Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
VELTRONI E PRODI NON GRADITI
Passa dal Quirinale la rivincita di Silvio Berlusconi sul tira e molla renziano sul Patto del Nazareno.
In un colloquio pubblicato oggi dal Corriere della Sera l’ex Cavaliere parla della successione di Napolitano come se fosse il primo punto in agenda (e portando quindi alla luce del Sole ciò che nei Palazzi serpeggia ma non viene esplicitamente ammesso).
“Sono partigiano e partigianamente penso che prima venga l’elezione del presidente della Repubblica e poi vengano le riforme”.
Una tegola sulla testa di Renzi e un’assicurazione sulla vita per se stesso, visto che da più parti nelle ultime settimane sono trapelate inscrezioni che davano l’ex premier preoccupato di dare un appoggio alle riforme senza avere in cambio garanzie per la partita del Colle.
Così Berlusconi, che questa settimana è tornato al centro della scena politica del centrodestra, dalla lite con Fitto alla “benedizione” per Salvini, mette in scacco il Pd renziano reo di avere “modificato il patto in corso d’opera” e siccome “il Paese vive una situazione preoccupante” quindi bisogna “mettere subito in sicurezza la massima carica dello Stato con una scelta condivisa per garantire un minimo di equilibrio e — mi permetto di aggiungere — di credibilità istituzionale” .
Ma l’ex Cavaliere fa di più: e parte con il totonomi dicendo chi non è gradito (Fassino, Veltroni, Prodi) e soprattutto anticipa il suo benestare a una figura come Giuliano Amato, considerandolo “una persona che non sia di parte, che non venga da una parte sola”.
Amato, appunto, per il leader di Forza Italia “rientra in quel profilo”.
Altro nome apprezzato è quello del governatore della Banca centrale europea Mario Draghi: “Mi risulta che il presidente della Bce abbia fatto sapere di non essere disponibile”.
E quando Francesco Verderami gli fa notare che anche Napolitano prima del reincarico disse la stessa cosa, Berlusconi risponde: “Al momento per lui la situazione è questa”.
Poi la nota dolente. Romano Prodi.
Se lo proponessero “risponderei — dice Berlusconi — che Prodi già mi vuole tanto male, e quindi vorrei evitare di dire cose che potrebbero peggiorare ancor di più i nostri rapporti. Se penso al caso De Gregorio…”.
Quello che Berlusconi chiede al presidente del Consiglio è di fare da garante, ovvero di indirizzare il percorso evitando imboscate del suo partito come quelle viste nell’aprile 2013: “Renzi deve dare garanzie sul percorso. E ritengo che lo farà . Poi però servirà la responsabilità di tutti. Io parto sempre da un atteggiamento di fiducia nei confronti dei miei interlocutori. E non ho motivo di non applicare questo atteggiamento verso il presidente del Consiglio”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
COME GRILLO HA BUTTATO VIA IL BIGLIETTO VINCENTE DELLA LOTTERIA
«Sono un po’ stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. 
C’è da credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perchè decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con l’illusione di avere in pugno il Paese.
Dove abbia cominciato, Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa.
Forse il giorno in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana sotto il burka.
Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati nei tempi di vacche magre.
Forse quando, scartando a priori ogni accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi.
O piuttosto la sera in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde oceaniche di «indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s. Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro…».
E le barricate contro i golpisti? Uffa… Certo è che mai ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7 deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non sarebbe il primo.
Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati (tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea costituente.
Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva destinato a raccogliere l’eredità della Dc.
Lo ha smarrito Antonio Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i voti come la lumaca il guscio».
I VOTI PERDUTI
Il guaio è che lui stesso sembra sempre meno convinto di esser ineluttabilmente destinato a vincere.
E fa sempre più fatica a spacciare per vittorie certe batoste. E in ogni caso, ecco il problema principale, sono sempre meno convinti di vincere quanti avevano visto in lui l’occasione per ribaltare tutto.
Non ripassano, certi autobus. Una volta andati, ciao.
Prendete la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi il 25%), alle politiche del 2013. Ne ha persi l’altra settimana duecentomila. E quando mai li recupererà più? Con questa strategia, poi!
«Non ci sono più parole per descrivere il lento e inesorabile, ma tutt’altro che inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto ieri Marco Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato.
