Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile LE SOLUZIONI INTEGRATE DI HOUSING SOCIALE ADOTTATE CON SUCCESSO IN ALTRI PAESI EUROPEI… L’ITALIA NON HA MAI CHIESTO DI ATTINGERE AI FONDI EUROPEI CUI AVREBBE AVUTO DIRITTO: A QUALCUNO FA COMODO ISTIGARE ALL’ODIO RAZZIALE PER SFRUTTARLO ELETTORALMENTE?
A chi convengono i campi rom? 
Storicamente agli ambienti più vicini alle cooperative che gestiscono appalti milionari per i servizi.
Ma anche a chi trae vantaggio elettorale dal montare dell’emergenza e dell’esasperazione sociale.
Sono molte le forme di housing sociale possibili alternative ai campi e adotatte con successo in diverse città europee.
Ma nessuna soluzione singola è quella migliore. Ciò che funziona è una politica dotata di diversi strumenti, capace di guardare in faccia le persone al di là dell’etnia, immaginando percorsi possibili per ciascuno.
Il dibattito sulle periferie e l’immigrazione innescato dai disordini di Tor Sapienza fa difetto di un’analisi, necessaria, sulle reali cause che hanno determinato questa situazione, restando così imbrigliato nell’eterna contesa tra quelli che vorrebbero “rimandarli tuttia casa loro” e quelli che, sotto le insegne dell’antirazzismo, finiscono per difendere politiche fallimentari.
L’intervento di Tommaso Vitale, Direttore Scientifico del Master Governing the Large Metropolis a Sciences Po di Parigi, durante i lavori del convegno organizzato dall’Ass. 21 Luglio il 1 ottobre 2014 aiuta a comprendere le politiche alternative ai campi nomadi.
CHIUDERE I CAMPI È POSSIBILE
Le esperienze realizzate con successo in altri Paesi e capitali europee dimostrano che un’altra via è possibile e anche molto meno costosa: quella dell’integrazione abitativa e lavorativa.
Il sistema dei campi così prevalente e “istituzionalizzato” ormai permane solo nel nostro Paese.
Le persone di etnia rom presenti in Spagna, Francia o Portogallo, non sono diverse da quelle che vivono in Italia. Sono diverse le politiche adottate.
Questi paesi hanno imparato ad affrontare il problema come si affronta quello abitativo dei baraccati e degli indigenti.
Il professor Tommaso Vitale che da anni lavora su questo tema elenca alcune soluzioni di housing sociale: percorsi di aiuto all’affitto di abitazioni dal mercato privato, autocostruzione attraverso la costituzione di cooperative in rispetto della normativa, abitazioni ordinarie di produzione privata di cui sostenere l’acquisto con strumenti di accesso al mutuo e del capitale reputazionale delle famiglie attraverso mediatore, affitto di cascine in disuso di proprietà pubblica attraverso una pluralità di contratti di locazione compensati da ristrutturazione, abitazioni ordinarie di produzione pubblica, case popolari se il mercato lo rende possibile.
«Guardando l’esperienze europea – spiega Tommaso Vitale – il criterio di assumere una varietà di strumenti permette dei risparmi e l’amumento di efficienza della spesa pubblica che tenga conto dell’austerity grazie a rapporti di accontability seri. Lo hanno capito diverse città europee. Noi oggi sappiamo quanto tempo ci è voluto a chiudere le baraccopoli a Madrid: 4 mesi. Sappiamo quanto ci è voluto a Londra a chiudere spazi similari ai “villagi della solidarietà “: 9 mesi. Sappiamo la loro solvibilità a 1 anno, 3 anni, 4 anni».
Provvedimenti come quello sull’”emergenza rom” del 2008, al contrario hanno di fatto legittimato e rafforzato, non molto tempo fa, l’esistenza dei campi.
Uno dei più grandi campi rom in Italia, quello a La Barbuta alle porte di Roma è stato costruito con i fondi straordinari determinati dal provvedimento del ministro leghista Roberto Maroni e con l’avallo del sindaco Gianni Alemanno.
CHI PAGHEREBBE I PROGETTI DI INSERIMENTO ABITATIVO?
Fino ad oggi a Roma per oltre 20 anni nonostante l’alternarsi di sindaci di diversi schieramenti politici, è sempre stato il contribuente a pagare il prezzo delle politiche fallimentari dei campi rom.
Solo nel 2013 il Comune ha speso 25 milioni di euro per la gestione di campi dove vivono appena 1200 famiglie.
Al contrario tutti i progetti europei di inserimento abitativo sono stati finanziati attraverso fondi europei destinati all’integrazione sociale dei cittadini Rom, ma il nostro Paese non ha mai fatto richiesta di questi fondi UE, preferendo spendere milioni di euro dei cittadini italiani per la politica illegale di segregazione razziale nei campi.
LA CONDANNA DELL’UE CHE PENDE SULL’ITALIA E ROMA
Nella Capitale — come in altre città italiane – per accedere alle graduatorie delle case popolari o affitti agevolati, vengono escluse le persone che vivono nei villaggi attrezzati, anche se cittadini italiani.
E’ questa esclusione, che comprende principalmente i residenti dei campi per rom, ad aver innescato il circolo vizioso dell’emergenza abitativa e dunque la necessità del “sistema campi”.
L’accusa della Commissione europea, formalizzata recentemente in una lettera al Governo italiano, si basa proprio sulla violazione della direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dall’origine etnica.
L’articolo 3 della direttiva vieta la discriminazione in materia di “accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio”.
