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SPAGNA: PODEMOS PRIMO A BARCELLONA, TESTA A TESTA COL PP A MADRID

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

A DESTRA AVANZA ANCHE CIUDADANOS, FORTE CALO PER I POPOLARI

Il duello tra la “vecchia” e la “nuova” politica in Spagna è ancora da decifrare alla chiusura delle urne in Spagna, ma già  dai primi risultati si può dedurre che le forze emerse dal basso, Podemos e Ciudadanos, si apprestano a entrare da protagoniste nelle istituzioni locali, il primo importante test in vista delle elezioni politiche di novembre.
A Madrid è un testa a testa fra Podemos e il Partito popolare: quando sono stati scrutinati il 74 per cento dei voti i popolari di Esperanza Aguirre sono in testa per 21 seggi contro 20 mentre a Barcellona, dove i voti scrutinati sono il 95%, la lista Barcelona in Comu formato attorno a Podemos della candidata sindaco Ada Colau arriva prima con 11 seggi davanti a quella del sindaco uscente nazionalista catalano Xavier Trias con 10 seggi.
Podemos arriverebbe primo anche a Saragozza, mentre a Valencia sarebbe in testa il Pp, ma senza maggioranza assoluta.
Tornando alle “battaglie” di Madrid e Barcellona, i numeri sono comunque di importanza relativa nella corsa per il controllo delle due più grandi città : in assenza di maggioranza assoluta, le liste dovranno cercare di formare coalizioni.
Una situazione che dovrebbe avvantaggiare Podemos, che potrebbe contare sull’appoggio del Psoe e di Ciudadanos.
E sarebbe il trionfo strategico del leader Pablo Iglesias e della sua mossa: aderire a coalizioni più ampie e aprire all’elettorato moderato in vista delle politiche e del vero assalto al potere.
Gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità  oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese.
I “nuovi arrivati” Podemos e Ciudadamos avrebbero raccolto seggi in quasi tutti i governi regionali.
Inoltre, se quattro anni fa il Pp aveva ottenuto la maggioranza assoluta in otto regioni, questa volta le prime indicazioni escludono che la situazione si ripeta.
Con la necessità  per il Pp di scendere a patti con altre forze politiche.
Potrebbe rivelarsi ago della bilancia l’altro “partito del nuovo”, Ciudadanos, su posizioni liberal-alternative. Il movimento di Albert Rivera sarebbe pronto a trattative sia con il Pp sia con Podemos e Psoe per il governo in molte città  e regioni del Paese.

(da “La Repubblica“)

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EXPO, LA VERITÀ NASCOSTA DEL FLOP DEI VISITATORI

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

IL COMMISSARIO NON RIVELA GLI INGRESSI REALI… AL “FATTO” NE RISULTANO SOLO 60 MILA NEI FERIALI, 140 MILA IL SABATO… SEGRETI PURE I BIGLIETTI DEL METRà’ E LA SPAZZATURA RACCOLTA

