Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
A RISCHIO 4 COMUNI SU CINQUE…LA RESPONSABILITA’ DI CHI HA COSTRUITO NEGLI ANNI ’60
17 novembre. Nel 1929 una frana investì un casolare a Osilo (Sassari): otto morti, quattro feriti e 50
sfollati.
16 novembre. Nel 1991 la Toscana e l’Umbria finirono sott’acqua: quattro morti, un disperso e 200 sfollati.
Ce n’è anche per la giornata di oggi, 18 novembre: nel 2013 frane e inondazioni in Sardegna, 17 morti, un disperso e 2mila sfollati.
In pratica non c’è giorno del calendario che non sia coperto da un disastro.
«Dopo la Grecia tocca a noi» è il mantra che sentiamo ripetere quando si ipotizza il default dell’Italia.
In questo caso l’ordine andrebbe invertito: i peggiori siamo noi, i greci vengono subito dopo.
Non esiste in Europa paese maggiormente colpito da ogni tipo di catastrofe naturale: terremoti, frane, inondazioni, tornado, grandine, valanghe.
Frane e inondazioni – fenomeni spesso correlati – negli ultimi cinquant’anni hanno provocato 2007 morti, 87 dispersi, 2578 feriti e 423.728 sfollati.
«Dal Dopoguerra a oggi non è passato anno senza un morto», rivela Fausto Guzzetti, direttore dell’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Cnr.
Il 2014, poi, sarà da ricordare: quattordici tra frane e inondazioni solo nei primi sei mesi dell’anno, con 9 morti, 12 feriti e 4856 persone evacuate.
Perchè? «La causa principale è il clima: è un anno particolarmente piovoso», spiega Guzzetti. «Nell’ultimo secolo si sono verificate forti oscillazioni, periodi caratterizzati da disastri (gli anni 50-60) e altri di relativa calma ( gli anni 80-90». Mai, però, abbiamo evitato i morti.
Secondo un report del ministero dell’Ambiente, datato 2008, in 6633 comuni su 8071 esistono aree a rischio.
In ogni singolo comune di Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e Provincia di Trento c’è almeno una zona è pericolosa.
Stime che gli esperti suggeriscono di prendere con le pinze: non è semplice eseguire una mappatura completa del territorio, senza contare che di frequente sono gli stessi comuni a fornire i dati.
Meglio stare ai fatti: la Protezione Civile ha individuato 134 zone di allerta sul territorio, si va da un minimo di due in Trentino—Alto Adige a un massimo di 25 in Toscana.
Il Servizio geologico ha anche censito 480 mila frane. «Ma noi siamo in grado di dimostrare che ne esistono molte di più», dice Guzzetti.
Un anno fa ha ispezionato due comuni delle Marche colpiti da un’alluvione, Rocca Fluvione e Arquata del Tronto: «Solo lì ne ho trovate 1600».
Mancano i soldi per trovare le altre.
«A noi, come ai meteorologi, ai sismologi, chiedono di essere sempre più precisi. Ma senza spendere un euro. Ci mandano in guerra con le pistole ad acqua». Così passiamo da un disastro all’altro.
Ottobre 1954: colate di fango e detriti invadono Salerno e cinque paesi accanto, 318 fra morti e dispersi, oltre 5 mila sfollati.
Ottobre 1970: i fiumi Polcevera, Leiro e Bisagno valicano gli argini e inondano Genova, 35 morti e 8 dispersi.
Luglio 1987, Valtellina: 35 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Zandilla e precipitano nell’Adda, 49 morti e 12 dispersi.
Potremmo proseguire a lungo. «In Italia questi fenomeni si verificano con particolare frequenza almeno per tre motivi», spiega Guzzetti.
«Una forte densità di popolazione (60 milioni in 301 mila chilometri quadrati), un’altissima densità di abitazioni e un territorio fragile. In più gli italiani ci hanno messo del loro».
Alcune regioni, vedi l’Umbria, sono coperte da frane per il 10-15% del territorio.
E le frane si muovono. «È fisiologico e non sarebbe un problema se non fosse che su queste frane, sopra, sotto, accanto, dentro, si è costruito. Erano anni, soprattutto il Dopoguerra, in cui si teorizzava lo sviluppo edilizio senza limiti. E, probabilmente, mancavano le conoscenze e gli strumenti di cui disponiamo noi. È stato un errore, anche dal punto di vista economico. Ma lo possiamo dire solo ora».
Andrea Rossi
(da “La Stampa”)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
SOLO COI SOLDI DEL TERZO VALICO POTREMMO AVERE 350 TRENI PENDOLARI, 10 OSPEDALI DA 600 POSTI LETTO, 180 SALE OPERATORIE, 1500 AMBULATORI E 250 ASILI NIDO
Nelle montagne dell’Appennino ligure sotto le quali dovrebbe passare il tratto finale della linea ferroviaria ad alta velocità del “luminoso” corridoio Genova-Rotterdam, il cosiddetto Terzo Valico, c’è un’elevata probabilità che scavando si trovi amianto.
Ma questo è solo uno dei dettagli che resta ignorato dal dibattito politico italiano
Il Terzo Valico è un progetto lungo 53 km, di cui 39 in galleria, che accorcerà se va bene di una mezz’oretta il tempo di percorrenza dei treni dal porto di Genova a Tortona-Novi Ligure.
Ma anche questo è un dettaglio che non annunciano al TG delle otto.
