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MURARO INDAGATA ANCHE PER ABUSO D’UFFICIO: MAFIA CAPITALE LA VOLEVA ALL’AMA?

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

ALTRA TEGOLA SULLA PROTETTA DALLA RAGGI, SI AGGRAVA LA SUA POSIZIONE GIUDIZIARIA… PER I CARABINIERI DEL NOE “AVREBBE FAVORITO LA CONTRAFFAZIONE DEI RISULTATI DEL MATERIALE TRATTATO E AVVANTAGGIATO IL RAS DEI RIFIUTI CECCONI FACENDO LAVORARE GLI IMPIANTI AMA A BASSO REGIME PER PERMETTERE L’INSERIMENTO DEI PRIVATI”

Si aggrava la posizione dell’assessore all’ambiente della giunta Raggi Paola Muraro, Secondo quanto riportato oggi dal Messaggero e dal Corriere della Sera la Muraro risulta indagata per abuso d’ufficio in concorso con l’ ex dg di Ama Giovanni Fiscon, uno dei principali imputati nel processo Mafia Capitale.
Scrive il Corriere
Fu il direttore generale di Ama Giovanni Fiscon, uno dei principali imputati nel processo di «Mafia Capitale», a siglare i contratti di Paola Muraro con la municipalizzata. E la scelse anche come consulente giudiziario nei suoi processi. Per questo è adesso indagato con lei per il reato di abuso d’ufficio, sospettato di aver aggirato le norme pur di favorirla. Si aggrava dunque la posizione dell’assessore all’Ambiente del Comune di Roma.
È stato l’ascolto delle nuove telefonate inserite nel fascicolo d’indagine sull’organizzazione guidata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati a dare la svolta. Il resto lo hanno fatto le verifiche degli atti sequestrati presso l’azienda di gestione dei rifiuti: delineano un quadro che mette l’assessore al centro di interessi ritenuti illeciti dai pubblici ministeri.
Una situazione compromessa tanto che l’avvocato di Fiscon, Salvatore Sciullo, che aveva accettato di difendere anche Muraro, è stato costretto a rimettere il mandato chiedendo all’assessore di farsi assistere da un altro legale.
All’origine dell’inchiesta – spiegano i quotidiani – ci sono trenta telefonate finite nell’inchiesta di Mafia Capitale inizialmente non trascritte perchè giudicate irrilevanti per quell’indagine.
Gli stessi dialoghi però ora – scrive il Messaggero “rivelano ‘complicità ‘ sospette tra Muraro e Fiscon nella gestione del sistema rifiuti in questi anni. Tanto che l’inchiesta sembra avere preso una strada rapida e si sta avviando verso la chisura, che potrebbe avvenire già  verso la fine di ottobvre con la richiesta di rinvio a giudizio”.
Il Corriere spiega in cosa consiste una delle possibili violazioni più importanti rilevate dall’inchiesta.
La contestazione più grave riguarda l’incarico ottenuto da Muraro all’interno di Ama. Non una semplice consulente, come previsto dagli accordi siglati, ma una vera e propria manager che aveva la delega alla gestione degli impianti Tmb e dei tritovagliatori.
Secondo gli accertamenti svolti dai carabinieri del Noe, Muraro avrebbe favorito la contraffazione dei risultati sia per quanto riguarda la quantità , sia per la qualità  del materiale trattato.
E avrebbe favorito le aziende del ras dei rifiuti Manlio Cerroni accettando che gli impianti di Ama lavorassero a regime più basso di quanto era invece possibile e consentendo così alle ditte private di poter smaltire il resto della spazzatura.
I quotidiani riportano poi come l’attenzione della procura si concentri sulle consulenze percepite negli anni dalla Muraro.
“E una in particolare – sottolinea il Messagero : riguarda un contratto che Fiscom ha stipulato con lei per averla come consulente giudiziario nei processi contro l’azienda e lui stesso.. È un accordo che per i pm è illecitio”.

