Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile SE SALVINI PREVARRA’ SU GRILLO, IL VOTO REGIONALE RISOLVERA’ ALCUNI PROBLEMI MA GLIENE CREERA’ DI NUOVI
Il novembre di Renzi non è fatto solo di alluvioni, screzi sulla riforma del lavoro, rivolta nelle periferie e qualche passo indietro nei sondaggi.
C’è anche un miniappuntamento elettorale domenica prossima che è quasi un “midterm” nostrano, sia pure molto circoscritto.
Si vota come è noto in Emilia Romagna e in Calabria, due segmenti significativi dell’Italia di oggi.
Troppo poco, certo, per confermare o smentire la mappa politica emersa nelle elezioni europee di maggio. Ma abbastanza per richiamare l’attenzione del premier di ritorno dall’Australia. Ovvio che la tendenza all’espansione dei consensi prima o poi doveva arrestarsi e in fondo le percentuali di Renzi restano alte, grazie anche all’assenza di alternative.
Tuttavia l’impressione è che l’opinione pubblica, a questo punto, abbia voglia di vederci chiaro nel fenomeno politico del 2014.
Il giudizio sul personaggio diventa più maturo, meno condizionato dal dinamismo mediatico.
E le difficoltà dell’autunno, in qualche caso più drammatiche del previsto, servono a misurare meglio i fatti del governo dopo le parole.
Renzi sa che la prima fase del suo mandato si è esaurita per sempre.
Ma proprio per questo ha bisogno di verificare il rapporto con gli elettori. Le regionali in Emilia Romagna e Calabria arrivano al momento opportuno: non sono un “test” troppo rischioso, ma nemmeno irrilevante.
Vincere, e vincere bene, può rappresentare il modo migliore per proiettarsi con fiducia verso le scadenze di fine anno.
D’altra parte, le polemiche con le autorità regionali sulle cause del dissesto territoriale dicono molto circa la fragilità della situazione.
Il successo di Renzi nei primi mesi di governo è stato rapido e impetuoso, ma può incrinarsi quasi alla stessa velocità .
Chissà se il presidente del Consiglio si è ricordato in questi giorni delle altalenanti fortune di un ottimo riformatore come Gerhard Schroeder, che nel 2002 fu rieletto cancelliere in Germania anche in virtù del modo serio e tempestivo con cui affrontò le inondazioni di quell’anno, mettendo proprio i piedi nell’acqua, ma nel 2005 non seppe gestire con la stessa serietà un’analoga emergenza e ne pagò le conseguenze.
In altre parole, a Renzi serve qualche risultato tangibile, che non sia solo l’arabesco infinito del patto con Berlusconi.
Ma serve anche un conforto elettorale. E l’unico possibile passa oggi da Bologna e Reggio Calabria. Due regioni dove il centrosinistra è atteso domenica alla vittoria, ma poi si tratterà di valutare le cifre e il merito dell’affermazione.
La Calabria, dopo l’inquietante tramonto della giunta Scopelliti, dovrebbe aggiungersi con agio al conto delle regioni governate dal centrosinistra.
Per Renzi sarà una notizia da valorizzare con la dovuta enfasi, visto che fino a pochi mesi fa non era scontata. Del resto, il centrodestra è diviso e i nomi presentati non proprio di primo piano. I grillini non incidono e la nuova Lega non è ancora arrivata così a Sud.
Quanto all’Emilia Romagna, il discorso è più complicato.
S’intende che il candidato del Pd, Bonaccini, è favorito. Ma sarà interessante contare i voti e misurare il peso dell’astensione.
Se c’è una parte d’Italia dove i quadri del partito tradizionale, il partito per cui Livia Turco piange in tv, sono ancora solidi, quella è l’Emilia Romagna.
E se c’è un pezzo d’Italia centrale in cui Salvini può fare le prove generali per superare Berlusconi e dare legittimità alla sua ambizione di guidare l’intero centrodestra, esso ha ancora i contorni della regione “rossa”.
Lunedì potrebbe essere proprio Salvini la figura che si pone in prospettiva come alternativa al centrosinistra. Soprattutto se avrà sconfitto Forza Italia e Grillo ed ereditato una fetta consistente dei suoi consensi.
Come dire che il piccolo “midterm” risolverà alcuni problemi a Renzi, ma gliene creerà di nuovi.
Stefano Folli
(da “La Repubblica“)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile I RE DELL’ORO NERO LUCANO E LA RIVOLTA DEI RAGAZZI
Anche i lucani nel loro piccolo s’incazzano. 
L’Opa delle compagnie petrolifere sulla regione, l’offerta di comprarsela in blocco e trivellarla nel modo giusto, facendo zampillare una selezione tra i migliori dei 479 pozzi censiti e “assaggiati” (271 in provincia di Matera e 208 in provincia di Potenza) in cambio di una distesa di bigliettoni di euro alle comunità coinvolte deve ora vincere l’ultimo e più increscioso degli accidenti: la paura.
Un passo indietro.
Matteo Renzi a maggio decide di trasformare la Basilicata nel nuovo Texas italiano e avoca al potere centrale, nel decreto Sblocca Italia, le competenze per l’ampliamento della produzione petrolifera.
Lo chiedono le tre grandi sorelle interessate all’affare: Eni, Shell e Total.
Dei 38 pozzi attualmente in produzione con 85mila barili al giorno, che diverranno 135 mila appena i 50 mila marchiati Total saranno sul mercato e 154 mila quando l’Eni attiverà l’estrazione dell’ultimo ceppo concordato nella vecchia intesa, si può succhiare da altri buchi altro meraviglioso oro nero.
La cosa straordinaria è che la scelta di Renzi di evirare ogni autonomia alla Lucania ottiene fra gli evirati un indiscutibile successo.
Vivissimo plauso da parte del pacchetto di deputati e senatori che detengono la Regione. Per Marcello Pittella, il governatore, si aprirebbero così “grandi opportunità ” per il territorio. Marcello è fratello di Gianni, azionista di riferimento del Pd e capogruppo dei socialisti europei a Bruxelles che nel silenzio annuisce.
L’ex governatore Vito De Filippo è sottosegretario alla Sanità e figurarsi.