In compenso ci vengono quotidianamente elencate le bordate che arrivano per demolire lo stato sociale e il sistema pensionistico, le sforbiciate al trasporto pubblico locale, le carenze di posti negli asili nido, le chiusure di ospedali e di reparti di pronto soccorso.
Il tutto è motivato dalla mancanza di risorse, ovviamente.
È colpa delle politiche di austerity, dei diktat della trojka, del patto di stabilità che il nostro tweetpremier Renzi pensa di poter abbattere a colpi di hashtag (se cominciasse a chiedere le dimissioni di Junker, visto che lui lo ha votato…).
Insomma, non ci sono i soldi! Ce lo ripetono in tutte le salse.
Abbiamo raschiato il fondo del barile.
Però, per realizzare il Terzo Valico, i 6,2 miliardi si sono trovati. Così, per chiarire un po’ meglio le cose agli italiani distratti ed ammaliati dalla retorica delle grandi opere, facciamo un piccolo esercizio matematico e compiliamo un breve elenco di cose utili che ci tolgono o ci mancano perchè la priorità sono appunto le grandi opere come il Terzo Valico:
6 centimetri di Terzo Valico = 1 anno di pensione.
100 metri di Terzo Valico = 1 anno di libri di testo per 40 mila studenti delle scuole superiori. 500 metri di Terzo Valico = 7 treni pendolari completi.
1 km di Terzo Valico = 116 asili nido per un totale di 8.700 bambini.
2,5 km di Terzo Valico = 1 ospedale da 600 posti letto, 18 sale operatorie e 150 ambulatori. Tutto il Terzo Valico = 350 treni pendolari, 10 ospedali da 600 posti letto, 180 sale operatorie, 1500 ambulatori medici e 250 asili nido.
Solo con questo, l’Italia sarebbe un altro paese
E l’elenco potrebbe essere ancora più lungo se considerassimo tutte le grandi opere e i grandi eventi inutili e dannosi per il territorio.
Una stima dell’Unione delle Province ha calcolato in 5 miliardi la somma necessaria per mettere in sicurezza tutte le scuole d’Italia.
Uno studio del 2012 del Ministero dell’Ambiente ha calcolato in 41 miliardi la cifra per prevenire il dissesto idrogeologico.
Sarebbero queste le priorità , i capitoli con i maggiori stanziamenti.
E invece, il Ministro Lupi dichiara che se fosse per lui si farebbe anche il Ponte sullo Stretto.
Per ora si accontenta del Terzo Valico. E di molto altro.
Tanto se gli ospedali chiudono, se piove nelle scuole e se non si realizzano argini la colpa è della Trojka.
Domenico Finiguerra
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
NEGATO IL COMANDO ALL’ITALIA… L’OPERAZIONE TRITON E’ SOLO UN IGNOBILE RASTRELLAMENTO DI CUI ALFANO E’ COMPLICE
Ormai è un vero e proprio scontro istituzionale che coinvolge anche l’Unione europea. La Marina Militare
italiana ha chiesto ufficialmente ai responsabili di Frontex di affidare ai propri generali il comando dell’operazione «Triton» sul contrasto all’immigrazione irregolare.
Pur consapevoli che deve essere il dipartimento del Viminale a gestire ogni fase della missione e dopo aver cercato di ottenere una proroga di «Mare Nostrum», i vertici hanno sollecitato, dieci giorni fa, il trasferimento del coordinamento dell’operazione avviata il primo novembre scorso da Pratica di Mare, dove ha sede il centro aeronavale della Guardia di Finanza, al proprio centro operativo di Santa Rosa
La replica di Bruxelles è stata durissima nel respingere l’istanza , ma la vicenda potrebbe non essere ancora chiusa.
E ciò rischia di creare non poche conseguenze nei rapporti internazionali, anche tenendo conto che sono 17 gli Stati membri ad aver aderito con mezzi e uomini ai pattugliamenti nel Mediterraneo.
Ecco perchè è possibile che si renda necessaria una presa di posizione dei ministri delegati alla gestione dell’emergenza, dunque i titolari dell’Interno, Angelino Alfano, e della Difesa, Roberta Pinotti
Gli ammiragli
La contrarietà della Marina a qualsiasi nuovo intervento nel Mediterraneo è apparsa evidente sin dalle scorse settimane, quando il governo ha prima anticipato e poi stabilito con un decreto che «Mare Nostrum» sarebbe terminata.
Ancor prima che si riunisse il Consiglio dei ministri per fissare la data di chiusura, l’ammiraglio Filippo Maria Foffi – comandante in capo della flotta italiana e dunque responsabile della missione nelle acque del Mediterraneo – va a Bruxelles e dichiara: «Andiamo avanti, non abbiamo ricevuto alcun ordine ufficiale e dunque proseguiremo anche quando inizierà “Triton”, la nuova operazione Frontex nel mar Mediterraneo, per facilitare un passaggio di consegne efficace e senza problemi di sorta»
Sembra una sorta di sfida al ministro dell’Interno che invece aveva più volte manifestato la volontà di interrompere la missione.
Ed evidentemente non bastano le precisazioni che arrivano il giorno dopo, nè la scelta dell’esecutivo di coinvolgere anche la Marina nell’operazione «Triton» sia pur con una presenza esigua.
Perchè a neanche una settimana dall’avvio, le istanze si fanno ancor più decise.
