Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
RIUNIONE DI AREA RIFORMISTA A MILANO
“Modernizzatori contro cavernicoli? Non si può mica raccontare così il Pd, io non accetto lezioni di innovazione da nessuno, guardiamo i fatti, mica le chiacchiere…”. Pierluigi Bersani scalda la platea di Area riformista riunita a Milano per una mattinata dedicata alla “sinistra di governo”, quell’ala della minoranza guidata ora dai giovani Roberto Speranza e Maurizio Martina che definisce una “follia” anche solo parlare di scissione e vuole essere “leale” col governo pur da una posizione di “autonomia”.
Ma se i due giovani cercano di rivendicare i risultati ottenuti dalla minoranza, a partire da legge elettorale e Jobs Act, dopo una lunga mediazione con Renzi, i “vecchi leoni” come Bersani e anche Guglielmo Epifani picchiano duro sul premier-segretario. Bersani mette nel mirino non solo l’articolo 18 (“Approccio sbagliato, ora è difficile rimettere il dentifricio nel tubetto”), ma anche il patto del Nazareno: “Dopo l’ultimo incontro Mediaset ha guadagnato il 6% in borsa, allora sto patto sarebbe giusto allargarlo a tutte le imprese, non a una sola…”.
“Non c’è nessuna ragione di legarsi a un patto con Berlusconi, alla lunga può venir fuori l’idea di un trasversalismo paludoso…”.
L’ex leader non è soddisfatto neppure sulla legge elettorale: “Per me il no ai nominati è un punto insuperabile, e credo che in Parlamento se si vuole una maggioranza si trova…”.
Bersani, come Speranza, respinge ancora una volta ogni ipotesi di scissione: “Dobbiamo restare nel Pd e impedire che la nostra gente se ne vada, tenere accesa una fiammella, la sinistra non si risolve nelle parole merito e opportunità , e l’imprenditore e il lavoratore non sono la stessa cosa, ma due figure diverse ognuna con la propria dignità ”.
Anche Epifani è insolitamente duro: “Una fase difficile come questa non si governa alimentando le tensioni sociali, se si eliminano i corpi intermedi si rischia uno sfilacciamento sociale che poi è difficilmente recuperabile”.
Cesare Damiano esordisce parlando a “compagne e compagni”, poi rivendica la mediazione sul Jobs Act: “Quando si ottiene qualcosa bisogna essere orgogliosi, e tuttavia io credo che questa riforma non reggerà alla prova dei fatti”.
Il ministro Martina e il capogruppo alla Camera Speranza fanno la parte dei dialoganti: “Dobbiamo dare una mano al Pd e al governo”, esordisce il primo, ”dobbiamo contribuire alla sfida del governo con le nostre idee, con autonomia e responsabilità , la legge di Stabilità contiene azioni espansive, e anche sulla legge elettorale si sta uscendo dal senso unico del rapporto con Berlusconi, anche grazie a noi”. Su un punto però anche i due giovani leader concordano: “Sui nominati la partita non è finita, c’è una battaglia da fare e la faremo”.
Speranza tira le fila della mattinata: “A Renzi l’ho detto più volte, non servono i ‘signorsì’ e noi non lo saremo. Qui di renziani della quinta o sesta ora non ce ne sono e non ce ne saranno. Noi lavoriamo a un’alternativa, io mi batterò per questo”.
Per Speranza, politico mite, è una sorta di autocandidatura (in largo anticipo) al dopo Renzi. E del resto tutta la regia della mattinata, con la relazione finale affidata al capogruppo, fa capire che è questa la scelta di Area riformista.
“Noi non stiamo con chi ogni giorno vuole tirare freccette al governo, siamo autonomi e diversi da Renzi con la nostra cultura politica”, spiega Speranza.
E aggiunge, rivolto a chi come Fassina e Civati anche venerdì a Milano ha marciato con la Fiom e la Cgil: “Noi lavoriamo per un ponte tra quelle piazze e il Parlamento, e capisco chi si sente a casa sotto quelle bandiere. Ma l’identità di una sinistra riformista va molto oltre quel campo”.
Alla domanda su “stiamo dentro o fuori?”, posta con vis pole mica dal sottosegretario Luciano Pizzetti, la risposta dei presenti è univoca.