Da gennaio dovremmo scegliere se pagare ogni anno una salatissima multa europea per non aprire le liste anche alle persone rom residenti nei campi, oppure accedere alle linee di finanziamento europeo che possano pagare interamente tutti i progetti di inserimento sociale tra cui case popolari e aiuto all’affitto come è stato già fatto in altri paesi europei.
LA TRUFFA DEI “NOMADI”: I VERI NUMERI DEL PROBLEMA
In Italia i cittadini Rom, Sinti e Camminanti rappresentano lo 0,2% della popolazione, cioè circa 170 mila individui (una delle percentuali più basse in Europa).
Di questi, solo il 2-3% pratica ancora forme di nomadismo (secondo una indagine condotta dal Senato); 40 mila vivono in campi, i restanti in abitazioni.
Eppure oltre I`80% degli italiani continua a ritenere che Rom e Sinti siano «nomadi». Per questo l`Osce ha invitato l`Italia a non designare tale minoranza con il termine «nomade».
A Roma 8000 cittadini di etnia rom, 1000 famiglie, lo 0,23% della popolazione della Capitale, vive in 7 «villaggi attrezzati» (4.200 presenze) 8 «campi tollerati» (1.300 presenze), 3 «centri di raccolta» (680 presenze), 100 «insediamenti informali» (1.800 presenze).
Questi sono i numeri reali della “questione rom”.
Simone Sapienza
(da “Fainotizia.Radioradicale“)
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile IN ASSENZA DI ALTERNATIVE SOLO IL 42% DISPOSTO A VOTARLO, PERSINO L’8% DEGLI ELETTORI DELLA LEGA NON LO VORREBBERO PREMIER
Se ne parla molto in questi giorni di tribolazioni interne al centrodestra, e a Forza Italia soprattutto, dopo la nascita del correntone azzurro guidato da Raffaele Fitto.
La coalizione guidata un tempo da Silvio Berlusconi è alla ricerca di un goleador, un erede del Cav, costretto ai margini della politica per la condanna e l’interdizione dai pubblici uffici.
Il sondaggio condotto dall’istituto Ixè per la trasmissione di RaiTre Agorà può forse essere d’aiuto.
Tra gli elettori di Forza Italia, pur in assenza di candidati in alternativa, ben il 55% non voterebbe per Salvini leader della coalizione di centrodestra.
Solo il 42% potrebbe votarlo, fermo restando che la percentuale diminuirebbe a fronte di altri candidati (per esempio uno di espressione diretta di Forza Italia).
Se si estende la domanda all’intera area elettorale di centrodestra, chi voterebbe per Salvini scende al 39%.
Da segnalare che persino un 9% degli elettori della Lega non voterebbero Salvini premier.
Quanto alla fiducia nei leader politici, Ixè registra ancora una flessione per Matteo Renzi e il suo Governo nella fiducia degli italiani: il premier in sette giorni è sceso dal 43 al 41 per cento (il 10 ottobre era al 50%).
L’esecutivo, invece, che un mese e mezzo fa era al 48%, oggi è al 39%.
Quanto ai partiti i Pd è al 38%, M5S al 19,6%, Forza Italia al 14,8%, la Lega al 9,4%, Fdi al 3,2%,
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile STATI GENERALI DELLA SINISTRA CONVOCATA DA VENDOLA A GENNAIO
«Altro che andare a vivere all’estero come dissero che avrei fatto dopo la scissione di Sel…». Nichi
Vendola lancia la riscossa della sinistra con lo slogan “Battiamo Renzi” e chiama un pezzo di Pd, i sindacati Cgil e Fiom, i movimenti.
In tutto sono 450 gli inviti per “Human factor” dal 23 al 25 gennaio a Milano.
Una anti Leopolda o una Leopolda rossa — spiega — «per fare politica e cultura, abbassare il rumore e accendere il pensiero, federare le esperienze alternative a Matteo Renzi e batterlo».
Tutto online, interattivo, con un grande sforzo organizzativo e la possibilità per chi vorrà di proporre le ricette per la nuova sinistra.
I nomi che il leader rosso vuole coinvolgere sono tanti, ma due sopra tutti: Maurizio Landini, il segretario della Fiom e Romano Prodi, il padre dell’Ulivo.
Speranze un po’ velleitarie? Intanto Vendola mira a rappresentare tutto quel mondo di lavoratori e di disagio sociale che ritiene quella renziana una «svolta a destra».
«La sinistra si è addormentata socialdemocratica e si è svegliata alfaniana o sacconiana », attacca.
Il gioco del “chi ci sarà e chi non ci sarà ” è ancora incerto.
Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, oggi uno dei dissidenti dem, ci sarà .
«Andrò con interesse, perchè dobbiamo condividere l’analisi e proporre un progetto che poi parli a tutta la sinistra e il centrosinistra. Però noi siamo e rimaniamo nel Pd. Discuteremo di temi importanti e non di contenitori».
Quella parte di sinistra del Pd che fa capo a Cuperlo e a Fassina non prevede di abbandonare la “ditta”.
Diversa è la posizione di Pippo Civati e della sua corrente.
Civati sarà a “Human”, ma batte a sua volta un colpo. Il 13 dicembre ha organizzato una convention a Bologna. Titolo: «La sinistra? Possibile».
Anche qui tanti inviti, soprattutto a pezzi di sindacato, a Sel, ai Verdi che stanno riunificandosi, anche alle “partite Iva”.
Civati dice di puntare a un contro-Patto del Nazareno. L’accordo tra Renzi e Berlusconi sulle riforme va smantellato e sostituito con una sorta di «Carta» di programma di sinistra.
Da proporre per primo allo stesso Pd di Renzi. «per vedere cosa risponde — osserva il dissidente dem più ostile al renzismo — Non credo che allo stesso Renzi può fare piacere avere una forza del 10% alla sua sinistra».
