Destra di Popolo.net

SOCCORSO AI MIGRANTI; L’IRRESPONSABILITA’ DI CHI GUARDA ALTROVE

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

VINCE “LA GLOBALIZZAZIONE DELL’INDIFFERENZA” COME LA DEFINI’ PAPA FRANCESCO

L’operazione Mare Nostrum è alla fine. Si chiude una pagina generosa della nostra Marina e di tutto il Paese.
L’operazione nacque dopo il terribile naufragio del 3 ottobre 2013 che provocò la morte di 366 persone davanti a Lampedusa.
In poco più di una settimana, in quelle acque, ne morirono più di 560. Erano in larga parte siriani ed eritrei.
In questi mesi Mare Nostrum ha salvato più di 100 mila persone di cui 9 mila minori non accompagnati. Sono stati pure arrestati 728 scafisti.
Mare Nostrum ha messo in rilievo quella qualità  umana delle nostre forze armate, mostratasi in varie missioni di pace.
Ha scritto una storia di cui possiamo andare fieri e che spero sia in qualche modo continuata. L’Italia s’è presa la responsabilità  di salvare vite umane, anche arrivando sotto le coste libiche. Non si poteva accettare quella che papa Francesco definì, durante la sua visita a Lampedusa dell’8 luglio 2013, la «globalizzazione dell’indifferenza».
Ora la storia di Mare Nostrum è finita. Non è che, attraverso i passaggi del Mediterraneo, venissero minacce terroristiche, che seguono ben altre strade.
La giustificazione è che l’Italia non potrebbe sostenere i costi dell’operazione. Per l’Unione europea è tendenzialmente un affare italiano e s’insinua che la disponibilità  italiana avrebbe fatto aumentare i flussi dei migranti: «più la Marina ne salva, più sono quelli che si gettano in mare».
Con la fine di Mare Nostrum, gli arrivi non saranno così numerosi: perchè molti moriranno in mare. Questo deve essere molto chiaro.
Come si può attribuire ai salvataggi della Marina l’incentivo dei viaggi clandestini?
I rifugiati vengono da paesi in fiamme: ci sono i conflitti in Iraq e Siria, la crisi endemica in Somalia, il dramma eritreo, l’anarchia in Libia e le crisi africane – come nella Nigeria di Boko Haram.
Non bastano a spiegare l’aumento dei flussi? Da gennaio 2014, sono arrivati in Italia 32.681 siriani e 32.537 eritrei.
Nei loro Paesi i problemi esistono, tanto che il Libano (con i suoi quattro milioni di abitanti) ospita più di un milione di profughi siriani.
L’aumento dei rifugiati sulle nostre coste è un tassello del drammatico processo determinato dal conflitto siriano e iracheno e da infuocate situazioni del Sud del mondo.
Attribuire la responsabilità  dell’aumento a Mare Nostrum è una comoda scusa, circolante in ambienti dell’Unione, che copre un’abissale irresponsabilità  dei Paesi europei.
Da parte italiana, finora, non abbiamo condiviso tale irresponsabilità .
È una situazione nuova e drammatica: dalla Seconda Guerra mondiale non si vedeva un così alto numero di rifugiati. E l’Italia è un Paese su una delicatissima frontiera.
Del resto, l’azione d’emergenza e salvataggio nei confronti dei profughi andrebbe accompagnata da una politica in loco , tendente a risolvere le cause dei conflitti o a scoraggiare la follia dei viaggi di tanti africani (che portano spesso ad amare delusioni nel «paradiso» europeo), attraverso la creazione di posti di lavoro e la cooperazione.
A Stoccolma esiste una trasmissione radio, seguita dagli eritrei, che spiega i pericoli del viaggio. Poi bisogna far politica nel Sud del mondo. L’evoluzione politica e la stabilità  di alcuni Paesi, anche lontani, ci interessa non fosse che per il numero degli arrivi sulle nostre coste (come l’Eritrea, o il Mali con quasi 9 mila sbarchi dall’inizio dell’anno).
Qui la necessità  di un disegno politico al di là  del Mediterraneo.
L’operazione Triton dell’agenzia Frontex è un’altra cosa: farà  monitoraggio e controllo delle frontiere meridionali dell’Unione al massimo entro 30 miglia dalle coste italiane con imbarcazioni finalizzate a questa missione, ma non per il salvataggio di vite umane.
Mare Nostrum ha avuto un’altra funzione e non si deve interrompere.
Il prezzo dell’interruzione sarà  quello di tante morti in mare. Meravigliano i silenzi – anche di cattolici – su questo.
Non si fermano i flussi di quelli che fuggono la guerra. Aiutare i disperati in mare è il nostro contributo a chi soffre le guerre.
D’altra parte lo spostamento di popolazione dal Sud va incanalato e gestito, ma è qualcosa d’ineluttabile. Chi è intellettualmente onesto lo sa.
Poi si può gridare il contrario, ma non è la verità .
Del resto, per quanto riguarda le richieste d’asilo in Europa, nel corso del 2013 ne sono state presentate 435 mila con un aumento di 100 mila rispetto all’anno precedente.
Non un’invasione, ma un fenomeno gestibile nei 28 Paesi.
Non si può, in piena coscienza, dire come gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale: «la barca è piena». Anzi, senza Mare Nostrum, dovremo presto dire: «quante barche sono affondate».
E sapevamo che sarebbe successo.