L’altro ex conducator Filippo Bubbico, predecessore di De Filippo e Pittella, è viceministro all’Interno e stra-figurarsi.
C’è da aggiungere che un altro potentino, Roberto Speranza, è capogruppo alla Camera e quindi sonnecchia con circospezione.
Il sestetto di mischia si completa con un vero fan del petrolio, il deputato Salvatore Margiotta.
I potenti e influenti politici locali dunque non solo applaudono ma rifiutano di accogliere la richiesta popolare di ricorrere alla Corte costituzionale contro l’articolo 38 che centralizza l’affare, spostandolo a Roma, lontano dal cuore.
Resta, quasi solitario, il voto di Vincenzo Folino, anch’egli Pd: “Combatto controquesta posizione anche se so di perdere”.
Il contesto sembra far girare il vento per il verso giusto.
Matera è intanto eletta capitale europea della cultura, e dunque festeggia i suoi Sassi infischiandosene della puzza e delle trivelle.
Anche le parrocchie salutano compatte all’incipiente sequela di perforazioni.
Del resto le tre sorelle del petrolio, sempre animate da spirito collaborativo, sostengono col loro marchio un decisivo volume della Cei dal titolo “Itinerari religiosi in Basilicata”. Federica Guidi, il ministro dello Sviluppo economico in una sua visita quasi lacrima per la gioia: non ha mai visto un popolo più tenero, disponibile e responsabile di quello lucano: “È veramente brava gente”.
Poi però qualcosa s’inceppa. Iniziano gli studenti medi, quelli dei licei.
Programmano le cinque giornate, ma non è nulla di letterario. Ci saranno cinque giorni di proteste in piazza.
Banale ma efficace la questione posta. Emanuele, uno dei leader, domanda a Renzi: “Vieni nella mia casa e non bussi alla mia porta? ”.
Manifestano il primo giorno, e sono migliaia. Pure il secondo giorno sono migliaia. E così il terzo. “Un modo per non andare a scuola”, snobbano i pretoriani.
Allora le manifestazioni vengono spostate al pomeriggio: e sono migliaia comunque.
Turbolenze giovanili? Sì e no.
Perchè la rabbia dei giovanissimi si unisce a quella di chi non vive di petrolio ma di turismo e agricoltura.
I materani, pur in festa, iniziano a interrogarsi sul fatto che il loro cielo si sporchi di nero per colpa dei potentini, dei quali non hanno grande simpatia (ricambiati, del resto). Dunque dopo Potenza anche Matera il 23 novembre scenderà in piazza.
È un contagio lento ma che avanza. E dove non può la rabbia, ce la fa l’altra paura.
La paura di vedersi ricco ma ammalato. Qui a Viggiano, capitale del petrolio, i soldi sono tanti ma anche la fifa è blu.
Tanto che il sindaco Amedeo Cicala confessa: “Potessi direi no al petrolio. Ma come si fa? Mi preoccupa però l’economia drogata, ho terrore che la mia comunità sia espropriata dal diritto di governare la scelta industriale”.
Viggiano, 3200 abitanti, incassa 11 milioni di euro di royalties all’anno.
Sono ricchi ma storditi. Ricchi ma impauriti. Infatti il consiglio comunale voterà il ricorso alla Corte costituzionale contro l’articolo dello Sblocca Italia che gli lega mani e piedi.
La paura è che il petrolio produca danni alla salute.
Gli ultimi dati disponibili riferiscono di un evidente, straordinario innalzamento delle patologie oncologiche. Sono 366 casi di cui 183 con decesso.
Mesotelioma e carcinoma polmonare i principali killer riconosciuti. “Quando si alzano quelle fiammate lunghe decine di metri verso il cielo io tremo. E tremano anche quelli che fanno affari con il petrolio”, dice il sindaco di Viggiano.
Le fiamme, i fumi. Anche Matera davanti a sè ha i gas dell’Ilva che quando sono poderosi si scorgono nitidi all’orizzonte, e dietro di sè il fuoco, o i veleni sotterrati nella piana del Basento.
Ma gli affari, incrociando le dita, vanno a gonfie vele.
E qui però la terza e ultima novità : sta per approdare a riva una inchiesta della procura di Potenza, oramai avviata da mesi, sul business connesso al petrolio.
Gli affari viaggiano sui tir che trasportano i reflui tossici, le scorie radioattive e i fanghi. Dove e come questi veleni vengono sotterrati? Quali le cautele e quali le imprudenze?
È davvero tutto a norma di legge? Ed esiste o è un’invenzione di alcuni “cronisti straccioni” l’esistenza di un circuito politico che si abbevera ai pozzi?
Sui cieli lucani turbolenza in arrivo, allacciare le cinture!
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile SVILUPPO, RICERCA, INVESTIMENTI E INNOVAZIONE: LE IMPRESE ITALIANE SONO TRA LE ULTIME IN EUROPA
Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge – di cui il governo parlerà , sembra, a gennaio – che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale.
D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla Cgil).
In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari.
Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55.
Si tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza.
Questo spostamento di reddito ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna.
Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori.
La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil.
In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo.
Ma ciò avverrà , quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano.
Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone.
Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura.
Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia.
Le imprese italiane – con rade eccezioni – si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo.
Nonchè, guarda caso, per la produttività del lavoro.
Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa.
L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15.
Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole.
Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe.
Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione.
Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni.
E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca.
Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola.
La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese.
Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi.
Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto.
Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc.
Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane.
Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla.
Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività , avranno ben poco da spartirsi.
Luciano Gallino
(da “La Repubblica“)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile IL TRITOLO CHE E’ “GIA’ ARRIVATO” E GLI AVVERTIMENTI A SCARPINATO RICORDANO PERIODI BUI DELLA REPUBBLICA
Ci risiamo. 
Ci risiamo a quel clima orrendo che ha segnato la storia tragica della nostra Repubblica.
Ci risiamo al 1992 ma non soltanto… speriamo di no, muoviamoci affinchè non sia così.
Ma quelle frasi tremende sul tritolo “che è già arrivato” per Nino Di Matteo, gli avvertimenti al Procuratore generale Roberto Scarpinato, e quel clima speciale che si stabilisce all’interno delle istituzioni appena si avvicina l’elezione del presidente della Repubblica, non può non destare allarme.