Civati non trae ancora le conseguenze, ma da settimane lascia intendere che potrebbe anche andare via: «Non è possibile che qualsiasi raggruppamento non renziano sia subito bollato come residuale, allora è un po’ difficile restare».
Sembra esserci un’accelerazione a sinistra. La piazza dei lavoratori, gli scioperi sociali stanno evidentemente facendo da detonatori.
Tutto da vedere poi, se il movimento avrà respiro o resterà una ridotta minoritaria. Vendola è combattivo e convinto di non rischiare «una ridotta di duri e puri, che contesti Renzi standosene all’opposizione», bensì di avere avviato un’operazione politica ricca di futuro.
«Contro la cortigianeria e il conformismo», rivendica il leader di Sel. Utilizzando il social network Medium dedicato alla condivisione di documenti, come sperimentò Obama in America. Il riferimento a Prodi è sibillino.
Se Blair è considerato da Palazzo Chigi un profeta del futuro, mentre non c’è nulla di «più archiviabile come modernariato politico», non si vede perchè — ribadisce Vendola — Prodi debba essere trattato «come protagonista della preistoria».
Giovanna Casadio
(da “La Repubblica”)
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile STORIA DI UN IMPIEGATO NEL MONDO DEL JOBS ACT… DAL PC CONTROLLATO ALLE TELECAMERE, DAL DECLASSAMENTO AL LICENZIAMENTO (E RIASSUNZIONE A METà€ STIPENDIO)
“E io contavo i denti ai francobolli, dicevo grazie a dio, buon natale”. A differenza dell’impiegato di Fabrizio De Andrè, questa storia non inizia col maggio francese e non finisce con la bomba che debutta in società : questa è la storia di un impiegato nel mondo della Leopolda, quello in cui il Jobs Act è il nuovo Statuto dei lavoratori, una storia di quando il futuro sarà il presente.
Avvertimento preliminare: tutto quello che verrà raccontato è coerente con le disposizioni del ddl delega sul lavoro che diventerà legge la prossima settimana.
Sul luogo di lavoro Stalin non ti vede, l’imprenditore sì
Milano. Anno decimo dell’era renziana del mercato del lavoro. Interno giorno. Un classico ufficio, tre postazioni di lavoro, una grande finestra, è l’ora di pranzo e un uomo solo guarda verso l’esterno.
È Carlo G., laurea in Economia e Commercio, 45 anni, impiegato da sette alla XXX SPA, media società che fornisce servizi logistici, sposato , due figlie.
Carlo G. è un amministrativo e si occupa di preparare le buste paga: da contratto lavora sette ore e 12 minuti al giorno, che poi nella realtà sono spesso più di otto, guadagna 1.950 euro netti al mese, non è iscritto a nessun sindacato e non s’è mai lamentato, i suoi capi lo apprezzano.
Oggi, però, l’impiegato Carlo G. è preoccupato. Gli è arrivata una email dalla direzione: “Stante che un Dpcm del 2015 (governo Renzi) ci autorizza a utilizzare forme di controllo a distanza sui dispositivi aziendali, questa direzione è qui a chiederle informazioni sul suo comportamento del 15 novembre u.s. Dai dati raccolti sul suo Pc risulta infatti che le operazioni di compilazione delle buste paga siano state interrotte senza apparente motivo tra le ore 15:12 e le ore 16:03. Come risulta inoltre dalla telecamera puntata sulla sua postazione — e non su di lei, ovviamente, come prescrive il Dpcm citato — lei si è assentato dalla postazione non solo in quel lasso di tempo, ma anche per mezz’ora nel pomeriggio di due giorni dopo”.
Carlo G. suda freddo e ricorda.
Nel primo caso era dovuto correre a prendere la bambina a scuola senza aver tempo di avvisare nessuno; la seconda era stato colto da una fastidiosa indigestione: “Mandare quelle spiegazioni al direttore sarà un po’ imbarazzante, persino un po’ indecoroso, ma mica posso perdere il lavoro per vergogna…”.
Cosa non capivo quando si parlava di demansionamento
Interno giorno. Mattina. Sono passati quasi due mesi. È gennaio e l’incidente delle assenze ingiustificate è passato senza lasciare traccia. O almeno così pare.
Il capo del settore amministrativo è nell’ufficio e sta spiegando le novità a un attonito Carlo G.: “L’azienda ha deciso di riorganizzare i propri assetti interni e così l’amministrativo verrà fuso col commerciale per realizzare economie di scala ed evitare lungaggini e inutili duplicazioni di funzioni. Purtroppo, caro G., la sua posizione non è più disponibile e dunque lei in futuro si occuperà di alcune esigenze operative dell’ufficio”.
“Cioè?”. “Qualunque cosa serva: dal fare le fotocopie al distribuire la posta fino a occuparsi di qualche pratica all’esterno”. “Ma io sono laureato, sono inquadrato in una categoria più alta e ci sono almeno tre postazioni libere del mio livello… Voi non potete…”. “In realtà possiamo eccome: se lo ricorda il Jobs Act? Ovviamente, se lei volesse privarci del suo contributo ne saremmo addolorati, ma è un suo diritto e sui diritti non si scherza, per carità …”.
Addio ai privilegi: il niente che resta dell’articolo 18
Alla fine Carlo G. non si è dimesso, ma ad aprile è depresso, svogliato, tormentato da piccoli malanni. Ormai la riorganizzazione è completata e lui, dal colletto bianco con buone speranze di carriera che era, si ritrova galoppino dei suoi ex colleghi.
L’unica cosa buona è che almeno ha mantenuto lo stipendio: cioè quasi, qualche indennità di responsabilità in meno gli ha tolto quasi 80 euro netti al mese.