Con una richiesta indirizzata direttamente al direttore esecutivo di «Frontex», Gil Arias, la Marina chiede il trasferimento del Coordinamento a Santa Rosa e dunque un ruolo di comando.
Il «no» di Bruxelles
La risposta di Arias è immediata e categorica nel respingere la richiesta ribadendo che «”Triton” è stata pianificata indipendentemente da “Mare Nostrum”» e che «non esiste alcuna complementarietà tra i due interventi». Non solo.
Da Bruxelles si fa notare che si tratta di un’operazione di polizia varata con un protocollo siglato da tutti gli Stati partecipanti e dunque sarebbe «necessaria, ma improponibile, una rinegoziazione del piano», soprattutto tenendo conto che mezzi e uomini hanno già cominciato l’attività .
Una posizione netta, però non è scontato che basti a risolvere la questione. Anche tenendo conto dei tempi che il governo italiano si è dato per smobilitare «Mare Nostrum».
L’intervento deciso nell’ottobre 2013, dopo il naufragio davanti a Lampedusa che provocò oltre 300 morti, prevedeva l’impiego delle navi della Marina sin davanti alle coste libiche con un costo per l’Italia di circa 9 milioni di euro al mese.
Nonostante le rassicurazioni iniziali, Bruxelles non ha infatti mai voluto partecipare a «Mare Nostrum»
E questo ha certamente creato numerosi problemi con il governo italiano, fino alla scelta di procedere poi insieme sia pur con modalità completamente diverse
Mezzi già schierati
I numeri dimostrano che in un anno sono state salvate e accolte migliaia di persone, ma il governo ha comunque ritenuto che non si trattasse di un impegno sostenibile e ha preferito inserirsi nel programma internazionale, mantenendo comunque il coordinamento delle attività anche perchè si tratta di presidiare i confini italiani, ancor prima di quelli europei.
La missione – che prevede l’impiego di 25 mezzi navali e 9 aerei con una spesa mensile di 2 milioni e 900 mila euro – ha obiettivi dichiarati: pattugliare il mare a trenta miglia dalle nostre coste per contrastare la migrazione irregolare, naturalmente prevedendo anche il soccorso in caso di emergenza.
Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
ECCO DOVE FINISCONO I SALVATI DA MARE NOSTRUM
Litigano da giorni. È successo anche ieri.
Il ministro Angelino Alfano, infatti, non vuol finire nel tritacarne di Tor Sapienza e lascia volentieri il cerino a Ignazio Marino: «Il luogo lo sceglie il sindaco e il Viminale gli dà i soldi. Punto. Altrimenti stiamo facendo i prestigiatori».
Il sindaco alza pubblicamente gli occhi al cielo per far capire che si trova a fronteggiare scelte altrui, e si lamenta: «Possibile che qui (a Roma, ndr) debba esserci un immigrato su cinque che arrivano in Italia?».
Per capire, serve qualche punto fermo.
I dati ufficiali del ministero dell’Interno, aggiornati al 31 ottobre, dicono che sono 61.238 gli immigrati – i richiedenti asilo che le navi di Mare Nostrum hanno salvato nel Mediterraneo – ospitati a spese dello Stato.
Ebbene, il 23% di essi è stato sistemato in Sicilia, il 13% nel Lazio, il 10% in Puglia, l’8% in Lombardia, e così via.
In effetti il Lazio deve accogliere quasi il doppio di immigrati della Lombardia, ma la Sicilia batte tutti di gran lunga: qui sì che c’è un immigrato ogni cinque.
Il tema è esplosivo. Ci si sta per mettere anche la Camera dei deputati, che oggi dovrebbe varare una commissione d’inchiesta sul «trattamento dei migranti nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e nei centri di identificazione ed espulsione».
La commissione nasce da ben tre proposte-fotocopia: una del Pd (Emanuele Fiano), una di Scelta Civica (Mario Marazziti), una di Sel (Nicola Fratoianni).
«Siamo tutti d’accordo, anche quei colleghi che la pensano all’opposto di me, che è bene fare luce su quanto avviene in questi centri gestiti dal ministero dell’Interno», spiega il relatore, Gennaro Migliore, ex vendoliano, ora Pd.
L’idea di una commissione d’inchiesta nacque sull’onda dello scandalo di Lampedusa, quando si vide il filmato di alcuni profughi che venivano tenuti nudi in uno stanzone e lavati con il getto d’acqua.
Fu uno choc perchè si pensava che il trattamento rude fosse un’esclusiva dei centri per le espulsioni, non anche in quelli per i richiedenti asilo.
Nel frattempo sono arrivate varie denunce su ruberie, trattamenti sotto lo standard, inefficienze. E poi si moltiplicano i casi di periferie in rivolta contro i centri per immigrati
Dove vada a parare la nuova commissione d’inchiesta, è chiaro fin dalla legge istitutiva: «Accertare se nei centri si siano verificate condotte illegali e atti lesivi dei diritti fondamentali e della dignità umana». In tutta evidenza sul banco d’accusa ci finirà la polizia.
E si spiegano così certe asperità nel dibattito parlamentare. Ignazio La Russa, FdI: «Questa è un’operazione di schifoso razzismo nei confronti degli italiani».
Di contro Emanuele Fiano, Pd: «Dobbiamo dire al Paese se le condizioni di vita in quei centri sono consone alle nostre leggi, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo»
Se è esploso il fenomeno dell’accoglienza per i richiedenti asilo, è divenuto invece residuale il sistema dell’identificazione ed espulsione.