«Un suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei 912 adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono all’ultimo ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la vita tutti insieme nella giungla della Guyana». Citazione curiosamente appropriata.
Basti riprendere un numero di «Sette» del 1995.
Il titolo di un’intervista all’allora comico diceva tutto: «Quasi quasi mi faccio una setta».
Beppe Grillo non era già più «soltanto» un istrione da teatro. Girava l’Italia in 60 tappe con lo show «Energia e informazione», irrompeva all’assemblea della Stet rinfacciando all’azienda telefonica i numeri hot a pagamento, attaccava le multinazionali, incitava ad «accelerare la catastrofe economica.
Per l’esplosione del consumismo. Potremmo comprare cose inesistenti: elettroseghe per il burro, spazzolini da due chili monouso che dopo esserti lavato una volta li butti in mare per ammazzare i pesci…». Faceva ridere.
E spiegava che proprio per quello gli andavano dietro: «Perchè sono un comico. Perchè non fabbrico niente. Perchè chi parla contro i gas fabbrica le maschere antigas. Invece io, non vendendo nè gas nè maschere antigas, sono credibile. Che ci guadagno?».
Ed è su questa domanda che è andato a sbattere. Brutta bestia, il potere.
Guadagnato quello, il bottino più ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre più grossa. Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni insulto portasse ancora voti, voti, voti…
«Ogni voto un calcio in culo ai parassiti che hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più felici». «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno». «Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
«Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe».
PAROLE PESANTI
E via così. Anche sui temi più ustionanti, dove non è lecito esercitare il battutismo: «La mafia è emigrata dalla Sicilia, è andata al Nord, qui è rimasta qualche sparatoria, qualche pizzo e qualche picciotto». «Hanno impedito a Riina e Bagarella di andare al Colle per la deposizione di Napolitano per proteggerli: hanno già avuto il 41 bis, un Napolitano bis sarebbe stato troppo».
«La mafia è stata corrotta dalla finanza, prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo d’affari no».
Una cavalcata pazza. Perdendo uno dopo l’altro amici, simpatizzanti, osservatori incuriositi. Di nemico in nemico.
«Adesso Schulz dice che io sono come Stalin. Ma un tedesco Stalin dovrebbe ringraziarlo, altrimenti Schulz sarebbe in Parlamento con una svastica sulla fronte. Schulz, siamo un venticello, lo senti? Arriva un tornado, comincia a zavorrarti attaccato alla Merkel perchè ti spazzeremo via». «Noi non siamo in guerra con l’Isis o con la Russia, ma con la Bce!». «Faremo i conti con i Floris e i Ballarò… Io non dimentico niente. Siamo gandhiani ma gli faremo un culo così…».
E poi barriti contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio».
Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia: «È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini».
Contro l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?»
Contro gli immigrati: «Portano la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati al cubo.
Un «partito-tutto» contro tutto e tutti. Finchè, di sconfitta in sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo» popolo, si stava incrinando.
Che lui stesso stava smarrendo l’arte superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la leggerezza dei toni.
Finchè arrivò il momento che, in una piazza qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita anche ai clown più ricchi di genio.
Ma loro, se vogliono, possono inventarsi un altro numero.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
RESTERA’ UN MOVIMENTO DI INTEGRALISTI NOMINATI DALL’ALTO… LA SPERANZA CHE RESTI ANCORA IN VITA IN ATTESA CHE EMERGA UNA DESTRA DECENTE
Grillo i suoi ormai non li sopporta più. Non ne può più delle proteste e delle lamentele, delle nevrosi e dei litigi isterici, delle discussioni infinite su chi deve stare dentro e chi fuori.
Sugli scontrini del caffè e le ricevute dei bonifici. È stanco, dice. Lo ripete più volte davanti al corteo dei cittadini-parlamentari in rivolta che gli piombano sotto casa a Bibbona pronti a rimettere tutto in discussione.
Chi me lo ha fatto fare… avrà anche pensato, mentre di malavoglia ascoltava lo sfogatoio degli onorevoli straagitati senza farli entrare.
Perchè sia chiaro, il movimento che ha in mente Beppe Grillo (che ha sempre avuto in mente) non è mai cambiato.
È un progetto preciso, fatto di poche regole, molto semplici. Forse un po’ rudimentali. Forse incompatibili con la lettura oggi prevalente dell’articolo 49 della Costituzione: i partiti dovrebbero consentire ai cittadini di concorrere «con metodo democratico» alla politica nazionale.
