Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
SONDAGGIO IXE’: PD 38,2%, M5S 19,8%, FORZA ITALIA 15%, LEGA 9%, SEL 3,5%, FDI 3,4%, NCD 2,8%
Sei punti persi in un mese dal 47 di fine ottobre al 41 attuale. 
Questo il dato della fiducia nei confronti del governo di Matteo Renzi che “paga” l’autunno di scioperi, gli scontri con il sindacato e le difficoltà economiche del paese che non sembrano essere superate.
Scende la fiducia, si diceva. Non solo nell’esecutivo ma anche nel premier stesso che pur confermandosi al primo posto nella ‘classifica’ dei leader politici più amati con il 43 percento perde due punti rispetto alla rilevazione di una settimana fa.
È questo quello che emerge da un sondaggio realizzato dall’Istituto Ixè in esclusiva per Agorà .
Gli altri leader
Cresce di un punto la fiducia degli italiani in Matteo Salvini, che raggiunge il 22 percento. Passa invece dal 17 al 16 percento Beppe Grillo, mentre resta stabile al 15 percento Silvio Berlusconi. Sale di un punto Angelino Alfano, che chiude al 13 percento.
“Renzi sta pagando questo autunno — ha osservato Roberto Weber, presidente Ixè —. Mentre fino a tutta l’estate scorsa il premier raccoglieva il consenso dell’opinione pubblica su qualunque tema ponesse l’attenzione, in questa fase invece trova forti ostacoli”.
Le intenzioni di voto
Sempre secondo il sondaggio dell’Istituto Ixè per Agorà il Pd, pur il calo, si conferma primo partito nelle intenzioni di voto con il 38,2 percento di consensi.
Perde leggermente anche il Movimento 5 Stelle (-0,2%), che scende sotto il 20 percento (19,8%), mentre resta stabile al 15 percento Forza Italia.
Continua a crescere la Lega Nord (+0,3%), che raggiunge il 9 percento, mentre resta pressochè stabile Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale (-0,1%), che si attesta al 3,4 percento.
Sel passa dal 3,2 percento della scorsa settimana al 3,5 percento; quasi invariato il risultato del Nuovo centrodestra (+0,1%), che raccoglie il 2,8 percento.
Perde qualcosa, ma resta comunque consistente, il cosiddetto ‘partito del non voto’, che mette d’accordo più di un italiano su tre (35,9%).
(da “Huffingtonpost“)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
ECCO GLI ERRORI NEI PROVVEDIMENTI USCITI DA PALAZZO CHIGI
Maledetta “annuncite”.
Il gusto per lo scatto e la serpentina rapida, capace di scartare e spiazzare gli avversari con annessi lacci e lacciuoli di burocrazia e vecchia politica, rischia di giocare un brutto colpo a Matteo Renzi.
Nell’era della semplificazione 2.0, coi tweet-slogan da 140 caratteri, accade infatti che il governo abbia già inanellato una discreta serie di topiche sul punto che più dovrebbe stargli a cuore: le leggi.
Col risultato ormai frequente di conferenze stampa con tanti annunci ma senza testi disponibili, lunghe soste “tecniche” al Quirinale, provvedimenti da riscrivere da cima a fondo.
Così, se la rivoluzione renziana è puro movimento, il rischio è quello di un motore che gira a vuoto per mancanza di coordinamento. E non è questione di gufi e rosiconi tanto cari all’immaginario del premier: in tutte queste falle l’esecutivo ci ha messo del proprio, come nella scelta di Teresa Bene per il Csm, indicata dal ministero della Giustizia e bocciata dal plenum per assenza dei requisiti.
A conferma che il gelido consiglio evocato dall’arcinemico di ritorno Massimo D’Alema («Meno spot e un’azione di governo più riflettuta, Matteo») non sia così campato in aria.
OMESSO CONTROLLO
Vedi la legge di stabilità , inviata il mese scorso al Quirinale senza la bollinatura della Ragioneria generale, il “timbro” che certifica la copertura economica.
A dare la cifra della questione è però il rocambolesco decreto Competitività , oggetto in estate di un autentico caso politico: entrato al Colle con più di 130 articoli, uscito dopo giorni di taglia e cuci in versione ridotta e con giudizi non proprio benevoli.
E nel merito, con qualche decisione non proprio irreprensibile. Come il mezzo miliardo che si voleva regalare a Poste italiane per pagare una multa per aiuti di Stato inflitta dal Tribunale della Ue. In che modo? Tagliando 410 milioni al fondo per pagare i debiti della pubblica amministrazione. Peccato che appena pochi giorni prima il governo si fosse impegnato ufficialmente a completare al più presto il rimborso di tutti gli arretrati con un apposito protocollo.
Preso poi d’assalto dai partiti al Senato, il decreto è diventato un carrozzone indigeribile, che addirittura consentiva ad alcuni manager pubblici di derogare al tetto di 240 mila euro di stipendio.
“Un marchettificio”, il commento più bonario in quei giorni.
Risultato: una manovra d’emergenza per eliminare alla Camera molte delle regalie. Una figuraccia tutt’altro che incruenta: di mezzo c’è andato uno dei capi del legislativo di via XX Settembre, Andrea Simi. Spinto all’addio, si sussurra, con l’accusa di mancata vigilanza (ma forse anche perchè non troppo allineato al nuovo corso renziano).
Situazione simile poche settimane prima col decreto Irpef, quello degli 80 euro in busta paga, dove il governo ha addirittura rischiato l’incidente diplomatico con la Presidenza della Repubblica per l’approvazione di un emendamento che parametra i tagli agli organi costituzionali col budget a disposizione.
Tradotto: sforbiciate più pesanti per Quirinale e Consulta, più leggere per le Camere.
Nulla di male, se il segretario generale Donato Marra e il sottosegretario Graziano Delrio non avessero già pattuito diversamente.
Irritato, il Colle ha inviato perfino una memoria al governo per chiedere il rispetto dei patti. Ma la moral suasion non è andata in porto.
NON È UN PAESE PER VECCHI
Tra furia rottamatrice e devozione per il giovanilismo purchessia, non se la sono scampata nemmeno i pensionati, ai quali col decreto Madia è stato di fatto vietato di collaborare con la pubblica amministrazione.
Una decisione dovuta all’abitudine di molti ministeri di rivolgersi agli ex dipendenti a riposo per risparmiare, tanto che già Mario Monti nel 2012 aveva imposto che gli incarichi non riguardassero mansioni svolte negli ultimi 12 mesi.
Ma nella foga di svecchiare, il governo Renzi ha reso l’interdizione assoluta (e non retribuita). Poi tutti a casa. O al massimo ai giardinetti. Senza tante storie.
Con buona pace dei volontari à¢gè che, senza alcun rimborso, da anni colmano le carenze d’organico nel comparto pubblico, dai tribunali agli uffici comunali.
Una previsione giudicata eccessiva anche dal comitato per la Legislazione della Camera, che esamina la qualità dei provvedimenti, secondo cui sarebbe stato «opportuno esplicitare più chiaramente l’ambito di applicazione».
