Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile QUELLI CHE HANNO SUPERATO IL TEST SONO COSTRETTI A ISCRIVERSI LONTANO DA CASA
«È un’ingiustizia. La prova che in Italia la meritocrazia non esiste. Io che ho passato il test, ho dovuto lasciare
la mia città , Brescia, per andare a fare Medicina a Parma, spendendo 600 euro al mese per una stanza in convitto, e c’è gente che invece era stata bocciata ma grazie al ricorso al Tar si ritrova a fare l’università a due passi da casa». Antonio Baglioni è uno dei 10 mila vincitori del famigerato test di Medicina.
Purtroppo la prova dell’8 aprile scorso è stata travolta dai ricorsi: plichi manomessi, sospette copiature, anonimato violato per un autogol del Miur…
Alla fine i giudici hanno ordinato l’ammissione in sovrannumero di ben 5.000 studenti: bocciati all’esame, promossi dal Tar
Un maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero chiuso dai suoi promotori ma che di fatto si è tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perchè gli atenei sono andati in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto peggiore del proprio.
Diploma scientifico, mamma maestra, papà quadro in un’azienda, Antonio il 28 settembre scorso ha fatto la valigia ed è partito per Parma.
Il sistema della graduatoria nazionale unica prevede infatti che chi ha un punteggio più alto abbia diritto di precedenza su tutti gli altri nella scelta dell’ateneo.
Antonio è andato bene al test, ma con i suoi 36,20 punti era più o meno attorno ai primi 7.500, non abbastanza in alto da aggiudicarsi uno dei 209 posti in palio a Brescia.
Gli è toccata Parma, che era la sua sesta scelta.
«E sono stato fortunato perchè i miei hanno deciso di investire nella mia educazione, sopportando il costo di questa trasferta. Mentre chi ha fatto ricorso mi è passato davanti anche se stava ventimila posti sotto al mio»
In realtà , il ministero dell’Istruzione a settembre aveva emanato una nota che metteva dei paletti molto stretti per i 5.000 riammessi dal Tar: potevano iscriversi, sì, in uno degli atenei che avevano indicato in sede d’esame, ma avrebbero dovuto optare per quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il primo in graduatoria e il punteggio del ricorrente». Vietato in altre parole iscriversi a Torino, dove quest’anno c’è stato il candidato con il punteggio più alto: (80,5) ma anche a Bari (76,7), a Bologna (73,3) e alla Statale di Milano (72,6). Porte aperte invece in Molise (50,7), a Sassari (51,8) o a Salerno (53,8). Più che un’immatricolazione, una deportazione forzata.
Per evitare nuovi ricorsi il 9 ottobre il ministero ha emanato un’altra nota che rovesciava la precedente permettendo ai ricorsisti di iscriversi nella loro prima scelta.
Con buona pace di tutti gli altri studenti con la valigia, come la comasca Claudia Colombo: «Io con i miei 37,8 punti sono finita da Pavia a Torino Molinette: spendo 350 euro per una stanza ma sono in un’ottima università . Conosco una ragazza di Varese che aveva passato il test ma ha dovuto rinunciare perchè era finita a Salerno. E poi sono scocciata perchè l’arrivo di quelli che hanno fatto ricorso ci ha costretto a fare lezione seduti per terra».
Da Padova a Palermo non si contano i disagi che le ammissioni in sovrannumero hanno creato. Inizio dei corsi rinviato, aule stracolme, lezioni in videoconferenza
Una prova generale del caos che rischia di travolgere gli atenei se davvero il ministro Stefania Giannini terrà duro sull’ipotesi di abolire il test a favore di una selezione a metà o alla fine del primo anno.
A Bari la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando: oltre 600 contro i 237 di partenza.
Spingendo i «regolari vincitori di concorso» a sottoscrivere un manifesto di protesta che si concludeva – amaramente – così: «Vogliamo “solo” studiare».
Quello che più fa arrabbiare è l’ingiustizia di un sistema che finisce per penalizzare chi segue le regole, giuste o sbagliate che siano.
«Conosco gente che, anche prima di fare il test, aveva già deciso di fare ricorso in caso di bocciatura», dice Claudia.
«E poi non è giusto per tutti gli altri che invece sono rimasti fuori perchè hanno accettato il verdetto», conclude Antonio.
Orsola Riva
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile SU 9.200 DEPOSITATE APPENA 1.300 HANNO TROVATO RISCONTRO
Che ogni governo in carica non sia mai troppo solerte nel rispondere alle interrogazioni parlamentari è cosa risaputa, ma con i governi di Letta e Renzi la percentuale delle domande inevase è cresciuta anche rispetto ai governi Berlusconi e Monti.