Almeno se si pensa che la democraticità interna di qualsiasi organizzazione presupponga regole impersonali.
Però sono regole che chiunque abbia aderito a quel movimento conosceva benissimo: «Regole non imposte a nessuno, se uno vuole le accetta e se entra nel movimento sottoscrive dei patti, anche con gli elettori, e poi li deve mantenere».
Così disse. Punto e basta.
A Grillo interessa un partito coeso che marcia unito, non gli importa se grande o piccolo. Se 20 o 30 escono, per motu proprio o perchè cacciati con web-liturgia, per lui non cambia nulla. La cosa importante è mantenere la rotta e rimanere compatti.
È il partito degli ortodossi quello che ha in mente da sempre. Non un partito pluralista. Non uno in cui siano ammesse correnti e capibastone o battitori liberi.
«Sono dei portavoce, non sono Charles De Gaulle», che non si montino la testa, dichiarava Casaleggio.
L’indicazione del Direttorio di ieri, formato da 5 fedelissimi (Di Battista, Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia) e battezzato con un plebiscito (sì per il 92% dei votanti), non significa tanto un passo verso la democratizzazione e l’autonomizzazione del movimento, quanto un modo per confermare la teoria del partito degli integralisti, nominati dall’alto e senza competizione (la ratifica della rete era un prendere o lasciare, tutto in blocco, quindi in sostanza un ennesimo voto di fiducia sul leader). Un modo per mettere almeno un grado di separazione tra il leader e la base dei parlamentari sempre più in fibrillazione dopo il flop in Calabria e il forte ridimensionamento in Emilia Romagna, rispetto al 2013.
Il progetto di Grillo, anche quando arretra, non cambia, anzi torna alle origini, all’utopia delle battaglie contro tutti e della partecipazione diretta attraverso una piattaforma virtuale.
È un partito personale e sarà difficile riuscire a trasformarlo in qualcos’altro. Molto simile a quello di Berlusconi, con i suoi Direttori o Collegi dei garanti scelti dalla villa di Arcore, appunto. Con il difetto che far sopravvivere nel tempo questi partiti, privi di procedure democratiche interne consolidate, impersonali, è estremamente difficile, quasi impossibile.
D’altro canto, c’è da augurarsi che Grillo e i 5 stelle non scompaiano, visto il rischio che il vino giovane dell’antipolitica finisca travasato nella vecchia botte xenofoba di Salvini.
Dunque meglio che, anche se con un Direttorio di nominati dall’alto e con le procedure della pseudo-democrazia digitale, il Movimento 5 Stelle viva ancora qualche stagione, almeno fino a quando una destra decente non sarà in condizione di riattivare il bipolarismo.
Per dirla tutta, ci sarebbe da sperare, che, invece di nascondersi dietro ai cinque luogotenenti, Grillo si rassereni, tenga aperto il dialogo con i suoi cittadini-anonimi-momentaneamente-in-parlamento e torni in Tv oppure, se proprio è stanchino, impugni il cellulare e parli alla radio.
È difficile che torni ad essere un partito del 30%. Ma continua ad avere un suo perchè. Ha avuto il grande merito di contribuire, seppure come conseguenza inattesa della sua iniziativa, per una «eterogenesi dei fini» direbbero i molto più raffinati, a inaugurare una fase completamente nuova della politica italiana.
E oggi non può lasciare tutti gli indignati alla destra della nuova Lega dei Popoli. In fondo su una cosa Grillo aveva ragione: «Se non ci fossimo stati noi, ci sarebbe un’Alba Dorata anche in Italia».
Più o meno è andata così, fino ad ora.
Elisabetta Gualmini
(da “La Stampa”)
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
LA PAURA DELLA CONTESTAZIONE E GLI INSULTI CON ARTINI: COSàŒ BEPPE HA DECISO DI DIRE BASTA
È stata la moglie Parvin, a insistere più di tutti: «Non puoi andare avanti così». Che fosse stanco, esausto,
svuotato da questi ultimi due anni di piazze e giornalisti sotto casa, comizi ed espulsioni da decidere,
Beppe Grillo lo aveva confessato a tutti quelli che gli sono più vicini. E lo aveva dimostrato nell’ultima campagna elettorale, quando il massimo che aveva voluto fare per la Calabria era stato un video poco riuscito.