(da “Huffingtonpost”)

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LA CORRUZIONE NELLA SANITA’ COSTA 6 MILIARDI L’ANNO, COINVOLTA UNA ASL SU TRE

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

CANTONE: “E’ ANCHE COLPA DELL’INGERENZA DELLA POLITICA”

La corruzione nella Sanità  italiana “fagocita” 6 miliardi di euro l’anno, sottratti ad innovazione e cura dei pazienti per finire nelle tasche di corrotti e corruttori. Un male contagioso che ha coinvolto ben una asl su 3 in Italia.
Sono i dati emersi dal Rapporto 2016 “Curiamo la corruzione”, presentato lo scorso aprile e curato da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanità  e Rissc.
Proprio di corruzione e rischio di ingerenza della politica e della criminalità  nel settore sanitario ha parlato oggi a Roma il presidente della Autorità  nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, in occasione del Congresso delle Società  scientifiche italiane di chirurgia.
Secondo il Rapporto, in ben il 37% delle asl si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi 5 anni, «non affrontati in maniera appropriata», e il 77% dei dirigenti sanitari ritiene che ci sia il rischio concreto che all’interno della propria struttura si verifichino fenomeni di corruzione.
Tre sono gli ambiti maggiormente a rischio: quello degli appalti, delle assunzioni e degli acquisti. Con una “falla” preoccupante: l’esame dei Piani anticorruzione, previsti dalla Legge 190/2012, di 230 aziende sanitarie, rivela che nel 40% dei casi si sono limitate a un adempimento formale dell’obbligo di legge e solo una struttura sanitaria su 4 ha risposto in pieno alle norme.
Inoltre, secondo dati diffusi lo scorso aprile dal sottosegretario all’Istruzione, Università  e Ricerca, Davide Farone, il malcostume imperversa anche fra i cittadini e «2 milioni di italiani hanno pagato bustarelle per ottenere favori, mentre 10 milioni hanno effettuato visite mediche “in nero”».
«Legami con politica e criminalità  organizzata», appalti con il «più alto tasso di proroghe, spesso illegali» e reparti gestiti da primari «che non hanno mai fatto un concorso».
A dirlo senza mezzi termini è il presidente dell’Autorità  nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, ribadendo l’assoluta necessità  di maggiori meccanismi di controllo e trasparenza. «In molti casi si è verificato un legame fra Sanità , politica e criminalità  organizzata, e l’ingerenza della politica e uno dei problemi della Sanità . Ciò – ha detto – nasce per esempio dalle considerazioni sugli scioglimenti delle Aziende ospedaliere e delle Asl».
Il punto, ha avvertito, è che «su molte questioni che riguardano i vertici delle strutture sanitarie c’è una forte influenza della politica, che in alcune zone significa anche un pezzo dell’influenza della criminalità . Lo scioglimento di alcune Asl ne è la riprova”. Ma i rischi arrivano pure dalla concentrazione di potere che si potrebbe determinare con le nuove Centrali uniche di acquisto: «Ciò significa – ha spiegato – che quanto più aumenti il potere, tanto più, ovviamente, devi mettere dei contrappesi. In questo caso, i contrappesi sono dati dalla trasparenza e dalla necessità  che ci siano commissioni trasparenti”.

(da agenzie)

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AIUTARLI A CASA LORO? SE NE PARLA DA DECENNI, MA FUNZIONA SOLO IN PARTE, IPOCRISIA A PARTE