È l’Expo dei numeri segreti.
I tornelli certificano gli ingressi con assoluta precisione, giorno per giorno, ora per ora. Eppure, quanti sono i visitatori?
Resta un mistero, custodito meglio del terzo segreto di Fatima.
Il commissario Giuseppe Sala ha spiegato che deve evitare lo “stress” e non vuole cadere nella “trappola dei numeri”, perchè “c’è il rischio di esaltarsi o deprimersi, mentre io voglio che il mio team rimanga concentrato sulle cose da fare”.
In realtà , le cose da fare cambiano a seconda del numero dei visitatori. Ma lui niente: annuncia soltanto quanti biglietti sono stati venduti, “unico dato certificabile”.
Finora sono 11 milioni, dice contento.
Ma sono pacchetti parcheggiati in gran parte presso tour operator o grandi distributori, non ancora acquistati davvero da visitatori in carne e ossa.
I tornelli invece i numeri veri li sanno e li comunicano in tempo reale alla centrale operativa di via Drago, che controlla minuto per minuto ogni sospiro di Expo.
Ma non li rendono pubblici, per evitare lo “stress” a Sala e al suo team.
C’è di più: a Milano in questi giorni sono segretati perfino il numero dei viaggiatori sul metrò e i dati sulla spazzatura asportata, perchè potrebbero essere usati per calcolare gli ingressi Expo.
C’è un embargo patriottico da tempi di guerra. Sappiamo soltanto che gran parte dei visitatori arriva all’esposizione con la linea M1 del metrò.
Proprio per questo alla società  Atm — che gestisce il servizio e sa benissimo quanti passeggeri ogni giorno sbarcano alla fermata Rho-Fiera-Expo — è stato ordinato di tenere acqua in bocca: vietato comunicare i dati.
Gli unici numeri in circolazione sono quelli delle trionfali, benchè ufficiose, proclamazioni dei primi giorni: “200 mila visitatori nel giorno d’apertura, malgrado la pioggia”, è stato fatto filtrare ai giornali.
Ancor meglio il 2 maggio: “220 mila ingressi”.
Ma sono cifre senza alcuna conferma ufficiale. Secondo le previsioni, i 24 milioni di visitatori attesi in sei mesi dovrebbero essere raggiunti ipotizzandone circa 100 mila nei giorni feriali, 200 mila il sabato e nei giorni festivi.
Anzi, ci sono documenti Expo che formulano previsioni precise, giorno per giorno.
Ecco quelle delle prime settimane: 1 maggio, 250 mila; 2 maggio, 180; 3 maggio, 180; 4 maggio, 70; 5 maggio, 70; 6 maggio, 80; 7 maggio, 80.
E così via, fino ai 180 mila ipotizzati per ieri 23 e per oggi 24 maggio.
Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, la realtà  è inferiore almeno del 30 per cento. Va abbastanza bene il sabato, male la domenica.
Gli ingressi sarebbero attorno ai 60 mila nei feriali, circa 140 mila il sabato e non più di 100 mila la domenica.
A mettersi le mani nei capelli hanno già  cominciato i gestori dei parcheggi e dei ristoranti interni al sito.
Sono disperati perchè temono di non rientrare delle spese a causa dell’afflusso di pubblico molto più basso del previsto.
Preoccupata è soprattutto Arriva, società  italiana delle ferrovie tedesche che ha vinto l’appalto per la gestione dei parcheggi: secondo le previsioni, il 50 per cento dei visitatori sarebbe dovuto arrivare in auto, con incassi per 11 milioni, invece i parcheggi sono vuoti al 90 per cento.
E Arriva è già  in rosso perchè deve comunque garantire per tutto il giorno un costoso servizio di navette per portare chi ha parcheggiato fino ai tornelli d’ingresso.
La situazione è così preoccupante che Sala, il quale aveva lanciato finora appelli accorati perchè la gente usasse i mezzi pubblici, il 14 maggio ha cambiato messaggio: “Venite in macchina”.
E ora lancia l’idea di rendere il parcheggio gratuito. Ma così Expo dovrà  pagare ad Arriva 3 milioni di penale.
Erano previsti anche 500 autobus al giorno, ma non ne arrivano più di 200.
I treni di Tre-nord erano pronti a trasportare 42 mila passeggeri al giorno, ne portano invece solo 6 mila.
Poi c’è Trenitalia. Racconta entusiasta che il numero di viaggiatori che raggiungono Milano con le Frecce è cresciuto del 20 per cento: “È l’effetto Expo”.
Peccato però che nello stesso comunicato dia le cifre di Torino (+70 per cento), Bologna (+25), Venezia (+21), Genova (+20): tutte più alte o uguali a Milano.
Quanto agli aerei, “nessun volo aggiuntivo per Expo”, rispondono dagli aeroporti di Linate, Malpensa e Orio al Serio.
Non c’è alcuna traccia, per ora, neppure dei voli speciali che dovrebbero portare a Milano il promesso milione di cinesi.
Sala dice di non guardare i dati per non essere sottoposto a stress. In realtà  li guarda e, proprio per questo, ha cercato di correre ai ripari lanciando la formula dell’ingresso serale: chi entra dopo le 19 paga solo 5 euro , invece dei 39 euro del biglietto pieno, e nei weekend la chiusura è spostata alle 24.
Grande successo: Expo è diventata un’alternativa alla “movida” milanese, con gran rabbia di molti gestori di bar e ristoranti in città , sui Navigli o a Brera, che si vedono sfilare i clienti dalla concorrenza dell’esposizione.
I visitatori serali fanno numero, ma non visitano i padiglioni, si limitano per lo più a bere birra e mangiare hamburger.
Faranno bene alla contabilità  finale degli ingressi, ma non ai bilanci (pagano solo 5 euro), nè alle iniziative di Expo in città .
In compenso costringono a un superlavoro non previsto Atm per i trasporti, la Polizia locale per la sicurezza e l’Amsa per la pulizia e la gestione dei rifiuti
Sui numeri, comunque, restano amplissimi i margini d’incertezza.
Eppure sarebbe semplice por fine a ogni dubbio: basterebbe comunicare ogni giorno il numero dei visitatori.
A meno che non si debba cercare di nascondere un flop.

Gianni Barbacetto
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA A MUROLO: “PAITA E TOTI COME I LADRI DI PISA: FINGONO DI LITIGARE DI GIORNO PER POI GOVERNARE ASSIEME”

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

“NOI DI LIGURIA LIBERA L’UNICO VERO CENTRODESTRA DI OPPOSIZIONE AL PATTO DEL NAZARENO AL PESTO”