E la situazione è tanto più grave in quanto cominciano quei disordini sociali che sono così facili da infiltrare e indirizzare verso finalità oscure.
Mentre il Paese è governato da chi disprezza la trasparenza e il Parlamento e predilige accordi riservati.
Come se non bastasse sono riapparsi sulla scena personaggi legati al nostro passato più controverso: vedi la presenza di Michael Ledeen, storico e giornalista americano, fortemente legato all’intelligence Usa, dichiarato “indesiderabile” negli anni Ottanta e tornato in auge prima con Berlusconi e ora con Matteo Renzi e Marco Carrai.
C’è di che essere fortemente preoccupati.
È come se il nostro Paese non volesse mai lasciarsi alle spalle quella posizione di ancella fedele e sottomessa che accettò sin dal primo dopoguerra.
La subalternità forse ci piace, ma a me pare rischiosissima soprattutto quando il potere è nelle mani di pochissimi, e la democrazia costituzionale è derisa e ignorata.
In questo clima la nuova commissione sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro ha speditamente imboccato la strada dell’influenza avuta dalla Cia (ed eventuali altri servizi) nella gestione e nel finale dei 55 giorni. Sono cose antiche, si dirà .
Ma come ci ha insegnato l’intramontabile Bobbio, se ciò che è oscuro non si chiarisce è destinato a perpetrarsi.
Noi abbiamo alle spalle un passato di non verità e un esercito di morti ammazzati in stragi rimaste senza giustizia.
Faccio un esempio: io sono assolutamente convinta (anche perchè ricordo le esternazioni di alcuni dei protagonisti di allora, come Man-nino) che la trattativa tra mafia e Stato ci fu.
Ma chi rappresentava lo Stato, in questa trattativa?
Davvero lo stratega fu il presidente Scalfaro come affermano oggi comodamente alcuni testimoni, o c’è ancora da scavare sui protagonisti di quella tragica vicenda?
Certamente in parte lo Stato era rappresentato da chi trattava con Ciancimino ecc. , ma i veri politici coinvolti chi furono?
Mi torna spesso in mente una risposta che mi dette Scalfaro quando gli feci una domanda che per molto tempo non avevo avuto la possibilità di fargli.
Era il 24 gennaio 2011 ed ero andata nel suo studio di Palazzo Giustiniani per registrare, con Enrica Scalfari, un video che Libertà e Giustizia avrebbe proiettato alla manifestazione del Palasharp per chiedere le dimissioni di Berlusconi.
Ero rimasta sola col presidente mentre si preparavano le attrezzature e gli chiesi: “Perchè il 3 novembre del ’93 a reti unificate lei disse quel celebre ‘Io non ci sto’?”.
Una domanda improvvisa, una risposta immediata: “Volevano farmi fare cose che io, magistrato, non potevo fargli fare”.
Tutta l’intervista che seguì fu un inno alla magistratura e al dovere di assicurarne l’autonomia. Non dimentico le sue parole e mi chiedo se fu davvero lui ad allentare la morsa sul 41-bis oppure se volevano quello ed altro da lui: chi “voleva”? Io non lo so, ma ricordo che in quei mesi il Quirinale, il presidente e la figlia Marianna, erano accerchiati dalla morsa dei servizi, regolari o deviati.
E ricordo le minacce della Falange armata oltrechè la lettera dei familiari della mafia.
Insomma, non mi convincono le accuse dei Martelli e Amato.
Così come non mi hanno mai convinto Mancino e Mannino.
E mi piacerebbe che si indagasse oltre, anche perchè la verità ci serve a capire cosa sta succedendo oggi.
Che gli uomini al potere sono altri, ma che il ricatto della non giustizia fatta continua a pesare e forse ancora a indirizzare molto più di quanto ci appaia giorno dopo giorno, tweet dopo tweet. E il papello del primo Nazareno è tuttora segreto in qualche armadio della vergogna.
Sandra Bonsanti
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile RAPPORTI & POLITICHE
“Io non sono un cementificatore”. Il terrore di Claudio Burlando, dopo trent’anni da dominatore della Liguria, è che l’epitaffio sulla sua carriera sia questo: il cementificatore. Ma quale eredità ambientale lascia Burlando?
L’ultimo capitolo è nell’inchiesta sull’imprenditore Gino Mamone, arrestato giovedì con l’accusa di aver corrotto dirigenti pubblici a colpi di mazzette e prostitute per assicurarsi 10 milioni di appalti, spesso legati all’alluvione (i soldi sarebbero stati portati in Svizzera dalla moglie nascosti negli assorbenti).
“Gli facciamo venire il cagotto a Burlandino”, dice Mamone (in Liguria signore degli appalti pubblici per rifiuti e movimento terra), lasciando intendere, scrivono i pm, di pretendere aiuto dal governatore in cambio del silenzio sui loro passati rapporti.
Un ricatto? Un fatto è certo: Burlando ha avuto rapporti con Mamone, che sponsorizzava la sua associazione Maestrale.
Lo dimostrano informative dei Noe e intercettazioni dell’imprenditore: “Io sono amico di Burlando… questo progetto non lo blocca nessuno”.
È l’ultimo capitolo. Prima bisogna parlare del piano casa.
E qui le scelte di Roma, contro le quali punta il dito Burlando, si intrecciano con quelle del governatore.
È vero che la legge fu voluta da Berlusconi. Ma il piano casa della Regione Liguria suscitò critiche di Angelo Bonelli e Roberto Della Seta, ambientalisti scomodi: “È devastante, spalanca le porte a decine di milioni di metri cubi di costruzioni. Addirittura si applica, pur con qualche distinguo, agli immobili condonati”.
Il piano fu voluto da Burlando e dall’allora vice-presidente della Regione, Marylin Fusco (Idv), poi finita in manette in un’inchiesta.
Così come fu arrestato il suo successore, Niccolò Scialfa, scelto da Burlando per sostituirla.
E quasi mezzo consiglio regionale è indagato per i rimborsi.
Le scelte urbanistiche del centrosinistra sono state spesso contestate: come quando si diede il via libera alla costruzione di un outlet a Brugnato, a due passi dal fiume Vara. “Per me è in zona a rischio”, disse l’allora assessore regionale all’Ambiente, Renata Briano.