“Dobbiamo compartecipare per incidere, altrimenti alimentiamo l’abbandono silenzioso di tanti nostri compagni”, avverte Pizzetti, che per il governo segue i delicatissimo dossier delle riforme istituzionali. Damiano chiede a Landini “rispetto per il lavoro del Parlamento”, Martina invece strapazza i renziani che hanno ironizzato sullo sciopero il 5 dicembre alla vigilia del ponte: “Non deve accadere più, le manifestazioni si rispettano”.
All’appello manca però una larga fetta della minoranza. A Milano sfilano molti parlamentari, ma non ci sono Civati e i suoi, e neppure la Bindi e Cuperlo (“Non mi hanno invitato”).
Assenti anche i duri dell’ala bersaniana, da Fassina a D’Attorre e Davide Zoggia. Che spiega: “L’accordo sul Jobs Act ci riporta alle conclusioni della direzione Pd di settembre, a cui molti di noi avevano votato contro. Non mi sembra un successo. Anche Zoggia, come Francesco Boccia, non ha ancora deciso come votare in Aula sul Jobs Act. Mentre Civati e Fassina sono orientati verso il no.
I bersaniani lavorano a riunire tutte le anime della minoranza. Appuntamento a martedì, con la presentazione di un pacchetto di emendamenti alla legge di Stabilità condivisi da tutte le minoranze, che mirano, in particolare, a cancellare l’aumento di tasse sui fondi pensione, a ridefinire i tetti per i bonus 80 euro e bebè (a favore dei ceti più deboli), a limitare gli sgravi fiscali solo “alle assunzioni aggiuntive e non a quelle sostitutive” e a destinare i proventi delle privatizzazioni a un piano contro il dissesto idrogeologico.
L’obiettivo è quello di tenere dentro anche Civati, sempre più vicino a Sel, convincendolo che “la partita si può ancora giocare dentro il Pd”.
E’ la “fiammella” di cui parla Bersani. Che conclude lodando l’iniziativa: “In sto partito non si riesce mai a discutere. Bisognerà che organizziamo qualcosa noi…”. “Sulle politiche industriali e gli investimenti pubblici bisogna farsi venire delle idee, andare più a fondo nei problemi. E se Renzi non ce lo farà fare lo faremo lo stesso…”
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
REGIONI E COMUNI POTRANNO VENDERE GLI ALLOGGI PUBBLICI “A PREZZO DI MERCATO”
La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana è una storia di fallimenti: non è un caso che lo storico Guido
Crainz l’abbia assunta a emblema della sua descrizione del Paese mancato, quello che s’è rifiutato di governare la sua modernizzazione.
Il primo che tentò di dare una soluzione coerente al problema fu Fiorentino Sullo, democristiano irpino della sinistra Dc, ai tempi del “centrosinistra di programma” guidato da Amintore Fanfani: ebbene la sua legge urbanistica fu osteggiata in maniera tanto violenta che lui stesso raccontò che a casa, per Natale, i parenti gli chiedevano se era vero che voleva espropriargli la casa.
Ne venne fuori una riforma fiacca (la legge 167), che seppure con mille difetti portò a un incremento dell’edilizia pubblica, le “case popolari”.
Ebbene, tra poco quella storia arriverà metaforicamente alla fine.
La Conferenza Stato-Regioni, infatti, si appresta — probabilmente alla prima data utile — ad approvare un decreto attuativo emanato il 27 agosto dal ministero delle Infrastrutture che disciplina la messa in vendita di tutte le case popolari ex Iacp e di enti vari oggi in mano a regioni ed enti locali: gli immobili andranno valutati “al valore di mercato” e messi all’asta a cominciare da quei complessi in cui la proprietà pubblica è inferiore al 50%.
L’unica facilitazione per gli inquilini, se così si può dire, è che potranno comprarsi il loro appartamento pareggiando l’offerta vincitrice dell’asta: se si muoveranno grandi gruppi immobiliari, la cosa potrebbe prendere una brutta piega per famiglie (spesso di pensionati) che evidentemente non hanno grandi mezzi economici (altrimenti non sarebbero inquilini di case popolari).