Era un cavallo di battaglia della destra, al punto che l’ex ministro Maroni nel 2011 volle allungare il trattenimento nei Cie (al Viminale aborrono all’idea di chiamarla detenzione, ma non è che la sostanza sia diversa) fino a un massimo di 18 mesi e progettava di aprirne tanti altri di questi centri.
Nel frattempo, all’opposto, diversi Cie sono stati chiusi e attualmente ce ne sono solo 5 in funzione (Torino, Roma, Bari, Trapani, Caltanissetta) per complessivi 500 posti letto. Sono fortemente diminuiti anche i numeri.
Nel 2013 erano stati trattenuti 6.016 stranieri (di cui 2.749 i rimpatriati); nei primi sei mesi di quest’anno, 2.124 (di cui 1.036 rimpatriati).
La permanenza media nei Cie è stata di 55 giorni a Bari, 24 a Caltanissetta, 32 a Roma e Torino, 50 a Trapani.
Il sistema, insomma, funziona abbastanza. Non meraviglia, allora, che qualche giorno fa, con il beneplacito del ministro Alfano, il Parlamento abbia rivoluzionato le norme, imponendo un massimo di 3 mesi di trattenimento nei Cie per chi dev’essere identificato ed espulso.
Quando sono ex detenuti, poi, il massimo si riduce a 1 mese, visto che vengono già identificati dall’amministrazione penitenziaria.
Francesco Grignetti
(da “La Stampa“)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
“SIAMO IN ITALIA PER ESSERE PROTETTI E INVECE DOBBIAMO AVERE PAURA”…E LA CRIMINALITA’ ITALIANA CHE CONTROLLA IL QUARTIERE ESULTA
Vivevano al centro di viale Morandi da due mesi. Non dover più fuggire per due mesi è già un sogno
inverosimile.
Sono davanti a me, si stringono in gruppo, la prima volta che escono dal centro dopo… dopo l’assedio e l’assalto e le urla «vi vogliamo bruciare».
Mancano i più giovani. Li hanno portati in altri luoghi; loro, gli anziani, ma il più vecchio ha forse venticinque anni, sono rimasti. Una trentina.
La furia profonda di chi non li vuole più vedere non sembra scemare, anzi contagia altre periferie di questa Roma impiastricciata di cortei rabbiosi e appelli sconsiderati.
La civiltà è uno strato sottile, basta la pioggia per cancellarla.
La polizia li ha scortati, («la gente ci insultava e noi zitti nel bus, gli occhi bassi…»), la messa per quelli che sono cristiani, il pranzo in un centro di accoglienza.
Mi spiegano i volontari di Sant’Egidio, missionari nelle periferie di una tolleranza che sembra anch’essa straniera in tempi di traboccamenti di fiele e vendette: nel pomeriggio torneranno, laggiù.
Hanno tutti alle spalle la via lunga e pericolosa, la via dolorosa di chi ha dovuto fuggire, la strada del dolore che passa nel deserto e arriva in Libia dove si biforca verso Lampedusa, Catania, Pozzallo.
Gente come questa che fugge deve continuare a vivere fidando in caso fortuiti che quanto più sono inverosimili tanto più sembrano normali.
Queste sono le fiabe moderne: non molto allegre, che solo raramente terminano meglio di quanto ci si aspetti. Qui in viale Morandi c’erano ragazzini e fuggiaschi che hanno diritto alla compassione di tutto il mondo, quella grande. Non quella piccola, che li compiange ma li trova molesti e indesiderati.
Qualcuno che inveisce contro di loro o peggio ha ascoltato le loro storie, sa chi sono?
Due arrivano dal Gambia, la vita si muove alta sui loro volti, completa e dolce e penosa, e poi eritrei, maliani, afghani, siriani, la geografia del mondo del dolore, dei fanatismi, della sofferenza.
Folate di vento sollevano vortici di polvere e pezzetti di carta. «Sono stanco, stanco… Non capisco: ci sono problemi politici in Italia, ma che problema politico sono io, e i miei compagni… Non avete lavoro? È terribile, ma che colpa ne ho io? Vorrei andare nella mia stanza e non svegliarmi».
Parliamo con fatica, a strappi, il solito intervallo di imbarazzo fra fuggiaschi. Non si sa fino a che punto sia lecito far domande.
Lui è oromo, etiope («ma in nel mio Paese comandano gli amhara…»). In Libia è stato un anno prigioniero in un campo, ha rischiato la morte, prima che la rete di assistenza del suo popolo gli procurasse i soldi per traversare il mare: «Dove abbiamo sbagliato per trovare tanto odio? Non abbiamo mai fatto casino, noi del centro, aiutavo le vecchiette nel negozio, lasciavo il posto ai signori anziani nel bus, andavamo a scuola per imparare l’italiano… Poi vedo dalla finestra gente che viene verso la nostra casa, lancia pietre, cerca di dar fuoco al palazzo. Sono pazzi».
Erano stati, tutti, tanto tempo occupati a sopravvivere e vi avevano trovato la loro sicurezza.
Era stato un sopravvivere primitivo, come nel panico di un naufragio dove non c’è altro scopo che quello di non affogare.
Ora, dopo quello che è accaduto in un luogo che credevano la fine del loro penare, dove speravano che la vita si sarebbe riaperta a ventaglio con un nuovo avvenire, scoprono che il passato che li poteva schiacciare facilmente non lo possono dimenticare. È attaccato a loro.