Siamo agli ultimi giorni di campagna elettorale, la Liguria è ritenuta da molti il crocevia di nuovi scenari nazionali per l’incertezza sull’esito del voto
Guardi, o gli elettori liguri avranno il coraggio di votare controcorrente una terza forza o il destino è già  segnato, il voto a Toti e alla Paita è il classico voto inutile
Cosa intende? I sondaggi li danno molto vicini…
Gli stessi sondaggi che lei cita li danno intorno al 30%, se non meno. Sa cosa vuol dire? Che nessun candidato raggiungerà  quota 35%
E quindi?
Sotto questa quota la legge regionale ligure prevede che   il vincitore mandi in consiglio 8 consiglieri più altri sei del ”listino dei nominati” dal presidente. Sono quattordici in tutto, con lo stesso presidente 15. Ma il consiglio avrà  30 componenti. E lo statuto della Regione Liguria non prevede nè premio di maggioranza nè ballottaggio. Con 15, anche 16 o 17 consiglieri, sarà  molto difficile governare.
E cosa potrebbe accadere?
Considerando che noi di Liguria Libera, ma anche i Cinquestelle e la Lista Pastorino hanno già  detto che non faranno da ruota di scorta, sarebbe meglio dire che qualcosa è già  accaduto dietro le quinte
Tipo?
Che Paita e Toti abbiano già  concordato un bel “patto del Nazareno” in salsa ligure. Un accordo che permetta la governabilità  con l’appoggio del perdente.
A questo punto votare Toti e il centrodestra vorrebbe dire votare la Paita?
Toti è uno che la Liguria la conosce per esserci venuto giusto a fare i bagni il fine settimana, ha già  in tasca il biglietto di andata e ritorno. Da buon dipendente Mediaset tornerà  a fare il parlamentare europeo, Minzolini insegna. Comunque resteranno i tre consiglieri regionali che si presume Forza Italia farà  eleggere, giusto quelli che serviranno alla Paita per governare.
Voi di Liguria Libera non appoggerete nessuno dei due?
Lo abbiamo detto a chiare lettere: valuteremo solo i singoli provvedimenti, se risponderanno al nostro programma disponibili a votarli, ma mai alleanze con nessuno. E non solo per questo motivo…
Ce ne sono altri?
Uno fondamentale: non facciamo alleanze con inquisiti. Nel centrosinistra ce ne sono tre, in Forza Italia quattro, nella Lega due, in Fdi uno, in Ncd uno: con chi non ha avuto il buon gusto di fare un passo indietro non ci può essere accordo, per noi la legalità  è al primo posto.
Oltre alla legalità  Liguria Libera quali parole chiave ritiene prioritarie?
Abbiamo un programma di 92 punti diviso in sette macrosettori e alcuni punti chiave: merito, efficienza, legalità , trasparenza e consultazione. Se dovessimo governare, ogni sei mesi ci impegniamo a un rendiconto ai liguri sullo stato dei lavori.
Lei è candidato nel collegio di Genova, un motivo per darle la preferenza?
Voglio portare in Regione la voce della gente perbene e l’indignazione degli onesti. Inoltre faccio politica per passione, non vivo grazie alla politica: ogni preferenza sarà  un riconoscimento al mio impegno civile, mi basta questo, è il regalo più grosso che possa ricevere.

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AGRIGENTO, LA BEFFA DELL’ACQUA PAZZA: “BOLLETTE DA CAPOGIRO MA RUBINETTI A SECCO”