Attacca Angelo Fascetti dell’Asia-Usb, l’associazione degli inquilini dell’Unione sindacale di base (Usb): “Il governo Renzi-Lupi avvia un processo di cancellazione definitiva di quel poco che resta dell’edilizia residenziale pubblica e questo accade in un Paese dove l’unico segmento carente del mercato abitativo è proprio quello dell’alloggio a canone sociale e calmierato. Guarda caso — sostiene il sindacalista — proprio in questi giorni è partita una feroce campagna mediatica contro le case popolari, a Milano e altrove, che partendo dalla denuncia del fenomeno delle occupazioni , favorito da una colpevole mancanza di gestione del patrimonio, prepara il terreno alla totale privatizzazione dell’edilizia pubblica per favorire ancora la speculazione immobiliare e la rendita”.
Va detto che le regioni (cui spetta la competenza sulle politiche per la casa) possono rifiutarsi di applicare “il metodo Lupi” — il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, ha già fatto sapere che non lo farà —, ma il dato simbolico resta: il decreto che consente di vendere “al valore di mercato” i circa 770 mila alloggi di edilizia popolare arriva proprio mentre i nuovi tagli ai trasferimenti costringono regioni e comuni a recuperare risorse in ogni modo.
D’altronde tra i settori più colpiti in questi anni di tagli ci sono proprio le “politiche abitative” e ora il governo “consiglia” a sindaci e governatori di vendersi le case popolari e finanziare così “nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica” o una “manutenzione straordinaria del patrimonio esistente” (e magari poi venderlo). Peraltro pure la consistenza economica non è certa: il Tesoro, dati del 2010, quantificava il valore dell’intero stock delle “case popolari” (900 mila appartamenti compresi quelli di “edilizia privata sociale”) in circa 150 miliardi, Federcasa invece lo valutava meno della metà .
D’altronde, ha spiegato Raffaele Lungarella su lavoce.info, “anche ipotizzando che il prezzo incassato dalla vendita di un alloggio sia sufficiente a coprire i costi per la costruzione di uno nuovo, l’offerta non crescerebbe affatto, considerato che l’inquilino che non acquista deve essere spostato in un’altra casa di proprietà pubblica”.
Certo, l’altra opzione è buttarlo in mezzo a una strada, ma sarebbe un comportamento un po’ rischioso per chi voglia presentarsi ad altre elezioni.
L’unico dato certo, infatti, è che l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi — assieme alla Spagna — con la minor percentuale di edilizia popolare pubblica: forse anche per questo la percentuale di chi decide di stare in affitto è così bassa (meno del 19% contro una media Ue di oltre il 28).
Secondo dati Eurostat del 2011, in Italia solo il 5,3% delle famiglie (pari a circa 1,3 milioni di nuclei su 24,9 totali, di cui 4,7 in affitto) beneficia di forme di sostegno per la casa contro il 7,7% europeo che però diventa il 17% in Francia, il 18% in Gran Bretagna, il 32% nei Paesi Bassi.
La situazione dal 2011 è peraltro peggiorata: molti paesi europei, allo scatenarsi della crisi, hanno lanciato nuovi programmi di edilizia pubblica, l’Italia li ha solo annunciati.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
SIAMO UFFICIALMENTE IL MALATO D’EUROPA, L’UNICO A VIVERE, INSIEME A CIPRO, UNA TERZA RECESSIONE
Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini di errore di queste stime.
Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto
dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla.
Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti.
Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita.
Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più.
Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità , anzichè investire in progetti imprenditoriali.
Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo.
Andrebbe anche a loro vantaggio.
Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato.
E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012.
Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.
Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni.
Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli.
Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi.
Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.
C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro.
Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica.
L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’efficienza delle imprese allargando i mercati perchè riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perchè permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo.
Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.
Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali.
Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portando la fibra fino ai palazzi anzichè collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici.
Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità .
Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire.
Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione.
I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.
Tito Boeri
(da “La Repubblica“)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
“TUTTA LA MIA VITA HO DORMITO CON LE SCARPE AI PIEDI, PRONTO A FUGGIRE, SPERAVO DI ESSERMI LASCIATO IL PASSATO ALLE SPALLE”
Piange Huzeyfa, lacrime che non vogliono fermarsi. Fuori dal centro di accoglienza profughi nel quale vive dal
settembre 2013 sembra tornata la quiete, ma c’è il cordone dei blindati.
Lui, con gli altri maggiorenni rimasti nell’edificio, si trova in un gigantesco e freddo stanzone al quale i dipinti colorati alle pareti cercano inutilmente di dare un po’ di calore.