Andrea Riccardi
(da “il Corriere della Sera”)

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PARTE TRITON, “L’ANONIMA OMICIDI”: PATTUGLIE SOLO A 30 MIGLIA DALLA COSTA

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

RIMANE APERTO IL TRATTO DEL MEDITERRANEO FINO AI CONFINI DELLA LIBIA, DOVE IN UN ANNO SONO STATE SALVATI 100.000 ESSERI UMANI…ORA POTRANNO MORIRE CON IL PLACET DI ALFANO E DI RENZI

Il piano operativo conta 25 mezzi navali e 9 aerei con una spesa mensile di 2 milioni e 900 mila euro.
Fissa le aree di intervento in mare, si occupa della divisione dei compiti tra gli Stati e soprattutto impone le regole d’ingaggio, prevedendo che l’accoglienza dei migranti sia delegata interamente all’Italia visto che il pattugliamento viene effettuato a 30 miglia dalle nostre coste.
È l’operazione «Triton», varata dall’Europa, che da oggi sostituisce «Mare Nostrum».
Per i prossimi due mesi ci sarà  «la fase dell’accompagnamento», come la definisce il ministro Angelino Alfano, ma di fatto rimane aperto il tratto di Mediterraneo fino ai confini della Libia, dove in poco più di un anno sono state salvate ben centomila persone.
Il mare «aperto»
La scelta di intervenire con il controllo dell’intera area era stata fatta nell’ottobre 2013 dopo il naufragio di un barcone di fronte a Lampedusa che provocò oltre 300 vittime.
Uomini, donne e bambini che scappavano dall’Africa e morirono a meno di un chilometro dall’isola quando l’imbarcazione prese fuoco.
Da allora sono stati compiuti 558 salvataggi e nonostante ci siano stati altri affondamenti e numerosi dispersi, il bilancio umanitario è certamente molto positivo.
L’Oim, L’organizzazione internazionale che assiste i migranti, torna a chiedere che la priorità  rimanga il salvataggio perchè «questa è un’emergenza dovuta ad un crescente numero di persone che hanno bisogno di protezione e assistenza».
Su questo il titolare del Viminale si appella all’Europa affinchè «cambi strategia e apra campi profughi, zone di accoglienza e di richieste di asilo direttamente in Africa».
Una proposta più volte rilanciata, ma a quanto pare finora mai presa davvero in considerazione dalle autorità  dell’Unione.
Il soccorso
Saranno gli italiani a guidare la missione dal Centro di coordinamento aeronavale della Guardia di Finanza a Pratica di Mare, dove saranno presenti anche gli ufficiali degli altri Paesi e quelli di Frontex.
L’intesa raggiunta a Bruxelles dagli specialisti della Direzione immigrazione del Viminale e della Polizia divide in maniera netta gli interventi di controllo da quelli di salvataggio e impone che in quest’ultimo caso spetti alla Guardia Costiera gestire l’emergenza.
«Triton» ha infatti come obiettivo primario il contrasto dell’immigrazione illegale e dunque si parteciperà  all’attività  di soccorso soltanto in casi di massima gravità .
I mezzi messi a disposizione dagli Stati membri (Finlandia, un aereo; Francia, un aereo; Islanda, una nave; Lettonia, un elicottero; Malta un aereo, una motovedetta grande e una piccola; Olanda una motovedetta piccola; Portogallo una nave; Spagna, una nave) saranno guidati dall’equipaggio straniero, ma a bordo dovranno sempre avere un ufficiale italiano.
Il ruolo di Malta
L’accordo prevede che Malta si occupi esclusivamente dei migranti soccorsi o individuati all’interno delle proprie acque. E dunque rischia di riproporre i problemi già  sorti in passato quando La Valletta contestava quest’obbligo sottolineando la propria incapacità  operativa soprattutto in caso di ondate di sbarchi consistenti.
Il resto riguarda l’Italia, che dovrà  occuparsi sia degli irregolari, sia dei richiedenti asilo anche se l’individuazione è stata effettuata da un mezzo straniero.
Sono invece vietati i respingimenti: i migranti dovranno essere sempre portati a terra per individuare chi ha diritto allo status di rifugiato.
I 2 milioni e 900 mila euro mensili a disposizione di «Triton» copriranno il 100% delle spese sostenute dagli Stati stranieri e il 38% di quelle dell’Italia che sosterrà  i costi del controllo delle propri frontiere: per i mezzi navali ci vogliono dai 550 ai 1.000 euro all’ora, 3.500 per gli aerei. Altri 3 milioni di euro al mese saranno spesi sino a fine anno per chiudere «Mare Nostrum».

Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera”)

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I RAPPORTI TRA IL FINANZIERE SERRA E LE CAYMAN: L’ESPRESSO REPLICA PUBBLICANDO I BILANCI