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

STORIE D’ITALIA: L’ACQUA SEGRETATA PIU’ CARA D’ITALIA

Il signor Cimino l’abbiamo conosciuto quindici anni fa che vendeva acqua ad Agrigento e l’abbiamo ritrovato quindici anni dopo che vende ancora acqua ad Agrigento.
Tutto passa ma il signor Cimino resta.
Fa parte del paesaggio urbano come i palazzoni in bilico sull’argilla, sembra eterno come i templi greci sulla rupe.
La fortuna di Domenico Cimino è un pozzo ereditato dal padre Gioacchino e che andrà  in lascito al figlio Gioacchino, commercianti d’acqua di contrabbando da tre generazioni sono in moto perpetuo con le loro «bonze » – così chiamano le cisterne – per svuotarle di qua e di là  assicurandosi sostentamento e guadagnandosi la riconoscenza di una popolazione assetata per destino infame.
Da una vita qui parlano con molto sapere di tubi, di fontane e fontanieri, di vasche, bidoni, allacci, di litri al secondo di un’acqua che c’è e non c’è, che appare e scompare, di un’acqua che può portare alla felicità  o alla disperazione più profonda.
È l’acqua pazza di Agrigento che scatena guerre che non finiscono mai.
Si scannano anche sui numeri, citando fonti e report.
È l’acqua più cara d’Italia (Osservatorio di Cittadinanzattiva), tariffa media annuale 419 euro per una famiglia di tre persone, quattro volte più che a Milano.
È al 29° posto (Centro Ricerche di Federconsumatori), prezzi di poco superiori alla media nazionale.
Euro veri e acqua sempre virtuale. Dai rubinetti ne esce poca, a volte anche niente.
In una Sicilia spaccata in due per i ponti che crollano, che mortifica se stessa mostrandosi lercia sul palcoscenico internazionale dell’Expo, che affoga nei debiti e nella molesta retorica del suo governatore Crocetta, c’è ancora una città  (e una provincia) che ogni due o tre giorni aspetta con il fiato sospeso un rumore lontano, pressione e bolle d’aria, l’annuncio che sta arrivando.
Il mercoledì e il sabato, il giovedì o il venerdì, un paio d’ore nel centro storico e appena qualche minuto in più in contrade meno sventurate.
Maledizione di Agrigento.
Con una trentina di sindaci in rivolta contro il signorotto che si è garantito dal 2007 la gestione privata del servizio idrico – un’altra quindicina si sono rifiutati di consegnare a lui le reti comunali – è battaglia legale e rissa ripetuta.
Con forti sospetti di mafiosità , bollette da capogiro, contatori staccati per morosità , 007 a caccia di ladri d’acqua, proteste di piazza, aggressioni, infarti, inseguimenti. E sete, sempre sete.
Sabato mattina 9 maggio, ore 10, villaggio Mosè.
Davanti alla casa di Giovanni De Castro, pensionato di ritorno dal Queens dove aveva un piccolo supermercato, l’asfalto che è una sfoglia improvvisamente si apre e la «bonza » del signor Cimino precipita in una voragine.
I diecimila litri d’acqua che attendeva il pensionato – una quarantina di euro, De Castro è affezionato cliente – si disperdono sulla strada.
Peccato mortale ad Agrigento. Il signor Cimino si avvilisce per la sua autocisterna trainata dalla gru, Giovanni De Castro sa che non avrà  acqua per almeno altre ventiquattro ore. Gliel’hanno tagliata: non vuole pagare i 17 mila (diciassettemila) euro conteggiati per il consumo degli ultimi tre anni.
«Sono ladri autorizzati, com’è possibile venderla a così tanto?», si chiede consolato da tutto il vicinato.
«Sono mafiosi», gridano gli altri. E mostrano ingiunzioni di pagamento, contatori sigillati, denunce, ricorsi, petizioni. Ogni giorno è sommossa.
Al Villaggio Mosè e su a Porta di Mare, nel cortile Sciascia sotto la curia vescovile, a Zingarello, a Fontanelle e a Bibbirria, a Poggio Muscello.
E tutti costretti a comprare l’acqua del signor Cimino che serve solo per «strapazziare», termine letteralmente intraducibile ma significa che con quell’acqua ci puoi fare tutto tranne che berla.
«Bonza», «strapazziare », «perdita occulta», «testa dell’espurgo», c’è un vocabolario molto speciale per la sete degli agrigentini.
Il glossario della sete. Loro straparlano di acqua tutto il giorno e – fatto assai curioso – nemmeno uno dei candidati sindaci delle elezioni del 30 maggio cavalca l’insurrezione.
Lontani i tempi dell’assessore regionale ai Lavori Pubblici Totino Sciangula, un amico di Giulio Andreotti che nelle infuocate campagne elettorali degli anni ’80 si faceva intervistare sulle tivù locali chiedendo voti in cambio di qualche litro in più. Per le vie di Agrigento si aggirano rabbiosi gli assetati e anche tante, tantissime – 140 – auto bianche e azzurre della «Girgenti Acque Spa», la società  privata che gestisce il servizio idrico in 27 comuni su 43 servendo (sulla carta) 359 mila abitanti su 480 mila. La gara di affidamento l’ha vinta facile: era l’unica partecipante.
Perchè gli agrigentini vi odiano tanto?
«Perchè facciamo pagare le bollette che prima non pagavano, perchè prima di noi nessuno aveva mai gestito il servizio idrico», risponde Marco Campione, presidente di un’azienda che è sotto tiro poliziesco e giudiziario ed è esposta al rancore popolare.
Il suo quartiere generale è al centro di una spettrale area industriale dove in mezzo a palazzi sventrati ecco un’elegante costruzione circondata da palme, impiegate in divisa con tanto di fiocco, uffici climatizzati e profumati, pasticcini e biscottini, manager e ingegneri come nella sede di una multinazionale di Zurigo.
Il presidente, condannato in via definitiva per falso e truffa – al momento non è a conoscenza nemmeno se gli abbiano rilasciato il certificato antimafia – difende la sua azienda, dice che danno più acqua di quanto ne sia stata mai data prima, accusa il Comune per la decomposizione delle reti idriche cittadine. E giura: «Io non sono collegato a nessun politico: per questo mi attaccano». In pochi ci credono.
La Girgenti Acque ha 330 dipendenti («È un assumificio», ha denunciato il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo ascoltato a marzo dalla commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti ambientali), selezionati uno per uno – versione della direzione – attraverso colloqui rigidissimi, ha un customer satisfaction, ha uno staff di psicologi a sostegno dei dipendenti («Per l’autostima») che si prendono sputi e insulti ogni volta che entrano in contatto con gli utenti. E soprattutto dispone di una pattuglia di 007.
Sono sguinzagliati per «mappare» il territorio strada dopo strada, controllare consumi troppo modesti o troppo esagerati, investigano su deviazioni di condutture.
Nei tubi sono state inserite 80 micro telecamere, «vedono» come si attivano i contatori e come i furbi attaccano i bypass.
Nella guerra ai ladri d’acqua è scesa in campo l’ «intelligence».
Ma cos’è veramente questa Girgenti Acque? Cosa si nasconde sotto questa crosta di modernità  e di efficientismo?
La città  di Agrigento è una grande stanza degli specchi – pensate, in questa campagna elettorale Legambiente con un voltafaccia sostiene lo storico nemico che voleva il rigassificatore – dove è difficile rintracciare frammenti di verità .
Bisogna affidarsi alle carte ufficiali. Un corposo dossier di polizia, carabinieri, Dia e Finanza che descrive nel dettaglio i legami di mafia di Marco Campione.
Vecchi e nuovi.
Nella testimonianza alla commissione parlamentare, quando il procuratore Fonzo ha cominciato a parlare di Campione e della sua società  è calato il silenzio. Omissis. Omissis. Omissis. L’acqua di Agrigento è stata secretata.

Attilio Bolzoni
(da “La Repubblica”)

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IL BERLUSCONISMO SENZA BERLUSCONI