Oggi l’ha chiamato il capo del personale: “Vede G., noi siamo come una famiglia, ma la crisi economica e la competizione internazionale ci costringono a essere molto attenti ai costi, anche a quello del lavoro. E qui veniamo a lei, caro G.: lei ultimamente è svogliato, dal dispositivo Gps del suo telefonino aziendale risulta che quando esce per servizi esterni si attarda senza motivo al bar dall’altra parte della strada. E poi, vede, un dipendente che svolge il suo lavoro guadagna netti 1.300 euro, lei sfiora i 1.900. Capisce che per noi non è razionale, quindi avremmo deciso di fare a meno dei suoi servigi…”. “Ma come? Mi licenziate su due piedi per una pausa di dieci minuti al bar? Ma voi non potete…”. “In realtà possiamo. Anzi no: per caso lei è gay?”. “No”. “Allora non può neanche accusarci di discriminazione, possiamo: si ricorda il Jobs Act? Per legge le dobbiamo solo un indennizzo”.
Com’è di sinistra il salario minimo. Oppure no?
Milano. Esterno giorno. Agosto. Carlo G. s’avvia al lavoro: è presto ma vuole arrivare mezz’ora prima dell’inizio. Da un paio di settimane l’hanno assunto in una ditta che lavora nell’indotto della XXX Spa, sempre settore della logistica: fa di nuovo il galoppino, solo che invece dei 1.900 euro che erano il suo stipendio prima e dei 1.300 che il Contratto nazionale prevede per quella posizione, ne guadagna 900.
Quando ha provato a farlo notare al capo del personale, però, quello ha ritirato fuori il Jobs Act: “Se lo ricorda? La nostra associazione datoriale non ha firmato il rinnovo del Ccnl e quindi il Jobs Act ci consente di applicare il salario minimo stabilito per legge, che fa appunto 900 euro. Fortunato lei, anzi, l’hanno appena alzato di 50 centesimi l’ora…”.
E così Carlo G. si ritrova a guadagnare 900 euro, come quando faceva il cameriere per mantenersi all’università , ha paura di tutto, soprattutto delle telecamere che lo riprendono tutto il giorno, ma sta zitto perchè almeno non è disoccupato.
Il suo unico problema è quella strana parentela che sente tra le frasi “se lo ricorda il Jobs Act?” e “qui chi non terrorizza, si ammala di terrore” (De Andrè).
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile GRILLO E CASALEGGIO FORMALIZZANO IL CERCHIO MAGICO, MA MEZZO MOVIMENTO GIA’ SI RIBELLA
Cinque astri destinati a illuminare il cammino del Movimento. 
O cinque supernove destinate a far collassare il mondo conosciuto delle 5 stelle.
Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberto Fico, Carla Ruocco e Carlo Sibilia sono i cinque parlamentari destinati a prendere in mano le redini degli uomini di Beppe Grillo.
Il leader è stanco, lo si scrive da tempo, sempre più disinteressato – se mai lo sia stato veramente – a seguire il day-by-day fatto di decisioni e composizioni di diversi interessi che costituiscono la vita quotidiana di un soggetto politico.
Complici i problemi di salute di Gianroberto Casaleggio, i due diarchi hanno deciso di passare (parzialmente) la mano.
Una decisione meditata da tempo. Esclusa la possibilità di far scegliere agli stessi parlamentari i nomi, il caos generato dalle espulsioni a freddo di Massimo Artini e Paola Pinna hanno accelerato un processo già messo in moto.
Obiettivo: riorganizzare le fila di un Movimento che oggi va in ordine sparso.
“Ma se poi la decisione provoca una definitiva frattura con l’ala dissidente tanto meglio – spiegano dallo staff – così risolviamo subito il problema e ripartiamo”. Perchè è questa la direzione che stanno prendendo gli eventi nelle ultime ore.
Un insospettabile come Daniele Pesco è arrivato alle conseguenze più estreme: “Se vincono i sì mi dimetto”.
Già , perchè la nomina del Direttorio passa da una ratifica sul blog.
Un sondaggio impostato in modo da dover dire sì o no in blocco alle scelte dello staff.
Ma sono tantissimi quelli che non ci stanno.
“Così diventiamo un partito”, protestano Marco Baldassarre e Patrizia Terzoni, quest’ultima forse la più energica a protestare contro le ultime 24 ore di ordinaria follia del M5s. Tanti sono con lei.
“È la svolta del cancellino, ex predellino di Bibbona”, ironizza Tiziana Ciprini.
Per il momento, tuttavia, manca una leadership politica in chi si oppone alle scelte di G&C, e i gesti come quello di Pesco rimangono isolati.
Di ora in ora si susseguono i conciliaboli tra i dissidenti. Che sembrano però intenzionati a rispettare alla lettera la regola dell'”uno vale uno”, marciando in ordine sparso senza riuscire a trovare un punto di caduta.
Quella regola che Grillo e Casaleggio hanno deciso non debba più valere.
O meglio, varrà , ma in cinque varranno più degli altri. Una decisione che, in un movimento che ha sempre rivendicato con orgoglio l’assenza di incarichi interni e la rotazione di quelli istituzionali, è destinata a lasciare il segno.
Tanto che il capogruppo a Montecitorio Andrea Cecconi spiega che “l’incarico non è mica a vita”, e Daniele Del Grosso mette le mani avanti spiegando che (testuale) “non saranno degli imperatori”
La formalizzazione plastica del cerchio magico, o di parte di esso, è uno schiaffo in faccia a tutti quelli che da mesi chiedono un cambio di passo in tutt’altra direzione.