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

SERRA AVEVA DEFINITO IGNORANTI I GIORNALISTI DEL SETTIMANALE, AUTORI DI UN’INCHIESTA SUI SUOI FONDI ALGEBRIS

A Davide Serra non è piaciuto l’ articolo dell’Espresso sui bilanci delle sue società . Già  nel pomeriggio di ieri, quando era circolata sul web solo una prima anticipazione della nostra inchiesta, il gestore dei fondi Algebris ha postato su Twitter una prima risentita reazione.
L’articolo dell’Espresso si è limitato a citare un fatto oggettivo.
E cioè che la holding del gruppo Algebris ha sede nel paradiso fiscale delle Cayman. Come del resto risulta anche dal bilancio della Algebris ltd di Londra.
Secondo Serra sarebbe una dimostrazione di ignoranza scrivere che il suo fondo è basato alle Cayman, perchè, come il finanziere ha spiegato in un altro tweet, le sue società  pagano le tasse nel Regno Unito.
L’Espresso, però, non ha mai scritto, nè suggerito, che Serra e le sue società  non facciano il loro dovere di contribuenti.
Anzi, nell’articolo, oltre ai dati di bilanci, si fa esplicito riferimento alle tasse pagate in Gran Bretagna da Algebris.
Nessun luogo comune, quindi.
Anche se Serra, viste le sue recenti esternazioni sulle limitazioni al diritto di sciopero, potrebbe apparire, lui sì, un campione delle banalità .
Oppure, forse, è la sola evocazione delle Cayman, a provocare la reazione scomposta dell’amico e finanziatore di Matteo Renzi.
La stessa reazione che due anni fa lo portò ad attaccare Pier Luigi Bersani che a proposito del fondatore di Algebris aveva evocato i “banditi delle Cayman”.
Una vicenda a suo tempo raccontata, con tanto di dettagli di bilancio, da un articolo del Corriere della Sera.
L’offesissimo Serra querelò Bersani e anche il Corriere, ma i giudici gli diedero torto . Nella sentenza di archiviazione della querela presentata da Serra si legge che “la sede in un paradiso fiscale non è un illecito, ma è un fatto che si assoggetta alla critica di appartenere a una legislazione non trasparente”.
Insomma, vale il diritto di cronaca, e di critica.
Anche se Serra non gradisce.

Vittorio Malagutti
(da “L’Espresso“)

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IL WEB REFERENDUM PER L’INDIPENDENZA DEL FRIULI FA FLOP: VOTANO APPENA IN 7.000

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

GLI INDIPENDENTISTI AVEVANO PREVISTO 200.000 VOTANTI SU 750.000 FRIULIANI RESIDENTI

Il Friuli ha detto sì all’indipendenza. O meglio, lo ha fatto l’1,3% dei friulani: il web referendum per l’indipendenza, che si è chiuso alla mezzanotte del 31 ottobre dopo un mese di consultazioni sul sito www.plebiscitofriulano.eu, ha totalizzato solo 6.700 voti dei quali l’85% sono stati per il sì (l’8% invece ha detto no ed il 7% si è astenuto).
Non molto, considerando che le zone comprese nel Friuli storico (la Patria del Friuli, esistita per 350 anni dal 1.000 al 1.400) e cioè le attuali province di Udine, Pordenone e Gorizia, contano 750mila aventi diritto al voto.
«All’inizio speravamo di arrivare a 200mila votanti, poi ci siamo resi conto che sarebbero stati molto meno e abbiamo iniziato a ragionare nell’ottica delle 20mila – 30mila persone. I risultati finali sono stati ancora più bassi: abbiamo scontato la difficoltà  di arrivare a coinvolgere la gente senza campagne pubblicitarie. In tanti, poi, considerano l’indipendenza come un obiettivo irrealizzabile e hanno preso l’iniziativa come uno scherzo», analizza Adriano Biason, uno dei promotori della consultazione indetta dalle associazioni «Res pubbliche furlane» e «Parlamento furlan».
Per l’indipendenza c’è tempo
Altro che scherzo: il prossimo passo di Biason e dei suoi, malgrado i bassi numeri ottenuti, sarà  proprio quello di contattare le organizzazioni internazionali per valutare l’ipotesi dell’indipendenza.
Quando è stata annunciata la consultazione, a luglio, gli indipendentisti pensavano di rivolgersi all’Onu facendo leva sul principio di autodeterminazione dei popoli.
Oggi oltre all’Organizzazione delle Nazioni Unite hanno deciso di contattare anche l’Umpa, l’Organizzazione internazionale delle nazioni non rappresentate.
«Per ora ci limiteremo ad una dichiarazione di esistenza. Per quella di indipendenza c’è tempo: resta un obiettivo a lungo termine, ma visti i risultati della consultazione sarebbe assurdo farla adesso», riassume Biason.
Per loro la consultazione appena terminata sarà  infatti solo la prima di una lunga serie, da ripetere di anno in anno.
Per la prossima, che sarà  organizzata nell’ottobre 2015, il modello sarà  diverso: se per la prima ci si era ispirati al web referendum di indipendenza del Veneto, per la seconda si guarda alle primarie del Pd.
«Vogliamo istituire un circolo in ogni Comune come fanno loro – spiega Biason – a quelli ci appoggeremo, il prossimo anno, per le consultazioni nelle urne. Così ovvieremo anche al problema, che quest’anno abbiamo scontato, di come raggiungere le fasce più anziane della popolazione: diversi ultraottantenni mi hanno chiamato perchè non sapevano come votare».
Ancora non sono state fatte rilevazioni statistiche sui risultati di voto, ma ad occhio la fascia più rappresentata è quella che va dai 30 ad i 40 anni.
Il «parlamento» attivo da dicembre
Intanto, in attesa della prossima consultazione, prenderà  il via il Parlamento friulano. Accanto al sì o no per l’indipendenza i web-votanti sono stati chiamati a votare anche i primi membri del Parlamento friulano.
Per statuto dovranno essere 72, ma per ora si sono presentati solo in 11.
Il più votato è Gianni Sartor, 950 voti e l’unico con un po’ di esperienza politica alle spalle (della quale, sorride Biason, “dice sempre che l’unica cosa che ha ottenuto è stata di rimetterci soldi”).
Ci sono solo due donne: una, Sabrina Pivetta, di Azzano Decimo, è stata la seconda più votata con 850 preferenze e l’altra, Jessica Della Via, di Talmassons, ha solo 22 anni ed è la più giovane dei neoparlamentari.
Essendo solo 11 risultano tutti eletti: «Lo sappiamo che saremo criticati per questo, ma non possiamo farci niente», taglia corto Biason.
Per quanto riguarda i fondi a disposizione del Parlamento, l’idea è di basarsi solo su fondi privati: «Non chiederemo niente allo Stato o alla Regione, sarebbe un controsenso visti i nostri obiettivi».
La sede itinerante
La prima riunione del direttivo è fissata per dicembre, all’ordine del giorno ci sarà  l’elezione del presidente e l’apertura delle commissioni pubbliche.
Niente sede, come il Parlamento storico friulano sarà  itinerante. Per quanto riguarda la struttura, invece, è ispirato al modello islandese: secondo quanto spiegano i promotori «le commissioni saranno composte dai comuni cittadini che potranno avanzare idee che saranno poi valutate dal Parlamento. Vogliamo mostrare ai friulani che non ci limitiamo alle chiacchiere e che vogliamo invece portare avanti proposte davvero utili. La nostra prima idea? Un database di prodotti friulani: così i cittadini sapranno cosa comprare per sostenere l’economia locale e mantenere i soldi sul territorio».