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

RENZI INSUPERABILE: NEL REGNO DELLA CAMORRA RIESCE A CANDIDARE UN CONDANNATO CONTRO UN BERLUSCONIANO INCENSURATO

Alzi la mano chi, quando Renzi lanciò il guanto di sfida alla vecchia ditta del Pd, immaginava di vederlo un giorno avvinto come l’edera a Vincenzo De Luca: un vecchio arnese dipartito che sta in politica da quasi mezzo secolo e da 10 anni si divide fra le aule di Comune, Parlamento e governo (spesso contemporaneamente) e quelle di tribunale, per giunta ineleggibile.
Uno che quattro anni fa fu trombato alle elezioni regionali e, anzichè ritirarsi a vita privata come avviene in tutte le democrazie, si ricandida come se niente fosse e, come le cozze, succhia tutta la schiuma della politica campana pur di agguantare un incarico che la legge gli vieta di assumere, in quanto è decaduto due volte (per l’incompatibilità  fra i ruoli di viceministro di Letta e di sindaco di Salerno e per la condanna in primo grado per abuso d’ufficio) e decadrà  di nuovo non appena poggerà  le terga sulla poltrona di presidente della Regione.
La domanda “che cosa direbbe Renzi se lo facesse Berlusconi?” vale quasi per ogni mossa del premier: l’Italicum e la controriforma costituzionale approvati a colpi di maggioranza (anzi, di minoranza), la porcata della scuola, il Jobs Act, il condono fiscale, la responsabilità  civile dei giudici, gli attacchi forsennati alla Corte costituzionale che si permette di dichiarare incostituzionale una legge incostituzionale, l’occupazione del suolo pubblico televisivo la domenica pomeriggio a tre settimane dal voto senza contraddittorio e senzapar condicio per gli altri partiti (con prevedibile sanzione a cose fatte dell’Agcom e ridicole indignazioni pidine perchè B. stasera farà  altrettanto da Fazio, peraltro dopo mesi di astinenza da video).
Quei pochi che paventavano, dopo il tramonto del Caimano, un “berlusconismo senza Berlusconi”, avevano visto giusto: ma neppure loro potevano prevedere che a incarnarlo sarebbestato il leader del Pd.
Perfino le denunce, precise e circostanziate, non del “solito” Fatto Quotidiano, ma anche di Roberto Saviano su “Gomorra nel Pd” sono state prima ignorate e poi addirittura vilipese con le lezioncine renziane (“la lotta alla camorra non si fa con gli articoli di giornale”) accanto a quel De Luca che ospita nelle sue liste d’appoggio i più bei nomi della malapolitica collusa (opportunamente lasciati a casa l’altroieri, per evitare a Matteo qualche selfie imbarazzante).
Siccome poi il berlusconismo è anche conflitto d’interessi, eccone uno fresco fresco e pronto per l’uso: se la decadenza dei sindaci condannati la decreta il prefetto, quella dei governatori regionali condannati spetta al capo del governo.
Cioè: toccherà  a Renzi far sloggiare il suo protetto De Luca non appena fosse eletto presidente della Campania.
E già  si prevede che gli lascerà  qualche giorno di tempo per formare la giunta presentare ricorso al Tar per ottenere la sospensiva ella decadenza almeno fino al 21 ottobre, quando la Consulta si pronuncerà  sulla legittimità  della legge.
A quel punto lorsignori sperano che la Corte, ammaestrata dalle bastonate degli ultimi giorni, non si metterà  un’altra volta di traverso sulla strada del nuovo padrone del vapore.
Un altro ingrediente del berlusconismo, con o senza B., è il grottesco.
Infatti Renzi elogia in De Luca il “grande sindaco di Salerno” (con tanti saluti al Tribunale che l’ha condannato proprio in qualità  di sindaco per la sua attività  di amministratore fuorilegge, cioè per aver inventato un incarico inesistente per sistemare un amico a spese dei contribuenti).
E aggiunge che don Vincenzo sarà  un “ottimo sindaco della Campania”: come Corrado Guzzanti che, nei panni di Gianfranco Funari, definiva Helmut Kohl “er sindaco d’a Germagna”.
Poi inaugura con lui, per l’ennesima volta, la nuova cittadella giudiziaria di Salerno, peraltro mai finita, come la Salerno-Reggio Calabria e quasi tutte le opere pubbliche del Grande Sindaco (la Lungoirno, il Solarium, il Palasport, la Piazza della Libertà , la Stazione marittima e naturalmente il famigerato “Crescent”, monumento alla bruttezza, all’ inutilità  e allo sperpero di denaro pubblico, anch’esso oggetto di un processo a carico di De Luca e di quasi tutta la sua giunta).
Una scena impagabile di puro umorismo involontario: un sindaco condannato e imputato per altri gravissimi reati contro la Pubblica Amministrazione costruisce un tribunale più grande e confortevole per ospitare al meglio i suoi stessi processi (dal produttore al consumatore: a quando il monumento equestre all’Imputato Modello?).
E lo inaugura un’altra volta col presidente del Consiglio che si sciacqua la bocca con la “legalità ” un giorno sì e l’altro pure e si appropria financo della memoria di Falcone con un tweet giusto in tempo per il 23 maggio.
Un attimo prima il premier aveva vaticinato che, con De Luca e i gomorroidi al governo della Regione, “il Pil della Campania crescerà  dallo 0,5 all’1 per cento”.
Ci voleva giusto Renzi per propiziare questo unicum assoluto della storia repubblicana: il centrosinistra che, nel regno della camorra, candida un condannato contro un berlusconiano incensurato.
Il Caimano schiatterà  d’ invidia.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)

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BOSCHI: MINISTRO DELLA REPUBBLICA O TESTIMONIAL DEL RENZISMO?