E scontenta un po’ tutti. Perchè non è stata decisa collegialmente, perchè il voto chiesto alla rete è di mera ratifica, prendere o lasciare, perchè i prescelti sono tutti deputati (e qualche senatore, anche tra i più ortodossi, commenta che “da domani dobbiamo farci dirigere da cinque ragazzini), perchè sono tutti espressione di sole due regioni, il Lazio (Di Battista, Ruocco) e la Campania (Fico, Sibilia, Di Maio).
La base intanto insorge. “Il ducetto ha eletto il ‘gran consiglio'”, lamenta un attivista sul blog, puntando il dito contro Grillo e i 5 prescelti.
“Il M5S non comprende tutta l’Italia? – chiede un militante – allora come lo si spiega che sono tutti campani con la sola eccezione di Di Battista, romano”.
“Da attivista – chiede un altro utente – chiedo che si indicano delle primarie aperte agli iscritti e si elegga il leader, Grillo torni a fare il garante del Movimento e si adoperi affinchè la votazione on line diventi certificata ed i due Casaleggio si mettano pure in disparte ad occuparsi di informatica”.
C’è infine chi getta ombre sulla correttezza della votazione in corso, riprendendo la denuncia di Occupypalco. “Non si potrebbero avere i risultati della votazione in anticipo come quelli di ieri (anche nei numeri) verso le 17,21? – chiede ironica un’attivista – Dalle 18,30 ho un impegno di lavoro”.
Anche Claudio Messora, un tempo considerato il numero 3 del Movimento, è caustico: “Dopo le polemiche sulle ultime espulsioni – osserva – Grillo cerca di formare una vera e propria segreteria di partito, un direttorio a 5 stelle scelto da lui, e chiede alla rete di ratificare la sua scelta. Meglio sarebbe stato che i parlamentari stessi, o meglio ancora la rete, avessero indicato i suoi rappresentanti. Dove sono i senatori? Dove sono gli eurodeputati? Dove sono le donne? Dove vengono specificati ruoli, poteri e durata del mandato?”.
Cos’ si affilano le lame, in attesa di una riunione serale che dovrebbe semplicemente sancire la nomina dei cinque ma che si preannuncia un Vietnam, e di un’assemblea congiunta il prossimo 3 dicembre che ratifichi le espulsioni.
Tra il napalm dell’ala dura che spiega che “non ce n’è alcun bisogno, ha già deciso la rete” e l’idea di boicottaggio dei più eterodossi, che si chiedono “ma a che serve ormai? È una presa in giro?”.
E Iannuzzi e Terzoni hanno chiesto che il capogruppo non ratifichi le espulsioni, una mossa destinata a cadere nel vuoto.
Ma l’ala dura festeggia. Nicola Morra usa parole che sembrano arrivare da tre secoli fa: “Bene il Direttorio, continua il progetto rivoluzionario”. Questa volta, almeno, le teste rotolano soltanto metaforicamente.
(da “Huffingtonpost“)
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile “IL VIA LIBERA ALLA MANOVRA NON E’ GIUSTIFICATO DAL PUNTO DI VISTA TECNICO, L’ITALIA ENTRO MARZO DOVRA’ ADOTTARE LE MISURE NECESSARIE”
Altro che fiducia nell’Italia e giudizio positivo sull’”agenda di riforme strutturali importanti che stiamo mettendo in moto”, come rivendicato dal titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan.
Altro che la presunta “promozione piena” di cui ha parlato il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti.
Se la Commissione Ue ha deciso di non bocciare già ora la Legge di Stabilità dell’Italia per il 2015 è solo per scelta politica e per evitare “contestazioni“.
A rivelarlo sono stati i suoi stessi vertici: prima il presidente Jean-Claude Juncker, poi il commissario europeo per gli Affari economici Pierre Moscovici.
Che, presentando il parere della Commissione sulla bozza di bilancio inviata da Roma a Bruxelles in ottobre e modificata in corsa per ridurre ulteriormente il deficit, ha spiegato: “La Commissione applica scrupolosamente le regole ma ha deciso di non precipitare” decisioni che “sarebbero potute essere contestate“.
Tuttavia, la legge di Stabilità renziana “non può essere considerata rispondente alle esigenze”.
In particolare “non è ancora pienamente compatibile con le regole del Patto, per questo riteniamo che la Commissione possa e debba chiedere all’Italia ancora un piccolo sforzo in più“.
Ulteriore ammissione, insomma, che dal punto di vista strettamente tecnico la manovra avrebbe dovuto essere bocciata, ma valutazioni di altro genere — tra cui quelle emerse dopo lo scandalo LuxLeaks che ha coinvolto Juncker fino a costargli una mozione di sfiducia, respinta — hanno suggerito a Bruxelles di procedere con i piedi di piombo.
Come anticipato la settimana scorsa, però, a marzo ci sarà un nuovo esame che verrà fatto “alla luce del completamento della legge di bilancio e delle attese specifiche del programma di riforme strutturali annunciato dalle autorità italiane nella lettera del 21 novembre firmata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan“.
Nel frattempo, la nostra Stabilità è stata classificata tra quelle (sette sulle 28 presentate dai Paesi membri) “a rischio di non conformità al Patto di stabilità e crescita“.
Di conseguenza il governo Renzi deve “adottare le misure necessarie per garantire che sia compatibile con il Patto”.
A oggi, “il progetto di bilancio è un po’ limitato rispetto a quello che noi vorremmo”, ha detto l’ex ministro francese scelto per guidare gli Affari economici ma affiancato da Jyrki Katainen con il ruolo di vicepresidente responsabile per tutti i portafogli economici.
In particolare l’Italia deve “migliorare il bilancio strutturale per il 2015″.