Ancora gente che vuole lapidarli, bruciarli, che li chiama «loro».
Si sono resi conto che il ghiaccio che si era formato sarebbe stato per molto tempo troppo sottile per camminarci: è forse ancora possibile ricominciare come con la lingua nuova che hanno davanti a sè?
Lui ha occhi profondi, i segni sul capo dei colpi ricevuti e due costole rotte.
A Roma è arrivato in aereo, ha scelto l’Italia per fuggire il Congo e un regime che lo minacciava di morte. Parliamo in auto, ha paura a camminare per la strada.
È uscito per andare a comprare da mangiare: non nel supermercato vicino al centro per rifugiati in cui vive a Tor Sapienza, lì non accettano i buoni sconto: non vogliono «i negri» perchè allontanano la clientela italiana. È andato all’altro supermercato, quello che è proprio dietro l’edifico di viale Giorgio Morandi.
In dieci lo hanno aggredito e pestato: sul verbale è scritto che volevano derubarlo!
«Sono qui da due mesi, come posso essere nemico di qualcuno? Ho scelto l’Italia per essere protetto, e sono degli italiani che mi hanno fatto questo. Mi picchiavano e mi dicevano “negro”. Spero che Dio li renda migliori, e li perdoni».
Piange il rifugiato congolese. È questa qui la vita? Nascere come è nato, vivere in miseria in un Paese dove la giustizia è un lusso da tempi tranquilli, tirare per le strade tricicli carichi di legna o di sacchi, sognare cose che nessuno sarebbe mai riuscito a fargli toccare e, quando poteva cominciare un po’ di speranza, la cattiveria di quelli che credeva amici che gli si scaglia addosso, per scacciarlo, farlo fuggire, far piangere lui.
Giro per Tor Sapienza.
I vecchi edifici hanno un che di malatamente vivo, una virulenta luminosità d’agonia, sembrano formicolare di pustole scure e di croste.
È un quartiere popolare eccentrico e grigio, un paesaggio moderatamente squallido nei suoi blocchi di casoni da esser quasi solenne, composto da prati ispidi e smozzicati e tutto intorno le alte e cieche facciate di cemento, le sagome di capannoni e depositi scialbati a calce e gli esili pini, i gobbi ponti della ferrovia e degli svincoli, le distese di terreni vaghi, le baracche dei campi nomadi; qua la sede tutto vetri dell’ufficio immigrazione della polizia di Stato, lì un mucchio di immondizie.
Lungo alcuni stradoni senza case, nel nulla, prostitute si preparano alla serata di lavoro: «La città del sesso», la definisce addirittura una abitante infuriato, «…ce l’ha trasferita qui Rutelli…».
Dice proprio così, come se fosse una teatro o un albergo. «Abbiamo diecimila froci qua …» urla un altro alzando le mani al cielo… e li mette insieme all’altro degrado, la parola più utilizzata onnipresente: l’eternit nei vasi dei fiori, i cornicioni che cadono, il centro sportivo non finito…
Eppure ci sono negozi e caffè e passano i bus, una piscina e, all’interno del complesso delle case popolari nucleo della rivolta, un centro di attività per i ragazzi intitolato a Morandi. «Morandi chi? Il cantante?» ha scritto qualcuno su un beffardo murale.
C’è una atmosfera di infelicità e di tensione che penetra in tutti i pori della mente, certo, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando sbucando da dietro una porta può accadere qualcosa di vago e di ignoto.
È una spugna imbevuta di cose vissute e sofferte, questo luogo. Ma queste non sono le banlieue francesi che ho visto in furiosa rivolta dieci anni fa.
I graffiti sui muri del grande falansterio di 504 appartamenti sono giocondamente banali: «Giorgetta ti amo…».
La criminalità c’è, ma è soprattutto italiana. E c’è chi dice che non apprezzasse la presenza della polizia che controllava il centro dei rifugiati minorenni, impicciava i suoi traffici. Che se ne vadano è un buon affare.
In viale Morandi la polizia presidia il palazzo dei rifugiati, i vetri sfondati, i segni dell’assalto: di fronte una piccola folla attende che una troupe della tv inizi le riprese. Qualche decina, non più, in maggioranza donne, grosse, decise, le «baccajone» delle borgate romane, sempre pronte alla battaglia, allo strillo.
Attivisti maschi dall’aria decisa suggeriscono, indirizzano, sovraintendono.
La cosa che colpisce di più è l’aria di attesa, sono tutti oziosi ma in attesa. Guardano la giornalista che prepara la ripresa e i poliziotti che chiacchierano davanti ai loro furgoni. Si accendono una ad una le luci nei palazzi e penso alla solitudine di quelle numerose povere esistenze rannicchiate nell’ombra della case, romani e rifugiati, masticando la rabbia gli uni e la paura gli altri, riunite in un uniforme lamento.
L’infelicità è davvero la cosa più abituale che ci sia al mondo.
Nei discorsi degli infervorati si incrociano problemi concreti («Non c’è luce, la sera è impossibile uscire, camminare…») e leggende sfiatate: «Ai rifugiati danno trenta euro al giorno e noi non troviamo lavoro..».
Sempre la parola «noi»: ma chi sono questi noi, i vecchi romani, gli italiani, gli immigrati più antichi, dal nostro Sud?