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

MAI UNA DICHIARAZIONE SUL MERITO, SULLE OBIEZIONI, MAI UN ACCENNO D’IMBARAZZO

Il problema, naturalmente, non è la Boschi che premia Djokovic al Foro Italico.
Più preoccupante è quello che di lei dicono sondaggisti e politologi, esperti di comunicazione interpellati da Mattia Feltri su La Stampa.
Esordisce Giovanni Orsina, politologo della Luiss: “È l’incarnazione totale e perfetta del renzismo”.
Prosegue il collega (massmediologo sempre alla Luiss) Massimiliano Panari: “ È una campionessa del politainment (quando politica e spettacolo partecipano al medesimo scopo, ndr). È una giovane donna con tutti gli stilemi classici della peoplisation, cioè della grande chiacchierata per il pubblico, l’incontro fra la dimensione privata e quella politica”.
Elisabetta Gualmini, docente di Scienza politica: “Il motivo fondamentale per cui viene impiegata come frontman della campagna elettorale, mentre gli altri stanno a casa, è che lei è goal oriented, ha realizzato la riforma della legge elettorale che aspettavamo da quasi un decennio e ha avviato quella del Senato di cui si parla da prima che lei nascesse. È la fine della sinistra grigia, sfigata, che ha il tabù dell’aspetto”.
Antonio Noto, di rettore di Ipr Marketing:“ Ha un profilo politico e somatico nuovo”. Commentando le foto in cui la Boschi va al supermercato, Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research spiega: “Ha un’immagine fortissima. Appare come un ministro che lavora, che fa la spesa, che fa tutto, lontanissima da Anna Finocchiaro a cui la scorta spingeva il carrello all’ Ikea”.
Oliviero Toscani: “È una bella ragazza, piacevole, sorride bene, è cicciottella, rassicurante”. Non è una questione di competenza — “se sia competente o no non si sa, ma non è importante”.
Invece, ovviamente l’asino casca qui.
A parte il fatto che i comunicatori dovrebbero fare un corso di comunicazione per come si esprimono (politainment, goal oriented , peoplisation e via dicendo), sembra che stiamo parlando di un testimonial e non di un ministro della Repubblica.
Se non bastasse, di un ministro con due deleghe importantissime, i rapporti con il Parlamento e le Riforme.
Materie in cui dovrebbe contare più sapere che saper portare i tacchi.
Quando i maggiori costituzionalisti italiani parlarono dei rischi di una svolta autoritaria derivante dal combinato disposto di legge elettorale e smantellamento del Senato, la sua risposta fu: “È una allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione”.
Al di là  della maleducazione, il nulla.
Mai una dichiarazione sul merito, sulle obiezioni, mai un accenno d’imbarazzo per la decisione di intraprendere un iter di riforma costituzionale durante una legislatura pesantemente delegittimata dalla sentenza della Consulta sul Porcellum.
Mai una parola sul referendum con cui nel 2006 gli italiani bocciarono l’idea di un premierato forte, oggi riproposta con l’Italicum.
Quanto al portare a casa i risultati bisognerebbe spiegare che le materie di competenza della Boschi sono le regole che fondano il patto tra il popolo e lo Stato.
La propaganda si può mettere in campo altrove, certamente non qui.
Non possiamo chiedere vigilanza ai cittadini, se la stampa (commentatori e osservatori compresi) si lascia andare con inquietante (e trasversale) frequenza a imbarazzanti definizioni come “fascinosa portabandiera del governo Renzi” e “seduzione Boschi”.
O a paragoni con le “nobildonne rinascimentali rapite da una vocazione religiosa”. Dobbiamo accontentarci del fatto che è donna?
A queste sciocchezze si può solo rispondere che anche la Costituzione lo è.

Silvia Truzzi
(da “il Fatto Quotidiano“)

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SPAGNA, UN VOTO CHE CAMBIERA’ 40 ANNI: PODEMOS E CIUDADANOS, LA PROTESTA SI FA LARGO DA SINISTRA E DA DESTRA