Che poi le interrogazioni a cui viene concessa risposta siano per la maggior parte del Pd è una tendenza degna di nota.
Perchè se lo strumento dell’interrogazione è la tipica leva in mano alle opposizioni per operare il controllo del parlamento sull’esecutivo previsto dalla Costituzione, i numeri da inizio legislatura stilati dal sito Openpolis raccontano una realtà diversa.
L’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi aveva risposto al 39,33% delle interrogazioni parlamentari, il Governo Monti era sceso al 29,33%, mentre gli esecutivi di Letta e Renzi hanno fatto calare di molto la percentuale.
Delle oltre 9.200 interrogazioni depositate in oltre un anno e mezzo di legislatura, circa 1.300, poco più del 14%, hanno ottenuto un riscontro, ma oltre l’80% sono rimaste inevase.
E finora il gruppo parlamentare che ha un tasso di successo maggiore è il partito di maggioranza, cioè il Pd, con 400 risposte (19,80%) alle oltre duemila interrogazioni presentate.
A guidare la classifica di gruppo con maggior numero di interrogazioni depositate è il Movimento 5 Stelle, oltre 2.700: quelle con risposta non raggiungono però neanche quota 300
Il ping pong
«Basta con questo noioso ping pong nell’approvazione delle leggi», dice il premier per spiegare agli imprenditori l’esigenza di trasformare il Senato in Camera delle autonomie. E per dare un’idea del ping pong parlano da sole le statistiche che si possono trovare sullo stesso sito del Senato.
I disegni di legge approvati da una delle due Camere e ancora in corso di esame nell’altro ramo del Parlamento sono 47: 31 a Palazzo Madama e 16 a Montecitorio.
E citandone due a caso, uno sulle misure cautelari, approvato e trasmesso alla Camera in aprile, cioè sette mesi fa e ora in corso di esame in commissione; o quello sull’abolizione dei manufatti abusivi, trasmesso nel gennaio 2014 e non ancora «incardinato», si capisce meglio con quale passo riesca a procedere l’attività legislativa con il bicameralismo perfetto.
Specie in assenza di quella riforma dei regolamenti che velocizzerebbe l’iter delle leggi, ma che ancora trova molti oppositori in Parlamento.
Carlo Bertini
(da “La Stampa”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile UN RISPARMIO POSSIBILE DI 4,3 MILIARDI SENZA TAGLIARE I SERVIZI, MA LA REGIONE NON E’ RIUSCITA AD ACCENTRARE LA GESTIONE DELLA SPESA
Doveva rimettere in sesto i conti della sanità regionale e fare del Lazio un esempio da seguire in Europa. 
E invece l’operazione San.Im, una delle prime cartolarizzazioni della sanità pubblica nel Vecchio continente, si è trasformata in un pesante fardello per i conti dell’ente guidato da Nicola Zingaretti.
Lo evidenziano i numeri del 2012, registrati dall’Osservatorio sul debito della Regione Lazio, che mostrano come, sui 10,7 miliardi di passività dell’ente, 1 miliardo sia legato alla San.Im, società pubblica interamente controllata dall’ente.
Non solo: l’azienda ha anche generato ben 83 milioni di oneri finanziari, somma che corrisponde alla quasi la totalità dell’omonima voce nel bilancio sanitario regionale.
Ma come è possibile, visto l’obiettivo con cui è nata, che San.Im si sia trasformata in un onere così pesante per i conti della Regione?
Semplice: l’operazione era politicamente conveniente perchè rimandava inevitabili tagli, ma non economicamente interessante, perchè metteva un’ipoteca sui futuri bilanci della sanità laziale.
La San.Im è stata infatti creata dalla Regione Lazio a metà del 2002, quando sulla poltrona di presidente sedeva Francesco Storace e il deficit della sanità regionale aveva superato la cifra stratosferica di 1,5 miliardi l’anno.
Per correre ai ripari, evitando dolorosi tagli, Storace aveva pensato di affidarsi alla finanza speculativa.
Attraverso la San.Im, la Regione ha infatti acquistato dalle Asl le mura di 56 ospedali per 1,94 miliardi.
Il denaro necessario all’operazione è stato raccolto attraverso la cessione dei crediti trentennali degli affitti delle Asl a un’altra azienda pubblica, Cartesio, che ha emesso a sua volta obbligazioni garantite dai titoli ricevuti.