Quanti anni hai Huzeyfa, da dove vieni?
«Ho 21 anni, sono scappato dall’Etiopia ».
Cosa pensi di quello che sta succedendo nel quartiere?
«Non ci capisco niente. Perchè ce l’hanno con noi? Sono quattro notti che non dormo. Siamo terrorizzati. Mi chiedo cosa faranno se entrano… e cosa faremo noi…».
Perchè sei scappato dall’Etiopia?
«Perchè sono stato carcerato senza un processo, picchiato, torturato ».
Ma perchè ti hanno messo in prigione?
«Perchè faccio parte del popolo Oromo, 45 milioni del totale della popolazione, che è 75 milioni di persone. La nostra etnia è schiacciata dall’altra etnia dominante, gli Amhara. E’ per questo che si è formato l’Olf, l’Oromo liberation front, che chiede l’indipendenza della regione degli Oromi. Questo partito è vietato».
Tu facevi parte dell’Olf?
«No, ma a scuola io e altri studenti avevamo formato un gruppo per tenere viva e diffondere la cultura e la storia degli Oromo. Organizzavamo incontri, proiezioni e raccoglievamo fondi per finanziare l’Olf. La stessa cosa facevano altri comitati studenteschi. Una volta abbiamo raccolto 17mila dollari. Eravamo tutti riuniti. La polizia ha fatto irruzione e ci ha arrestato».
Cosa ti è successo?
«Mi hanno frustato con cavi elettrici, mi hanno percosso con bastoni sotto la pianta dei piedi, colpito con il calcio del fucile. Mi hanno portato in un grande carcere, Ganale. Ci sono rimasto per 22 giorni, poi sono fuggito attraverso un tunnel che altri avevano scavato nei giorni precedenti. Mentre scappavamo le guardie ci sparavano dietro» Huzeyfa si interrompe e piange. «Un mio amico è stato colpito, è caduto, mi è morto accanto».
Cosa hai fatto una volta fuggito?
«Non potevo tornare a Robe, la mia città . La polizia aveva già arrestato mio padre e mio fratello perchè io ero scappato, dovevo lasciare il paese. Mio zio mi ha accompagnato fino al confine con il Sudan, poi sono rimasto solo».
Come ti sei mosso?
«Ho dato 700 dollari ai trafficanti perchè mi portassero in Libia attraverso il Sahara. Qui ho lavorato quattro mesi come muratore e cuoco. Ho messo insieme 600 dollari per salire su un gommone e arrivare in Italia. Ma eravamo senza gps, la benzina è finita, siamo stati circondati dalle forze libiche che ci hanno riportato indietro. Sono stato in carcere due mesi a Tripoli, poi sono scappato con altre 300, 400 persone. I militari sparavano, noi correvamo. Mi hanno ripreso, sono scappato ancora. Stavolta sono riuscito a raggiungere Tripoli. Ho incontrato lo stesso scafista, che mi ha portato gratis: 64 persone in un gommone. Ci hanno salvato quelli di Mare Nostrum, ci hanno portato a Pozzallo. Da lì fino a qui, a Roma».
Come immagini il tuo futuro Huzeyfa?
«Non riesco ad immaginarlo… cerco ancora la mia strada».
Cecilia Gentile
(da “La Repubblica“)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
IL FALCON CHE RIPORTà’ A CASA IL MINISTRO NEL MIRINO DEI PM
Due procure — ordinaria e militare — vogliono fare chiarezza sul caso del “volo di Stato” con cui, il 5 settembre scorso, il ministro della Difesa Roberta Pinotti raggiunse la Liguria, dove abita, dall’aeroporto di Roma Ciampino.
Il Fatto aveva pubblicato un articolo sulla vicenda il 25 settembre raccontando di come il ministro, ritornando da un vertice Nato, aveva rinunciato al volo di linea per Genova utilizzando un Falcon “in volo di addestramento”.
Dopo la denuncia presentata dai parlamentari M5S (che hanno fatto un esposto anche alla magistratura contabile), il procuratore aggiunto di Roma, Francesco Caporale e il sostituto Roberto Felici hanno avviato un procedimento, al momento contro ignoti, nel quale ipotizzano il reato di peculato d’uso.
Indaga pure il procuratore militare di Roma Marco De Paolis: anche in questo caso si procede contro ignoti e l’inchiesta è finalizzata ad accertare la sussistenza di eventuali reati militari.