Mentre in Emilia si era deciso ad andare solo all’ultimo momento, ritrovandosi con 100 persone al circolo Mazzini di Bologna a dire ai suoi: «Dovete camminare con le vostre gambe».
Anche per questo, a un direttorio di persone che possano prendere la guida dei gruppi parlamentari e fare da interfaccia nei territori, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio pensavano da tempo.
Ed erano mesi che i cinque prescelti andavano periodicamente a Milano, suscitando l’invidia degli esclusi.
Di chi si considerava più adatto al ruolo di referente interno vinto, invece, dal fedelissimo Roberto Fico, dal tessitore Luigi Di Maio, insieme ai falchi — spesso gaffeur — Carlo Sibilia e Alessandro Di Battista, e all’unica donna Carla Ruocco.
I tempi decisi, però, erano altri. Si sarebbe dovuto procedere prima alle espulsioni di chi negli ultimi mesi ha messo in discussione la linea (in quella saletta di Bologna Grillo si era lasciato sfuggire la frase: «È il momento di fare pulizia»), e poi alla nomina dei cinque piccoli leader (che potrebbero essere seguiti da figure analoghe per il Senato).
Non arriva a sorpresa, quindi, il passo indietro. Ma c’è stato qualcosa che lo ha affrettato.
L’assedio degli attivisti toscani alla villa di Marina di Bibbona è stato il punto di rottura. Ritrovarsi a chiamare la polizia non per paura di troppi taccuini e telecamere, ma dei suoi stessi militanti, delle loro proteste e delle loro domande, è stato il momento che ha portato Beppe Grillo a dire «basta».
Era nella sua casa al mare a cercare tranquillità , l’altro ieri, e si è ritrovato 50 attivisti a protestare fuori dal cancello. I suoi attivisti.
Quelli che nelle tappe toscane lo portavano a cena. Quelli che — dopo i comizi del mattatore che gridava, a Siena, contro lo scandalo Mps — al mattino passavano presto a pagargli l’albergo.
Non aveva nessuna voglia di parlare, il capo, ma ha dovuto farlo. Prima con il deputato Samuele Segoni. Poi con Federica Daga, Silvia Benedetti, Massimo Artini. Non voleva, li ha fatti aspettare a lungo, sono stati al telefono 10 minuti: «È assurdo Beppe, siamo qui, aprici ».
Lui è uscito, ha fatto varcare ai tre il cancello, ma li ha tenuti un’ora e mezzo lì fuori, al buio, ben lontani dalla porta di casa. E intanto, furibondo, pensava: «Basta».
«Ha fatto una parte indegna — racconta Artini — parlava dei clic sul sito, diceva che ci sono milioni di visualizzazioni e che i voti non contano. Poi mi ha detto di non preoccuparmi, che tanto rimango deputato. Allora gli ho detto vaffanculo, Beppe. Vai a cagare».
Avevate un rapporto? «Sì, avevamo un rapporto, ma di questa giornata terribile quell’ora e mezza è stata la peggiore».
È stato un vaffa, a far scattare la decisione. Il vaffa di un suo deputato, e le domande della giovane Silvia Benedetti che chiedeva: «Perchè ora?».
E che ha fatto in modo che all’attore consumato sfuggisse la verità : «Perchè se avessimo aspettato l’assemblea non eravamo certi di poterli cacciare».
Resta duro a ogni richiesta di ascolto, Grillo. «Non vi fidate più di me?», continuava a chiedere, incredulo.
Poi, una volta andati via, chiama Gianroberto Casaleggio — che le cronache del quartier generale raccontano sempre più irritato — e insieme decidono che è il momento.
Era stato Casaleggio a chiedere ai falchi in Parlamento di mandar via «le mele marce». Loro gli hanno detto che poteva non essere facile, e allora ogni regola è saltata: quella di far votare prima l’assemblea, e quella (prevista dal non-statuto, la Bibbia del Movimento) di non creare organismi direttivi.
Così, con il post in cui Grillo si dice «stanchino come Forrest Gump», e scegliendo i nomi di coloro che dall’inizio sono stati i più coccolati dal blog, i due creano le condizioni per il plebiscito del 91,7 per cento arrivato poco dopo le sette di sera.