Ma la norma non convince neppure un esperto di semplificazione come Alessandro Pajno, presidente della V sezione del Consiglio di Stato: «C’è un profilo di incostituzionalità , perchè non si può limitare l’iniziativa lavorativa. Quindi se non si precisa meglio, il divieto rischia di essere illegittimo».
Che sia regolare o meno, le conseguenze hanno già iniziato a farsi sentire.
Così, mentre un pensionato doc come Tiziano Treu è stato nominato commissario dell’Inps, il ministero dell’Università ha rigettato la terna proposta dal Consiglio accademico del Conservatorio “Rossini” di Pesaro per la scelta del presidente: fra i nomi prospettati c’è un dipendente pubblico in quiescenza, Giorgio Girelli, e l’incarico da qualche anno prevede una indennità di circa 600 euro al mese.
A nulla è valsa la rinuncia alla retribuzione da parte di Girelli, che ha già guidato gratis l’istituto.
CI PENSA MATTEO
Per carità , errare è umano e se è per questo il 2014 era iniziato con un capolavoro autolesionistico: per una svista la legge che abolisce i rimborsi elettorali, varata dal governo Letta, nel triennio comporterà 45 milioni di minori introiti per i partiti (18 solo quest’anno).
Ma adesso, con un energico premier sul ponte di comando, come spiegare un iper-attivismo che, senza ponderazione, rischia di rivelarsi non solo infruttuoso ma addirittura controproducente?
Perchè la velocità impone l’azione purchessia. «Non solo fare, ma soprattutto dare l’impressione di fare» commentano dai legislativi delle Camere, dove ogni testo di legge viene vagliato e tradotto “in prosa” per i parlamentari chiamati a occuparsene.
I rapporti tesi con gli uffici del ministero dell’Economia, ad esempio, sono segnati da divergenze che a volte sconfinano nell’incomunicabilità : da una parte le accelerazioni di Palazzo Chigi (dove alla stesura dei testi sovrintende Antonella Manzione, già comandante dei vigili di Firenze, oggi potente capo dell’Ufficio legislativo) dall’altro i tecnici del Tesoro, che chiedono più tempo per scrivere o valutare le norme.
Il risultato è una concentrazione di potere molto più forte del passato, una fiducia salvifica nelle capacità di Renzi che traspare nella preminenza affidata a Palazzo Chigi sulle materie più disparate, dall’edilizia scolastica ai porti.
E così anche i provvedimenti sono cuciti addosso al decisionismo del premier: il meccanismo del silenzio-assenso, pensato per velocizzare la concessione di autorizzazioni e nulla osta, nel disegno del governo prevede che la risposta arrivi entro 30 giorni.
Poi, in caso di mancato accordo, il presidente del Consiglio decide in splendida solitudine sulle modifiche da apportare.
Una prospettiva tale da far sobbalzare la presidente dell’associazione dei professori di diritto amministrativo, Maria Alessandra Sandulli: «Sono molto perplessa, siamo sicuri che si possa fare?» ha domandato durante un’audizione al Senato.
Tanto più che la novità è condita con l’immancabile punizione per gli inadempienti: per chi non rispetta i tempi di risposta, niente assunzioni.
Col rischio, a detta degli esperti, che negando un migliore assetto organizzativo la situazione finisca per peggiorare ulteriormente.
Non è solo questione di merito. Se la forma è anche sostanza, vanno annoverati pure casi di mera trascuratezza.
Come lo Sblocca Italia, che dovrebbe far ripartire i cantieri fermi ma ha ricevuto i dubbi di Bankitalia e dell’Anticorruzione per i rischi di tangenti e riciclaggio.
Quando lo hanno letto, agli uffici di documentazione della Camera non credevano ai loro occhi: due parti denominate “Misure urgenti in materia ambientale” distanti fra loro la bellezza di 25 articoli.
Motivo? Evidentemente a nessuno è venuto in mente di accorparle.
Il 1° agosto, presentandolo alla stampa, Palazzo Chigi caricò perfino un pdf sul sito per illustrare i dieci punti chiave. Ma il quarto, lo Sblocca porti, è mestamente vuoto da allora: nessuno si è accorto che il documento era incompleto.
L’anticipo del tfr è invece finito nel mirino del lettiano Francesco Boccia che, al netto del possibile risentimento verso il governo Renzi, è pur sempre presidente della commissione Bilancio di Montecitorio: non distingue tra pubblico e privato nè la dimensione dell’azienda, non valuta l’impatto e prevede una tassazione ordinaria. Insomma, «una norma scritta con i piedi» il non proprio benevolo commento.
A VOLTE RITORNANO
Non mancano nemmeno i provvedimenti-lampo, come il taglio dell’Iva ai marina resort (i posti barca adibiti al pernottamento) pensato per rilanciare la filiera nautica.
Obiettivo oggettivamente difficile, visto che vale dall’entrata in vigore (11 novembre) a fine anno: ci vorrebbe un evento soprannaturale.
D’altronde, quando si dice che un governo fa miracoli, può anche capitare che qualcuno resusciti.
Come il commissario straordinario per la ricostruzione in Irpinia, soppresso a febbraio, una settimana prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi e a 34 anni suonati dal terremoto.
Tempo quattro mesi e questa figura ormai mitologica è risorta dalle ceneri, riapparendo in un decreto che lo proroga a tutto il 2016 (a 100 mila euro l’anno) insieme al “gemello” incaricato di completare la galleria Pavoncelli bis, il tunnel che dovrebbe portare l’acqua dall’avellinese alla Puglia.
I lavori sono iniziati nel 1989 ma finora ne sono stati realizzati un paio di chilometri appena, un quinto del totale. Un
a media di 100 metri l’anno, meno di trenta centimetri al giorno.
E di questo passo ci vorrà un altro secolo per finire.
Paolo Fantauzzi
(da “L’Espresso”)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
NELLA SQUADRA DI RENZI SONO IN CINQUE A ESSERSI DIMOSTRATI INUTILI, COME CONFERMANO I SONDAGGI
C’è Gianluca Galletti, ministro dell’Ambiente tra i pochi ad aver visitato Genova perchè, come spiegano da
Palazzo Chigi «nessuno conosce il suo viso, può dribblare contestazioni e pomodori».
C’è la titolare degli Affari regionali e del turismo Maria Carmela Lanzetta, ospite fissa ai convegni della sua Calabria che vanta presenze al “Palio dei Ciucci” di Cuccaro Vetere e al premio “Caduceo d’oro 2014″, organizzato dai farmacisti di Bari.
Ma tra i ministri “per caso”, quelli in fondo ai sondaggi che monitorano la fiducia degli italiani, c’è anche Federica Guidi, piazzata allo Sviluppo economico e alle prese con i morsi della crisi industriale (le acciaierie di Terni in primis) e i suoi conflitti d’interessi: l’azienda di famiglia, la Ducati Energia, ha delocalizzato all’estero le sue attività , operazione che spesso è tra le cause dei licenziamenti.