Le ruspe arrivarono lo stesso, pochi mesi dopo l’alluvione che nel 2011 devastò la val di Vara.
Anche il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, ha censurato quei cubi di cemento sfiorati dal fiume.
Ci fu chi ricordò la presenza di Marina Acconci, socia del Maestrale e vicina a Burlando, tra i realizzatori del progetto. Non è il solo caso.
Vedi il porticciolo della Marinella, alla foci del Magra, dove mille posti barca (e tanto cemento) rischiavano di imbrigliare un fiume che provoca disastri.
Nel cda della società — in mano alla banca rossa del Monte dei Paschi — sedeva il tesoriere elettorale di Burlando.
Il progetto è fermo per i guai Mps. Ancora: c’è chi ricorda che Vittorio Grattarola, ex assessore all’Urbanistica con Burlando al Comune di Genova, è diventato poi progettista di operazioni immobiliari discusse che hanno ottenuto il via libera da amministrazioni di centrosinistra.
Vedi quella di Cogoleto, tra i partecipanti un imprenditore ora latitante a Dubai.
Attacca Christian Abbondanza della Casa della Legalità : “Tra i soci del Maestrale c’erano imprenditori che realizzavano opere che la Regione doveva approvare, architetti che le progettavano e dirigenti regionali che dovevano approvarle”.
Come Gian Poggi, fedelissimo del governatore, per i pm in contatto con Mamone. Burlando è stato poi grande sponsor dell’operazione Erzelli.
Cittadella della tecnologia o colata di cemento pagata anche con soldi pubblici?
Renzo Piano, che aveva realizzato il progetto, si sfilò temendo la colata.
Oggi si stentano a trovare imprese che occupino i grattacieli. Erzelli pesa come un macigno su banca Carige che finanziò l’operazione (250 milioni).
Memorabile poi la legge sui porticcioli approvata da Burlando ministro di Prodi: “Un mio amico (Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”, disse Burlando.
Così Pd e Pdl hanno dato via libera a decine di chilometri di moli, con i posti barca passati da 14mila a oltre 23mila (più annesso cemento).
Altre vicende sono state oggetto di polemiche: la piastra di cemento (su cui espressero dubbi gli stessi dirigenti regionali) per un parcheggio lungo il Fereggiano realizzata utilizzando fondi destinati alle alluvioni ; la legge regionale che riduceva le distanze delle nuove costruzioni dall’alveo dei fiumi.
Per non dire di decine di operazioni immobiliari da milioni di metri cubi volute dal centrosinistra di cui Burlando era signore.
A Sanremo si rese edificabile una zona prima definita a “frana attiva”.
Ma la responsabilità non è solo di Burlando. Il centrosinistra ha approvato o taciuto. Burlando ha più volte tentato di scacciare da sè l’immagine del cementificatore.
Ha cercato figure autorevoli come “garanti”. A cominciare da Franco Bonanini, che sembrava il salvatore delle Cinque Terre e che poi è stato arrestato per lo scandalo del Parco (processo in corso).
Poi Oscar Farinetti: con una modifica di una norma regionale ha aperto Eataly a Genova. Tra le assunzioni: figlio di Burlando, compagna dell’allora segretario Pd, nonchè moglie e cognata di Gian Poggi.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile LE NOMINE NELLE SOCIETA’ CHE DOVEVANO SPARIRE
Cottarelli voleva ridurle da 8mila a mille. Renzi twittava: “Sfoltire”. 
Invece le aziende pubbliche continuano a dare incarichi. Da Poste a Finmeccanica fino ad Atac ed Eur, ecco la carica dei nominati.
Disboscare, ridurre, razionalizzare. Erano le parole d’ordine del governo sulle società controllate dallo Stato e sulle partecipate locali.
Ma mentre il commissario alla Spending scriveva i suoi piani la giostra degli incarichi continuava indisturbata.
Sulle poltrone, a prescindere dalle competenze, si accomodano fedelissimi del giglio magico e trombati della vecchia guardia. Così le società pubbliche sono sopravvissute ancora.
Era l’occasione buona per disboscare la giungla delle società pubbliche. A dare il “la” è stato il premier Matteo Renzi, fresco di incarico, a suon di tweet.
Quello datato 8 aprile 2014 faceva ben sperare: #municipalizzate “sfoltire e semplificare”.
A distanza di molti mesi tocca però constatare che il nuovo corso della politica non ha interrotto le vecchia abitudine di utilizzare le partecipate come paracadute per fedelissimi e trombati da sistemare, a spese del contribuente, per 450 milioni di euro l’anno.
Lo sa bene Carlo Cottarelli che il 7 agosto ha presentato al governo un “programma di razionalizzazione” per ridurne il numero da 8mila a mille nel giro di tre anni.
Non farà in tempo: il commissario ha lasciato l’incarico dopo un anno soltanto e il suo dossier è finito tra i misteri della Terza Repubblica.
Nel frattempo la giostra delle nomine non si è mai fermata e le poltrone da rottamare sono state rifoderate.
Cominciamo da Poste. Elisabetta Fabri dal 2000 guida la catena fiorentina Starhotels. Nel 2011 ebbe l’intuizione di raccogliere l’invito del sindaco Renzi a restaurare a proprie spese, al costo di 15mila euro, la cinquecentesca Madonna del Velo.
Passano tre anni e il premier le affida un incarico da consigliere da 40mila euro l’anno.
E pazienza se alle Poste, società che svolge un servizio pubblico di rilevanza economica, viene spedito un manager alberghiero. Per altro in compagnia di tanti tanti “amici”.
Un lavoro sicuro alle Poste. Ma solo per i nominati
Basta tirare un filo, arrivano su tutti. La società pubblica, va detto, è attesa alla prova di passaggi delicatissimi: la privatizzazione, lo sbarco in Borsa.
Ma questo non ha impedito al governo di riempire i posti chiave con soggetti d’ogni provenienza professionale e politica, soprattutto di “quote viola”, perchè si tratta per lo più di manager nati o venuti a lavorare a Firenze ed entrati in “sintonia” con chi, dal 2009 al febbraio 2014, ne è stato il sindaco.
Questa la radiografia dell’ultima tornata di nomine.