Greta Sclaunich

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RIFIUTI TOSSICI IN AUTOSTRADA A31: TRA GLI IMPUTATI IL LEGHISTA SCHNECK

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

OCCULTATI METALLI PESANTI E SOSTANZE CHIMICHE SOTTO IL MANTO STRADALE.. SOSPETTE INFILTRAZIONI MAFIOSE

E’ stata fissata per il 3 novembre la prima udienza del processo per i veleni nascosti sotto l’asfalto della Valdastico sud, che vede tra gli imputati il presidente della Provincia di Vicenza, il leghista Attilio Schneck, e Luigi Persegato, cognato dell’ex governatore Giancarlo Galan.
Che l’autostrada A31 che da Vicenza porta a Badia Polesine sia stipata di rifiuti tossici l’hanno accertato, la scorsa settimana, i periti incaricati dal tribunale di Venezia.
Periti che dovranno deporre in udienza davanti al gip Andrea Odoardo Comez. Sarebbero diverse le aree interessate dallo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi. Hanno trovato così conferma le denunce, del gennaio del 2012, di Medicina democratica, dell’Associazione esposti amianto e del comitato locale di cittadini che nel loro esposto, che ha provocato l’apertura dell’inchiesta da parte della locale direzione distrettuale antimafia, avevano denunciato che «i camion delle imprese che lavorano al cantiere avrebbero riversato scarti di fonderia contenenti metalli pesanti e sostanze chimiche (nitrati, fluoruri, solfati, cloruri, bario, amianto, piombo, nichel) in notevole concentrazione».
La denuncia delle associazioni è partita dopo la morte di un cane che si era abbeverato a una pozza vicina al cantiere autostradale.
Il comitato di cittadini aveva inoltre denunciato «un convoglio di 80 camion sospetti che di sera tra luglio e settembre del 2009, si dirigevano da Arzignano ai cantieri dell’autostrada Valdastico Sud».
I camion provenivano da Crotone ed erano diretti verso i cantieri dell’A31 sul primo lotto tra Longare e Torri di Quartesolo.
Nel corso dell’inchiesta sono stati iscritte nel registro degli indagati 27 persone tra imprenditori, titolari di laboratori di analisi e il presidente dell’A4 holding, Attilio Schneck, che è contemporaneamente anche presidente leghista della provincia di Vicenza, l’industriale vicentino dell’acciaio Antonio Beltrame e Luigi Persegato, meglio noto come fratello di Sandra Persegato, moglie di Giancarlo Galan, ex presidente del Veneto che ha appena patteggiato due anni e dieci mesi per corruzione nell’inchiesta Mose.
Persegato risulta titolare della Coseco srl, che ha come oggetto sociale il movimento terra, la valorizzazione fondiaria e il riutilizzo di inerti di cava o miniera.
Un sistema, quello dello smaltimento di rifiuti nei sottofondi stradali che permette un doppio guadagno: la ditta che deve fare il lavoro di riempimento risparmia sul materiale infilandoci dentro rifiuti e, allo stesso tempo, guadagna dallo smaltimento illecito.
L’inaugurazione dell’autostrada dovrebbe avvenire a fine anno, ma la sua storia è costellata da più di qualche inconveniente: già  nel novembre 2008 la Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta aveva sequestrato i lotti 9 e 14 dell’autostrada perchè realizzati da un’impresa del gruppo Italcementi, che usava cemento depotenziato.
Nel 2012 il parlamentare padovano del Pd, Alessandro Naccarato, nella sua relazione sulle infiltrazioni mafiose nel Veneto, aveva dato notizia dell’inchiesta del Gruppo Interforze della Prefettura di Padova sul rapporto tra Serenissima Costruzioni spa — la società  che ha avuto l’affidamento diretto di una parte importante dei lavori dell’autostrada — e una società  appaltatrice, la Ctc srl.
In particolare, è posta attenzione sul contratto di distacco del personale.
«E’ emerso — ha dichiarato il parlamentare padovano — che dietro a Ctc c’è Luigi Conforto, originario di Catanzaro, all’attenzione degli inquirenti per la frequentazione di pregiudicati e perchè in possesso di numerosi precedenti penali»
Anche la storia dell’affidamento diretto è un po’ particolare: la società  autostradale Brescia — Padova per la costruzione della “Valdastico Sud” ha affidato una quota rilevante dei lavori a trattativa privata alla Serenissima Costruzioni, da essa stessa costituita nel 2002 (proprio l’anno in cui la commissione di valutazione d’impatto ambientale ha dato il via libera alla nuova autostrada) e della quale detiene il 70 per cento del capitale (il 30 per cento era della Mazzi Impresa Generale Costruzioni, impresa che ha finanziato ufficialmente la campagna elettorale del sindaco di Verona Flavio Tosi).