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

L’IPOCRISIA DI CHI NE FA UNO SLOGAN SALVO POI RICHIEDERE DAZI E BARRIERE CONTRO I PRODOTTI EXTRAEUROPEI

L’Unione europea stanzierà  88 miliardi per lo sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente. Elite di governo e piazze arrabbiate per una volta sono d’accordo: aiutiamoli, sì, ma a casa loro.
L’idea ha una sua plausibilità . Se la situazione nei Paesi di provenienza fosse meno disperata, i migranti sarebbero meno propensi a mettere a repentaglio tutto quel che hanno, per il sogno di raggiungere l’Europa.
Il problema è che, in Europa o in Nord Africa, la crescita è sempre più facile a dirsi che a farsi.
Il dibattito sugli aiuti allo sviluppo è iniziato dopo la seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione. La logica per cui i trasferimenti di denaro dai Paesi sviluppati dovesse «aiutare» quelli che sviluppati non erano affonda le sue radici nell’idea di «appropriazione originaria».
Per Marx, la borghesia aveva «accumulato» capitale per generazioni, prima che questo potesse dare origine alle innovazioni della Rivoluzione Industriale. Il foreign aid avrebbe dovuto costituire una versione accelerata e concentrata dello stesso fenomeno.
«Possedere denaro è il risultato dell’attività  economica, non la sua precondizione».
A notarlo fu un economista empirico della London School of Economics, Peter Bauer, che sfidò il consenso dominante.
Per Bauer, «se sono presenti tutte le condizioni necessarie allo sviluppo, tranne il capitale, quest’ultimo verrà  presto generato localmente, oppure le autorità  o i soggetti privati potranno ottenerlo dall’estero a condizioni di mercato (…) Se, invece, le condizioni necessarie allo sviluppo non sono presenti, gli aiuti risulteranno necessariamente improduttivi e, pertanto, inefficaci».
Gli aiuti da-governo-a-governo sono intermediati dalle istituzioni pubbliche. Ma in Paesi in cui non c’è certezza del diritto, i contratti sono carta straccia e la proprietà  privata è considerata «a disposizione» del governante pro tempore, neanche la manna dal cielo riesce a innescare lo sviluppo.
Al contrario, gli aiuti possono avere effetti perversi.
William Easterly, economista della New York University con un passato alla Banca Mondiale, ha più volte sottolineato il problema.
Il suo ultimo libro, «La tirannia degli esperti», è un j’accuse alla visione «tecnocratica» della crescita economica, esportata dalle grandi istituzioni internazionali.
Per avere crescita non basta azionare le leve giuste: istituzioni e cultura sono di importanza cruciale e tendono ad evolversi lentamente.
Sugli aiuti allo sviluppo ha espresso grande scetticismo anche Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia nel 2015.
Nel suo ultimo libro, Deaton parla di una «aid illusion», «l’errata convinzione che la povertà  del mondo potrebbe essere eliminata se solo i ricchi – o i Paesi ricchi – dessero più soldi ai poveri o ai Paesi poveri».
Per Deaton, il dramma è che ogni tanto le buone intenzioni finiscono per consolidare regimi liberticidi.
L’esempio più chiaro è lo Zimbabwe di Mugabe, dove ancora nel 2010 il 10% del Pil proveniva da aiuti allo sviluppo.
Ma è la natura stessa del foreign aid ad essere paternalistica se non anti-democratica.
«I donatori decidono questioni che dovrebbero essere lasciate ai loro beneficiari. I politici dei Paesi donatori – persino i più democratici – non hanno titolo per dire se in Africa sia il caso di dare alla lotta all’Aids una priorità  più alta che all’assistenza pre-natale».
L’economista «di sinistra» Deaton cita con approvazione l’economista «di destra» Bauer, ma tiene aperto uno spiraglio.
Aiuti fortemente «selettivi» potrebbero funzionare meglio: «Si potrebbe esigere che, prima di chiedere sostegno, i governi assistiti dimostrino il proprio impegno ad attuare politiche che vanno a beneficio della popolazione», come fa la Millennium Challenge Corporation del governo americano.
Disegnare programmi realistici e realizzabili per «aiutarli a casa loro» è dunque molto difficile.
Rendere più difficile per quei Paesi raggiungere potenziali acquirenti dei loro prodotti invece è facilissimo.
Proprio i populisti che più insistono sull’ «aiutarli a casa a loro» nel contempo invocano dazi e barriere per proteggere le produzioni agro-alimentari europee.
Sono le stesse forze politiche che hanno protestato per la decisione di limare i dazi sull’olio tunisino, o che alzano la voce contro l’accordo col Sud Africa che agevola l’importazione di agrumi.
L’«aiutiamoli a casa loro» è uno slogan che si scontra con il nazionalismo economico e la prosaica necessità  di garantire specifici gruppi d’interesse.
Investire in “foreign aid” può servire a ripulirci la coscienza mentre scegliamo di impegnarci in una politica di respingimenti.
Può forse comprare la disponibilità  dei loro governi ad impedire la libertà  di movimento dei migranti. Questi sono obiettivi raggiungibili.
Lo sviluppo di quei Paesi, purtroppo, lo è di meno.

Alberto Mingardi
(da “La Stampa”)