La presidenza è finita a Luisa Todini: 238mila euro lordi, più 66mila euro come consigliere Rai.
E’ una scommessa rosa di Renzi. Imprenditrice di nascita, ex eurodeputata di Forza Italia che non spiace a sinistra, anche grazie alle sue partecipazioni nei talk d’area. Come consigliere di Poste entra anche l’ex portavoce di Casini, nonchè ex deputato Udc, Roberto Rao: 40mila euro l’anno.
In Poste Vita approdata Bianca Maria Martinelli, manager del settore comunicazioni, già consigliere di amministrazione di Vodafone Italia, candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta Civica.
Di Poste sapeva poco o nulla, ma dalla sua vanta esperienze professionali in Fininvest e la creazione di Telecinco, l’ammiraglia spagnola del gruppo Mediaset.
Atterrano alle Poste altri folgorati sulla via di Rignano d’Arno. Antonio Campo dall’Orto, già frequentatore del palco della Leopolda, arriva da Conegliano, provincia di Treviso.
La sua amicizia con Renzi risale al 2010, quando lo chiamò per realizzare l’edizione fiorentina del reality ultrapop di Mtv “Jersey Shore”, trovando nel sindaco pronta disponibilità .
L’intesa fu tale che a lungo Dall’Orto è stato accreditato come favorito per la direzione generale della Rai, nel caso Gubitosi liberasse la poltrona.
L’opzione, si sa, è poi sfumata e lui ha trovato un posto alle Poste, pur essendosi occupato sempre di tv.
Un lavoro sicuro lo trova anche Andrea Peruzy, segretario della fondazione dalemianaItalianieuropei, assurto ad amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste Italiane, società che Monti voleva liquidare.
Infine la compagnia aerea di Poste, la Mistral Air, ha imbarcato un ex deputato Pd col diploma di perito tecnico industriale. Si tratta di Massimo Zunino, due legislature alle spalle e molto impegno per far confluire i circoli savonesi nel correntone renziano.
Nessuna svolta per lo stipendificio di Stato
I volenterosi finanziatori della Leopolda hanno poi vinto un trono all’Enel, all’Eni o in Finmeccanica.
Nelle aziende di Stato si fatica a smistare il traffico degli accomodati tra le 600 poltrone di prima e seconda fila, in barba ai proclami ma soprattutto ai 50mila euro (più Iva) spesi dal governo Renzi per la consulenza di due società di cacciatori di teste — la Spencer & Stuart e la Korn Ferry — incarica te di selezionare i nuovi top mana ger pubblici fuori da logiche di lottizzazione politica. Quali sono state poi le scelte del governo? Ecco una rapida carrellata di casi, più o meno noti.
All’Enel è finito l’avvocato di Alfano, Andrea Gemma, che il leader Ncd aveva chiamato come “soggetto attuatore” del Piano Carceri (2010-2012, 100mila euro l’anno di compenso).
Qui atterra anche lo sponsor della Leopolda e legale di fiducia del duo Renzi-Carrai, Alberto Bianchi, già presidente della Fondazione Open (dove siedono lo stesso Carrai, la ministra Boschi e il sottosegretario Luca Lotti) che per Renzi raccoglie i fondi da donatori privati. Suo fratello, per inciso, è Francesco Bianchi, il commercialista-commissario del disastrato Maggio musicale fiorentino, fortemente voluto dal “sindaco”.
Tra quelli che invece hanno versato soldi a Renzi per le sue campagne alle primarie del Pd c’è il senese Fabrizio Lan di, membro del cda di Banca CrFirenze ed ex amministratore delegato di Esaote, azienda leader del biomedicale con sede nella città del giglio.
Landi nel 2012 ha regalato 10mila euro a Renzi, che due anni dopo si è ricordato di lui, indicandolo per il cda di Finmeccanica.
All’Eni viene nominata l’imprenditrice aretina del rame Diva Moriani, in affari con la famiglia del ministro allo Sviluppo Federica Guidi e amministratore della Fondazione Dinamo, presiedu ta da Vincenzo Manes, impren ditore che guida l’Intek group (dove anche siede la Moriani) e generoso finanziatore di Renzi (62mila euro di donazioni), che lo ha fatto nominare nel 2010 in Aeroporti di Firenze.
Altro renziano doc all’Eni è Marco Seracini, uno dei so ci fondatori e presidente di un’altra associazione di raccolta fondi per Ren zi, NoiLink (anche qui in compa gnia di Carrai, e anche della de putata Simona Bonafè).
Link ha cessato le sue attività nel 2011, con un ottimo risultato alle spalle: 750mila euro raccolti per Renzi che tre anni dopo si ricorderà di lui, nominandolo sindaco revisore in Eni. Seracini — scri ve il Corriere fiorentino — è anche “com mercialista di fiducia di Renzi, presidente di Montedomini e fratello di Maurizio Seracini, l’ingegnere che sta compiendo le ricerche per la battaglia di An ghiari”, pallino renziano di trovare un capolavoro vinciano celato dietro un affresco del Vasari a Palazzo Vecchio.
L’affresco contemporaneo, intanto, è una pioggia di nomine.
La carica dei 37mila posti nelle 8mila partecipate locali
Le controllate statali sono lo spazio da esposizione del Poltronificio. Il magazzino è nelle retrovie, nei “sistemi territoriali” delle controllate regionali, delle multiutility, delle fondazioni e delle municipalizzate.
Dove chi esercita localmente il potere può conferire incarichi a pioggia grazie a 37mila poltrone disponibili per le nomine.
Un’impresa scovare tra i curriculum di consiglieri e amministratori qualcuno che abbia maturato esperienza e competenze nella gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.
Abbondano invece i “trombati”.
Cottarelli aveva stilato una lista nera delle società che cumulavano maggiori perdite: 600 milioni di euro per 20 partecipate. In cima, con 155 milioni di perdite e 750 di debiti, c’è l’Atac, la disastrata azienda di trasporti del Comune di Roma. Amministratore delegato, da luglio 2013 è il milanese Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti trasversali della politica, tanto da essere nominato a suo tempo da Tremonti in Consip (2005-2011).
Non si è mai occupato di trasporti e nonostante i conti non virino dal rosso, resta lì e non solo.