Gianni Belloni
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LEGA SI SPACCA: DUE FESTE DELLA ZUCCA (VUOTA)

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

NEL PIACENTINO DUE EVENTI CONTRAPPOSTI: DA UNA PARTE BOSSI E TREMONTI, DALL’ALTRA SALVINI E MARONI… BOSSI ATTACCA: “NO A CASAPOUND, NOI ANTIFASCISTI”

Sono lontani i momenti in cui la Festa della zucca in provincia di Piacenza era chiamata la “Capalbio del nord”, con l’immancabile sfilata di big del partito e ministri del Carroccio.
Ora che il nuovo corso di Matteo Salvini è stato avviato da esattamente un anno, di feste se ne celebrano addirittura due.
La Lega Nord si è divisa con un doppio evento sull’Appennino piacentino: a Ziano, sulle colline della Valtidone, la festa ufficiale con il segretario nazionale, il governatore lombardo Bobo Maroni, Mario Borghezio e il candidato del Carroccio alla presidenza dell’Emilia Romagna Alan Fabbri.
Ma la festa ‘storica’ è stata per il nono anno consecutivo a qualche chilometro di distanza a Pecorara, una ‘Halloween padana’ che come di consueto ha avuto come ospiti d’onore Umberto Bossi e Giulio Tremonti.
Ancor più dei chilometri, una trentina, che dividono le due “kermesse”, la distanza appare ormai ideologica.
Lo spostamento a destra del partito non è infatti avallato dal Senatur: “La Lega è nata con i valori dell’antifascismo” ha detto davanti a un piatto di tortelli e pochi fedelissimi al seguito, “non poteva essere altrimenti, io vengo da una famiglia di combattenti partigiani”.
Il riferimento è all’alleanza tra il segretario del Carroccio, Matteo Salvini, e Casapound sancita due settimane fa in piazza a Milano, ma anche all’intervista del leader leghista alla trasmissione Piazza Pulita di lunedì 27 ottobre.
In quell’occasione, il segretario su domanda del conduttore Corrado Formigli (“Lei è antifascista?”), ha risposto: “No io sono antirazzista” (il che è umoristico di suo…n.d.r.) .
Insomma, la frattura sancita proprio il 31 ottobre scorso, non solo sembra rimanere ma paiono sempre maggiori le distanze.
I numeri sono impietosi, come venne registrato già  dodici mesi fa quando, per scalare il partito, Salvini si spinse fino a Pecorara per stipulare con il Senatur il “patto della zucca” con il quale Bossi diede il via libera alle “primarie”.
Anche allora, come oggi, poche decine i reduci al terremoto che aveva investito i vertici che decisero di tornare a Pecorara.
Molti, invece — come oggi — coloro che si spostarono con il nuovo leader a Ziano, in quella che si può definire una Festa della zucca 2.0 in linea con il nuovo corso.

Gianmarco Aimi
(da “il Fatto Quotidiano“)

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UNIVERSITA’, VIETATO ASSUMERE PARENTI. TRANNE LE MOGLI

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

A BARI 31 ASSUNZIONI: LA LEGGE VIETA CONGIUNTI DEI DOCENTI FINO AL QUARTO GRADO…IL RETTORE: “INTERPRETAZIONE NON UNIVOCA”

