’Utri: “E che ci vuole per farla arrivare”. Ancora: “Le risulta che è arrivata al Quirinale e si è persa in qualche ufficio?”.
“Evidentemente non gliela vogliono dare. Vogliono che Berlusconi si arrenda, si deve arrendere”.
Appena l’altro giorno, lo stesso B. ha consegnato a Vespa un altro appello: “Napolitano fa ancora in tempo a darmi la grazia”. Il punto è il metodo.
Il Condannato vorrebbe un atto motu proprio del Colle, secondo la versione dei falchi.
Adesso, però, Dell’Utri aggiunge un altro tassello: chi è che non vuole far arrivare la domanda al Quirinale?
I lealisti, che spingono B. alla rottura col governo, rivelano: “La notizia è di 15 giorni fa. I figli erano pronti, ma il Quirinale avrebbe fatto sapere che era troppo tardi”.
Il giallo della grazia scoppia nel giorno in cui il Cavaliere ha deciso di andare allo scontro totale con le colombe di governo guidate da Angelino Alfano.
Le “oscillazioni ad horas” (copyright Cicchitto) del Condannato volgono all’ora fatale.
Ormai, la scissione dei falchi dai governisti, e viceversa, è nei fatti.
Palazzo Grazioli, ieri a pranzo. Silvio Berlusconi riunisce le colombe Gianni Letta e Renato Schifani, poi Denis Verdini e Renato Brunetta, Capezzone e D’Alì.
C’è anche Maria Rosaria Rossi, senatrice-assistente del Cavaliere.
Sul tavolo, c’è la legge di Stabilità , ma B. è reduce dal lungo faccia a faccia notturno con Angelino Alfano, l’ingrato figlioccio senza quid.
Il colloquio con il vicepremier è andato malissimo e Berlusconi si sfoga a tavola. La manovra dell’esecutivo non viene nemmeno sfiorata.
Gianni Letta gioca in difesa e tenta di arginare il Condannato furioso.
Disperato, l’ex Gran Visir dei poteri forti, tenta la provocazione.
Rivolto a Verdini, il banchiere plurinquisito addetto alla “macchina” del Pdl, Letta dice: “Denis non è che sbagli i conti come il 2 ottobre (il giorno della fiducia a Letta, ndr) e fai fare un’altra figuraccia a Silvio?”.
Il riferimento è alla battaglia in corso sugli 800 e passa consiglieri nazionali del 16 novembre. Verdini incassa da vecchia canaglia. Dissimula: “Non ho alcuna certezza, solo promesse per telefono”.
La conta impazza e si litiga, nemesi grandiosa per il Condannato decadente, sul voto segreto, chiesto dalle colombe.
Nelle stesse ore, il vicepremier Alfano si attacca al telefono per convincere i consiglieri uno per uno.
Dal premier Letta arriva una ciambella di salvataggio: “La seconda rata dell’Imu non si pagherà ”.
Lo scontro Verdini-Letta finisce e B. a quel punto urla: “Il consiglio nazionale si farà , caro Gianni, e ci conteremo tra chi vuol far cadere il governo, dopo la mia decadenza, e chi no”.
Il Condannato getta la maschera e prosegue: “Scenderò in piazza con l’Esercito di Silvio e girerò l’Italia, tutti devono sapere”.
E a tavola si litiga già  su chi sarà  il capogruppo di Forza Italia al Senato.
Verdini fa il nome della Bernini. Ma Capezzone obietta: “Ci sono anche Palma e Romani”. Già .

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LETTA SI FA I SONDAGGI, MA LI FA PAGARE AI CONTRIBUENTI ITALIANI

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO COMMISSIONA A PIEPOLI E IPSOS DUE INDAGINI SULL’IMMAGINE E IL GRADIMENTO DEL GOVERNO DELLE LARGHE INTESE… RISULTATO SEGRETATO, MA I 70.000 EURO SPESI RESTANO A CARICO DELLA COLLETTIVITA’