Con tanto di derivato al seguito, prodotto da Unicredit, Bnl, JP Morgan e Dexia Crediop.
Un giro del fumo che ha permesso un maquillage dei conti delle Asl, ma che nel contempo ha fatto lievitare fino al 2023 i costi non sanitari della Regione Lazio, con oneri finanziari e commissioni bancarie che sfuggono ancora oggi ai tagli di Zingaretti.
La San.Im non è però l’unico centro di costo a essere fuori dal radar dell’attuale governatore del Lazio, dove operano dodici aziende sanitarie (Asl), sette strutture ospedaliere (San Camillo-Forlanini, San Giovanni-Addolorata, San Filippo Neri, Policlinico Umberto I, S. Andrea, Policlinico Tor Vergata, Ares 118) e due Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Ifo, Inmi-Spallanzani).
Sul fronte della spesa sanitaria l’ente, insieme a Lombardia e Campania, è quello che mette a bilancio i costi più alti d’Italia, con uscite pro-capite 2012 superiori ai 2mila euro. E registra oltre 10 miliardi di ricavi.
Ma non ha ancora fatto il lavoro di trasparenza richiesto alla Gestione sanitaria accentrata, che deve monitorare la spesa per singola Asl e fornire informazioni più dettagliate rispetto a quelle raccolte dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali.
Un’analisi inedita e puntuale della situazione del sistema sanitario regionale e delle singole Asl però esiste.
E’ stata condotta in autonomia da due ricercatori Istat, Monica Montella e Franco Mostacci, che hanno rilevato circa 4,3 miliardi di costi che potrebbero essere rimodulati evitando tagli dei servizi ai cittadini.
Tre miliardi di euro, sui 4,3 complessivi, sono per affidamento di servizi sanitari a privati con contratti che cambiano notevolmente a seconda del committente.
Per farsi un’idea delle diverse situazioni che si riscontrano nei conti della sanità laziale basti pensare che la sola Asl Roma E, quella che comprende la zona centro-nord della capitale, ha speso nel 2012 circa 525 milioni per strutture convenzionate. La Asl Roma G, che serve l’area Nord-Est oltre il grande raccordo, ha invece pagato 27 milioni esclusivamente per prestazioni di psichiatria residenziale e semiresidenziale.
Passando in rassegna, invece, la spesa non sanitaria, ci sono 885 milioni di spesa utilizzati per polizze assicurative, pulizia e altri servizi appaltati affidati in conto terzi. E anche qui ogni azienda ospedaliera costituisce un mondo a sè.
Al Sant’Andrea si spendono per premi di assicurazione 5 milioni di euro, mentre al San-Giovanni-Addolorata soltanto 230mila euro perchè, al pari del policlinico Umberto I e dell’Ifo, le strutture fanno a meno delle polizze per responsabilità civile professionale.
Nell’Asl di Rieti gli “altri oneri di gestione”, che includono indennità e rimborsi spese per gli organi direttivi, hanno un’incidenza tre volte superiore alla media regionale con una spesa di 2 milioni di euro.
All’ospedale San Filippo Neri le spese di pulizia sono quasi cinque volte superiori alla media laziale, mentre sui conti dell’Asl Roma B pesano le spese per i servizi non sanitari come vigilanza (2,8 milioni di euro), assistenza tecnico-programmatica (5 milioni), contratti multiservizio (8,8 milioni) e costi per appalti (1,9 milioni).
Uno scenario confuso che la centrale unica di monitoraggio avrebbe permesso di analizzare al meglio.
Dando un dettaglio puntuale di quella spesa sanitaria che Zingaretti vuole far quadrare tagliando 400 primari su 1.123 e accorpando due Asl sulla base della spending review delineata dall’ex ministro Renato Balduzzi.
Senza peraltro rinegoziare gli impegni della San.Im.
Fiorina Capozzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile APRE LA TERZA LINEA: ERA ATTESA PER IL GIUBILEO, APPENA 14 ANNI FA
Si è guadagnato il titolo di incompiuta più costosa d’Europa. Alla fine il metrò del Giubileo è partito con quattordici anni di ritardo e un imprevisto: il convoglio delle 5,30 si è bloccato quattro fermate prima del capolinea di Pantano-Montecompatri (zona Castelli romani).
Uno stop di 11 minuti alla stazione Due Leoni-Fontana Candida. «Il treno si è fermato alcuni minuti per consentire la soluzione di un problema tecnico proprio per evitare limitazioni e completare la corsa», si è poi giustificata l’Atac.
C’è sempre stato troppo ottimismo sulla linea C.