«Da noi le prime, le seconde e le terze file si decidono in base ai like ottenuti su Facebook », diceva qualche tempo fa il deputato Tancredi Turco. In qualche modo, è stato profetico.
Chi racconta della crisi di Grillo, però, dice che in realtà è cominciata prima di quel brutto giovedì notte.
Precisamente, il 14 ottobre scorso, quando — il giorno dopo la riuscita tre giorni del Circo Massimo — era andato a fare un giro nella sua Genova ferita dall’alluvione per sentirsi gridare da un angelo del fango: «Vieni qui, ti sporchi un po’, ti fai fare le foto. Vai via!».
Si era infuriato, Grillo. Era fuggito in motorino sulla collina di Sant’Ilario. Dov’è tornato ieri mattina, dopo l’assedio di Bibbona.
Tocca ai «ragazzi», come li chiama lui, vedersela con le altre espulsioni.
Tocca a loro, ascoltare proteste e lamentele.
Il capo è stanco, e — per ora — resta a guardare.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
COSTI TAGLIATI RIDUCENDO LE PRESTAZIONI: LA SANITA’ PUBBLICA PER TUTTI E’ ORMAI UN RICORDO, MA RENZI NON LO DICE… CHI HA REDDITI PIU’ BASSI NON PUO’ PERMETTERSELO
I conti della sanità pubblica italiana sono tornati (quasi) in equilibrio.
Ma a prezzo di tagli alle prestazioni e di un forte aumento delle disparità tra cittadini residenti nelle diverse Regioni.
In Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, in particolare, negli ultimi cinque anni il numero dei medici e degli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale è stato ridotto del 15%.
E “in modo casuale”, semplicemente non rimpiazzando il personale che andava in pensione.
Inevitabili, dunque, le ripercussioni sui servizi. Non solo: se da un lato la spesa pubblica per la sanità , per la prima volta da 20 anni, è in calo — lo scorso anno è scesa a 112,6 miliardi, l’1,2% in meno rispetto al 2012 — , dall’altro quella privata non riesce a compensare. Anzi, scende.
Fanno eccezione solo le aree più ricche del Paese, quelle dove ce ne sarebbe meno bisogno perchè le prestazioni pubbliche sono già sufficienti.
La spiegazione? Ormai la salute è un “bene di lusso”, cioè un insieme di servizi di cui, se il reddito è basso, si tende a fare a meno.
A delineare questo scenario è il rapporto Oasi (Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano) 2014 sullo stato della sanità italiana, messo a punto dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dalla Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi.
Le oltre 630 pagine di rapporto evidenziano come lo storico disavanzo del Ssn si sia ridotto a “soli” 1-1,5 miliardi di euro.
Un buco che si azzera, e si trasforma addirittura in un risultato positivo, se si tiene conto dell’aumento degli incassi fiscali ottenuti (forzatamente) dalle Regioni in deficit e sottoposte a un piano di rientro, che sono obbligate ad alzare l’aliquota Irpef al livello massimo consentito.
In parallelo, tra 2012 e 2013 il peso della spesa sanitaria pubblica sul pil è diminuito dal 7,3 al 7,2% del prodotto interno lordo.
Questo, sottolineano i ricercatori, nonostante “l’oggettivo peggioramento del quadro epidemiologico, l’aumento della deprivazione socio-economica e la crescita tecnologica”, tutti fattori che tendono a far lievitare le uscite.
Come è stato raggiunto, allora, questo risultato?
Semplice, aumentando i ticket dagli 1,6 miliardi complessivi del 2007 ai 3 del 2013 e tagliando le uscite.
Cioè congelando le retribuzioni del personale (ferme da cinque anni), contenendo la spesa per i farmaci convenzionati e i dispositivi medici, riducendo le tariffe riconosciute ai privati accreditati.
Peccato che questo si sia tradotto, “almeno in alcuni contesti e ambiti”, in una parallela riduzione “della capacità di soddisfare i bisogni“.
Mentre “in altri casi alla riduzione ha corrisposto semplicemente il peggioramento delle condizioni di lavoro e di reddito” dei dipendenti del Ssn e il “progressivo aumento dell’esternalizzazione dei servizi assistenziali a cooperative sociali“.
Altri interventi hanno puntato invece a “migliorare l’efficienza del sistema mantenendo costanti le risorse”.