Nell’esposto depositato in Procura i pentastellati sostengono che il ministro Pinotti abbia usato un Falcon 50 dell’Aeronautica militare per farsi accompagnare a casa, a Genova, approfittando di un volo di addestramento programmato dal 31° stormo dell’Aeronautica.
“Abbiamo fatto il nostro dovere”, ha scritto su Facebook, ieri, il parlamentare del M5S Alessandro Di Battista, annunciando l’iniziativa.
“Abbiamo scritto atti parlamentari su questa vicenda (due interrogazioni, ndr) — ha proseguito — ai quali il ministro non ha risposto. Non sono i 3.600 euro che quel volo costa ogni ora. Il problema è il loro, costante, abuso di potere. Il loro sentirsi invulnerabili, intoccabili, differenti da noi cittadini. Auguri ministro”.
In una nota il ministero della Difesa sostiene che quello preso dal ministro “è stato un volo del tutto legittimo, come sarà puntualmente chiarito in ogni sede, compresa quella parlamentare”.
Si tratta, per la Difesa, di “un volo addestrativo che non ha comportato alcun maggior onere ma, al contrario, ha determinato un risparmio per l’erario”.
Anche l’Aeronautica militare ha parlato di “un volo di routine, addestrativo”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
NON AVEVANO PAGATO IL BIGLIETTO: LO HANNO PICCHIATO IN TRENTA
Un gruppo di giovani ha aggredito l’autista di un autob
us pubblico che li stava trasportando a Treviso.
Secondo una prima ricostruzione il gruppo piuttosto numeroso composto da studenti avrebbe avuto un diverbio, sfociato in calci e pugni all’uomo, perchè alcuni di loro non avevano pagato il biglietto.
Il conducente è poi sceso dal mezzo e qui è stato accerchiato da una trentina di persone.
All’improvviso è stato anche colpito da un violento pugno al volto.
Ora è al pronto soccorso di Treviso a curarsi le ferite.
Indagini sono attualmente in corso per identificare i responsabili.
(da “Tribuna di Treviso”)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
TWEET TRA FINI E STORACE: “RICOMINCIAMO INSIEME”. LA REPLICA: “HO MILLE DUBBI”… FIGURIAMOCI NOI
Prove tecniche di riavvicinamento? E’ presto per dirlo, ma a destra qualcosa si muove.
A sera inoltrata, nel silenzio, su twitter Francesco Storace e Gianfranco Fini dialogano, parlano, sondano.
Loro che hanno partorito Alleanza Nazionale, nata dalle “ceneri” del Movimento Sociale Italiano, sul social network discutono di un possibile ritorno proprio ad An.
E’ una domanda di un follower all’ex presidente della Camera a far rinascere il feeling: ” L’errore più grave che ha commesso la destra negli ultimi anni e il suo errore più evidente?”.
“Il mio? Ne ho fatti tanti. Uno su tutti sciogliere Alleanza Nazionale”, risponde Fini.
E l’errore più grosso della destra? “Essere divisa”, sentenzia Fini.
E’ a questo punto che si inserisce Francesco Storace, ex portavoce proprio di Fini quando era segretario del Movimento Sociale: “Peccato avere ragione tanti anni dopo”, commenta da umorista a sua insaputa.
Ma la replica di Fini è di distensione: “Meglio tardi che mai”.
Storace apprezza: “Stai in forma stasera”. E Fini: “Sorrido”.
C’è intesa tra i due ex colleghi di partito, si vede.
Per questo la domanda sorge spontanea in un utente che chiede: “Ma che aspettate a rimettervi tutti insieme?”.
L’ex governatore del Lazio prova a smorzare l’entusiasmo: “Troppi veti e controveti”, replica, spegnendo sul nascere le aspettative.
E’ qui che Fini avanza la proposta: “Francesco, ricominciamo dalla Fondazione”.
Ma Storace è scettico: “Ho mille dubbi”, risponde laconico.
Sempre meno di quanti ne abbia la ex base su questa “ipotesi di lavoro”
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
LA RIVELAZIONE DEL BOSS PENTITO
Fino a qualche giorno fa, era uno degli irriducibili di Cosa nostra al carcere duro. Oggi, è un uomo che dice di
avere paura per quello che potrebbe accadere a Nino Di Matteo, il pubblico ministero del processo “trattativa”.