«Non c’è sindacalista che non rischi di rinfacciarglielo» chiosa un dirigente del Mise. «A mediare ai tavoli così ci va sempre Claudio». Cioè il viceministro De Vincenti, vero capo ombra del dicastero.
Passando dall’invisibile Maurizio Martina, il bersaniano a capo dell’Agricoltura che sull’Expo si gioca faccia e carriera, fino a Stefania Giannini — la titolare dell’Istruzione famosa per il pasticcio del concorso per entrare a Medicina — secondo un’analisi di Datamedia sono dieci i ministri che raggiungono a stento la stima di un elettore su cinque.
Pesano, sul giudizio negativo, tre fattori: l’incapacità comunicativa, l’inadeguatezza e la volontà di Matteo Renzi di presentare il governo con una sola faccia: la sua.
Come annotano i politologi la leadership dell’ex sindaco è stata fin dal principio autoritaria e monocratica.
Il premier non si fida di nessuno, non delega e governa da solo, con l’aiuto del suo cerchio magico: contornarsi di personalità deboli e ministri fantasma non è un caso, ma una scelta politica.
Che può portare forte consenso personale, ma anche svantaggi nell’azione amministrativa.
GUIDI “LA PORTAVOCE”
Partiamo dalla Guidi. Ex presidente dei Giovani di Confindustria e qualche anno fa in predicato di formare un ticket elettorale con Silvio Berlusconi, secondo Maurizio Landini «è la donna sbagliata al posto sbagliato».
Il suo ministero è il primo fronte della crisi industriale: da Aosta a Caltanissetta le vertenze sono ormai oltre 150, con 28 mila lavoratori che rischiano il posto.
Alle trattative, però, la Guidi non ci va mai. Al suo posto c’è quasi sempre il viceministro De Vincenti, che ha ottenuto le deleghe alle relazioni istituzionali con sindacati e imprese, insieme a quelle per l’energia, la competitività e i rapporti con le Regioni.
Il sottosegretario Antonello Giacomelli s’è preso quelle per le telecomunicazioni tanto care a Berlusconi: fedelissimo di Renzi e buon amico di Denis Verdini, Giacomelli è stato per lustri direttore di Canale 10.
Ora i giochi sul canone Rai e i business su frequenze e tv passano sulla sua scrivania. «Alla Guidi resta poco da fare, noi la chiamiamo “la portavoce dei suoi vice”» ironizza il dirigente del Mise.
«Per ora ha tagliato circa 350 milioni dal bilancio del ministero, tra cui anche incentivi alle imprese. Alle riunioni del Cipe non apre mai bocca. Passa gran parte del tempo a rispondere ai question-time in Parlamento e ai convegni».
Non è una novità , per la Guidi: dall’Aspen alla potente Trilateral, non c’è lobby alla quale non s’è iscritta.
Sulla sua “invisibilità ” pesano anche i conflitti d’interessi dell’azienda di famiglia (la Ducati ha tra i committenti aziende pubbliche come Poste, Terna, Enel e Fs) e la scelta di papà Guidalberto di delocalizzare all’estero capannoni e operai: pur avendo ottenuto aiuti dallo Stato, in effetti, la Ducati ha riallocato gran parte della produzione in Romania, Russia, India, Croazia e Sud America, con conseguente decimazione dei livelli occupazionali a Bologna.
Scelta che lei ha approvato. «O ci si sposta oltre confine o c’è il rischio di farsi battere dalla concorrenza. In Romania produciamo condensatori a 4 euro l’ora, contro i 23 dell’Italia» ragionava Federica su “EconomiaItaliana.it” pochi mesi prima di diventare ministro.
«I giovani italiani non amano trasferirsi: pensi che mi sono trovata davanti fior di giovanotti sull’orlo del pianto di fronte alla prospettiva di andare in India per un paio d’anni!».
Per la cronaca il ministro dello Sviluppo economico, 278 mila euro guadagnati nel 2013, chiedeva ai suoi dipendenti di dislocarsi a Pune, nello Stato del Maharashtra, a 150 chilometri da Mumbai.
LANZETTA CHI?
Altro ministro fantasma è Maria Carmela Lanzetta, messa (senza portafogli) al dipartimento degli Affari regionali, per tradizione ministero di “compensazione” per i piccoli partiti o qualche politico da sistemare: in passato nel bel palazzo di via della Stamperia sono passati pezzi da novanta come Graziano Del Rio, Piero Gnudi e Linda Lanzillotta.
Simbolo dell’antimafia (quand’era sindaco di Monasterace la sua farmacia fu bruciata) è finita nel gabinetto solo per uno sgarbo che Renzi ha voluto fare al rivale Pippo Civati, che scoprì la Lanzetta portandola in direzione nazionale del partito. «Matteo l’ha nominata senza nemmeno avvisarlo. Gli serviva una donna, possibilmente del Sud, e che godesse di buona stampa», spiega un renziano che ha aiutato il premier a formare la squadra di governo.
Calabrese di Mammola, paesino famoso per il suo stoccafisso, e madre di famiglia, la Lanzetta siede in consiglio tra la Boschi e la Madia, ma è lontana anni luce dall’immagine glamour delle più celebri colleghe: senza un filo di trucco, indossa solo camicette anni ’70 e scarpe basse.
Nella Capitale rimane il meno possibile. Preferisce viaggiare verso Sud, direzione Calabria: nelle ultime settimane ha inaugurato il premio “Palio del Ciuccio” nel Cilento, ha premiato gli studenti di Vallefiorita vicino Catanzaro, è stata a Cassano allo Jonio, Botricello, Aprigliano, Bagaladi e Vibo Valentia, passando dalla direzione marittima di Reggio Calabria, da Gioiosa Jonica e Rende, dove, recita il comunicato, «ha incontrato la minoranza linguistica albanese».
Sui tagli miliardari che Renzi ha chiesto alle Regioni, invece, dal suo dicastero nemmeno una parola: «Se saranno garantiti i servizi sanitari? Si vedrà , non conosco i singoli bilanci», ha spiegato davanti ai giornalisti esterrefatti.
L’invisibilità non è solo colpa della Lanzetta: in ufficio non gli fanno toccare palla.
In nove mesi la ministra si è occupata quasi esclusivamente del vaglio normativo sulla legittimità delle leggi regionali, compito che potrebbe essere svolto da un semplice dipendente degli uffici della Camera.
È ancora Del Rio, pare, a gestire — nel tempo libero — i rapporti con le Regioni. E a mettere becco nel budget del dicastero.
Secondo l’ultimo bilancio di previsione di Palazzo Chigi quello degli Affari regionali, turismo e sport resta di tutto rispetto: la Lanzetta nel 2014 e nel 2015 potrà contare su 95 milioni di cassa, di cui 33,9 di spese correnti (1,7 milioni per il funzionamento, 234 mila di rimborsi spese per missioni, altri 43 mila per il «rimborso diaria a favore dei ministri e sottosegretari non parlamentari non residenti a Roma»).