Ma non sempre le nozze con i fichi secchi riescono bene: ottenere servizi migliori senza spendere di più è possibile “solo se esistono sacche di inefficienza“, il che non sempre corrisponde al vero.
A incidere di più sui servizi ai cittadini è stato però il terzo tipo di strategia “taglia-costi”: quella che consiste nel ridurre direttamente “i volumi di prestazioni da erogare”.
Per esempio riducendo i budget che il Ssn riconosce ai privati accreditati.
“La riduzione dei volumi di prestazioni nell’area ambulatoriale, farmaceutica e ospedaliera rischia di tradursi in una riduzione del tasso di copertura pubblica dei bisogni sanitari in alcuni ambiti di cura e, in maniera più accentuata, in alcune parti del Paese”, sottolineano i ricercatori.
Il pericolo è che il sistema, già incapace di offrire servizi adeguati per la maggior parte dei problemi odontoiatrici e per la non autosufficienza (la copertura pubblica si ferma rispettivamente al 5 e al 25% delle richieste nelle regioni più ricche) e debole nell’offerta di visite psichiatriche e trattamento delle dipendenze, non riesca più nemmeno a garantire, se non a fronte di un ulteriore aumento dei ticket, la copertura delle prestazioni ambulatoriali, indispensabili per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento delle patologie croniche, da cui ormai è affetto il 30% della popolazione.
Per non parlare dell’allungamento delle liste di attesa per i ricoveri programmati, in un contesto che ha visto i posti letto ospedalieri contrarsi di quasi un terzo.
Emorragia non ancora finita, visto che secondo il Cergas in futuro servirà un’ulteriore riduzione del 10-15%.
In questo quadro, spiega Francesco Longo, docente della Sda Bocconi, ex direttore del Cergas e tra i curatori del rapporto, “le assicurazioni private e le mutue, che oggi intermediano solo 4 sui 27 miliardi di euro di spesa privata per la salute, spingono per ritagliarsi un ruolo maggiore.
Ma la strada per arrivarci è una revisione dei Livelli essenziali di assistenza, in gergo Lea (cioè l’insieme dei servizi e delle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale eroga a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di un ticket, ndr).
Tutti lo chiedono ma il ministero della Salute e il governo per ora non si muovono perchè, oltre che complicato dal punto di vista tecnico, dire in modo esplicito che cosa lo Stato non garantisce sarebbe politicamente impopolare.
Eppure è ben noto che in alcuni campi, come l’odontoiatria, l’offerta pubblica è insufficiente e il cittadino deve pagare di tasca propria”.
Insomma: il fatto che il sistema sanitario lasci scoperte diverse aree cliniche, nelle quali solo i benestanti riescono a garantirsi prestazioni private adeguate mentre gli altri devono fare ricorso ai servizi gratuiti del terzo settore, è un segreto di Pulcinella. Ma si preferisce non dirlo ad alta voce.
E la revisione dei Lea, pur prevista dal Patto per la salute siglato la scorsa estate tra governo e Regioni, può aspettare. “Così, però, non è chiaro se si vuole promuovere un modello basato sui fondi integrativi professionali e le mutue o sulle compagnie di assicurazione private. Nel primo caso parliamo di polizze a prezzi accessibili per tutti, nel secondo è la società a decidere se e a che prezzo vendere la polizza al singolo individuo, sulla base della sua età e delle sue condizioni di salute”.
Una linea di pensiero che si sta già diffondendo in altri Paesi europei: è notizia di questi giorni che Generali sta per lanciare in Germania un’assicurazione sanitaria scontata per chi “giura” di fare sport e mangiare sano e accetta di dimostrarlo facendosi monitorare da un’apposita app.
Chiara Brusini
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
SàŒ DALLA RETE CON IL 91,7%. MA GLI ELETTI SI ARRABBIANO… PERICOLO SCISSIONE
Ieri, ore 10:50: il Movimento che era diverso non lo è più. 
E l’uno vale uno finisce in soffitta. Il Caro leader Beppe Grillo è “un po’ stanchino”. E fa un passo indietro, anzi di lato.
Cala dal blog un direttorio di cinque deputati, “perchè io e il camper non bastiamo più”, e il web batte le mani con il 91,7 per cento.
Ma i Cinque Stelle esplodono come una mina, in mille frammenti.