Vito Galatolo, 40 anni, rampollo di una delle famiglie mafiose più blasonate, ha deciso di collaborare con la giustizia: «Perchè sono assalito da un turbamento interiore», ha detto.
E mentre svelava il progetto di attentato nei confronti del pm Di Matteo ha avvertito: «All’eliminazione del magistrato sono interessate anche entità esterne a Cosa nostra».
Vito Galatolo ha spiegato di essere stato incaricato di coordinare i preparativi dell’attentato nel dicembre 2012.
Preparativi che sarebbero andati avanti in questi mesi.
Poi, nel giugno scorso Galatolo è stato arrestato dal nucleo di polizia valutaria della Finanza. Ed è finito presto al carcere duro.
La settimana scorsa, ha chiesto di parlare con Di Matteo, e gli ha rivelato il progetto di morte.
Ieri, Galatolo ha iniziato ufficialmente la sua collaborazione con la giustizia: ad interrogarlo, in una località segreta, sono stati il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari.
Intanto, gli investigatori della Dia correvano a Mestre, per trasferire la moglie e i figli del capomafia in un posto sicuro.
Al Palazzo di giustizia di Palermo, invece, torna l’incubo dei mandanti esterni.
Perchè in quel dicembre 2012 Cosa nostra iniziò a progettare un attentato contro Nino Di Matteo, l’animatore del pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia?
È un mistero. Galatolo sostiene di essersi occupato solo della fase esecutiva del progetto di attentato.
Al momento, restano solo le coincidenze, inquietanti: nel dicembre di due anni fa, i pm di Palermo avviavano l’indagine sui servizi deviati e su vecchi rapporti fra 007 ed esponenti della destra eversiva.
È l’inchiesta bis sulla trattativa: in questi mesi è stata scandita da un’escalation di lettere anonime, che hanno fatto salire la tensione alle stelle attorno al pool di Palermo.
Tensione che resta altissima, mentre un gruppo di esperti inviati dal Viminale continua a verificare il sistema di sicurezza attorno a Di Matteo.
C’è grande attesa per quello che potrebbe svelare Vito Galatolo, perchè da sempre la famiglia dell’Acquasanta è sospettata di avere rapporti con esponenti deviati dei servizi di sicurezza.
Nel 1989, i Galatolo organizzarono l’attentato a Giovanni Falcone sul litorale dell’Addaura, attentato che poi fallì.
E qualche giorno dopo, il giudice pronunciò la frase diventata il simbolo dei misteri siciliani: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime».
Il segreto è nel quartier generale dei Galatolo, vicolo Pipitone, a due passi dal bellissimo porticciolo dell’Acquasanta.
Lì, negli anni Ottanta, si riunivano i sicari di Riina prima di eseguire gli omicidi eccellenti.
Oggi, in vicolo Pipitone c’è un silenzio pesante, rotto solo dalle urla di un uomo, che intima al cronista di Repubblica: «Vai via subito».
Vito Galatolo potrebbe provocare presto uno squarcio nei segreti di Cosa nostra. Anche sua sorella collabora con la giustizia, da un anno.
Il vecchio Vincenzo Galatolo, l’ombra di Totò Riina, resta in silenzio nella sua cella al 41 bis.
Salvo Palazzolo
(da il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 15th, 2014 Riccardo Fucile
SI CONSOLIDA IL BLOCCO SOCIALE CHE ATTACCA IL PREMIER… CAMUSSO: “GOVERNO MEDIEVALE, NON RISPETTA I DIRITTI”
Milano, Largo Cairoli, ore dieci di ieri. La Clio grigia arriva in mezzo al corteo del movimento. Ci sono studenti, centri sociali, lavoratori. L’auto ha la targa oscurata. Qualcuno scarica dei cartoni. S’intravedono dei caschi.
Trenta No-Tav incappucciati tentano di sfondare verso via Broletto. Vengono respinti. Scendono in metropolitana per unirsi agli 80 mila del corteo Fiom che punta verso piazza Duomo.
Tanto vale, infatti, la manifestazione dei metalmeccanici alla quale ha partecipato anche il segretario generale della Cgil Susanna Camusso che dal palco ha definito “medievale il governo che non rispetta i diritti”.