Vero è, ha riconosciuto Moscovici, che il Paese si è trovato in “circostanze eccezionali”, perchè ha sperimentato “una crescita negativa e un ‘output gap’ (il discusso parametro su cui si basa il calcolo del deficit strutturale, ndr) negativo pari al 4% del pil”.
“Riconosciamo che l’Italia si confronta con situazione economica svantaggiata e una bassa inflazione che non permette un’accelerazione della correzione degli squilibri economici”, spiega nero su bianco la nota della Commissione.
Ciò non toglie che Roma deve “tenere la spesa primaria corrente sotto stretto controllo” e “aumentare l’efficienza complessiva della spesa pubblica“.
L’Italia “tenere la spesa primaria corrente sotto controllo” e “aumentare l’efficienza della spesa pubblica“
Tenendo conto dell’ulteriore “sforzo aggiuntivo” richiesto venerdì, ai primi di marzo i commissari decideranno “se è necessario adottare ulteriori misure“.
Per allora “avremo un quadro più chiaro circa il mantenimento degli impegni di riforma da parte dei governi, ed è nell’interesse della zona euro che lo facciano”.
Nel frattempo, “all’inizio del 2015 la Commissione europea fornirà chiarimenti sul miglior uso della flessibilità presente già nel Patto di stabilità e crescita” e in febbraio saranno poi diffuse le previsioni economiche di inverno, quelle che per la prima volta non saranno presentate in conferenza stampa perchè, ha spiegato Juncker, “le previsioni sono il frutto del lavoro di uno staff tecnico” e “se vogliamo che la Commissione sia davvero un organo più politico, non dobbiamo dare nessun endorsement a questo tipo di analisi tecnica”.
“Il tempo che resta non può essere tempo perso, bisogna che le cose avanzino da qui a marzo, o la Commissione non esiterà ad assumersi le sue responsabilità ” proseguendo con le procedure d’infrazione, ha concluso Moscovici riferendosi a Italia, Francia e Belgio.
I documenti programmatici di bilancio finora esaminati dalla Commissione sono sedici.
Cinque di questi sono giudicati “conformi” alle indicazioni del Patto, quattro “sostanzialmente conformi” e sette, fra cui quello dell’Italia, “a rischio di non conformità ”.
I cinque promossi a pieno titolo sono Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e Slovacchia.
Le finanziarie di Estonia, Lettonia, Slovenia e Finlandia sono invece state ritenute “sostanzialmente conformi”.
Oltre all’Italia, anche Belgio, Spagna, Francia, Malta, Austria e Portogallo risultano invece a rischio e dovranno adottare nuove misure.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile ESSERE “UNO” IN MEZZO A TANTI, MA NON SENTIRSI MAI SOLI NEL MOMENTO DEL BISOGNO… E AVERE LA CERTEZZA DELLA PRESENZA DELLO STATO
Solidarietà è qualcosa di ben diverso dall’assistenzialismo. 
E’ un sentimento, è un’attitudine, è quell’armonica propensione che vive nel cuore di ogni essere umano che sa di essere “uno” in mezzo a tanti.
L’assistenzialismo ha creato dei veri e propri “mostri” e ha impedito la consumazione delle grandi sfide politiche e culturali, spegnendo passioni e mortificando talenti.
Si pensi al Meridione: mai nessuna politica l’ha realmente messo al centro di un piano strategico di ripresa e di sviluppo.
Qualsivoglia iniziativa è sempre stata tesa unicamente a favorire “le clientele politico-affaristico-malavitose”.
“Omaggi” per garantirsi “voti” e per “fare affari”, con fannulloni che sono rimasti tali e persone in difficoltà che, finita “la minestra”, si sono ritrovate senza nulla.
E la politica non può continuare “a pensare” e “a fare” con schemi che di “res-publica” non hanno proprio nulla.
Il dovere è quello di andare oltre, pensando e lavorando ad un sistema che sia realmente capace di dare “all’uomo” la possibilità di essere artefice del proprio destino e di essere sostenuto e sorretto, se lo merita.
Di aiutarlo a crescere assumendo un ruolo sempre più consapevole e da protagonista, per sè stesso e per la collettività .
La solidarietà è un sentimento profondo dell’animo umano.
E’ fare un sorriso a chi ne ha bisogno. Ascoltarlo quando nessuno è disposto a farlo. E’ “dare una pacca” sulle spalle per dire, anche restando in silenzio, “stai tranquillo, ci sono anch’io quì con te”
La solidarietà è una meravigliosa magia: camminare l’uno accanto all’altro e impegnarsi a diventare grandi.
Insieme.
Salvatore Castello
Right BLU – La Destra Liberale
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile IL LEADER SI DICHIARA “STANCO” E PROPONE L’ELEZIONE FARSA DI UN DIRETTORIO CON DI MAIO, DI BATTISTA, FICO, RUOCCO E SIBILIA… ALMENO STAVOLTA NON HA INSERITO NE’ SUO NIPOTE NE’ IL SUO COMMERCIALISTA COME NELLO STATUTO
In meno di 24 ore il Movimento Cinque Stelle si prepara a un’altra giornata farsa.
Ieri, 27 novembre le espulsioni di altri due deputati (Massimo Artini e Paola Pinna), le accuse reciproche su chi rispetta di più le regole (e oggi prende posizione anche il sindaco di Livorno Filippo Nogarin), l’inedito “sit in” di un gruppo di parlamentari e attivisti sotto alla villa del leader, Beppe Grillo, il confronto tesissimo sul pianerottolo della sua casa toscana per chiedere — invano — di rivedere il voto del blog sull’espulsione.