Anche lui è stato nominato alle Poste, ramo assicurativo, insieme alla schiera del cosiddetto “giglio magico”.
Per restare nel Lazio, Cottarelli avrebbe voluto liquidare la Eur Spa. E’ la società controllata al 90% dal Tesoro e per il 10% dal Comune di Roma che gestisce, con milioni di perdite, l’immenso patrimonio edilizio ereditato dall’Esposizione universale del 42: palazzi, musei, parchi e intere strade.
Impresa più facile a dirsi che a farsi: quello è un intero pezzo di Roma su cui — complici i conti in rosso del Comune — hanno messo le mani i palazzinari della capitale, senza che la politica levasse le sue.
Le premesse c’erano poi tutte: la società era a un passo dal tracollo, la Legge di Stabilità 2014 stanziava 100 milioni per onorarne debiti e perdite.
La Procura di Roma aveva rinviato a giudizio l’ex ad Riccardo Mancini per lo scandalo sull’appalto dei filobus. E invece non succede proprio nulla.
La controllata capitolina, mucca senza più molto da spremere, vien sempre buona per sistemare qualcuno.
Ad esempio Pierluigi Borghini. Nel 1997 si presenta come candidato sindaco del Pdl contro Rutelli e perde.
Prova a candidarsi alle politiche del 2001 per Forza Italia e non viene eletto. Ci riprova a quelle del 2013, niente da fare.
Per sua fortuna ha potuto però contare sull’Eur, che presiede dal 2009, con un compenso di189mila euro l’anno. Ora di liquidazione e accorpamento non si sente più parlare.
Si aspetta solo la scadenza del mandato per metterci qualcuno al passo coi tempi.
L’Italia dei nominati allo specchio: Finlombarda e Fincalabria
Cottarelli avrebbe poi voluto mettere le mani sulle società regionali che contano 7.300 dipendenti che, tra il 2009 e il 2012, sono costati un miliardo e 89 milioni di euro a cui vanno aggiunti altri 87 milioni per pagare gli amministratori, 91 milioni per il funzionamento e 75 milioni di debiti.
E dove i nominati non si riescono a disarcionare neppure volendo.
Due esempi ancora, agli antipodi dello Stivale.
Regione Lombardia eccelle anche nel numero delle sue partecipate. Ogni anno pubblica un “bollettino degli incarichi” e l’ultima edizione conta 400 pagine fitte fitte di nomi, poltrone e compensi. E anche qui, le sorprese non mancano.
Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi.
Per lui c’è un gettone di consolazione da 285 euro a presenza. E così fan davvero tutti. Andando all’altro capo dello Stivale c’è Fincalabria, la cassaforte regionale con cinque sedi e altre 22 società partecipate in pancia, due delle quali in fallimento e una in liquidazione.
Questa finanziaria traballante di una Regione senza governatore, è gestita da un reggente in attesa delle elezioni.
Si chiama Luca Mannarino ed è il coordinatore regionale dei Club Forza Silvio.
Per il presidente è fissato un compenso di 84mila euro l’anno.
In attesa di future imprese politiche.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile SONO 3.200, COSTANO 170 MILIONI L’ANNO ALLE REGIONI, HANNO LE LORO ASSOCIAZIONI (SOVVENZIONATE) E ORA DIFFIDANO I CONSIGLI: “NIENTE TAGLI O FAREMO RICORSO OVUNQUE”
“Resistere in giudizio ovunque”, come — aggiungeremmo noi — su un’immaginaria linea del Piave.
Ecco, magari Stefano Arturo Priolo, nonostante il doppio nome, non è Francesco Saverio Borrelli, ma con non meno pathos dell’ex Procuratore capo di Milano arringava la folla a fine ottobre: questo scempio accade “per la prima volta nella storia” e per di più “in un clima mediatico torbido”.
Il lettore si chiederà giustamente quali oscure forze, quale complotto stesse denunciando il Priolo: detto in maniera un po’ volgare, il taglio dei vitalizi per gli ex consiglieri regionali (compreso chi, e non sono pochi, ha pure il vitalizio parlamentare).
Il nostro, d’altronde, ha il dovere per così dire istituzionale di non far passare lo straniero sul suo Piave.
Dagli anni 90 è il presidente dell’associazione degli ex politici regionali calabresi e da un bel po’ pure di quella nazionale: una piccola falange di 3.200 (ex) eletti che incassa 170 milioni di euro l’anno.
Un tesoretto che ora rischia di essere pesantemente decurtato: la Conferenza Stato-Regioni, infatti, il 10 ottobre ha votato un odg che chiede tagli pesanti.
Giammai, dice Priolo, toccherete “giusti e legittimi diritti acquisiti”. Mica si fa così, che poi uno si rimangia la parola.
E dunque “resistere in giudizio ovunque”, dall’Alpi al Lilibeo, dal Manzanarre al Reno.
Siccome, però, si tratta pur sempre di (ex) uomini delle istituzioni, si tenta di evitare lo scontro.
L’associazione degli ex ha dunque inviato una lettera-diffida ai presidenti dei Consigli regionali: abbiamo un pacco di pareri legali e qualche sentenza della Consulta che ci danno ragione, guai a voi se tagliate.
Segue maledizione biblica: “Il contenzioso giuridico finirà per ricadere” su di voi (“posizioni puramente demagogiche e includenti porteranno a maggiori costi per le Regioni”).
La cosa curiosa è che le regioni si ritroveranno a lottare contro pareri di giuristi (tra i quali, ad esempio, quello autorevolissimo dell’ex presidente della Consulta Piero Alberto Capotosti) che hanno pagato loro: la sezione calabrese dell’Associazione degli ex parlamentari, per dire, prende 103mila euro l’anno dal Consiglio, quella siciliana all’ultimo dato disponibile 45mila, i veneti 30mila fino a quest’anno (ora basta, però).
Non solo: anche le sedi di queste simpatiche associazioni sono graziosamente messe a disposizione dalle regioni.
Insomma, la lobby del vitalizio vive fianco a fianco coi politici in attività , in attesa che anche loro divengano ex e si uniscano alla causa.
Fa ridere, ma non troppo.