Quando negli Anni 90 fu messo a punto il progetto in preparazione dell’Anno Santo, nelle periferie romane le case guadagnarono subito valore. Errore. C’era ancora da scavare quasi un quarto di secolo dribblando scandali e bocciature tecniche degli standard di qualità .
Un’opera all’avanguardia gravata da due inchieste: una dei pm della Capitale, una della Corte dei Conti per un danno erariale di 364 milioni di euro.
Tra polemiche e carte bollate, i suoi cantieri sono parte del paesaggio delle borgate romane. L’obiettivo è aprire la seconda tratta (Centocelle-Lodi) nei primi mesi del 2015 e poi fino a San Giovanni. Poi ancora Colosseo, piazza Venezia fino a San Pietro.
L’opera, ultimata, potrebbe raggiungere i 4 miliardi di costi e i 25 km di percorso: 160 milioni a chilometro. Ma è comunque una svolta storica per la mobilità urbana: i pendolari non dovranno più districarsi tra coincidenze di autobus e tragitti alternativi. Una rivoluzione per i popolosissimi quartieri-dormitorio attorno all’Urbe.
Per curiosa coincidenza Roma inaugura con 14 anni i di ritardo la sua terza linea metropolitana (la più lenta e costosa d’Europa), mentre Milano festeggia il mezzo secolo della «mm rossa».
La linea doveva essere pronta per il Giubileo, ma tra ritardi, variazioni di percorso, inchieste della magistratura, costi schizzati (per ora) a due miliardi di euro, solo ora migliaia di passeggeri possono viaggiare sul tratto che collega Pantano sulla Casilina a Centocelle, periferia est.
Ieri ha aperto i battenti la strada ferrata finora paralizzata da stop della commissione tecnica del ministero dei Trasporti e inchieste della procura. Un calvario burocratico: autorizzazioni del ministero, convocazioni della direzione generali per il trasporto pubblico locale, verifiche sul campo, passaggi alle commissioni sicurezza e agibilità , abilitazione dei dipendenti, sopralluoghi dell’ufficio Ustif delle Infrastrutture.
Sono collegati quartieri finora confinati ai margini della capitale.
Centocelle, Alessandrino, Torre Spaccata, Torre Maura, Borghesiana, Finocchio. L’intero tracciato si sviluppa parallelo alla via Casilina.
I treni non hanno conducente e sono controllati da una postazione remota.
Ma prima di essere inaugurata, la C si era allagata con il nubifragio che ha colpito Roma la scorsa settimana: l’acqua è arrivata negli atri delle stazioni Giardinetti e Grotte Celoni. Il procuratore della Corte dei Conti del Lazio ha contestato un danno per l’erario tra il 2006 e il 2010 a causa del rinvio dei lavori e di un aumento dei costi di 364 milioni.
Negli snodi di San Giovanni e Colosseo, Italia Nostra certifica ritrovamenti archeologici nel sottosuolo e rischi per la stabilità del monumento più famoso di Roma.
Giacomo Galeazzi
(da “L’Espresso”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile L’INCERTEZZA DEL RE
L’uomo del Colle non conferma e non smentisce. Precisa che “la questione delle eventuali dimissioni è nota
da tempo”. Ricorda che il secondo mandato l’aveva accettato ponendo “limiti e condizioni”, ossia la realizzazione delle riforme.
Rivendica di essere “nella pienezza delle funzioni”. Ma la partita del Quirinale ormai è iniziata.
E si intreccia a quella per la nuova legge elettorale.
Lo conferma indirettamente il Renzi che ripete per la milionesima volta: “Dureremo fino al 2018”.
Lo ribadisce soprattutto Il Mattinale, voce di Forza Italia, che va in frontale proprio contro di lui, Giorgio Napolitano: “Mette in atto un ricatto morale, vuole subito la legge elettorale. Ma allora si può dimettere adesso”.
Dopo un sabato di silenzio, Napolitano risponde con una nota alle anticipazioni giornalistiche che raccontavano di un presidente stanco, con sfibranti fastidi fisici, pronto a lasciare tra poche settimane: al massimo entro gennaio.
“I giornali — scrive il Quirinale — hanno dato ampio spazio a ipotesi e previsioni relative alle eventuali dimissioni del Presidente della Repubblica. Ma Giorgio Napolitano , alla sua rielezione, indicò i limiti e le condizioni — anche temporali — entro cui accettava il nuovo mandato”.