«È una bravissima donna, ma un corpo estraneo. Qualche volta si dimenticano persino di convocarla alle riunioni di sua competenza», confermano dal Palazzo.
Dove non possono però negare la sua modestia: «Se non dovessi sentirmi all’altezza, sono pronta a rimettere il mandato al premier. Senza drammi» disse la Lanzetta due ore dopo la sua nomina.
GALLETTI SULLA MONNEZZA
«Finalmente si è svegliato Galletti, il ministro invisibile!», dileggiava lo scorso aprile l’onorevole democrat Marco Miccoli, contestando l’immobilismo governativo sulla questione dei rifiuti di Roma.
Oggi il coro di chi considera il commercialista preferito di Pier Ferdinando Casini uno dei ministri più incorporei della compagine renziana si è allargato.
Galletti, all’Ambiente, sulla carta doveva avviare i piani rifiuti, rilanciare le bonifiche, istituire gli eco-reati, occuparsi del risanamento dell’Ilva, ma finora è finito in prima pagina solo quando gli animalisti dell’Enpa gli hanno dato dell’«assassino», perchè responsabile dell’uccisione dell’orsa Daniza in Trentino, e perchè ha nominato Antonio Agostini, indagato per abuso d’ufficio, a capo dell’Isin, il nuovo ente per la sicurezza nucleare.
Iscritto alla Dc negli anni ’90, assessore al Bilancio nella Bologna forzista di Guido Guazzaloca, di lui si sa che è un fiero antipatizzante dei Simpson (vieta ai quattro figli di vedere il cartone, «violento quanto e più degli spettacoli di Beppe Grillo»), e che nei consigli dei ministri mette bocca su tutto.
Anche lui è finito sulla sua poltrona per puro caso: all’Udc Renzi aveva riservato la casella dell’Agricoltura. Il profilo del commercialista non è, in effetti, quello di un “green” duro e puro: nuclearista convinto fino all’2010 (ora, interrogato, si schermisce e dice «sull’atomo non dico come la penso»), favorevole alla privatizzazione dell’acqua, Galletti ha dato l’ok alle trivellazioni («se sono sicure vanno fatte, non dobbiamo dare messaggi sbagliati agli investitori») e al gasdotto della Tap, mentre ha abbandonato la Terra dei Fuochi al suo destino.
Zero bonifiche, zero investimenti, poche persino le dichiarazioni di prassi.
«La questione della Terra dei fuochi è quasi scomparsa dall’agenda nazionale», ragiona il presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, «prima che il percolato inquini la falda acquifera è urgente darsi una mossa».
Anche il risanamento dell’Ilva è un mezzo flop: qualche giorno fa la Ue ha mandato una lettera con cui ci avverte che la procedura d’infrazione contro l’Italia andrà avanti. Tradotto: il governo non ha fatto abbastanza.
Il fantasma Galletti è stato invece assai attivo tra le mura del suo ministero, che ha infarcito di uomini vicini all’Udc.
Per la precisione di “casiniani” doc: Galletti degli amici non si scorda mai, e a Pier Ferdinando deve tutto. Così ha firmato contratti al portavoce dell’ex ministro Udc Gianpiero D’Alia, Guido Carpani, al consigliere politico di Casini, Mauro Libè, alla segretaria Carolina Sciomer, all’ex capoufficio stampa di Casini, Roberta De Marco e a Davide Russo, anche lui vicino a D’Alia.
Senza dimenticare Vittorio Sepe, fino a qualche anno fa presidente dei giovani Udc, e Marco Staderini: da sempre gran boiardo amato da Casini, Galletti l’ha nominato presidente e ad della Sogesid, carrozzone pubblico con 150 dipendenti e 35 milioni di consulenze di cui in molti predicano, inutilmente, la chiusura. Staderini dovrebbe guadagnare poco sopra i 136 mila euro annui.
LORD MARTINA
Altro desaparecido è Maurizio Martina, titolare dell’Agricoltura. Erede di Nunzia De Girolamo e gran maestro dell’Expo 2015 di Milano, mostra una “scheda di attività ” desolante: una sola legge presentata come primo firmatario a metà agosto alla Camera, due audizioni in Commissione e la ratifica di un «accordo commerciale europeo con Colombia e Perù». Poi, il vuoto.
Eppure il suo è un ministero pesante, che gestisce 7 miliardi l’anno della Pac: finora i decreti attuativi dei nuovi indirizzi della politica comunitaria non sono ancora stati scritti, mentre la riorganizzazione dell’Agea e del Sin — le società pubbliche del ministero finite in due inchieste della Procura di Roma — non è ancora partita.
Nessun passo avanti nemmeno sul marchio unico del made in Italy, che dovrebbe essere lanciato all’Expo, e sulla burocrazia che limita l’export nell’agroalimentare. «Possiamo aumentare le esportazioni del 50 per cento nei prossimi cinque anni» disse Martina appena nominato ministro. «Ma un prodotto oggi si ferma alla dogana 19 giorni in media. In Francia solo 9, in Germania 7, in Usa 6».
Ad oggi le statistiche non sono cambiate: nessuna norma contro le inefficienze è stata partorita, mentre la legge anti-cemento è da mesi su un binario morto.
Prodotto tipico delle Frattocchie del Pds, diventato ministro in quota Bersani ma ormai vicino alle posizioni di Renzi (anche sull’articolo 18), Martina, tifoso dell’Atalanta che vanta nonni contadini, è sempre elegantissimo.
E ha reagito ai tagli al suo comparto come un lord: senza battere ciglio.
La Commissione Bilancio ha cancellato il 31 ottobre i 30 milioni previsti per i giovani agricoltori, oltre a 150 milioni per il supporto all’export. «Uno schiaffo alle promesse», chiosano Coldiretti e Confagricoltura.
Che sperano che Maurizio possa rifarsi presto in commissione, e che faccia miglior figura sull’Expo.
Servirebbe un miracolo, però: tra ritardi monstre e inchieste giudiziarie, offerta turistica carente e scarse risorse pubblicitarie, Martina rischia di pagare in caso di flop anche colpe non sue.
L’ultimo attacco gli è arrivato dall’attivista indiana Vandana Shiva, che ha pesantemente criticato le bozze dei programmi dell’evento. «Finora non vedo iniziative su temi fondamentali come la giustizia e la sovranità alimentare, l’agricoltura e la biodiversità : l’Expo rischia di trasformarsi in una fiera della colonizzazione finanziaria, in una vetrina dello spreco»
I DANNI DI STEFANIA
Se la fiducia per Martina tocca il 21 per cento, nella classifica di popolarità di Datamedia l’ultima posizione è occupata dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Solo il 17 per cento degli intervistati credono nel suo operato.