La guerra dei poveri mi sembra uno slogan, un comodo pretesto per altre cose.
I veri poveri sono quei fuggiaschi. Poi ci sono gli attizzatori sul fuoco di una rabbia abbiettamente contagiosa che conquista, purtroppo, già altre periferie.
Impura, tutta impura mi sembra questa tragedia che non brucia le scorie di cui siamo pieni, che ci appesantisce anzi di odi.
Su un muro del centro per ragazzi una scritta: «Lasciamo che il giovane modifichi la società e insegni agli adulti come vedere il mondo nuovo…».
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
L’INTERCETTAZIONE DELL’EX PATRON DELLA ECOGE ARRESTATO FA TREMARE IL PD
Lo chiama “Burlandino” e giura che gli farà venire il “cagotto”.
Dalle carte dell’inchiesta “appalti in cambio di escort” che ha visto finire in manette un gruppo di imprenditori e un alto dirigente di Amiu, Corrado Grondona, salta fuori una possibile estorsione ai danni del presidente della Regione Liguria Claudio Burlando da parte di Gino Mamone, ex patron della Eco. Ge. società di bonifiche industriali oggi in liquidazione
E’ il 21 marzo del 2013 e da una serie di intercettazioni effettuate dai carabinieri del Noe i pm Paola Calleri e Francesco Albini Cardona “emerge come Mamone Gino, al fine di risolvere la crisi finanziaria in cui versa la Eco. Ge. srl è intenzionato a ricattare il presidente della Regione Burlando Claudio, minacciandolo di recarsi in procura per esporre fatti evidentemente in grado di compromettere lo stesso Burlando”.
Nella comunicazione al gip Roberta Bossi gli investigatori spiegano che “Mamone, parlando con il fratello Vincenzo e con Massimo Scocca dell’impresa Comet, riferisce che Alfio Lamberti, consulente della Eco. Ge., sarebbe andato da Gian Poggi (Giovanni Battista dirigente della Regione Liguria) per dire “a Burlandino che Gino sta chiudendo, che poi va da Pinto (Francesco pm della procura)”… che gli viene il cagotto… qualche rivincita me la prendo ”
Breve riassunto.
Gino Mamone è da anni al centro di numerose inchieste giudiziarie, molte delle quali coordinate proprio dal pm Francesco Pinto, inquirente del pool dei reati contro la pubblica amministrazione.
Per un difetto di notifica, Mamone ha ottenuto l’annullamento, a novembre del 2013, di una condanna per corruzione relativa alla vendita delle aree dell’ex oleificio Gaslini.
Ma nel marzo del 2013 Mamone è un condannato di primo grado, la sua azienda è in liquidazione, si sente in difficoltà (anche se in quello stesso periodo si accorda con il fratello per portare in una banca di Montecarlo 4 milioni di euro) e soprattutto abbandonato da quelli che ritiene in debito nei suoi confronti. E così, come scrive il pm Calleri “progetta di minacciare Burlando… al fine di indurre Burlando ad intervenire in suo aiuto, verosimilmente procurandogli altri appalti”.
I microfoni nascosti nella sua Audi Q8 registrano questo colloquio con la moglie Ines: “Poi ci mando un messaggino a Burlandino,… io ho chiuso non mi ha mai dato una mano, non si è mai esposto, appena finisco le cose vado io da Pinto… glielo vado a dire io”.
Per il pm Calleri le intercettazioni “alludono a un pregresso rapporto corruttivo tra il Mamone e Burlando” e viste le difficoltà economiche in cui versa la Eco. Ge. anche a causa dei mancati pagamenti di alcuni grossi committenti come Coopsette, ecco che pianifica un ricatto: “Alfio va da Gianpoggi e gli dice “digli a Burlandino che Gino sta chiudendo, che poi va da Pinto”. Non ti preoccupare che gli viene il cagotto… tranquillo che mi convoca e io gli dico “Non ti preoccupare, faccio come hai fatto te, io a te non ti conosco proprio”. Più avanti Mamone si sfoga, sembra rievocare episodi passati sempre relativi a Burlando: “Sono qua prendo l’aereo per Roma… ci vediamo all’aeroporto, andiamo insieme? Si, si, belin, ma ti rendi conto… e non mi conosci? ma va a fare in c… qualche rivincita me la prendo vai”.
La domanda è: Mamone può davvero ricattare Burlando?
In passato il presidente della Regione ha più volte detto che no, che con Mamone a parte alcuni incontri nei cantieri, non c’è mai stato alcun altro rapporto.
Ma Mamone finanziò uno degli eventi organizzati dall’associazione Maestrale creata da Burlando e alla quale aderirono tutti i potenti e gli aspiranti tali della Liguria.
E altre intercettazioni evidenziavano grande familiarità tra Mamone e strettissimi collaboratori (come Gian Poggi ed Edoardo Bozzo già a capo della Filse che spiegarono di aver avuto solo rapporti professionali con Mamone) di Burlando, o suoi factotum come lo scomparso Piero Piccolo che chiedeva all’imprenditore di volta in volta di finanziare iniziative dell’Anpi o della festa della Liberazione.
E Mamone pagava e poi portava pure in regalo in Regione le uova di Pasqua.
Oppure regalava arbanelle di acciughe a Giovani Pisani, nel 2007 presidente di Sviluppo Genova, altro amico di Burlando.
Alla fine si resta con un dubbio. Mamone era solo un arrampicatore spremuto e mai soddisfatto che si è trasformato in un millantatore rancoroso?