Il Colle “ non smentisce e non conferma nessuna libera trattazione dell’argomento”. E rimette i paletti: “Restano esclusiva responsabilità del Capo dello Stato il bilancio di questa fase di straordinario prolungamento, e di conseguenza le decisioni che riterrà di dover prendere, delle quali offrirà ampia motivazione”.
Non vuole farsi tirare per la proverbiale giacchetta, Napolitano.
Neppure dal Pd, che lo vorrebbe ancora in sella almeno per qualche mese.
Il suo addio all’inizio del 2015 rimane più che probabile. L’ennesimo indizio può essere un altro passaggio del comunicato: le condizioni poste a inizio del mandato “non hanno impedito e non impediscono al presidente di esercitare nella loro pienezza tutte le funzioni attribuitegli dalla Costituzione, tenendo conto anche della speciale circostanza della Presidenza italiana del semestre europeo”.
Presidenza che, appunto, scade il prossimo primo gennaio.
La certezza è che Napolitano non vuole sentirsi un presidente dimezzato, indebolito. I ripetuti riferimenti a funzioni e prerogative sono un chiaro avviso ai naviganti. A margine, le voci.
Quelle secondo cui Napolitano “non si dimetterà senza un accordo di massima sul suo successore”.
Pesano certamente di piu le reazioni alla nota. Palazzo Chigi che ufficiosamente esprime “massima riconoscenza e rispetto” a Napolitano, “garante e presidio”.
Sulla linea inversa Il Mattinale, la nota politica dello staff di Forza Italia.
Che accusa Napolitano di “ricatto morale”: ovvero di minacciare le dimissioni per sbloccare la trattativa sull’Italicum. Un attacco nero su bianco: “In quale articolo della Costituzione è scritto che il presidente può esercitare una pressione su tempi e temi dell’azione del governo e del lavoro del Parlamento?
La fretta nel volere ora la riforma elettorale subito e per il comodo del Pd nasce da questo super-annuncio. Allora si dimetta ora, adesso”.
Non a caso, in serata Renzi fa sapere: “Noi andiamo avanti con urgenza e determinazione sulle riforme, sapendo che l’orizzonte del governo è il 2018”.
Ossia, sull’Italicum si va di fretta. Ma le urne a breve, l’eterno timore di Berlusconi, non sono previste.
In parallelo, Graziano Delrio: “Quando sarà , noi auspichiamo la massima convergenza di tutte le forze politiche per il successore”.
Un altro segnale a B: apri sull’Italicum, e noi non “strapparemo sul Colle”. Ma il prossimo presidente non è solo un affare da patto del Nazareno.
Ieri sul Fatto Giuseppe Civati si è rivolto ai Cinque Stelle: “Una convergenza con loro sarebbe più naturale di quella con Fi, se il fronte dei grillini diventa serio potremmo tornare su Prodi”. Ma il senatore Nicola Morra sbarra la porta: “Forse Civati potrebbe comprare il coraggio politico su eBay, visto che parla sempre contro Renzi ma non ne trae le conseguenze. Prodi? Mi sembra anche lui da vecchia politica, anche se fu tra le indicazioni dei nostri iscritti”.
Ma l’M5S come si regolerà questa volta? “Ci sono tanti nomi nel nostro mondo. Dario Fo? Perchè no, è un padre culturale”.
Il metodo della Consulta è replicabile per il Colle? Di Maio dice di sì. “Di certo noi vogliamo portare il confronto in pubblico, in Parlamento”.
Luca De Carolis
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile ITALIA UNICA SOSTERRA’ ANCHE SINDACI CHE CONDIVIDERANNO IL SUO PROGRAMMA
Corrado Passera ha scelto le comunali per la sua discesa in campo.
L’ex ministro del governo Monti presenterà la sua lista alle prossime elezioni amministrative, previste per la primavera 2015.
Quello che fino a ieri era una sorta di think tank, incubatore di idee, progetto politico si trasformerà in un vero e proprio partito.
Il nome non cambierà : Italia Unica, battezzato in una convention nel febbraio scorso, sarà così la new entry della prossima campagna elettorale.
Alle comunali ma non alle regionali perchè il partito che sarà ha, tra gli altri, come punto del proprio programma l’abolizione delle Regioni.
E così che come primo passo Passera ha deciso di scrivere una lettera a tutti gli 8 mila sindaci, invitandoli a contribuire al — si legge nella lettera che Huffpost è in grado di anticipare — “cantiere delle buone idee”.
Un modo nella sostanza per invitarli a tenere in considerazione il nuovo progetto politico ed eventualmente appoggiarlo.