Tra loro, almeno a rivedere il video dell’incontro di metà luglio con i parlamentari del Pd, c’è anche Matteo Renzi. «Sulla madre di tutte le battaglie, la scuola, non abbiamo ancora fatto tutto. Anzi, anzi… Ci siamo capiti…», ha detto senza nascondere delusione. «Non è un caso» chiosano oggi dal partito «che la Giannini sia stata “commissariata” con la nomina a sottosegretario di Davide Faraone, l’uomo del premier in Sicilia».
Troppi gli errori che il premier imputa al ministro: i pasticci sul concorso a medicina e le inchieste sulle abilitazioni universitarie (in Diritto privato si contano oltre 200 ricorsi), gli scontri con la Madia sui prepensionamenti, le polemiche sull’ipotesi di raddoppiare le ore di presenza a scuola dei docenti (da 18 a 36, poi saltata).
La Giannini, che alle europee ha preso da capolista solo tremila voti portando il partito all’uno per cento, fa spallucce e continua ad annunciare urbi et orbi che con la Finanziaria il governo «investirà oltre un miliardo sulla scuola. Una cosa mai vista prima».
In realtà i denari serviranno soprattutto ad assumere in blocco 148.100 precari che galleggiano da decenni nelle graduatorie, e arriveranno da risparmi sullo stesso ministero dell’Istruzione. Una partita di giro, in pratica: dati alla mano il Miur dovrà tagliare 1,1 miliardi, grazie all’eliminazione dei membri esterni agli esami, alla «razionalizzazione delle spese di pulizia», allo stop agli scatti di anzianità (nonostante i nostri prof siano sotto tutti gli standard europei), all’eliminazione delle supplenze di un giorno. Senza dimenticare la sforbiciata di bidelli, impiegati e qualche decine di milioni di borse di studio.
Glottologa, ex rettore dell’Università per stranieri di Perugia tra il 2004 e il 2013 (la Corte dei Conti sta indagando su un danno erariale da 525 mila euro in merito ai corsi della “Scuola internazionale di cucina italiana” voluti proprio dalla Giannini), la ministra deve la sua carriera a Mario Monti e Corrado Passera, che le offrirono un seggio al Senato.
Un altro salto di carriera per la figlia di un gelataio di Ponte a Moiano, vicino Lucca, rettore a 44 anni, che quattro anni fa Berlusconi aveva già inutilmente corteggiato per una candidatura alle regionali.
Ora la Giannini, dopo essere pure finita nella bufera per aver speso nel 2011 16 mila euro per trasportare Roberto Benigni a Bruxelles con un jet Falcon da 10 posti per una lettura della Divina Commedia (i soldi erano dell’ateneo perugino), si gioca tutti i crediti rimasti sulla riforma della scuola.
L’ennesima. Stavolta il progetto prevede, oltre alla sanatoria dei precari («rischiamo di assumere le persone sbagliate», hanno protestato gli economisti de “lavoce.info”), l’autonomia dei singoli istituti e l’abolizione degli scatti di anzianità , sostituiti da aumenti legati al merito individuale dei docenti.
«È necessario però chiarire quali sono le conseguenze di una valutazione negativa o positiva, e come faranno i presidi a selezionare la squadra dei docenti. La proposta di riforma accenna a questi temi, ma rimane molto vaga», ragiona il professore di economia Michele Pellizzari. Insomma, si vedrà .
Anche perchè, in caso di rimpasto di governo, la Giannini rischia di essere la prima a saltare. Se ne è accorta anche lei, al ritorno dalle ferie estive, quando durante il primo consiglio dei ministri s’è dovuta difendere dai frizzi e dai lazzi dei colleghi, che per mezz’ora hanno discusso — invece che di edilizia scolastica — del topless sfoggiato da Stefania sulla spiaggia di Marina di Massa.
«Sei stata coraggiosa, hai stabilito un record» ha sottolineato Renzi. A ragione: i giornali di gossip hanno già sancito che la Giannini è nella storia, come primo ministro immortalato nudo nella storia della Repubblica».
Emiliano Fittipaldi
(da “L’Espresso“)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
DONNE AL VERTICE, SEMBRA DIVENTATO UN OBBLIGO, DALLE AZIENDE PUBBLICHE AL QUIRINALE… LE QUOTE SONO OFFENSIVE PER IL GENERE FEMMINILE
Un capo o una capa dello Stato? Domanda oziosa: di questi tempi, è obbligatoria la papessa.
Sicchè girano nomi impresentabili, cognomi impronunciabili. La stampa s’arrovella sul profilo delle diverse candidate, ne spulcia il curriculum, ma dopotutto il requisito più essenziale è anche l’unico comune: una gonnella.
Effetto Renzi, come no. Forse il risultato più tangibile della sua azione di governo. Cominciò mettendo in pista 8 ministre su 16: la parità spaccata.
E ha continuato designando 4 donne ai vertici delle più grandi società partecipate dallo Stato (Marcegaglia all’Eni, Grieco all’Enel, Bastioli alla Terna, Todini alle Poste), una donna nella Commissione europea (Mogherini), un’altra alla Consulta (Sciarra), 5 donne capolista nelle 5 circoscrizioni elettorali alle europee (Mosca, Moretti, Bonafè, Picierno, Chinnici).
Detto fuori dai denti: non se ne può più.
Quest’andazzo è offensivo innanzitutto per le donne. Ha un che di pornografico, gioca sull’esposizione del corpo femminile.
E travisa una lezione che viene da oltreoceano, scimmiottandola con cinquant’anni di ritardo, deformandola con esiti caricaturali.
Affirmative actions, ecco il nome della cosa. Le inventò nel 1961 il presidente Kennedy, con l’idea di bilanciare attraverso una discriminazione alla rovescia (“reverse discrimination”) la discriminazione che negli Usa colpiva soprattutto i neri.
Come? Attribuendo un punteggio più elevato alla popolazione di colore (e in seguito alle donne, agli indiani, ai cittadini handicappati, ai reduci dal Vietnam) nell’accesso all’università , al lavoro, alle carriere.
Principio sacrosanto, perchè realizza l’effettiva parità nei punti di partenza, impedendo che la gara sia falsata dal pregiudizio che circonda l’una o l’altra categoria sociale.
Non a caso si è poi esteso a mezzo mondo, anche in virtù di modifiche costituzionali (com’è successo in India, nel 2006, a vantaggio della casta degli “intoccabili”).
Ma deve pur esserci una gara, non una corsa solitaria.
Se a un concorso da primario ospedaliero la candidata parte con un punto in più rispetto al candidato, quest’ultimo può sempre superarla meritando 2 punti in più all’esame.
È il sistema dei goals, così lo chiamano in America. Ma nella sua versione italica nessun maschietto potrà mai fare goal, perchè non è ammesso a giocare la partita.
E c’è poi un’altra questione, anzi due.
In primo luogo, ogni politica di azioni positive va giustificata in base a un’analisi statistica, che a sua volta documenti il gap sofferto dalle donne o in generale dalla categoria che riceve il beneficio.