Parliamo di gente di territorio, spesso capace di portare voti e prendere preferenze. Nel Lazio la platea interessata è ad oggi di 270 ex consiglieri che costano 20 milioni l’anno (in Sicilia la stessa cifra se la spartiscono in 207) tra cui l’ex governatore Piero Badaloni e Isabella Rauti, figlia di Pino e moglie di Gianni Alemanno: li guida Enzo Bernardi, assessore del fu Pri nei lontani anni 80.
In Friuli Venezia Giulia, dove si spende la bellezza di 9 milioni per 230 beneficiari, guida la falange il leghista Guido Arduini: “Sembra quasi che l’unico cruccio di questo Paese siano i vitalizi”, è quello che un ottimista chiamerebbe il suo pensiero sul tema.
In Trentino Alto Adige, invece, la faccenda è più complicata: basti dire che in 130 si sono spartiti un assegnone da 90 milioni.
Ora che le province autonome ne chiedono indietro un pezzo, però, l’orgoglioso germanofono della Sà¼dtiroler Volkspartei, Franz Pahl, replica in buon italiano: “Non accetto espropri”.
Nell’operoso Veneto, invece, la regione paga 11,2 milioni a 140 ex consiglieri e un altro milione e mezzo agli eredi di quelli purtroppo passati a miglior vita: il Consiglio in carica, al cospetto, è un consesso di frati trappisti visto che costa solo 9 milioni. Con quei soldi, per dire, gli ex nel 2012 chiesero un parere tecnico contro il taglio dei vitalizi a Maurizio Paniz, all’epoca deputato Pdl e retore d’aula talmente immaginifico che convinse la Camera che Ruby Rubacuori era davvero nipote di Hosni Mubarak.
Solo il meglio per gli ex consiglieri, che d’altronde già sopportano il prefisso che rende eterno il dramma della decadenza , della trombatura.
Nel disastrato Piemonte se ne vanno 8 milioni per 170 eletti dantan (li guida l’ex potente comunista subalpino Sante Bajardi), in Toscana 4,6 milioni vanno a 157 beneficiari, tra cui il presidente degli ex consiglieri, Angelo Passaleva, medico, professore universitario, ex Dc devoto al sindaco-santo La Pira, che esercita modestia e austerità con un assegno da 3.500 euro al mese.
In Lombardia invece c’è l’ex migliorista del Pci Luigi Corbani, oggi direttore generale dell’orchestra Verdi: “Ho un vitalizio di 2.000 euro senza adeguamento Istat”, ha tentato di farsi compatire una volta.
Uomo saldo e fiducioso nel futuro, come ogni migliorista che si rispetti: “Vinceremo al 99,9%”, è il suo parere sui ricorsi.
Nel piccolo e indebitato Molise sono un’ottantina i percettori di vitalizio per un esborso di 3 milioni l’anno, stessa cifra all’ingrosso che spende la Basilicata, che però non ha pubblicato la lista dei beneficiari.
Gli anonimi assegnisti possono stare tranquilli: li guida la mano sicura dell’avvocato Gabriele Di Mauro, già socialista, che da direttore dell’Agenzia regionale per le erogazioni in agricoltura nel 2009 è stato condannato dalla Corte dei Conti per un danno erariale da 45mila euro.
Non bastasse lui, c’è sempre l’ottimo Priolo: “L’odg che chiede di tagliare i vitalizi? Siamo contrari per ragioni di metodo e di merito”.
Così parla uno statista.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile LA FIGLIA DEL GIUDICE UCCISO: “LO STATO C’E’, COME NELLA NUOVA MAGISTRATURA DI CALTANISSETTA CHE HA RIAPERTO LE INDAGINI SULLA STRAGE”
“Per me mafioso è chiunque si renda corresponsabile, sia esso un componente dello Stato o meno. Anche
solo con il silenzio. Questo è intollerabile, lo dico da figlia e da cittadina. Provo indignazione per quello che sta accadendo, e per questo ho scelto di sposare l’iniziativa di Rosalba e Dina. Ritengo sia una delle poche se non addirittura la prima voce su un argomento su cui ancora si continua a tacere irresponsabilmente”.
La voce di Lucia Borsellino è pacata, le parole quasi sussurrate.
È minuta come un uccellino, con due grandi occhi nocciola che riempiono il viso, eppure quelle parole echeggiano forti come bombe.
Più forti di quella che il 19 luglio 1992, in via d’Amelio nella sua Palermo, le ha portato via il papà : il giudice Paolo Borsellino.
“Il mio lo definisco un ergastolo del dolore. Purtroppo è una condizione mentale che non si riesce a tirare fuori, per quanto poi si cerchi di dare ogni giorno una ragione al proprio impegno e una propria voglia di cambiare le cose. Mentre prima ero particolarmente ottimista, perchè mio padre lo è stato, oggi sono più con i piedi per terra alla luce di quanto è accaduto. Sono più disillusa. Questo mi aiuta anche ad apprezzare quel piccolo passo avanti, che poi si fa perchè si vuole fare”.
Il piccolo (grande) passo avanti lo sta facendo la Magistratura di Caltanissetta, riaprendo il caso con il Borsellino quater, grazie alle dichiarazioni del nuovo pentito Gaspare Spatuzza. Argomento di cui si è parlato a Mozzecane (piccolo, ma molto attivo Comune in provincia di Verona), nella manifestazione “Verità e memoria” all’ottava edizione.
Ma non è sola, Lucia: c’è anche Tina Montinaro con lei, vedova del caposcorta di Falcone, e l’avvocato Rosalba Di Gregorio, che ha scritto con la giornalista Dina Lauricella il libro “Dalla parte sbagliata”, che mette nero su bianco ciò che Rosalba, inutilmente, ha gridato al vento per anni.
A cominciare da complotti istituzionali e depistaggi palesi.
Una strana coppia, Lucia e Rosalba: lei è l’avvocato dei setti imputati condannati all’ergastolo per la strage di via d’Amelio, ora in sospensione della pena grazie alle rivelazioni di Spatuzza. “Non che ci si aspetti qualcosa — mette le mani avanti l’avvocato Di Gregorio, donna che le cose le affronta tutte di petto-. O meglio, dal quater emerge, finalmente, un pezzo di giustizia in più, fatta su prove e non su preconcetti, preconfezionamenti, teoremi forzati. Un pezzetto di verità ”.