L’intenzione dell’ex ad Intesa Sanpaolo è infatti doppia: da una parte presentare nomi nuovi, scelti attraverso una consultazione con le forze territoriali, versione aggiornata delle più antiche sezioni di partito.
Dall’altra sostenere sindaci uscenti che condividano il progetto politico: e già si fanno alcuni nomi di spicco tra cui il sindaco di Verona il leghista Flavio Tosi e quello di Ascoli, il forzista Guido Castelli.
Oltre ad altri “minori” come il primo cittadino di Sabaudia, in provincia di Latina. “Ai sindaci Passera — spiega le ragioni di questa scelta il braccio destro Lelio Alfonso – propone l’avvio di un dialogo concreto, basato sulla proposta di una rivoluzione semplicissima che lo Stato centrale si ostina a rinviare nonostante le promesse.
Quello – conclude – della responsabilizzazione virtuosa delle risorse a disposizione della comunità territoriale. Perchè i sindaci, come madri o padri di famiglia, non sprecano il denaro”.
La sfida è lanciata e non solo nei singoli comuni ma anche sul piano nazionale all’ex sindaco Matteo Renzi.
Premier che nella sua nuova veste di capo del governo non smette di sponsorizzare il “modello sindaco” (e non solo per quanto riguarda la legge elettorale) come il migliore possibile.
Passera parte dai Comuni dunque senza però perdere di vista il piano nazionale, perchè se mai la situazione dovesse precipitare e si andasse a votare, Italia Unica sarebbe pronta a presentarsi anche alle prossime elezioni politiche.
(da “Huffingtonpost“)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile L’ACCUSA E’ PECULATO, COINVOLTI TUTTI I GRUPPI POLITICI
Sono 41 gli avvisi di fine indagine per la maxi inchiesta sulle spese pazze nel consiglio regionale (ora uscente)
dell’Emilia Romagna.
Arrivano a meno di due settimane dalle elezioni regionali del prossimo 23 novembre. L’accusa è principalmente quella di peculato (e truffa in pochissimi casi).
I primi a ricevere le contestazioni sarebbero stati già gli otto capigruppo in carica tra il 2010 e il 2011, il periodo che era stato preso di mira dalla magistratura.
Gli otto presidenti dei gruppi erano finiti nel registro degli indagati già un anno fa in quanto ritenuti, ognuno per il proprio partito, responsabili per l’intero ammontare di quelle spese dei loro colleghi di partito: questi sono Marco Monari del Partito democratico, Luigi Giuseppe Villani del Popolo delle libertà , Silvia Noè dell’Unione di centro, Gian Guido Naldi di Sinistra ecologia e libertà , Roberto Sconciaforni della Federazione della sinistra, Matteo Riva del Gruppo Misto, Andrea Defranceschi ex del Movimento 5 stelle, Liana Barbati dell’Italia dei valori, mentre l’allora capogruppo della Lega nord, Mauro Manfredini è scomparso di recente.
In totale la somma contestata a tutti i 41 consiglieri è pari a oltre 2 milioni di euro, che sarebbero così suddivisi: 940 mila euro al Pd (con 18 indagati su 24 consiglieri totali nel periodo a cui si riferisce l’inchiesta); 205 mila al Pdl (11 indagati su 11); 423 mila euro all’Idv (2 indagati su 3); 151 mila euro alla Fds (1 indagato su 2); 77 mila a Sel (2 indagati su 2); 135 mila alla Lega nord (3 indagati su 4); 31 mila euro all’Udc (1 indagato su uu consigliere); 98 mila euro al M5s (2 indagati su 2); 27 mila euro al gruppo misto (1 indagato su 1).
Oltre ai 41 politici tra gli indagati ci sarebbe anche una collaboratrice di Matteo Riva del gruppo misto.
Ora, con la chiusura dell’inchiesta partita nel 2012, quando i furgoni della Guardia di Finanza fecero visita ai palazzi di Viale Aldo Moro per sequestrare centinaia di faldoni, si aggiungono ai capigruppo anche una trentina di nuovi indagati tra i colleghi consiglieri.
Il maggior numero appartiene al Partito Democratico, che però era di gran lunga anche il gruppo più numeroso all’interno della assemblea uscente.
L’inchiesta è delle pm Morena Plazzi e Antonella Scandellari, coordinate dal procuratore capo Roberto Alfonso assieme all’aggiunto Valter Giovannini.