Il genere femminile viene storicamente discriminato sul lavoro, ma non in tutti i lavori. Nella scuola, per esempio, le insegnanti sono più degli insegnanti.
Così come sono in maggioranza donne a vincere il concorso in magistratura. In entrambi i casi suonerebbe dunque irragionevole qualsiasi misura di favore; semmai, quest’ultima dovrebbe rivolgersi al sesso maschile, come talvolta avviene in Scandinavia.
D’altronde, e per fortuna, le donne italiane continuano a scalare posizioni.
Secondo uno studio della Bocconi, dal 2008 al 2013 le dirigenti sono aumentate del 16% nel settore privato, del 20,3% nelle Regioni, del 24,5% nei ministeri (dove sono ormai 4 su 6).
Sempre nel 2008, le parlamentari italiane erano poco più del 20%; alle politiche del 2013 sono diventate un terzo del totale; alle europee del 2014 le elette hanno raggiunto il 40%.
In secondo luogo, l’affirmative action va applicata con gradualità , per non innescare effetti dirompenti.
Tempo addietro uno studioso (Ronald J. Fiscus) si è chiesto che accadrebbe se la California decidesse di sanare ingiustizie secolari in un minuto, escludendo dai concorsi chi è maschio ed ha la pelle bianca, oppure cancellandolo dalle liste elettorali.
Risposta: in questo caso l’ingiustizia avrebbe generato un’ingiustizia anche peggiore.
Ma adesso è qui la California, è in Italy. E magari l’anno prossimo un’italiana entrerà nel Quirinale.
S’accomodi pure, ma a una condizione: che sia una donna brava, oltre che giovane e magra.
Michele Ainis
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
BERLUSCONI VEDE LE ELEZIONI E SELEZIONA 25 “GIOVANI VOLTI” DI FORZA ITALIA
La legge elettorale che a fatica sta salpando dalla commissione al Senato – e che dovrebbe puntare
all’approdo in aula entro fine anno – rischia invece di incagliarsi subito sugli scogli fuori porto.
Uno in particolare, enorme: la mancanza di un sistema elettorale valido proprio per Palazzo Madama, in caso di voto anticipato.
Italicum o Consultellum, bisognerà pur prevederlo. E ci vorrà altro tempo. Tanto che anche tra gli uomini più vicini al premier Renzi si sta diffondendo la poco piacevole convinzione che il testo arriverà in aula non prima di gennaio. Il capo del governo non vuole sentire ragioni, «lo si approva entro dicembre».
Il caos che si è aperto è una boccata d’ossigeno non da poco per Berlusconi e Alfano, per Forza Italia e Ncd, per i quali l’elezione in primavera è uno spauracchio.
Per non dire del partito trasversale dei parlamentari che farebbero di tutto pur di allontanare lo spettro elettorale nel 2015.
Il fatto è che dopo l’ex presidente della Consulta, Gaetano Silvestri, ieri anche il suo collega Giuseppe Tesauro, ascoltato in commissione Affari costituzionali, ha ribadito il concetto: «Serve una norma per il Senato, altrimenti, meglio rinviare a dopo che sarà stata approvata la riforma costituzionale».
Di più, l’estensore della sentenza che a gennaio ha cassato il Porcellum, ha parlato di «troppe criticità », di «dubbi sulla compatibilità costituzionale » dell’Italicum, anche nella seconda versione.
E ora? Ecco, appunto, è quello che si sono chieste il ministro Maria Elena Boschi e la presidente Anna Finocchiaro. «La soluzione potrebbe stare nell’adozione dell’Italicum anche per il Senato, ma con lo scorporo dei seggi su base regionale, come vuole una sentenza della Consulta» è l’ipotesi avanzata dal deputato renziano Ernesto Carbone. Ipotesi, questa della scialuppa Italicum, che sembra convincere poco la presidente Finocchiaro, più propensa a lasciare in vigore semmai il Consultellum (proporzionale con preferenza).
Ma anche questo andrà specificato nella legge con una clausola di salvaguardia.
Storce il muso, a dir poco, Roberto Giachetti, renziano anche lui, pronto a riprendere lo sciopero della fame se a dicembre la riforma si impantana di nuovo.
«Italicum solo per la Camera incostituzionale? Potrei dire Cvd ma preferisco no comment» scrive su Twitter.
Che succede? «Che bisognerà provvedere per il Senato – ragiona in un Transatlantico deserto – col risultato che tutti accuseranno Renzi di farlo per andare al voto».
E infatti, puntuali, le accuse. «Renzi ci dica senza ipocrisie se vuole completare il percorso delle riforme o portarci al voto» dice Saverio Romano.
«Noi intanto l’Italicum così com’è non glielo votiamo» avverte un pasdaran ex An come Francesco Aracri, anche perchè, insiste Augusto Minzolini, «è un miraggio questa storia che se approviamo l’Italicum partecipiamo all’elezione del Quirinale».
Lui, come gli altri 32 vicini a Fitto, si sono ritrovati mercoledì sera alla sala Cosmopolitan di Roma per pianificare con l’euroeputato la campagna di mobilitazione anti-Italicum.
Se passa questa riforma «salta il Nazareno, addio patto» minaccia il “Mattinale” di Brunetta. Berlusconi tiene una linea più moderata.
«Spero sia una legge elettorale democratica, stiamo lavorando per una buona legge » si limita a dire al Tg4. Anche se poi attacca: «Non siamo in democrazia, la maggioranza di Renzi è artificiale e non può durare ».
Ma è campagna elettorale in vista delle regionali calabresi e emiliane, che avranno «ricaduta nazionale» ammette.
Fi sta per essere «rifondata» annuncia, e infatti a Villa Gernetto andrà in scena la passerella finale del talent scouting condotto in questi mesi da Giovanni Toti, Deborah Bergamini e Alessandro Cattaneo.
Venticinque giovani selezionati tra cento saranno presentati a Berlusconi per essere lanciati sui media e, magari, alle Regionali 2015.
Tra gli altri, la pugliese (candidata alle Europee) Federica De Benedetto, la consigliera di Brescia Mariachiara Fornasari, il sindaco di Perugia Andrea Romizi.
Svolta under 35 che getta già nel panico i parlamentari.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
ORA SI CHIEDE L’APPROVAZIONE RAPIDA DEL “DDL REALACCI”, MA ECOLOGISTI E MAGISTRATI HANNO GIà€ DETTO CHE PEGGIOREREBBE SOLO LA SITUAZIONE
È arrivato il momento di approvare in Senato il ddl sui delitti contro l’ambiente”.
Il renziano Ermete Realacci, che di quella legge è il primo firmatario, la mette così: se ci fosse stata, il processo Eternit sarebbe finito diversamente.
È solo la voce più autorevole di un coro che chiede l’accelerazione su quel ddl, già approvato dalla Camera e parcheggiato in Senato da mesi.
Le cose, però, non stanno proprio così: il ddl salvifico, se fosse approvato com’è, sarebbe una sorta di pietra tombale su quel poco che resta del contrasto ai reati ambientali.