Mentre Maurizio Landini ha annunciato: “Non ci fermeremo”. Fotogrammi di una giornata ad alta tensione sociale a Milano e in tutta Italia: 25 città (da Padova a Roma) e migliaia in piazza contro il governo.
Nel capoluogo lombardo ieri erano programmati due cortei contro la riforma della scuola e contro il Jobs Act. La polizia ha controllato bene.
Poi, a manifestazioni terminate, il pasticcio in piazza Fontana davanti all’Arcivescovado con il cortocircuito informativo (tra Digos e Questura) che non ha permesso alle forze dell’ordine di controllare un centinaio di studenti.
Risultato: sotto le manganellate finiscono i ragazzi (anche un 15enne) e gli stessi agenti della Digos.
Ecco, allora, la cronaca. Ore 13, aula 101, Università Statale. Aula occupata. Dentro un centinaio di studenti. Hanno i volti stanchi. Un’ora prima il loro corteo che, in accordo con la Questura doveva arrivare fino in piazza Fontana, è stato deviato e bloccato in piazza Santo Stefano. In quel momento, al comizio della Fiom sta intervenendo (fischiata) il segretario della Cgil.
“La partita sul Jobs Act — dice — non è chiusa”. Risponde il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini: “La piazza si rispetta”. E sulla riforma del lavoro: “Noi crediamo che sia uno sforzo titanico che in questo Paese nessuno ha mai fatto”.
Ma più che la dialettica politica a tenere banco è la cronaca.
E così mentre la Camusso parla, alcuni No-Tav si scontrano con le forze dell’ordine. Nessun ferito. Gli studenti, però, vengono bloccati. In piazza Fontana non si arriva.
Sfuma così il piano di dare l’assedio alla sede dell’Arcivescovado dove si tiene un convegno sulla “buona scuola” discusso dalla Conferenza episcopale assieme a un rappresentante del ministero dell’Istruzione.
“Gli accordi si rispettano”, hanno urlato i ragazzi. Poi hanno tentato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine verso via Larga. Due minuti.
Ma tanto è bastato perchè i manifestanti lanciassero quattro petardi e la Finanza rispondesse sparando lacrimogeni urticanti.
Risultato: sette finanzieri feriti e decine di giovani intossicati (alcuni si sono accasciati a terra vomitando).
Da Padova arriva la notizia del ferimento del capo della squadra Mobile. La tensione sale. Si entra in Statale. Si discute, si urla. Contro Renzi e il governo.
Contro chi “la riforma della scuola la fa senza chiederci nulla”. Contro la Diocesi di Milano che ha inviato una lettera ai professori di religione perchè segnalino come viene trattato il tema dell’omosessualità nei loro istituti.
Fuori, intanto, il traffico riprende. Il comizio della Fiom è terminato. In giro non si vedono più le camionette delle forze dell’ordine.
In aula, però, la temperatura si alza. Chi interviene al microfono urla che “bisogna andare all’Arcivescovado”.
Mezz’ora dopo la decisione è presa: si va in piazza Fontana. Il corteo è scortato dalla Digos. Passano pochi minuti e il funzionario della Questura urla in radio: non sono trenta, ma cento. Chiede un intervento immediato.
Il corteo intanto è davanti all’ingresso dell’Arcivescovado. In venti oltrepassano il portone. Hanno caschetti rossi in testa (“in solidarietà ai lavoratori”).
Davanti a loro il secondo portone è chiuso. Urlano. Tirano calci. Difficile pensare possano sfondare. Tanto più che in quel momento il dirigente della Questura e quattro funzionari della Digos si frappongono tra l’ingresso e gli studenti.
Sono le 14 e 30. I rinforzi arrivano. La camionetta della Celere entra in piazza Fontana. Gli agenti scendono e non si fermano. Per loro l’ordine è già stato dato. Iniziano gli scontri.
Gli studenti vengono manganellati. A farne le spese un ragazzino di 15 anni. Sotto i colpi finiscono addirittura anche i funzionari della Digos.
Dal gruppo degli studenti parte un sampietrino che colpisce un agente. La giornata si chiude così. La Questura spiega: abbiamo evitato che sfondassero l’Arcivescovado.
E mentre gli studenti e i centri sociali si danno appuntamento al 5 dicembre, la cronaca registra l’ennesima giornata nazionale di tensione sociale.
Davide Milosa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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