Questa la lista completa degli indagati del Partito democratico: Marco Monari, Marco Barbieri, Marco Carini, Thomas Casadei, Gabriele Ferrari, Vladimiro Fiammenghi, Roberto Garbi, Paola Marani, Mario Mazzotti, Roberto Montanari, Rita Moriconi, Antonio Mumolo, Giuseppe Pagani, Anna Pariani, Roberto Piva, Luciano Vecchi, Damiano Zoffoli, Matteo Richetti. Del Pdl: Luigi Villani, Enrico Aimi, Luca Bartolini, Gian Guido Bazzoni, Galeazzo Bignami, Fabio Filippi, Andrea Leoni, Marco Lombardi, Andrea Pollastri, Mauro Malaguti, Alberto Vecchi.
Del gruppo misto: Matteo Riva (ex Idv). In concorso con lui risponde la segretaria del gruppo Rossella Bolino.
Della Lega Nord: Manes Bernardini, Stefano Cavalli, Stefano Corradi. Con loro c’era Mauro Manfredini, nel frattempo deceduto.
Di Sel: Gian Guido Naldi e Gabriella Meo. Della Federazione della Sinistra: Roberto Sconciaforni.
Dell’Idv: Liana Barbati e Sandro Mandini.
Del M5s: Andrea De Franceschi e Giovanni Favia, entrambi espulsi nel frattempo dal movimento.
Dell’Udc: Silvia Noè.
Già diversi nomi erano usciti in questi lunghi mesi di indagini su scontrini e ricevute sequestrati, e l’inchiesta aveva portato le sue conseguenze anche sulla campagna elettorale in corso.
Tra i politici sotto inchiesta, ai primi di settembre, comparvero anche Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, entrambi accusati di peculato.
Il primo, allora in corsa nelle primarie per la corsa a governatore, si ritirò dalla competizione: la procura della Repubblica gli contestava poche migliaia di euro, soprattutto pernottamenti in hotel in occasione di manifestazioni politiche.
Bonaccini rimase invece in corsa per le primarie Pd (poi vinte), e dopo essersi fatto interrogare, i magistrati hanno chiesto per lui l’archiviazione.
Andrea Defranceschi, capogruppo uscente del Movimento 5 stelle, si è visto escluso dalle primarie per le regionali, proprio per il fatto di essere stato indagato in questa maxi-inchiesta.
Tra le spese contestate a una delle consigliere indagate è spuntato addirittura un sex toy.
Poi regali di compleanno e anche molti costi per le cosiddette interviste a pagamento. In questi ultimi 12 mesi erano state alcuni dei rimborsi richiesti dai consiglieri, e venuti a galla nelle indagini, a far discutere.
Thomas Casadei del Pd aveva chiesto rimborso per due scontrini da 50 centesimi per i wc pubblici. “Se è successo è stata certamente una svista”, si era difeso.
Sulla carta di credito di Marco Monari, capogruppo del Pd, nei 19 mesi che vanno da marzo 2010 a fine 2011 furono rintracciate spese per 30 mila euro in cene.
Anche se in questo caso, essendo Monari capogruppo, non è chiaro se alle cene partecipasse lui o altri suoi colleghi del gruppo.
Stesso discorso vale per Luigi Giuseppe Villani: sul conto del capogruppo Pdl, in quello stesso periodo di tempo, i pasti in ristorante ammontavano a 43 mila euro.
A Natale 2010 tra i rimborsi dei consiglieri regionali Pdl fu trovato persino un gioiello di Tiffany. Silvia Noè dell’Udc, cognata di Pierferdinando Casini, mise a rimborso le ricevute di due cene di beneficenza.
“Se alcune centinaia di euro sono state finalizzate in questi dieci anni per sostenere attività benefiche o di solidarietà , francamente non lo ritengo così deplorevole”, era stata la sua difesa. Su queste stesse spese anche la procura della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna sta indagando e presto, per molti consiglieri, potrebbero partire gli atti di citazione davanti ai giudici.
Tra le spese contestate ai consiglieri regionali ci sono anche quelle per manifestazioni politiche di carattere nazionale che secondo le pm non sarebbero state inerenti alla funzione di consiglieri regionali.
Su questi pagamenti anche la procura della Corte dei Conti dell’Emilia Romagna sta indagando e presto, per molti consiglieri, potrebbero partire gli atti di citazione davanti ai giudici.
David Marceddu
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile LA COMMISSIONE MINACCIA UNA NUOVA CORREZIONE DA 3,3 MILIARDI SUL 2015
Palazzo Chigi tira dritto sul Jobs act e stila un calendario serrato: chiudere entro dicembre, varare i decreti attuativi sui quali sono già al lavoro i tecnici e avere regole certe a partire dal 1° gennaio del 2015.