Se quel testo fosse legge, le difese dei 50 indagati nel “processo madre” sull’Ilva di Taranto — che riprende oggi davanti al gup Wilma Gilli — potrebbero legittimamente festeggiare.
È vero che, ad esempio, quel ddl punisce tanto “l’inquinamento ambientale” che il “disastro ambientale” con pene severe, ma è anche vero che le fattispecie di reato sono scritte in modo da essere sostanzialmente inapplicabili.
Una sorta di rinuncia preventiva alla sanzione, un condono per via di insipienza legislativa. Vediamo perchè.
Ad oggi l’inquinamento, ad esempio, sarebbe punibile solo in caso di “compromissione o deterioramento rilevante” dell’ambiente.
Ha scritto il pm Maurizio Santoloci, esperto di reati ambientali, su dirittoambiente.net  : “Che vuol dire rilevante? Un concetto astratto, che si presterà alle più disparate interpretazioni”, creerà i soliti cumuli di “giurisprudenza controversa” con “effetto deterrente e repressivo irrilevante”.
Di più: il disastro è definito “l’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema” o un danno “la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa” o “l’offesa della pubblica incolumità ” per “l’estensione della compromissione o per il numero delle persone esposte”.
Commenta Santoloci: “Tutti principi e concetti sempre astratti, che si prestano a prevedibili battaglie giudiziarie infinite” destinate a finire nel nulla.
Ad aprile, il pg di Civitavecchia, Gianfranco Amendola, storico “pretore verde”, spiegò un’altra grave lacuna a ilfatto quotidiano.it  : il nuovo reato di disastro può essere contestato solo nelle ipotesi in cui sia prevista una “violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente”.
Insomma, si fa “dipendere la punibilità di un fatto gravissimo dall’osservanza o meno delle pessime, carenti e complicate norme regolamentari e amministrative esistenti”: ambiente e salute, però, sono “beni costituzionalmente garantiti” e non possono essere legati a questo o quel codicillo amministrativo.
Questo senza contare la possibilità di “ravvedimento operoso” dell’inquinatore con riduzioni fino ai due terzi della pena: nuove maglie in cui far sfuggire i responsabili come se non fosse già successo con decine di false bonifiche di questi anni.
E non è finita perchè — scrive ancora Santoloci — va letta “attentamente” la seconda parte del ddl che “è una rivoluzione totale (negativa) in tutto il settore degli illeciti penali vigenti”. In sostanza si crea una corsia parallela (all’acqua di rose) per “i reati contravvenzionali” — che, in materia ambientale, sono quasi tutti, compresa la realizzazione di una discarica abusiva — “che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale”.
Formula che comprende, a questo punto, tutti i comportamenti criminosi ai danni dell’ambiente, il cui specifico è proprio il fatto che il danno si manifesta nel tempo. “Scrivere una norma preliminare del genere — spiega Santoloci — vuol dire ignorare totalmente la realtà storica e giuridica”.
Qui la chicca: per “eliminare la contravvenzione” per questi reati e uscirne immacolati basterà infatti rispettare le prescrizioni… della polizia giudiziaria: insomma sarà la pattuglia della Forestale o dei Carabinieri a dare al responsabile le “specifiche tecniche” e i “tempi massimi” per rimettere tutto a posto.
“Il reato ambientale — è la conclusione del pm — finisce a tarallucci e vino”.
Ne è convinto anche Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi: “Dopo la scandalosa sentenza Eternit, ora altri processi per disastro ambientale salteranno grazie al Parlamento. Saremo davanti al Tribunale di Taranto per il processo Ilva: con le vittime pugliesi faremo un minuto di silenzio per quelle di Casale”.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
UNA POLEMICA RIDICOLA: LA SOCIAL CARD SI BASA SUL REDDITO E DA APRILE LA POSSONO CHIEDERE ANCHE GLI STRANIERI CON REGOLARE PERMESSO DI SOGGIORNO, COME IMPONE LA LEGGE
Forza Italia, ex An e Lega Nord. Ma anche parti del Partito democratico e, soprattutto, Ncd. 
Si scatena la solita polemica sul nulla, per contendersi quattro voti razzisti.
L’emendamento del governo alla Legge di Stabilità sulla social card anche agli immigrati un risultato lo ha avuto: quello di compattare il fronte del dissenso, sia interno che esterno, all’esecutivo del premier Matteo Renzi.
Ma se il niet di Carroccio, Berlusconiani e Fratelli d’Italia era una posizione già scritta, la vera notizia è il no convinto degli alleati di governo del Nuovo centrodestra e di una parte importante del Pd, rappresentata dalle parole nette di Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio.
“Il governo ritiri l’emendamento sulla social card agli stranieri — tuonano all’unisono il capogruppo Ncd alla Camera, Nunzia De Girolamo, il capogruppo Ncd in commissione Bilancio, Paolo Tancredi, e la vicepresidente Barbara Saltamartini che ha formalizzato la richiesta in commissione Bilancio — dopo l’equivoco che si è creato ieri, crediamo sia opportuno che il governo valuti questa richiesta anche per meglio riformulare l’emendamento stesso. Non è chiaro tra l’altro se il governo vuole estendere la social card o destinare apposite risorse per ottemperare a precedenti obblighi e sanare il contenzioso con le Poste. C’è ancora tempo per discuterne”.
Di che parlino, lo sanno solo loro: non c’è bisogno di estendere quello che già esiste da aprile, come impone la legge che vieta discriminazioni.
Forse qualcuno non se n’era accorto o preferisce pescare nel torbido.
“Confermata la social card agli extracomunitari — dichiara Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale — mazzata per gli italiani, sempre più discriminati da un governo incapace ”.
Almeno lei ha capito, visto che parla di “confermare”, che già esisteva, peccato che parli di “italiani discriminati”, visto che tutti gli italiani possono richiederla e quindi non sono discriminati, ma pretendere dalla Meloni di uscire dal corpo di Salvini è ormai impossibile.
Di “provocazione inaccettabile” parla Maurizio Gasparri, di Forza Italia: “Il clima di intolleranza e di esasperazione è tale che questa ipotesi getta benzina sul fuoco.”
Ha parlato il distributore di fiammiferi antivento…
In un tweet il ministero del Tesoro aveva spiegato che “l’emendamento evita che tutti beneficiari debbano restituzione soldi gennaio-marzo 2014″.
Facciamo un passo indietro. Già dallo scorso aprile la carta può essere richiesta anche da cittadini stranieri con permesso di soggiorno residenti in Italia.
A stabilirlo è stata la legge di Stabilità 2013.
Nel frattempo però è partita in via sperimentale in 12 città anche la nuova social card, di importo crescente all’aumentare dei componenti della famiglia.
Una sovrapposizione sfociata nel caos dopo che, in fase di conversione del decreto Milleproroghe 2013, la Lega Nord ha chiesto e ottenuto la soppressione di un comma che prorogava l’incarico di Poste italiane, gestore della carta per conto dell’Inps, e assicurava gli accrediti sulle vecchie carte per i mesi di novembre e dicembre 2013.