Grillo oggi fa un altro passo, segnando certamente una svolta nella vita del M5s per come lo abbiamo conosciuto finora: sul blog ha messo ai voti (fino alle 19) la nomina di 5 deputati che lo affianchino nella gestione e nel coordinamento del Movimento.
Ovviamente cinque parlamentari chinati ai suoi voleri.
Le figure a cui chiede agli iscritti di potersi affidare sono Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Roberto Fico, Carla Ruocco e Carlo Sibilia. Non definisce il loro ruolo.
Un’agenzia di stampa lo chiama direttorio, un’altra “collegio di garanti“, qualcun altro lo chiama comitato di garanzia.
Quello che si capisce è che insieme a Grillo esamineranno la situazione politica e con lui prenderanno eventuali decisioni urgenti.
Il nuovo organo M5s, ad ogni modo, non prevede la presenza di senatori.
E soprattutto provoca altri scontri interni ai gruppi parlamentari.
Ma sembra anche allargarsi il fronte dei critici.
Non ci sono solo Artini, Patrizia Terzoni, Samuele Segoni e Marco Baldassarre che già facevano parte della delegazione che si è presentata a Bibbona.
Ma si aggiunge, per esempio, Daniele Pesco che fin qui è sempre rimasto fuori dai riflettori (nè “figura di riferimento” nè dissidente): “Se dovesse vincere il SI — annuncia — io mi dimetto. Sono tutti miei cari amici, ma il Movimento 5 Stelle non è questo. non siamo un partito.. l’abbiamo sempre detto. Non abbiamo bisogno di un direttivo”.
La seconda notizia è che il “megafono del Movimento” si dice stanco.
Cita Forrest Gump: “Sono un po’ stanchino” scrive. E quindi pur rimanendo in veste di “garante” chiede alla base di sostenere la sua scelta di affiancarlo con 5 parlamentari che finora sono stati tra i più vicini alle scelte di Grillo in questo anno e mezzo di legislatura.
Terza notizia: tutto questo viene reso noto attraverso un “comunicato politico” (il numero 55).
Era da tempo che non ne veniva pubblicato uno. Più precisamente il numero 54 è datato 26 marzo: non portò benissimo, lanciò il #vinciamonoi per le elezioni europee. Il leader dei Cinque Stelle si dice, con ironia, “stanchino” e quindi da una parte assicura che rimarrà nel ruolo di “garante del M5S”, ma dall’altra propone i 5 deputati, come figure che “grazie alle loro diverse storie e competenze opereranno come riferimento più ampio del M5s in particolare sul territorio e in Parlamento”. Cosa faranno Di Battista, Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia?
“Queste persone si incontreranno regolarmente con me per esaminare la situazione generale, condividere le decisioni più urgenti e costruire, con l’aiuto di tutti, il futuro del Movimento 5 Stelle”.
Terzoni: “Non ci sto, così diventiamo un partito
Per il momento l’unica che si mette di traverso a questa decisione di Grillo è la deputata Patrizia Terzoni, già contraria nelle ore scorse all’espulsione di Artini e Pinna: “#BeppeQuestaVoltaNonCisto. Ho votato no e spero che tutti gli iscritti al portale votino no. Ma non solo, chiedo a Roberto Fico, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Carla Ruocco e Carlo Sibilia di prendere una posizione contro questo comunicato. Se vince il sì diventeremo un partito ed io non voglio far parte di un partito! Le sovrastrutture lasciamole al Pd”.
Critico anche su questa scelta Massimo Artini, espulso ieri da oltre 19mila iscritti: “Un altro chiaro esempio di democrazia! Sono nomi imposti dall’alto, senza consultazione dei gruppi parlamentari e dell’assemblea”dice al Gr1 Rai.
“Che farò? Sono stato eletto in Toscana. Ieri a Livorno ho incontrato tanti attivisti. Ora mi consulterò con i miei elettori e deciderò”, aggiunge. E l’open day di Pizzarotti? “Mi sono iscritto in tempi non sospetti. E’ inutile strumentalizzare. Ci andrò perchè sono molto interessato alla discussione”.
Iannuzzi al capogruppo Cecconi: “Non firmare l’espulsione”
Ma nel frattempo prosegue il dibattito sulle espulsioni di Artini e Pinna. “Di danni a livello umano ne ho visti davvero troppi, indietro non si torna, il dado è tratto!” scrive su facebook la deputata Tatiana Basilio, che è tra quelle che si sono presentate di fronte alla villa di Grillo insieme ad Artini, Baldassarre e altri.
“Chiudo così, stremata, una giornata terminata con un epilogo triste, figlia di un prologo oscuro — ha aggiunto — Tutto quello che ho vissuto, visto, sentito oggi non mi è piaciuto ed ha segnato il mio animo come un marchio a fuoco indelebile sulla mia pelle”.
Il deputato Cristian Iannuzzi invece ha scritto al capogruppo di Montecitorio Andrea Cecconi per chiedergli di non firmare l’espulsione di Artini e Pinna per “l’anomala procedura”, dice, adottata dal blog di Grillo.
“Almeno non prima — si legge nella mail che Iannuzzi ha inviato anche alla vice capogruppo Fabiana Dadone e al presidente “formale” Alessio Villarosa — della prossima assemblea congiunta M5S Camera e Senato, in cui potremo valutare e decidere assieme la legittimità della procedura stessa”.
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Novembre 28th, 2014 Riccardo Fucile ECCO COSA SI SONO DETTI NEL DURO CONFRONTO DI UN’ORA NELLA LUSSUOSA DIMORA DI GRILLO IN TOSCANA… AVEVAMO RAGIONE: LI HA RICEVUTI SULL’USCIO PER NON OFFRIRGLI UN CAFFE’
Li ha ricevuti a pochi passi dal cancello della sua villa di Marina di Bibbona, in Toscana. 