I dissidenti contrari (ma pure divisi), i falchi furibondi che minacciano l’addio, quelli fedeli alla linea sempre e comunque, i tanti moderati che non ci capiscono più nulla: storditi.
E in serata c’è una rovente assemblea dei deputati. Sullo sfondo, la scissione che si fa concreta. Perchè Grillo e Casaleggio non vogliono fermarla.
Quasi ci sperano, per chiuderla una volta per tutte con i dissidenti. E con l’eterno nemico Pizzarotti: indeciso se andare allo scontro finale.
La seconda vita del M5S è anche questo. Sospetti e veleni, speranze e calcoli.
La certezza è che Grillo non vuole essere più il prim’attore. E si affida a cinque nomi: il numero tre Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberto Fico, Carlo Sibilia e Carla Ruocco. Dovranno aiutarlo a governare la linea, a gestire i problemi.
Perchè è stanco, Grillo. Proprio come Gianroberto Casaleggio: affaticato.
I diarchi pensavano da mesi alla creazione di un direttorio di parlamentari fidati. Qualcuno si era anche offerto per il ruolo, in estate. Casaleggio aveva preso tempo: “Non è ancora il momento”.
Ufficialmente nessuno ammetteva nulla. Negavano: “Diventeremmo un partito con una segreteria, come gli altri”. Ma la storia cambia giovedì sera.
Sotto la casa di Grillo in Toscana appaiono decine di attivisti assieme all’appena espulso Massimo Artini. E il fondatore s’infuria. Decide d’intesa con lo staff di Milano che è tempo di mutare rotta. Un passo utile anche per oscurare la notizia dei due nuovi espulsi, i dissidenti Artini e Pinna.
E allora si cambia, tramite post: “Quando abbiamo intrapreso il percorso del Movimento — scrive Grillo — ho assunto il ruolo di garante per assicurare il rispetto dei valori fondanti di questa comunità . Oggi dobbiamo ripartire con più energia ed entusiasmo”.
Ovvero, “il M5S ha bisogno di una struttura di rappresentanza più ampia di quella attuale… Io, il camper e il blog non bastiamo più. Sono un po’ stanchino, come direbbe Forrest Gump”.
Quindi sottopone al voto degli iscritti i cinque nomi, “che opereranno come riferimento più ampio sul territorio e in Parlamento”.
Tutti deputati, 4 su 5 campani. La notizia coglie di sorpresa i parlamentari, nessuno escluso. Tutti notano: “Non ci sono senatori tra i cinque”. Non solo.
Nell’elenco mancano nomi pesanti come Roberta Lombardi, l’organizzatrice della tre giorni al Circo Massimo, o Danilo Toninelli, la mente della legge elettorale grillina, mediatore con il Pd.
Grillo viene inondato di sms. Non risponde. Ma in giornata prende il telefono e chiama alcuni eletti in Senato. Li rassicura: “Nomineremo un direttivo anche per il Senato, siamo partiti dalla Camera perchè da voi bisogna prima sistemare alcune cose”.
Tra i cinque di Palazzo Madama ci sarà sicuramente Paola Taverna, forse Vito Crimi. Ma è bufera, nel venerdì a 5Stelle. Quasi rivolta. Qualcuno difende la scelta. Toninelli, vicino a Di Maio, celebra: “Buon lavoro ai cinquemagnifici ragazzi che insieme a tutti noi faranno risplendere il M5S”.
Il deputato Daniele Del Grosso: “Chiedevamo da tempo una struttura di raccordo”. E il senatore Stefano Lucidi: “La scelta del blog è comprensibile e naturale, i cinque resteranno dei portavoce”.
Ma la pancia del Movimento deflagra di rabbia. “Perchè non sono passati prima per l’assemblea, i nomi dovevamo sceglierli noi” lamentano in parecchi tra i corridoi della Camera. I dissidenti fanno capannello.
Soprattutto, esplode l’ira degli ortodossi. Daniele Pesco lo mette nero su bianco: “Se dovesse vincere il sì io mi dimetto. Sono tutti cari amici, ma il Movimento non è questo, non siamo un partito”.
Irrompe Dino Alberti: “Ho votato no e spero che tutti gli iscritti al portale votino no. Chiedo ai cinque di prendere posizione contro questo comunicato. Se vince il sì presento le dimissioni”.