L’emendamento del governo serve quindi di fatto solo a mettere una pezza a una situazione che allo stato attuale vede Poste non più titolare del servizio.
E potrebbe addirittura comportare la necessità di chiedere indietro ai beneficiari quanto ricevuto nei primi mesi di quest’anno.
Ieri il Tesoro, in una nota, precisava che la richiesta di modifica “non prevede modifiche alle condizioni personali, anche quanto alla nazionalità , per accedere al beneficio, rispetto alla legislazione vigente che prevede anche per il soggetto extracomunitario con regolare permesso di soggiorno di lungo periodo il diritto alla social card”.
Quanto ai fondi, anche per il 2015 alla carta acquisti sono destinati 250 milioni di euro, la stessa cifra stanziata per il 2014 ( e semmai qua i “destro-finto-sociali” farebbero bene a protestare, ma sai che gliene frega di chiedere che aumenti l’importo…)
In pratica nulla di nuovo sotto il sole.
La vera sorpresa arriva dallo stesso Partito Democratico. “La social card agli immigrati? — avverte Francesco Boccia — l’emendamento non è stato nemmeno discusso e non sarà votato. Era legato ad un recupero per Poste Italiane, è stato scritto male e comunicato peggio”.
Povero Boccia, deve aver confuso il salotto di casa con il governo, ma non si può pretendere da lui che rischi che volino i piatti.
Assolto per incapacità di volere.
Chiosa umoristica finale di Salvini: “confermando la social card agli immigrati, il governo Renzi istiga al razzismo”.
In tutto il mondo civile è semmai il contrario: è discriminando qualcuno che si istiga al razzismo, qua non si esclude nessuno.
Non serve una laurea (mai presa) per capirlo.
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
NON E’ PERO’ MERITO SUO, MA DELLA MINORANZA PD: DOPO UN MESE FORSE L’HA CAPITA PERSINO LUI
Il bonus bebè sarà limitato ai redditi più bassi, ma raddoppierà per chi ha un Indicatore di situazione economica equivalente (Isee), il parametro su cui già è basato l’accesso alla maggior parte delle prestazioni sociali, inferiore ai 7mila euro.
Così un emendamento del relatore Mauro Guerra (Pd) depositato in commissione Bilancio alla Camera modifica il contributo annunciato a ottobre da Matteo Renzi nel salotto di Barbara D’Urso.
Il premier, in quell’occasione, non ha specificato quali sarebbero stati i paletti, promettendo in modo generico 80 euro al mese “per i primi tre anni di vita del figlio”. Il testo del ddl di Stabilità ha poi chiarito che ne avrebbero avuto diritto (dietro richiesta all’Inps) solo i nuclei con figli che nascano tra l’1 gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 e entrate complessive inferiori a 90mila euro l’anno, pari a un Isee di circa 36mila euro che però non era citato come criterio da prendere in considerazione.
La proposta di modifica presentata venerdì cambia tutto: la nuova soglia fa riferimento appunto al solo Isee, che non potrà essere superiore ai 25mila euro.
In compenso l’assegno raddoppia a 160 euro per chi ha un Isee che non supera i 7mila euro annui.
Viene inoltre eliminata la precedente previsione secondo cui il limite di reddito non valeva per i figli dal quinto in poi.
Oltre i 25mila euro di Isee, dunque, i 960 euro all’anno non si prenderanno, anche se la famiglia è molto numerosa.
Il governo, dunque, ha alla fine deciso di aprire alle richieste della minoranza Pd, che nei giorni scorsi aveva presentato alcuni emendamenti “anti povertà ” tra cui, appunto, una “ristrutturazione” del bonus bebè, da lasciare solo per le famiglie più povere.
La proposta di Stefano Fassina, Pippo Civati e altri deputati di minoranza prevedeva la limitazione ai nuclei con reddito Isee inferiore ai 15mila euro.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
A 12 ANNI PARTECIPA A DOPPIO SLALOM, A 20 ANNI A “IL PRANZO E’ SERVITO”: “NON FACCIO NULLA, SONO ISCRITTO ALL’UNIVERSITA'”… INFATTI ARRIVO’ AD ACCUMULARE 12 ANNI FUORICORSO: MEGLIO VIVERE GRAZIE ALLA POLITICA
Lui è lui, lo si riconosce. 
È soltanto molto più giovane e forse meno aggressivo: Matteo Salvini, nel 1993 partecipa come concorrente a “Il pranzo è servito” condotto da Davide Mengacci.
Raccontandosi e rispondendo alle domande del conduttore Salvini spiega: «Vengo da Milano e sono nullafacente».
Salvini perde la sfida, prendendo la sconfitta con filosofia: “Le sfortune sono altre”, afferma a Mengacci…
L’attuale segretario leghista non era nemmeno alla sua prima comparsata in tv .
Già precedentemente era stato intravisto in un altro quiz: correva l’anno 1985, aveva 12 anni e prese parte a Doppio Slalom.
A Il Pranzo è servito Davide Mengacci sottopone a Salvini un rebus dalla soluzione significativa: “incassare tangenti”.
E Salvini, dopo aver risolto l’enigma, commenta: “Vengo da Milano, ne so qualcosa”.
Qualche anno più tardi avrà anche modo di saperne di più, grazie alla gestione Belsito.
In verità la frase “sono iscritto all’Università , sono un nullafacente”, ben si addice al personaggio che rimarrà iscritto a Scienze Storiche dell’Università degli Studi di Milano per 16 anni, di cui 12 fuori corso, fermandosi a 5 esami dalla laurea.
Nel 1993, all’età di 20 anni, viene eletto consigliere comunale nella sua città , Milano.
L’esperienza dura quasi vent’anni, fino al 2012 ed ora è deputato ed europarlamentare, dal dicembre 2013 (lo era gia stato anche dal 2004 al 2006 periodo durante il quale sceglie come proprio assistente parlamentare Franco Bossi, fratello di Umberto).
E comincia a vivere bene grazie alla politica.
Matteo Salvini sembra poi essere afflitto da una particolare abitudine: far assumere dagli enti pubblici le donne che lo accompagnano.
Se Giulia Martinelli, madre della seconda figlia del segretario del Carroccio, è stata assunta a chiamata nella Regione Lombardia del leghista Roberto Maroni, la ex moglie Fabrizia Ieluzzi è stata per quasi dieci anni al Comune di Milano, anche lei assunta a chiamata dal 2003 e poi confermata più volte prima da Gabriele Albertini e poi dalla giunta di Letizia Moratti.
Insomma, stiamo parlando di una persona che in 16 anni non è riuscito a laurearsi, che non ha mai lavorato in vita sua facendo il politico di professione, che ha sempre fatto assummere o ha assunto parenti e amici .
Un modello per la destra tarocco nostrana e i nazional-rivoluzionari all’amatriciana.
Il pranzo è servito…
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