Queste forti donne del Sud, ormai, a Mozzecane sono di casa.
“L’incontro con i ragazzi all’Università , la visita alla macchina distrutta, reperto della strage di Capaci: a Palermo non importa a nessuno — taglia corto l’avvocato Di Gregorio -. Con gli studenti di Giurisprudenza a Verona si è approfondito l’argomento, cosa che a Palermo mai è successa”.
Ma le Istituzioni, le manifestazioni nella ricorrenza delle stragi allora?
“Stai per caso parlando delle manifestazioni farsa, quelle in cui i Ponzio Pilato si battono il petto e si trascinano lì a mostrare che siamo tutti compenetrati e abbiamo bisogno di ricordarlo con una manifestazione costosa?”, sferra Di Gregorio.
“L’antimafia è diventata quasi una categoria sociale — aggiunge Lucia Borsellino -, quando invece dovrebbe essere la normalità delle cose, una condizione esistenziale”.
Parole durissime, le sue. “Un reperto come quello che ho visto a Mozzecane, la macchina della scorta di Falcone, da noi è invece un elemento di vergogna e di disonore. Invece dovremo avere la responsabilità di tenere sempre a mente quanto è accaduto per combatterlo fino all’ultimo respiro. Da noi ci sono ancora forti resistenze culturali che vanno abbattute, ma nello stesso tempo ci sono anche anticorpi fortissimi che si dovrebbero proliferare. Mi accorgo come tante cose siano ancora restie a cambiare, soprattutto nella mia terra. Ma lo Stato c’è, ed è in queste manifestazioni, come nella nuova magistratura di Caltanissetta”.
Anna Martellato
(da “La Stampa“)
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Novembre 18th, 2014 Riccardo Fucile DAL 1985 LA POLITICA PERDONA GLI ABUSI EDILIZI CHE VIOLENTANO IL TERRITORIO
L’Italia non sarebbe così sfasciata e fragile se negli ultimi trent’anni non si fosse coalizzata una santa alleanza dell’abuso edilizio che coinvolge tutti.
Dai cittadini che alla meno peggio si sono tirati su la casetta, alle imprese del mattone che hanno fatto spuntare come funghi villaggi in riva al mare e interi quartieri fuori legge, fino ai sindaci e assessori, certi che con il pugno duro si sarebbero scavati la fossa, elettoralmente parlando.
Ma siccome come dicono a Napoli “o pesce fete da’ capa”, il pesce puzza dalla testa, la scriteriata propensione nazionale al cemento selvaggio non si sarebbe trasformata in una catastrofe epocale, se non fosse stata tollerata, anzi, incentivata dai governi in cambio di consensi a buon mercato.
Il lasciapassare dello scempio si chiama condono, uno stratagemma sconosciuto fuori dai confini nazionali.
Dalla metà degli anni Ottanta del secolo passato fino al 2003 in Italia ne sono stati approvati tre di condoni edilizi, con una cadenza di un decennio l’uno dall’altro.
E non è finita perchè similcondoni o condoni mascherati sono in cottura e ai fornelli spignattano politici di destra, centro e sinistra.
Laura Biffi di Legambiente ha contato 22 tentativi legislativi dal 2010 al 2014 per salvare le case abusive.
L’ultimo, il decreto Falanga, da Ciro Falanga, senatore Forza Italia di Torre Annunziata, è passato 9 mesi fa a Palazzo Madama con 189 voti e appena 61 no grazie alle larghe intese.
Nel 2009, Berlusconi imperante, con i Piani casa fu concesso dal governo alle Regioni addirittura una specie di condono preventivo, con un regalo del 20 per cento di cubatura a chi avesse voluto allargare l’abitazione.
Un cavallo di Troia usato da alcune regioni per permettere interventi para abusivi su larga scala.
Il primo condono, quello che aprì un’era, risale al 1985, ed è a doppia firma: Bettino Craxi, socialista e capo del governo, e Franco Nicolazzi, socialdemocratico, ministro. Entrambi poi spazzati via da Mani pulite.
Fu un successo clamoroso e velenoso: le richieste di sanatoria furono più di 1 milione e 500 mila.
L’adesione fu così massiccia che per reggere l’ondata gli uffici tecnici comunali assunsero personale apposito, gente che ancora oggi sta dietro quelle pratiche perchè dopo 29 anni e dopo altre due sanatorie restano in attesa di valutazione 844 mila domande, quelle alle quali i sindaci non hanno saputo o voluto dire sì o no.
A quei tempi c’era ancora il Partito comunista che un po’ d’opposizione parlamentare la fece, anche se pure a sinistra ci andavano con i piedi di piombo, tutti presi dalla teoria giustificazionista (e in larga misura infondata) dell’abusivismo di necessità dei poveri cristi che non sembrava giusto punire con severità .
Dopo ogni condono i politici hanno sempre giurato che sarebbe stato l’ultimo. Di motivi per vergognarsi ne avevano a iosa perchè le sanatorie sono una bomba contro la bella Italia e un’ingiustizia che premia i furbi.
Dopo 10 anni a impugnare di nuovo la bandiera corsara dell’abusivismo fu Silvio Berlusconi, l’inventore della popolare teoria “ognuno è padrone a casa propria”.
Il primo condono di Berlusconi è del 1994, raccolse solo, si fa per dire, 312 mila richieste di sanatoria (leggi anche: voti) e fu proseguito in parte dal governo Prodi. Berlusconi 10 anni dopo fece il bis e ottenne altre 214 mila richieste.
Dal 1985 a oggi le domande di sanatoria sono oltre due milioni; quelle respinte appena 27 mila, con una bocciatura in media ogni 74 casi.
Così, tanto per dare un po’ di fumo negli occhi.
In attesa del prossimo colpo di spugna, chi può continua a costruire illegalmente.
Uno studio del Cresme, il centro di ricerche sull’edilizia, ha accertato che l’anno passato i nuovi immobili illegali sono stati 26 mila.
Che si sono aggiunti allo stock edilizio di quelle costruzioni così fuori da ogni grazia di dio che i proprietari manco hanno provato a condonarle.
Nel 2010 l’Agenzia del territorio le censì scoprendo una metropoli fantasma e diffusa di 1 milione e 200 mila immobili.
Daniele Martini
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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