La moglie è una parente? «Che razza di domanda!», direte voi.
All’università  di Bari, invece, indifferenti alle risate di scherno, la domanda se la pongono sul serio: d’accordo che la legge vieta l’assunzione in facoltà  di «parenti e affini fino al quarto grado» ma perchè mai escludere le mogli?
Passi pure per i cognati, ma i mariti?
Il tormentone di Parentopoli, all’ateneo «Aldo Moro» di Bari, va avanti da tempo immemorabile.
«Per anni giornali, settimanali, libri e tv hanno elevato agli onori della cronaca i casi di alcune famiglie particolarmente portate alla carriera accademica – scrive Roberto Perotti già  nel 2008 -. Nella facoltà  di Economia sono noti i casi della famiglia Girone, con l’ex magnifico rettore Giovanni professore di Statistica, la moglie Giulia Sallustio, tre figli, un genero tutti docenti nella stessa facoltà ; o della famiglia Massari, con Lanfranco professore di Economia aziendale, due fratelli, e almeno cinque tra figli e nipoti, a Bari e atenei limitrofi; o della famiglia Tatarano, con il padre Giovanni e due figli, tutti docenti di Diritto privato e tutti nello stesso corridoio».
«Meno noto è il fatto che non ci sono soltanto loro – insiste il docente della Bocconi -. Nella facoltà  di Economia almeno 42 docenti su 179 (quasi il 25 per cento) risultano avere almeno un parente stretto nella stessa facoltà ; altri parenti sono sparsi per le altre facoltà  dell’ateneo, e altri ancora insegnano negli atenei satelliti, nella sede staccata di Taranto, a Lecce, a Foggia. Tutte queste sono stime prudenziali, perchè in parecchi casi fortemente sospetti non sono riuscito a rompere il muro di omertà  e ad accertare al di là  di ogni dubbio l’esistenza di un legame di parentela. E non c’è soltanto Economia: a Medicina e Chirurgia i cognomi che ricorrono almeno due volte sono 40, su 417 docenti».
L’anno dopo, nel libro Parentopoli , Nino Luca rincara: «Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio (vale uno nonostante il doppio nome), Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela Monica Danila (tre nomi ma vale sempre uno) e Stefania.
Totale otto Massari: Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari e Massari. Nell’ordine: ordinario, associato, ricercatore, associato, associato, ordinario, ricercatore e straordinario. Facoltà  di Economia, economia, economia, economia, tutti ad economia. Stessa facoltà , stesso cognome, stessa famiglia, stesso mestiere, la stessa città . Anche se qualcuno, forse per frenare le malelingue, si è dovuto sobbarcare una piccola trasferta a Lecce e a Casamassima. Ma gli otto Massari portano l’università  di Bari nel guinness dei primati».
Macchè record! Tre anni dopo, nel 2012, Striscia la notizia becca il direttore amministrativo Giorgio De Santis, via via consolato nella sua solitudine dall’arrivo all’ateneo barese della moglie, della figlia, di un fratello, della cognata, della sorella della cognata e di sette nipoti.
Totale: dodici.
«Ma no! Ma no!», si affrettavano via via a precisare dopo ogni scandalo i più rocciosi difensori del buon nome dell’università . «È tutta roba vecchia, un accumulo di casi isolati che non possono essere messi insieme. È il passato! Adesso c’è il codice etico!».
Giusto, dal gennaio del 2007.
Quando l’allora rettore Corrado Petrocelli benedisse le nuove regole, che vietavano le assunzioni dei parenti prima ancora che arrivasse la legge nazionale firmata da Maria Stella Gelmini, con parole di esultanza: «È un momento altissimo per l’intera comunità  accademica barese. Bari adesso si pone come capofila nazionale per la lotta ai mali dell’università . Spero che da oggi in poi si parli più della bravura dei nostri ricercatori che degli scandali che in passato han travolto l’intera istituzione».
Nel 2010, replay. Col trucco.
Codice etico alla mano, Medicina è costretta infatti a negare l’assunzione di Maria Luisa Fiorella, prima al concorso per un posto da associato ad Otorinolaringoiatria. «Non è giusto!», si ribella il padre, Raffaele Fiorella, otorinolaringoiatra lui pure, professore e primario del Policlinico.
E perchè non sarebbe giusto? «Non è una legge, è un regolamento».
E spiega al nostro Corriere del Mezzogiorno : «Mi verrebbe voglia di dimettermi, ma non lo faccio solo per rispetto dei miei pazienti e degli studenti».
Poi ci ripensa, si dimette, va in prepensionamento e fa strada alla figlia.
Il tempo che Maria Luisa si insedi e lui torna ad insegnare, con un contratto a tempo, nel dipartimento che dirigeva. Tiè!
Ma, ahinoi, il 30 dicembre 2010 l’insieme di «Norme in materia di organizzazione delle università , di personale accademico e reclutamento», meglio nota appunto come legge Gelmini, sembra spazzare via ogni scappatoia.
Dice infatti che «in ogni caso, ai procedimenti per la chiamata non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità , fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo».
Chiaro?
Non bastasse, una sentenza dell’Abruzzo annulla due anni dopo un’assunzione furbetta all’università  di Teramo, basata proprio sul fatto che la legge non cita espressamente tra i parenti mogli e mariti, spiegando che «se l’affinità  presuppone il coniugio, la ragione di incompatibilità  riferita all’affinità  (si badi, fino al quarto grado), a maggior ragione, deve valere per il coniugio».
Linguaggio buro-giudiziario orrendo, ma chiaro. O no?
No, pensa qualche testa fina a Bari. Tanto è vero che, essendo in arrivo i bandi per assumere trentuno nuovi professori associati, un’occasione in altri tempi unica per infilare un po’ di parenti, il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, deciso a sciogliere le «incongruenze» appunto tra il codice etico dell’ateneo che precisa il divieto per i coniugi e la legge Gelmini che lascerebbe, per quanto sia ridicolo, questo pertugio.
Il presidente del Collegio Ugo Villani ha invitato in una lettera i colleghi a interpretare la legge Gelmini in modo costituzionalmente corretto: «Sarebbe irragionevole il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge».
Insomma, ha spiegato alla Gazzetta del Mezzogiorno , «non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole».
Ovvio, agli occhi di tutti gli italiani. Ma non a quelli di tutti i docenti di Bari.
Tanto che il rettore Antonio Uricchio, spiegando che «quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca» (testuale!), ha convocato il Senato accademico.
Il tema è quello che dicevamo: la moglie è una parente?
Chissà  se questa dotta disquisizione contribuirà  a rafforzare il profilo internazionale dell’università  barese.
Nell’ultimo ranking «Times Higher Education World» è tra il 351 º e 400 º posto in Europa.
E quella mondiale è ancora più umiliante.
Auguri.

Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)

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CARTA CANTA (E STONA)

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

TRATTATIVA STATO-MAFIA: IL RICATTO MAFIOSO AL GOVERNO CIAMPI VI FU…E DOPO FU REVOCATO IL 41-BIS A 334 MAFIOSI

Aveva ragione Napolitano a pretendere una rapida trascrizione della sua testimonianza sulla trattativa Stato-mafia.
Dalle sue parole testuali, infatti, la consapevolezza del ricatto mafioso sul 41-bis subito avuta non genericamente dallo Stato, ma specificamente dal governo Ciampi (con Mancino agli Interni e Conso alla Giustizia) emerge con una perentorietà  che era sfuggita persino all’immediata percezione dei pm.
Dice il presidente: “La valutazione comune alle autorità  istituzionali in generale e di governo in particolare fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia — si parlava allora in modo particolare dei corleonesi — e in realtà  quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via, si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut: perchè questi aut aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese… Quindi c’era molta vigilanza, sensibilità  e consapevolezza della gravità  di questi fatti”.
Poi, a domanda del pm Di Matteo, precisa ancor meglio: “Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema… probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle autorità  dello Stato… Lo ricordo benissimo. Poteva considerarsi un classico ingrediente di colpo di Stato anche del tipo verificatosi in altri paesi lontani dal nostro, questo tentativo di isolare diciamo il cervello operante delle forze dello Stato, blocchiamo il governo, il capo del governo, l’edificio in cui vengono prese le decisioni del governo, dopo di che possono rimanere senza guida le forze di polizia, le forze dell’ordine e questo certamente è ciò che aveva in modo particolare impressionato Ciampi e che l’aveva indotto a parlare di qualcosa che poteva essere assimilato a un tentativo o un vago progetto di colpo di Stato… Il fulcro della responsabilità  era senz’alcun dubbio il governo e non a caso il black out l’avevano fatto i presunti eversori a Palazzo Chigi, non a Montecitorio nè a Palazzo Madama… Il bersaglio, e di conseguenza la sede delle decisioni da prendere era Palazzo Chigi, era il governo”.
Come se ciò non bastasse, il 10 agosto la Dia e l’11 settembre lo Sco avvertirono il governo, tramite Mancino, e il Parlamento, attraverso il presidente dell’Antimafia Violante, che “l’eventuale revoca, anche solo parziale dei decreti che dispongono il 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalle bombe”; e che Cosa Nostra puntava a una “trattativa” per allentare il 41-bis.
Com’è possibile che il governo Ciampi, con tutto l’“allarme” e la “vigilanza”, non abbia deciso una linea comune per smentire le aspettative mafiose su “reazioni di sbandamento” e confermare i 41-bis, anzi abbia lasciato che Conso li revocasse a 334 mafiosi?
E come può Conso dire che fece “tutto da solo”?
E Mancino ripetere che lui, il ministro dell’Interno, non ne seppe nulla?
Napolitano racconta poi il progetto di attentato ai suoi danni svelato dal Sismi nell’agosto ’93: “Fui informato, senza vedere carte, senza sapere di note del Sismi o di chicchessia, che c’erano voci, erano state raccolte da confidenti notizie circa un possibile attentato alla mia persona o a quella del Senatore Spadolini… Avrebbe dovuto esserci prima un attentato stragista con il maggior numero possibile di vittime e a seguire si sarebbe dovuto colpire un rappresentante delle istituzioni politiche… Il 24 agosto io fui richiesto di un colloquio dal capo della Polizia, prefetto Parisi, il quale molto gentilmente mi informò che c’era questa notizia… Sono contento se questa informazione che effettivamente è del tutto nuova e personale possa essere di qualche interesse per la Corte e per le parti”.
Poi precisa: “Ebbi questa comunicazione dal capo nella Polizia e non avevo dubbi che la facesse… a nome del ministero dell’Interno… che in quel momento era Mancino, ma certamente sapeva benissimo… o aveva addirittura autorizzato lui Parisi a venire da me per parlarmene”.
E allora perchè Napolitano non ne aveva mai parlato prima, sapendo che su quel ricatto i pm di Palermo indagano da anni?
E perchè l’ha taciuto persino Mancino, che pure è stato sentito più volte dai pm nelle inchieste sulle stragi e la trattativa?
Silenzio di tomba, finchè i pm di Palermo, a metà  ottobre del 2014, hanno scoperto la nota del Sismi in un fascicolo archiviato a Firenze.
La trascrizione rivela altri particolari finora sconosciuti.
Per esempio, non è completamente vero che Napolitano — come recita il comunicato ufficiale del Quirinale di martedì     — non invochi mai le sue prerogative di riservatezza, di molto ampliate dalla sentenza della Consulta n.1/2013.
Anzi, le fa sapientemente balenare più volte, e se non oppone il segreto presidenziale a certe domande imbarazzanti è solo perchè provvede il presidente della Corte a dichiararle inammissibili, anticipandolo.
Per gli studiosi del costume, svettano poi come imperituri reperti d’epoca le genuflessioni e i salamelecchi da satrapia orientale di alcuni avvocati.
Basilio Milio dichiara fantozzianamente: “Il rispetto istituzionale del Presidente della Repubblica e della persona del Capo dello Stato induce la difesa del generale Mori e del generale Subranni a non porre alcuna domanda al Presidente”.
Sarebbe lesa maestà , forse vilipendio. Com’è umano, lei.
Il legale di De Donno, Antonio Romito, umilmente s’associa.
Nicoletta Piergentili, codifensore di Mancino, va anche oltre: “Le esprimo anzitutto la mia emozione nello svolgere il mio mandato qui davanti alla sua persona e a questi splendidi arazzi, Presidente”.
Manco li avesse dipinti lui. Slurp.
Infine c’è una bizzarra lezione di diritto del presidente della Repubblica all’avvocato Luca Cianferoni, legale di Riina.
Nel tentativo di giustificare le ingiustificabili pressioni sue e di D’Ambrosio per darla vinta a Mancino e scippare il processo ai pm di Palermo, Napolitano spiega che la loro unica preoccupazione era il “coordinamento” fra le Procure di Palermo e Caltanissetta.
E cita un precedente storico — quello della perquisizione dei pm di Salerno negli uffici giudiziari di Catanzaro sul caso De Magistris nel dicembre 2008 — che c’entra come i cavoli a merenda: “Vede, sui contrasti tra Autorità  Giudiziarie il dottor D’Ambrosio interveniva con suoi consigli presso di me, perchè trovava, indipendentemente adesso dalle indagini portate avanti da più Procure sulle stragi e così via, anche in altra precedente occasione, su altra materia, ci si era trovati di fronte — io dico ci si era perchè come Presidente del Csm non potevo ignorare la cosa — a un contrasto aperto, non so se lei ricorderà  i titoli dei giornali ‘guerra tra Procure’… con riferimento ai rapporti tra la Procura di Catanzaro, se ben ricordo, e la Procura di Salerno. E di fronte a questi contrasti, invocava appunto il principio del coordinamento”.
Peccato che la Procura di Salerno indagasse su magistrati della Procura di Catanzaro. Se ne deduce che, per il capo dello Stato, l’inquirente deve coordinarsi con l’indagato. Sarà  mica la prossima riforma della giustizia?