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

LE ELEZIONI SMANTELLERANNO LA TRADIZIONALE ALTERNANZA TRA POPOLARI E SOCIALISTI

Le elezioni amministrative di oggi in Spagna possono smantellare il sistema bipartitico nel quale popolari e socialisti si sono alternati per quasi quarant’anni alla guida del Paese.
E la rottura con la regola dei due partiti può aprire una fase di incertezza, nella quale l’urgenza di trovare maggioranze e coalizioni obbligherà  a difficili compromessi tra forze politiche molto lontane tra loro, nelle Regioni e nei Comuni.
Fino a coinvolgere il governo nazionale, guardando al voto politico che si terrà  in autunno. Siamo vicini alla svolta: popolari e socialisti hanno già  perso ogni certezza incalzati da Podemos e Ciudadanos, due movimenti diversi in tutto che tuttavia, da sinistra e da destra, conquistano consenso cavalcando la protesta dei cittadini spagnoli contro la casta, la corruzione e i partiti tradizionali.
La lunga campagna elettorale iniziata in marzo con il voto in Andalusia, continua dunque – con le urne aperte in 13 delle 17 autonomie regionali e in oltre 8mila comuni – per proseguire in Catalogna in settembre, e poi chiudersi in autunno con le elezioni che rinnoveranno il Parlamento nazionale e sceglieranno il nuovo governo del Paese.
Quella delle amministrative è dunque una prova generale per capire dove sta andando la Spagna ma è anche un passaggio significativo in sè: le autonomie regionali controllano infatti oltre un terzo della spesa pubblica spagnola e hanno la totale responsabilità  di servizi come scuola e ospedali pur dipendendo dai trasferimenti del centro.
I sondaggi mostrano che i quattro principali schieramenti sono molto vicini in termini di intenzioni di voto: l’ultima rilevazione di Metroscopia vede Podemos, in calo ma sempre primo, al 22,1%, seguito dal Partito socialista al 21,9%, dal Partito popolare al 20,8% e da Ciudadanos al 19,4 per cento.
Le analisi più approfondite sul territorio dicono che in 12 regioni e nella grande maggioranza dei comuni le urne non definiranno una maggioranza chiara e nessuno potrà  dire di avere vinto.
La capitale Madrid potrebbe restare ai popolari, costretti però a una coalizione, oggi impossibile, con Ciudadanos.
Barcellona potrebbe passare nelle mani di una coalizione guidata da Podemos.
Il premier Mariano Rajoy spera in un “effetto Cameron”, un successo inaspettato favorito dalla ripresa economica.
«La priorità  per tutti durante questa legislatura e in quella che verrà  è la crescita economica e la creazione di posti di lavoro. L’unico rischio – ha spiegato il premier – è il ritorno alle politiche ormai fuori tempo dei socialisti che hanno portato la Spagna alla bancarotta».
Da gennaio ad aprile l’economia è cresciuta dello 0,9% rispetto alla fine 2014, ritmo più veloce degli ultimi sette anni, confermando di poter raggiungere nell’intero 2014 un aumento del Pil del 2,9%, obiettivo fissato dal governo.
Il peggio sembra superato, ma nonostante la ripresa si vada rafforzando trimestre dopo trimestre, il tasso di disoccupazione è ancora vicino al 24%, quella giovanile vicina al 50% e la disoccupazione di lungo periodo vicina al 15%.
Ed è ancora tutta da risolvere l’emergenza sociale data da 5,4 milioni di cittadini senza un posto di lavoro su una popolazione di 47 milioni di abitanti.
Il leader socialista, Pedro Sanchez, ha attaccato i conservatori proprio sulle politiche di austerity, sulla diseguaglianza aumentata durante la crisi. E ha chiamato con insistenza gli elettori di sinistra a votare compatti, senza entrare in conflitto con Podemos: «Votare per il Partito socialista – ha detto – vuol dire battere la destra».
Per i due outsider, Podemos e Ciudadanos, popolari e socialisti sono il primo nemico da sconfiggere ed è difficile immaginare come si potranno raggiungere accordi di governo dopo una campagna tanto tesa.
«Saranno le elezioni più importanti degli ultimi 30 anni», dice Albert Rivera, carismatico giovane leader di Ciudadanos, il movimento dei Cittadini di ispirazione liberale nato in Catalogna in opposizione alle spinte separatiste della regione: il suo programma di centro che si basa sulla riduzione della pressione fiscale potrebbe conquistare una larga fetta dell’elettorato moderato stanco del Partito popolare.
«Per la prima volta dopo decenni, gli elettori avranno davvero la possibilità  di cambiare, non solo le amministrazioni – ha detto Rivera – ma anche la nostra stessa democrazia».
Pablo Iglesias, il leader di Podemos, il movimento anti-sistema nato dalla protesta di pizza degli indignados, ha attaccato senza sosta «la vecchia classe dirigente», «la corruzione diffusa», «gli intrecci di poteri economici e politici».
«La rivoluzione è già  iniziata: tic-tac, tic-tac, è iniziato il conto alla rovescia, presto conquisteremo il governo», ha ripetuto Iglesias, che pure deve affrontare alcuni contrasti interni al movimento e che non viene aiutato dalle vicende dei cugini greci di Syriza.
Per la Spagna il rischio è che con queste elezioni si apra una fase di difficile governabilità . Come è accaduto in Andalusia, dove la socialista Susana Diaz non riesce a ottenere il via libera a una giunta di minoranza in un Parlamento frammentato.
A poche ore dal voto gli indecisi sarebbero almeno il 30%.
Anche quando era sull’orlo del default, la Spagna ha sempre potuto contare sulla stabilità  del governo popolare di Mariano Rajoy.
Con il voto la situazione può cambiare del tutto.
«Non credo che la Spagna diventerà  d’un tratto ingovernabile – dice Josè Ignacio Torreblanca, dello European Council on Foreign Relations – ma le cose si stanno ingarbugliando e la scena politica è sempre più imprevedibile».

Luca Veronese
(da “il Sole24ore”)

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CHE COSA CAMBIEREBBE ANDANDO IN PENSIONE PRIMA? UNA MENSILITA’ PERSA ALL’ANNO