L’incontro del chiarimento tra i deputati del Movimento 5 stelle e Beppe Grillo è durato quasi un’ora. In piedi con giacca e cappotti sul pianerottolo di casa.
Non li ha invitati a entrare perchè, secondo il leader, di un colloquio non c’era proprio bisogno.
Poco dopo l’espulsione di Massimo Artini e Paola Pinna in sette si sono attaccati al citofono. Grillo ha fatto resistenza: “Sono stanco”, gli ha risposto.
Poi è uscito per guardarli negli occhi. “Beppe mi avete rovinato la reputazione. Il blog ha detto che non restituisco i soldi. E’ falso, tutto falso”, ha detto Artini.
Ma il comico non ha voluto sentire ragioni. Gli ha risposto che conosce il caso ed è stato giusto così.
Gli ha detto anche che il Movimento sta bene. I deputati allora: “Siamo qui perchè l’M5s è diventato un’altra cosa. Dobbiamo ricominciare e abbiamo bisogno di te”. Proprio quello che Grillo non poteva accettare di sentire: “Così mi offendete. Non vi fidate più di me? Il problema è Casaleggio?”.
Un’ora di incontro per non cambiare nulla. “E’ stato un muro, un muro”, ha ripetuto il deputato Marco Baldassarre. “Siamo delusi”
Nascosto a Marina di Bibbona, in un giorno così Grillo sperava solo di non farsi trovare. Nella villa al mare si è rifugiato perchè stanco e infastidito da tutto.
Perchè i giornalisti tanto sarebbero andati sulla collina di Sant’Ilario a Genova per avere sue notizie.
E invece lui sarebbe stato semplicemente lontano, in riva alla spiaggia.
E lì l’hanno trovato i suoi attivisti, quelli che in Toscana sanno dove andarlo a cercare. Ci ha messo un’ora a convincersi a riceverli. Nel pomeriggio aveva parlato con il deputato Samuele Segoni, poi verso le 21 al telefono con Marco Baldassarre, Massimo Artini, Federica Daga, Tatiana Basilio, Silvia Benedetti.
E anche a quel punto ha provato a mandarli via: “Sono stanco, non posso incontrarvi”. “Ma Beppe siamo venuti fino qui da Roma”, hanno risposto i parlamentari. E così ha deciso di aprire il cancello
Artini: “Sul blog cose false e calunniose. Così rovinate la mia reputazione”
Il viso, i sei, lo descrivono come di ghiaccio. Un muro inflessibile che non voleva sentire ragioni e che ripeteva la storia così come è stata raccontata dal blog.
Ha preso la parola Artini, espulso da poche ore ed accusato di non aver reso parte dello stipendio: “Beppe sono state scritte cose false e calunniose. Io ho restituito tutto, ho le prove dei miei rimborsi. Così mi rovinate. Rovinate la mia reputazione”.
E Grillo, riportano i parlamentari, avrebbe risposto sicuro della sua versione: “E’ falso. Io conosco i rendiconti e so che non hai restituito. Non siamo passati dall’assemblea perchè non avremmo avuto la maggioranza per far passare la mozione”.
Ma l’espulsione per i deputati era solo una scusa per parlare di una crisi che sentono sempre più forte.
Un faccia a faccia con Grillo da soli per più di dieci minuti non ce l’hanno mai avuto, se non dopo un comizio o un’assemblea.
E così questa volta lo hanno investito di pensieri e sensazioni che raccolgono da oltre un anno. E anche i malesseri di un qualcosa che tra di loro è cambiato.
“Beppe non siamo più quelli del passato”, gli ha detto Baldassarre. Ma ancora non c’è stato niente da fare. “Vogliamo ricostruire il Movimento e rifarlo con te. Siamo qui a parlare perchè pensiamo che tu sia il fondatore M5s. Noi siamo in parlamento grazie a te, non grazie a Casaleggio”.
Grillo ascoltava, ma poi ripeteva: “Ti sbagli, ti sbagli. Questa è la tua versione. Il Movimento va alla grande e va tutto bene. In Emilia Romagna abbiamo eletto 5 consiglieri regionali”.
I deputati insistevano: “Beppe noi viviamo nei Meetup e siamo sul territorio. Ti diciamo quello che vediamo e conosciamo direttamente. Devi ascoltarci. L’M5s non è più quello che era anni fa e dobbiamo intervenire”.
Grillo: “Mi offendete. Non voglio sentire che il Movimento è finito. Non vi fidate più di me?”
Grillo ha ascoltato paziente e retto il gioco del leader che non molla a metà la strategia del gruppo. Ma certe frasi non potevano non ferire lui, che quei ragazzi li ha portati in giro nelle piazze e li ha visti crescere.
“Non dovete dire queste cose. Così mi offendete. Non voglio sentire che il Movimento è finito. State dicendo che non vi fidate più di me? Qual è, ragazzi, il problema? E’ Gianroberto Casaleggio?”.
Eccolo il nodo: la fiducia. Un gruppo di deputati e attivisti che mette in dubbio il voto e la gestione del blog.
Tutto che si mette in discussione. “No, Beppe, siamo qui proprio perchè ci fidiamo di te. Siamo qui per avere un confronto”, gli hanno risposto.
E poi hanno chiesto la cosa più difficile: “Perchè non si può annullare l’espulsione di Massimo? Si basa su cose non vere. Non è giusto”.
Ma ancora Grillo ha risposto che non c’è più niente da fare. “Vi sbagliate, va tutto bene così”.
E poi li ha fatti uscire.
Martina Castigliani
(da “il Fatto Quotidiano“)
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