Nell’attesa che Gino Mamone, nel corso dell’interrogatorio di convalida davanti al gip Roberta Bossi decida di chiarire questi retroscena, val la pena leggere cosa scrive il pm Paola Calleri negli atti d’indagine: “Da tali conversazioni che Mamone fa con le persone che gli sono più vicine e con le quali non ha dunque ragione di millantare… si evince che lo stesso è a conoscenza di circostanze che se rivelate pregiudicherebbero gravemente il Burlando”.
Giuseppe Filetto e Marco Preve
(da “La Repubblica“)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
I RESIDENTI CHIEDONO DI ANNULLARE I PELLEGRINAGGI-SPECULAZIONI
“I Cinque Stelle non vengano qui a Tor Sapienza. Come gli altri politici, non sono graditi”. 
È questo, in sintesi, il messaggio inviato dai cittadini del quartiere romano teatro negli ultimi giorni di scontri e proteste ai parlamentari del Movimento Cinque Stelle, che hanno annunciato nel pomeriggio una visita sul posto.
“Abbiamo chiesto alla politica, e in questo caso al Movimento Cinque Stelle, di non essere presenti qui a Viale Giorgio Morandi perchè noi vogliamo essere protagonisti della nostra via senza alcuna etichetta politica. Il Movimento Cinque Stelle, come altri, fa parte di uno Stato che non ci rappresenta”, ha affermato Sandra Zammataro, portavoce dei residenti di via Giorgio Morandi dove nel pomeriggio è attesa la delegazione M5S formata, tra gli altri, da Paola Taverna e Marcello De Vito.
Il Movimento Cinque Stelle Roma aveva annunciato che “oggi, alle ore 16.30 in via Giorgio Morandi, Marcello De Vito insieme alla parlamentare Cinque Stelle Paola Taverna e ai due consiglieri del V Municipio, incontreranno i comitati dei cittadini di Tor Sapienza. Sul tappeto fatti che da giorni occupano la cronaca cittadina”.
Un’iniziativa che però non è piaciuta ai residenti, che si sono detti stanchi della “sfilata dei politici”.
Finora in visita a Tor Sapienza si sono recati – in quest’ordine – la deputata e presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale Giorgia Meloni, il sindaco di Roma Ignazio Marino e l’eurodeputato della Lega Nord Mario Borghezio, che non è entrato nel centro accoglienza, ma si è preso un cappuccino in un bar distante 2 chilometri.
Il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha annunciato a sua volta una visita, ma anche lui è entrato nella black list.
Addio sogni di gloria e speculazioni.
(da “Huffingtonpost“)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
PARRUCCHIERE CHE LAVORANO A CASA, IDRAULICI FANTASMA: ECCO LA MAPPA DEL NERO
Ci sono parrucchieri ed estetiste, spesso ex dipendenti licenziati, che continuano ad esercitare a casa loro o direttamente a casa dei clienti, tassisti completamente abusivi o che magari «sforano» in comuni limitrofi a quelli per cui hanno la licenza, idraulici ed elettricisti che tirano giù la serranda ma che poi continuano come se nulla fosse a prestare i loro servizi, e ancora trasportatori per conto terzi senza la necessaria abilitazione.
Per non dire poi di imbianchini e muratori.
C’è gente che fa il doppio lavoro e ci sono anche tanti cassintegrati che in questo modo cercano di arrotondare. Complice la crisi l’esercito degli abusivi cresce anno dopo anno.
Oggi sono un milione, o quasi, calcola l’ufficio studi di Confartigianato.
O meglio sono 881mila, ma visto in media lavorano molte più ore dei regolari «valgono» come 1 milione e 34mila persone, o «unità di lavoro equivalenti a tempo pieno» (ula) per usare il termine dei tecnici.
Il tasso di irregolarità , tra i lavoratori autonomi, tocca così il 13,8%.
Ovvero, un occupato su 7 è in nero. Se poi si allarga lo sguardo al totale dell’economia il conto degli irregolari, calcolando anche i 2.204.000 lavoratori dipendenti a loro volta «in nero», sale a quota 3 milioni e 85 mila, con un tasso complessivo di irregolarità del 12,4%.
Concorrenza sleale
Questo esercito di abusivi non solo «fa concorrenza sleale alle imprese regolari – è scritto nel rapporto di Confartigianato, che ha elaborato i dati contenuti nei conti nazionali pubblicati dall’Istat a settembre, e che La Stampa pubblica in esclusiva – ma determina una rilevante evasione fiscale».
Usando come reddito la media rilevata dagli studi di settore, Confartigianato stima che la presenza di una fetta così ampia di lavoro irregolare determini un’evasione fiscale e contributiva da parte dei soli lavoratori autonomi pari a 11,78 miliardi: 3,8 miliardi di Iva, 2,8 di Irpef, 604 milioni di Irap e 4,54 miliardi di contributi sociali. Tanto per fare un paragone: l’importo evaso dagli abusivi, in media 14.209 euro a testa all’anno, rappresenta lo 0,7 del Pil ed equivale alla spesa sanitaria di Veneto e Marche messe insieme.
Chi è più esposto
Ovviamente le imprese artigiane regolari sono tra le più esposte alla concorrenza sleale del sommerso: circa i due terzi del settore (923.559 imprese, 1.750.427 di addetti) sono a rischio.