“Balls of steel”, palle d’acciaio. Così, giura Letta, pensano di lui in Europa.
Per sapere cosa pensino gli italiani ha commissionato invece una serie di sondaggi ad hoc, pagandoli con i fondi della Presidenza del Consiglio e cioè con soldi pubblici.
La vicenda è andata così.
Si parte il 27 settembre, una data non casuale. E’ il day after del governo, con il Pdl (ministri compresi) che annuncia le dimissioni di massa in caso di decadenza del caro leader.
Letta è all’Onu, si dice umiliato e pronto a salire le scale del Quirinale per valutare con Napolitano l’exit strategy dalla crisi che si annuncia a 6mila chilometri di distanza.
E’ però ottimista, certo che riuscirà  a convincere Berlusconi a tornare sui suoi passi.
La lampadina deve essersi accesa pochi giorni prima della prova di forza, quando la bufera già  spazzava l’ottimismo dei governisti e il pavimento di Palazzo Chigi scricchiolava più che mai.
E’ allora che dalla Presidenza arriva l’input a commissionare il primo sondaggio su se stessa e sul governo.
Tutta roba da portare in dote a Silvio, grande amante dei sondaggi, per indurlo a non a staccare la spina, come effettivamente succederà  una settimana dopo, con il voto al Senato del 2 ottobre.
Il 27 settembre il Dipartimento per l’informazione e l’editoria affida a Ipsos di Nando Pagnoncelli un sondaggio per “monitorare l’opinione pubblica su tematiche che riguardano la Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Governo (…) i mutamenti delle opinioni e degli orientamenti dei cittadini in relazione ai provvedimenti e ai progetti del governo”.
Ipsos lavora da una vita con i piani alti dei palazzi governativi.
In virtù di questo l’affidamento è diretto, niente gara.
Il contratto prevede un monitoraggio dal 28 settembre al 13 dicembre. Si baserà  sul “sentiment” di 50 persone scelte dalla società  di consulenza che dovranno discutere online sugli argomenti sopra indicati più quelli che, di volta in volta, la Presidenza riterrà  di sottoporre a verifica.
Quanto ci costa ricucire le larghe intese con la colla del consenso?
Sul sito della Dcpm è indicato un importo di tutto rispetto: 247mila euro più Iva.
Un appartamento per l’ego di Letta? Un po’ troppo per quattro report in croce, anche perchè di sondaggi simili Ipsos e gli altri istituti ne scodellano in continuo a beneficio di giornali e tv, senza costi aggiuntivi per la collettività .
E infatti non è così. Esaminando il contratto il prezzo effettivo sarà  “solo” 47mila euro (più Iva). Un “refuso” che il contribuente accoglierà  con sollievo.
E tuttavia si dovrà  mettere l’animo in pace perchè pur avendo pagato il sondaggio non potrà  mai sapere cosa dice e neppure se i suoi soldi sono stati ben spesi: l’art. 2 del contratto prevede espressamente che i risultati delle rilevazioni siano di “esclusiva proprietà  del committente e non potranno in alcun modo essere diffusi all’esterno”.
Non contento, Letta decide di sondare un altro sondaggista.
E si rivolge all’altra metà  del cielo nel mercato di chi misura opinioni. Così scatta una seconda commessa, stavolta con l’Istituto Pieopoli che a decorrere dal 1 ottobre e fino al 31 dicembre dovrà  fare lo stesso lavoro di Ipsos ma con metodo Cati, cioè interviste telefoniche a campione su 2mila italiani.
Anche stavolta la gara non c’è. Di più, la Presidenza esonera Piepoli dal versare la cauzione prevista per legge “in considerazione della notoria solidità  dell’Istituto Piepoli”.
In cambio, Piepoli concede l’abbuono dell’1% sul corrispettivo.
Fatto sta che dal fondo (e dalle nostre tasche) partono altri 23.359 euro.
Così, a conti fatti, il prezzo della stabilità  finisce per costare, per ora, 73mila euro in tre mesi. Del resto lo chiedono gli italiani.
Che pagano, senza saperlo, per farlo sapere a Berlusconi.

Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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BERLUSCONI NON CREDE PIU’ ALL’ACCORDO CON ALFANO: “MI SONO STANCATO DELLE SUE MOZIONI SUGLI AFFETTI”

Novembre 9th, 2013 Riccardo Fucile

MA ANCHE ALFANO NON SI FIDA DELLE RASSICURAZIONI SUL GOVERNO

È più di uno sfogo. È il segno che qualcosa si è rotto davvero se Silvio Berlusconi si abbandona alla considerazione più amara: “Mi sono stufato delle mozioni degli affetti di Angelino. Dice che mi vede come un padre, ma non si comporta come un figlio”.
La cena, interminabile, di giovedì sera ha un retrogusto amaro.
Perchè non solo non c’è accordo. Ma, nel corso delle oltre tre ore in cui è rimato seduto a tavola con Alfano e Lupi, il Cavaliere si è convinto che è difficilmente raggiungibile.
È questo che confida a qualche amico, lontano dai palazzi romani.
Angelino sta tenendo il punto, si è messo a fare politica. Chiede garanzie, non si accontenta di rassicurazioni a parole, vuole documenti votati.
È già  franata l’ipotesi del grande scambio che l’ex premier gli ha sottoposto: “Io non stacco la spina al governo, ma tu ritiri il tuo documento e entri in Forza Italia”. Nell’incassare il gran rifiuto di Alfano, Berlusconi avverte che il delfino non si fida più. È l’aspetto umano che fa crac: “Angelino, devi fidarti di me, sai che ti considero il mio erede” dice, per l’ennesima volta, il Capo.
Però Angelino si fida solo a parole. E chiede che dal consiglio nazionale si esca con un “documento scritto”, in cui si dice esplicitamente che il governo non è a rischio, neanche in caso di decadenza, come dichiarano il suo ideologo Quagliariello e il suo stratega di riferimento Cicchitto.
Ecco, governo e partito. Due macigni che stanno rendendo più profondo il solco tra il Cavaliere e l’ex delfino: “Mi è venuto a dire che il partito deve essere unito — racconta il Cavaliere agli amici più stretti — ma alle loro condizioni”.
Che sarebbero due coordinatori, la garanzia di rielezione per tutte le colombe nonchè la garanzia che ad Alfano spetta il 50 per cento delle liste elettorali: “Roba — commentano a palazzo Grazioli — che ci mancava solo qualche richiesta su Mediaset”. Altrimenti, Alfano è pronto a disertare il consiglio nazionale.
A seguire cioè quella linea che Fabrizio Cicchitto esplicita da giorni nel ruolo di poliziotto cattivo lasciando ad Alfano il compito di fare il poliziotto buono.
È proprio questo atteggiamento che sa di vecchia politica a non piacere al Cavaliere. Non è un caso che nella corte attorno in molti ricordino il punto di rottura di Fini. Quando in un pranzo due giorni prima del “Che fai, mi cacci?” il Cavaliere gli chiese una serie di interventi sulla giustizia “in nome della nostra amicizia”, proprio così, “in nome della nostra amicizia”.
Verdini ricorda che Fini diventò un nemico quando rispose: “Silvio, in politica l’amicizia non esiste”.
È su questo crinale che Alfano sta conducendo la sua manovra spericolata.
Ecco che il Cavaliere ripete: “Dice che mi vuole bene, ma poi… E io mi sono stufato delle mozioni degli affetti”.
Perchè come nel caso dell’amicizia di Fini, l’affetto si vede dai fatti.
È l’insistenza con cui Alfano ha chiesto di zittire i falchi come Bondi, a cui Berlusconi vuole bene davvero, o l’intransigenza con cui ha preso di mira Verdini che prodotto in Berlusconi la dolorosa sensazione di essere tradito.
Il sangue del suo sangue ragiona solo in termini politici, non più in termini umani: “Alfano ci sta solo se si fa come dice lui — è la sintesi dell’incontro di fonti informate di palazzo Grazioli — vuole zittire chi attacca il governo consentendo ai suoi di dire che va avanti anche in caso di decadenza di Berlusconi”.
Ormai è assai labile il confina tra rabbia e amarezza.
Perchè l’ex premier ha capito che la separazione rischia di essere inevitabile. Pensa che sia diventato impossibile recuperare Alfano lasciando al loro destino le colombe. Per recuperarlo occorre cedere alle richieste sue e dei suoi.
Epperò non è ancora l’ora della rottura plateale, anche se la testa del Cavaliere si è messa già  a girare attorno al come gestirla: “È lui che si mette fuori. Non sono io che lo caccio”.
E al consiglio nazionale deve apparire che è Angelino che ricatta, non che qualcuno cacci.
Almeno nelle intenzioni.

(da “Huffingtonpost“)

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