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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PESTAGGI DI STATO IMPUNITI

Novembre 1st, 2014 Riccardo Fucile

L’ELENCO È LUNGO…   DA ALDROVANDI A BIANZINO, DA UVA A MAGHERINI: LE BATTAGLIE DEI FAMILIARI

Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Riccardo Magherini.
Quando la mente prova a ricordare i nomi di tutti gli uomini morti mentre si trovavano nelle mani dello Stato, ce n’è sempre qualcuno che sfugge, e non certo per dolo.
La lista è troppo lunga. E quelli che conosciamo, forse, non sono neanche tutti, perchè se li conosciamo è solo per il merito, la tenacia e il coraggio delle loro famiglie, eroiche nel mostrare cosa lo Stato ha fatto ai loro cari e contemporaneamente nel mettersi contro quello stesso Stato.
Ci vuole fegato nel sapere che si sta andando verso il massacro e che tutta quella battaglia di giustizia si risolverà  in un nulla di fatto.
Già , perchè è questo quello che viene da pensare. Perchè di fronte a quella lista così lunga di morti ammazzati, il conto di chi ha pagato si tiene in una mano. Come un pugno di mosche.
Il primo fu “Aldro”, e non perchè fu il primo a morire, il 25 settembre 2005 a Ferrara, ma perchè fu il primo a guadagnarsi le pagine dei giornali, dopo una battaglia instancabile di sua mamma Patrizia.
Aldro aveva 18 anni quando incontrò la polizia: Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri non si accontentarono di mettergli le manette.
Tre anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”, sentenzia la Cassazione nel 2012. Tutti beneficiari dell’indulto, tre di loro rientrati in servizio a gennaio 2014.
“È stato morto un ragazzo”, il documentario di Filippo Vendemmiati che narra la sua storia.
Riccardo Rasman viene ucciso a Trieste il 27 ottobre 2006. È disabile psichico, ha una sindrome schizofrenica paranoide dopo atti di nonnismo durante il militare.
Il destino ha voluto che a togliergli la vita siano state, ancora, delle divise. Sta lanciando petardi dal balcone, finisce a terra, ammanettato e coi piedi legati col fil di ferro. Soffoca.
Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi vengono condannati in via definitiva a sei mesi di reclusione.
Il falegname Aldo Bianzino è morto nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007, a 44 anni. Gli hanno trovato in casa una coltivazione di canapa indiana, sul cadavere la famiglia trova invece quattro ematomi cerebrali, fegato e milza danneggiati, due costole fratturate.
Nell’aprile di quest’anno per quella morte ha pagato solo — in appello — Gianluca Cantoro, l’agente penitenziario condannato a 12 mesi per omissione di soccorso.     Giuseppe Uva dopo sei anni non ha ancora un assassino.
Dal 14 giugno 2008, infatti, la Procura di Varese non è stata in grado, se non poche settimane fa, di ottenere un processo.
“Pino” è morto in ospedale dopo una notte nella caserma dei carabinieri, dove era finito per aver spostato alcune transenne in strada.
Dopo un inutile processo al medico che gli aveva somministrato i farmaci, adesso si apre il dibattimento a carico dei quattro militari presenti quella notte.
Ci sono voluti sei anni e la prescrizione è vicina.
Michele Ferrulli ha perso la vita il 30 giugno 2001 a Milano.
Faccia a terra, manette ai polsi. Intorno a lui quattro agenti, intervenuti perchè il manovale 51enne faceva casino in strada con la musica troppo alta.
Secondo i giudici della Corte d’assise, che hanno emesso poche settimane fa la sentenza di assoluzione in primo grado, i colpi inferti all’uomo dai poliziotti sarebbero stati necessari per vincere la sua resistenza.
Dino Budroni, 30 anni, è stato ucciso sul Raccordo Anulare di Roma il 30 luglio 2011, al termine di un inseguimento.
A sparare con la pistola d’ordinanza è stato un poliziotto, che pochi mesi fa in primo grado è stato assolto. Il Tribunale ha fatto cadere l’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi.
Il pubblico ministero ha ora avanzato la richiesta di appello.
Riccardo Magherini è morto anche lui faccia a terra, la notte tra il 2 e il 3 marzo di quest’anno a Firenze.
Sopra di lui c’erano quattro carabinieri. Riccardo non aveva 40 anni, aveva un figlio di due e chiedeva aiuto.
All’inizio di ottobre il pm ha chiuso le indagini: i militari e tre volontari della Croce Rossa sono accusati di omicidio colposo.
La speranza è che almeno nel suo caso la giustizia possa trovare casa in Tribunale.

Silvia D’Onghia
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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