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

IN ANTICIPO DI 4 ANNI MA CON UN TAGLIO DI 150-200 EURO MENSILI

Andare in pensione con un anticipo di 4 anni, perdendo però una mensilità  abbondante ogni anno.
È quel che accadrebbe applicando le penalità  previste dal disegno di legge del duo Baretta-Damiano, che il governo sta seriamente prendendo in considerazione per favorire la «staffetta generazionale».
Ossia consentire l’uscita anticipata ai lavoratori più anziani e costosi per fare largo ai giovani.
Gli effetti li ha calcolati per La Stampa il Centro studi della Uil – politiche fiscali e previdenziali, applicando la sforbiciata del 2% l’anno prevista dal testo depositato alla Camera, che lascia libertà  di andare a riposo già  a 62 anni, anzichè a 66 come da normativa vigente, ma con almeno 35 anni di contributi versati.
La proposta prevede anche la possibilità  di ritardare fino a 70 anni il pensionamento, in questo caso con un bonus sempre del 2% l’anno.
Ma il governo non sembra intenzionato a mettere in pratica questa opzione, contraria alla politica del «largo ai giovani».
Taglio del 3% l’anno
In verità  anche il “malus”, per ammissione dello stesso sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, potrebbe subire un ritocco all’insù, al 3% l’anno, per attenuare il costo dell’operazione.
E tra le opzioni c’è anche quella buttata lì dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di calcolare tutto con il contributivo il trattamento di chi va anticipatamente in quiescenza. Una possibilità  che equivarrebbe a un taglio del 30%.
Lo stesso previsto dall’opzione donne della legge Fornero, che fino ad oggi ha riscosso scarso successo tra le lavoratrici.
«La Uil è sempre stata favorevole al principio della flessibilità », ci tiene a ricordare il segretario confederale Domenico Proietti. Che però aggiunge: «Non ci devono essere penalizzazioni aggiuntive a quella già  implicita del calcolo con il contributivo».
Cerchiamo però di capire cosa accadrebbe a chi decidesse da qui a 15 anni di andare in pensione anticipatamente con i tagli ipotizzati dall’unica proposta già  nero su bianco.
Con uno stipendio di 30 mila euro lordi chi andrà  in pensione nel 2020, percepirebbe un assegno mensile di 1.660 euro.
Anticipando di 4 anni l’addio al lavoro l’incasso mensile scenderebbe a 1.527 euro, con una perdita di 133 euro. Nell’arco dell’anno una mensilità  in meno.
Se poi il taglio si inasprisse al 3% l’anno, l’assegno si ridurrebbe di ben 199 euro, scendendo a 1.328 euro.
Il nodo dei cinquantenn
Mettiamo invece il caso di un lavoratore cinquantenne che in pensione ci andrà  nel 2030, con la pensione calcolata integralmente con il meno vantaggioso sistema contributivo. Il taglio in termini percentuali sarà  sempre lo stesso, ma si rivelerà  meno sostenibile perchè applicato su un trattamento più basso.
Con il solito reddito di 30 mila euro l’assegno mensile a normativa vigente in questo caso scenderebbe a 1.328 euro, ai quali ne andrebbero detratti 106 con il taglio dell’8% previsto dalla «Baretta-Damiano» per chi anticipa di 4 anni l’addio al lavoro.
L’assegno si ridurrebbe così a 1.222 euro, addirittura a 1.169 con il più probabile taglio del 3% annuo al quale sta pensando l’esecutivo.
Insomma, per far quadrare i conti si rischia di rendere poco appetibile l’opzione dell’uscita anticipata.
E proprio ieri la Cgia di Mestre ha diffuso numeri che parlano di una spesa previdenziale italiana da record europeo, pari al 16,8% del Pil e quattro volte superiore a quella per la scuola.
Cifre che in realtà  ricomprendono anche la voce assistenza, anche se dal 2001 al 2011 la spesa per le pensioni vere e proprie è lievitata di quasi 50 miliardi. E questa volta i numeri sono della Ragioneria.

Paolo Russo
(da “il Secolo XIX”)

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LA “MAMMA” DEGLI ASILI NIDO LASCIA IL PD: “NON E’ PIU’ IL MIO PARTITO”

Maggio 24th, 2015 Riccardo Fucile

ADRIANA LODI, DA ASSESSORE DI BOLOGNA FU LA PRIMA AD ANDARE IN SVEZIA A STUDIARE QUEL MODELLO DI WELFARE: “NON POSSIAMO AVERE UNA SCUOLA DIVISA PER CLASSI”

“Quest’anno non ho rinnovato la tessera del Pd, e tutto mi fa dubitare che lo farò in futuro. Io non mi ci ritrovo più, non è più il mio partito. Ma dopo aver lavorato per 60 anni come una matta, faccio molta fatica a non essere iscritta a nessun partito, lo sono da quando avevo 15 anni. Per questo mi trovo a disagio a dire: non mi iscrivo più. Non l’ho ancora detto del tutto, diciamo che ci sto pensando ma è l’ultimo dei miei pensieri”.
L’addio di Adriana Lodi è di quelli ad alto valore simbolico.
Assessore al Comune di Bologna dal 1964 col sindaco Giuseppe Dozza, Lodi aprì i primi asili nido a Bologna nella giunta di Guido Fanti.
In Italia strutture simili ancora non esistevano, ma lei andò in Svezia a studiare quel modello di welfare, insieme a un rappresentante della minoranza.
Così nel 1969 si apre sotto le Due Torri il primo nido, il Patini, alla Bolognina. In città  tutti la ricordano per quell’esperienza, ma la sua carriera non si è fermata lì: entrata in parlamento nel 1969 ci è rimasta per 23 anni. La prima tessera al Pci la fece nel 1948.
Di Adriana Lodi passò alla storia la fotografia in Comune insieme alla prima cosmonauta, e la sua militanza in quella “stagione del fare” rimasta nei ricordi di tanti bolognesi, oltre che sui libri di storia.
Ma dopo tante battaglie, a 82 anni, Adriana lascia il partito che ha sempre seguito, attraverso tutte le trasformazioni. “Seguo i lavori parlamentari e mi viene la rabbia – racconta dalla sua casa, casualmente proprio in via Dozza – non mi trovo d’accordo quasi con niente e mi sembra strano perchè la mia vita è stata tutta dedicata al’impegno e alla politica. Io ci ho messo la vita, ho sacrificato tutto quello che potevo, ora basta”.
La decisione della “mamma” degli asili nido è il frutto di tante delusioni, anche quelle nate dall’ultimo dibattito sulla scuola, ma parte dalla politica locale.
“Parto proprio dal livello locale, perchè credo che non siamo mai caduti così in basso- dice l’ex assessore – ma anche nella riforma della scuola io faccio fatica in generale a capire certe prese di posizione, sinceramente sarei stata anche più ardita”.
Ma il “cambiamento necessario” non può prescindere dal “caposaldo” che Lodi rivendica: “La difesa senza se e senza ma della scuola pubblica”.
“Se vogliamo avere un Paese moderno non possiamo avere una scuola divisa per classi – spiega – non mi convincono con il sostegno alle scuole private. Anche Francesca Puglisi, che è bolognese, per me fa discorsi insostenibili. La scuola pubblica, statale e comunale, è quella di tutti. La più importante e la più democratica”.

Eleonora Capelli
(da “La Repubblica”)

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