La posizione del governo va ad impattare sul percorso parlamentare della legge di Stabilità che questa settimana comincia l’esame in Commissione Bilancio con l’obiettivo di consegnare il testo all’aula entro il 24 novembre, data che potrebbe slittare di un paio di giorni come spesso avviene.
Il rischio è quello di un «incrocio»: per assecondare il timing del governo potrebbe essere necessario dunque anticipare l’esame del Jobs act rispetto alla legge di Stabilità : la valutazione che viene fatta in Commissione Bilancio è che il ritardo potrebbe spostare la data di consegna della “Finanziaria” al Senato verso il 10 dicembre.
Comprimendo l’esame di Palazzo Madama. A decidere sarà martedì la conferenza dei capigruppo in accordo con ministro dei rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi.
Naturalmente la questione non è solo procedurale: dopo la fiducia al Senato (il 9 ottobre) al Jobs act, la minoranza Pd ha detto esplicitamente che vuole modifiche, soprattutto sul tema nodale dell’articolo 18, oggetto delle agitazioni sindacali di questi giorni, e che non intende votare una nuova fiducia al Senato (fiducia che peraltro Palazzo Chigi vuole utilizzate a Montecitorio solo se necessaria).
La partita della legge di Stabilità non ha ancora un esito scontato.
In prima linea il Tfr in busta paga, al quale Palazzo Chigi non vuole rinunciare, ma che il Tesoro ha già annunciato di essere pronto a cambiare.
L’intervento che sembra più gettonato è quello di ridurre le tasse a chi chiede l’anticipo instaurando una neutralità fiscale con chi riscuote a fine rapporto.
L’altra ipotesi di cambiamento, peraltro chiesta da tutti i gruppi parlamentari, riguarda la riduzione delle tasse sul rendimento dei fondi pensione.
Roberto Petrini
(da “La Repubblica”)
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Novembre 10th, 2014 Riccardo Fucile PROTETTO DALLA POLIZIA VA A PROVOCARE AL CAMPO PROFUGHI DOVE NON LO CONSIDERA NESSUNO E ALLORA PROPONE IL SUO REPERTORIO GIOVANILE… POI ANNULLA LE VISITE A PIEVE DI CENTO E CASALECCHIO DELUDENDO IL COMITATO ACCOGLIENZA PROFUGHI DALLA PADAGNA DEL MAGNA MAGNA
Dopo l’episodio nei pressi del campo sinti di Bologna, tensione anche a Imola per la visita del leader della
Lega Nord, Matteo Salvini.
Dopo un tranquillo comizio davanti all’ex cooperativa Terremerse, che fu presieduta dal fratello del presidente della Regione Vasco Errani, poi condannato e per questo dimessosi, un gruppo di manifestanti blocca gli accessi alla struttura di via Bergullo che ospita una trentina di profughi del Bangladesh.
La zona è presidiata dalle forze dell’ordine. “O tutti, senza se e senza ma, condannano e rifiutano qualsiasi tipo di violenza, oppure io mi fermo”.
Al centro profughi Salvini ha intonato “Bella ciao”.
Gli immigrati hanno risposto con qualche urla, ma senza incidenti.
Il corteo del leader era riuscito a entrare al centro ‘La Pascola’ di via Bergullo da un ingresso secondario, accompagnato regolarmente dalla scorta di polizia, con cui, si è appreso, a differenza che sabato a Bologna, aveva concordato ora e luogo dell’appuntamento con le forze dell’ordine.
Una volta uscito, il corteo è stato affrontato da cinque ragazzi dei centri sociali, ma un commissario di Ps, sceso dalla vettura di scorta, li ha convinti in un attimo a farsi da parte e a far ripartire Salvini e i suoi, senza il minimo problema.
Matteo Salvini è oggi di nuovo in Emilia per la campagna elettorale. Un viaggio tra Imola e Castel San Pietro dove sono nate altre tensioni con i dimostranti.
Annullati improvvisamente tutti gli impegni del pomeriggio, da Pieve di Cento a Casalecchio.
Il Siulp, con il segretario generale Felice Romano, intercetta il malumore della Questura e afferma: “Essere sottoposti a tutela presuppone l’accettazione di regole, come l’obbligo di comunicare dove e quando si intende spostarsi”.
Cosa che Salvini non ha fatto ed è stato sorpreso da quelli di Hobo.
La tutela di cui gode Salvini non può cioè essere usata o non usata a piacimento, stando alle regole.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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