La dissidente Patriza Terzoni lancia l’hashtag #Beppequestavoltanoncisto. Vota no, come Giulia Sarti e il senatore Giuseppe Vacciano.
Walter Rizzetto, critico di peso, ha un tono diverso: “Il direttorio è un passo in avanti, ma è evidente che l’uno vale uno non c’è più”.
Rizzetto vuole schivare lo scontro, almeno per ora. Perchè in controluce c’è la partita della scissione. Grillo e Casaleggio l’hanno detto chiaramente nelle ultime ore: “Basta con questi dissidenti, se ne vadano prima possibile, anche in 50 se vogliono”.
Le due espulsioni di giovedì erano una miccia per accelerare l’esodo, prima dell’assemblea degli eletti del 7 dicembre, convocata a Parma da Pizzarotti in totale autonomia.
Un appuntamento che potrebbe segnare la scissione. Venti, forse più parlamentari e un bel po’ di amministratori locali vorrebbero saltare il fosso con Pizzarotti, per un Movimento diverso. O per un progetto diverso.
Ma il sindaco non è affatto sicuro. Da Parma, il suo capogruppo Marco Bosi: “Voto no, il direttivo serve ma democratico. E se cacciamo Artini e Pinna dovremmo espellere o no la Taverna, assente non giustificata dall’aula nel 48 per cento dei casi?”.
Si fa sera, e il blog emana la sentenza: sì al direttorio, con il 91,7 per cento. I cinque ringraziano su Facebook: “Sarà bellissimo”. Pizzarotti twitta: “Uno vale.”
A ratificare il risultato sarà un’assemblea congiunta, il 3 dicembre.
Ma alle 20 è già assise straordinaria dei deputati. Il direttorio si presenta davanti a una trentina di colleghi, in un clima gelido.
In tanti chiedono di far uscire dalla sala i tre membri della Comunicazione presenti. Si vota, e i tre devono uscire.
Poi si discute dell’espulsione di Artini. “Serve il voto dell’assemblea” invocano.
E non sono solo dissidenti. Volano urla. I cinque cercano di mediare.
Ma è solo l’antipasto, del futuro. Diverso.
Luca De Carolis
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 29th, 2014 Riccardo Fucile
ENNESIMA PROMESSA-PATACCA DI RENZI: NON CI SONO SOLDI PER I GIOVANI
Avevano detto: «Torniamo a educare i giovani alla solidarietà e facciamo ripartire la speranza» (Matteo Renzi, premier).
«Troppo poche le 14 mila domande accolte contro le centomila richieste dei giovani» (Laura Boldrini, presidente della Camera).
«Siamo riusciti a trovare i fondi per far partire 40 mila ragazzi già nei primi mesi del 2015» (Luigi Bobba, sottosegretario al Lavoro).
Contrordine. Il servizio civile allargato a una quota significativa di giovani non ci sarà .
L’investimento politico ed economico sul volontariato diffuso è rimandato a data da destinarsi.
Mancano i fondi, le coperture e forse anche la volontà .
In una notte, l’emendamento firmato da Edoardo Patriarca che ribadiva quanto annunciato sopra, è stato sepolto dal niet del viceministro all’Economia Morando: «Non è possibile esprimere parere favorevole in quanto la variazione degli stanziamenti è rilevante…».
Altro che momento di svolta: per l’economia sociale c’è un altro buco della cintura da stringere.
Dopo i tagli alle Fondazioni bancarie, le mancate agevolazioni fiscali alle imprese che fanno solidarietà e l’assurda tassazione dell’Iva sulle donazioni in caso di calamità , anche la riforma del Terzo settore galleggia sulle coperture di bilancio.
È difficile evitare il lamento quando le promesse vengono disattese. E si fatica a ricostruire la fiducia quando l’interesse della politica sembra rivolto altrove.
Nella stessa giornata di mercoledì l’Unione italiana ciechi non ha avuto garanzie sulle risorse destinate alle persone con disabilità visiva.
Lavoro, scuola, mobilità , cultura, assistenza, servizi importanti per chi vive in una condizione di svantaggio sociale rischiano di essere azzerati, spiega il presidente Mario Barbuto.
Era accaduto anche per i malati di Sla: dopo le proteste c’è stato un ripensamento.
Ma si può far ripartire un Paese facendo continuamente passi indietro sulle buone pratiche?
Giangiacomo Schiavi
(da “il Corriere della Sera”)
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