In cima alla lista “altri servizi alla persona” con un tasso di esposizione del 24,5%, servizi di alloggio e ristorazione (22,1%) e le attività di trasporto e magazzinaggio (19,5%) che in tutto assommano 333.748 imprese e 650.743 addetti.
Particolarmente esposti anche parrucchieri ed estetiste, settore che conta 126.790 imprese e 229.300 addetti.
In valori assoluti tra le regioni più «colpite» ci sono Lombardia (con 172.688 imprese, pari 18,7% del totale dell’artigianato più esposto), Emilia-Romagna (10,2), Veneto (9,6) e Piemonte (9,5).
Commenta il presidente nazionale di Confartigianato, Giorgio Merletti: «Smettiamo di tollerare l’abusivismo e le attività irregolari come se fossero un male necessario. Il fenomeno del sommerso è un’emergenza nazionale, una grave minaccia per il Paese e per il sistema produttivo, soprattutto per artigiani e piccole imprese. Noi piccoli imprenditori siamo le prime vittime della concorrenza sleale di chi opera senza rispettare le leggi, sottraendo gettito alle casse dello Stato e minacciando la sicurezza dei consumatori».
Il record in Campania
In termini assoluti la metà degli occupati irregolari totali si concentra in cinque regioni: l’11,6% in Campania con 357.400 unità , il 10,7% in Sicilia (329.400), il 10,1% in Lombardia (312.600), il 9,4% in Lazio (290.900) e l’8,2% in Puglia con 253.400 unità .
In Calabria un terzo (35,3%) degli occupati è irregolare, in Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia viaggiano sul 25%, Campania e Puglia sono attorno al 20.
Il tasso di irregolarità più basso è pari al 5,9% e si rileva nella Valle d’Aosta.
Un terzo (34,2%) degli occupati irregolari, pari ad oltre un milione (1.054.600 unità ), si concentra nelle sette prime province: Roma (222.500 unità ), Napoli (200.900), Milano (157.300), Torino (126.700), Bari (106.500), Palermo (87.900), Cosenza (78.500) e Salerno (74.300). Ma a livello provinciale i picchi si toccano a Crotone con il 40,1%, a Vibo Valentia (39,3%) e Catanzaro (37,8%).
Come rimediare a tutto ciò? «Non servono interventi spot e dichiarazioni di buone intenzioni — spiega Merletti -. Il fenomeno del sommerso va combattuto senza ipocrisie e in modo strutturale, intervenendo sulle cause che lo favoriscono, vale a dire tutto ciò che ostacola l’attività delle imprese che lavorano alla luce del sole, a cominciare dal carico fiscale e contributivo troppo elevato e dall’eccesso di burocrazia».
Paolo Baroni
(da “La Stampa”)
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Novembre 17th, 2014 Riccardo Fucile
MAGLIA NERA A NAPOLI CON L’83%, I PIU’ VIRTUOSI A GENOVA CON IL 18%
Più di un negozio su due non fa scontrini fiscali o li emette in modo irregolare. 
A segnalarlo è un’indagine dell’Adnkronos in collaborazione con associazioni di categoria e dei consumatori.
Lo studio arriva a una settimana di distanza dall’annuncio dell’Agenzia delle entrate sulla prossima “archiviazione” dello scontrino, che diventerà obsoleto quando, come previsto dai piani della nuova direttrice Rossella Orlandi, andrà a regime la completa tracciabilità dei pagamenti con contestuale trasmissione telematica dei corrispettivi.
Il sottosegretario al ministero dell’Economia, Enrico Zanetti, ha anche anticipato che il governo sta studiando l’introduzione di un bonus fiscale per spingere commercianti, artigiani o professionisti a dotarsi dei necessari dispositivi digitali per memorizzare i pagamenti e segnalare direttamente le transazioni al fisco.
Nell’attesa di questa rivoluzione, il quadro resta preoccupante.
Le punte massime di mancata emissione si registrano a Napoli, con l’83% degli esercizi che non rilasciano il documento fiscale.
Genova si conferma invece la città con meno irregolarità , con il 18 per cento.
Intorno alla media Roma, Milano e Palermo, con percentuali che oscillano tra il 45 e il 50 per cento.
Il rapporto, nato da un monitoraggio condotto tra 15 settembre e 15 ottobre, tratteggia la geografia dell’evasione “minuta”, quella che nasce da piccoli importi ma, moltiplicata su tutta l’Italia, arriva ad accumulare cifre consistenti: dai conti della pizzeria appuntati sul bordo di una tovaglia di carta al cornetto con cappuccino pagato direttamente al bancone del bar.
Fino a macellai, fruttivendoli e negozi di alimentari che tengono spento il registratore di cassa.
Ed è proprio per far fronte a questa situazione che i tecnici del ministero dell’Economia puntano su fatturazione elettronica e invio telematico dei dati sui flussi di pagamento. In teoria molto più sicuri e affidabili del sistema attuale, introdotto negli anni ottanta con poche eccezioni.
L’esonero dall’emissione dello scontrino o della ricevuta fiscale è previsto per esempio per i tabacchi, i carburanti per l’autotrazione, i giornali, i prodotti acquistati ai distributori automatici.
Esclusi dall’obbligo anche i conducenti di taxi (che però in caso di specifica richiesta del cliente sono tenuti al rilascio della fattura) e alcune attività considerate minori, come quelle di ciabattini, ombrellai e arrotini.
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