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MAUSOLEO DI AUGUSTO, LA BUROCRAZIA RISCHIA DI SPRECARE 6 MILIONI

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

IL BANDO DEL RESTAURO ANNULLATO E RISCRITTO… E I FONDI PRIVATI SONO IN SCADENZA

La fiducia incrollabile, che uno con la sua responsabilità  deve sempre avere, fa prevedere a Claudio Parisi Presicce l’apertura certa del cantiere per la fine di ottobre. Incrociamo le dita insieme al Soprintendente del Campidoglio ai Beni culturali. Intanto, però, i giorni passano e quella data si avvicina a grandi passi.
Il pericolo è quello di perdere per colpa della burocrazia sei milioni di finanziamento privato destinati a restaurare il mausoleo di Augusto, la tomba antica più grande dell’umanità  dopo le piramidi, edificata nel 28 avanti Cristo per accogliere le spoglie del fondatore dell’Impero romano.
Dettagli che ne fanno uno dei luoghi monumentali più importanti del mondo occidentale, in pieno centro di Roma: fra via del Corso e l’Ara Pacis.
Peccato che sia chiuso da otto anni, circondato da una rete metallica e assediato dai capolinea dei bus, in una situazione di degrado inaccettabile.
In nessun altro Paese al mondo un tale tesoro archeologico nel cuore della capitale subirebbe un simile destino.
Ma qui, è la cantilena che si sente ripetere, non ci sono i soldi… Verissimo.
Il Comune di Roma, proprietario del monumento, riusciva a spendere 42 milioni l’anno per affittare a prezzi scandalosi dai palazzinari i residence dove collocare famiglie che si presumevano bisognose, e non ha mai trovato quei pochi milioni necessari a restaurare un bene così prezioso.
Denari che peraltro sarebbero anche tornati indietro con gli interessi, grazie ai turisti.
Finchè un giorno i soldi saltano finalmente fuori.
Lo scorso anno la Fondazione Telecom Italia, ora Tim, mette sul piatto un assegno con molti zeri. Sei milioni di euro. La Soprintendenza tira un respiro di sollievo.
Quei sei milioni arrivano come una manna dal cielo. Si sommano infatti ai quattro già  faticosamente reperiti dallo Stato e dal Comune, che dovrebbero servire a cominciare i lavori dopo il disastro del 19 agosto 2014.
Quel giorno succede che il sito archeologico viene eccezionalmente aperto al pubblico in occasione del bimillenario della morte di Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto: ma finisce sott’acqua perchè scoppia una conduttura dell’Acea.
La figuraccia cosmica impone finalmente di intervenire per far cessare lo scandalo.
I soldi però sono pochini: giusto per cominciare, tenendo conto che oltre al mausoleo va sistemata anche la piazza che versa in condizioni indecenti.
Il 15 marzo 2015 Parisi Presicce dice così al Corriere : «Siamo arrivati al punto in cui stiamo partendo. Finalmente i soldi per il primo lotto stanno per essere adoperati per un bando pubblico. Certamente entro la fine di marzo, e nell’arco di un tempo di tre o quattro mesi, si potranno avviare i lavori».
Di mesi ne passano invece sei e dei lavori neanche l’ombra. In compenso, ecco i soldi della Fondazione Telecom. Il sindaco di Roma Ignazio Marino è reduce da quel viaggio a Filadelfia che segna l’inizio della fine.
La battuta di papa Francesco («Marino non l’ho invitato io…») , le polemiche dei grillini per il costo del viaggio e lui che esibisce l’elenco dei contributi per Roma racimolati grazie anche a quella trasferta.
In cima alla lista, anche se con il viaggio a Filadelfia non c’entrano, ci sono proprio quei sei milioni di Telecom per il restauro del mausoleo di Augusto.
Marino di lì a poco lascia il Comune e al suo posto c’è il commissario Francesco Paolo Tronca. I soldi di Telecom invece restano.
C’è solo un vincolo: per poterli utilizzare, i lavori devono partire entro il 31 ottobre 2016.
Il bando per il primo lotto, quello a cui sei mesi prima ha fatto riferimento il Soprintendente, è già  in moto.
Ma i burocrati del Campidoglio si mettono di traverso, contestando il fatto che la gara sia stata bandita con il metodo, sensatissimo, dell’offerta più economicamente conveniente. Sostengono che bisogna procedere invece con il massimo ribasso.
A nulla serve che il Parlamento abbia appena approvato la legge delega sul nuovo codice degli appalti, che decreta la morte del massimo ribasso, il cancro dei lavori pubblici made in Italy, a favore proprio delle offerte più economicamente convenienti. Non sentono ragioni.
Si deve quindi rifare il bando e come prevedibile il Comune è sommerso dalle offerte anomale: per l’esattezza, 25.
Vanno esaminate, per poi venire escluse, una a una. Passano mesi e quando si arriva alla fine e si aggiudica la gara, c’è ancora da far trascorrere il tempo per gli eventuali (e purtroppo soliti) ricorsi al Tar.
Alla scadenza del 31 ottobre manca soltanto un mese. E chi si domanda come mai Roma è ridotta in questo stato, ha la risposta.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)

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PONTE SULLO STRETTO, IL SISMOLOGO: “E’ UNO DEI PUNTI PIU’ CRUCIALI”

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

“CI POTREBBERO ESSERE FAGLIE CHE NON CONOSCIAMO”

Tra Scilla e Cariddi. È così che a scuola nei testi classici, come l’Odissea o le Metamorfosi, abbiamo imparato a conoscere quella lingua d’acqua tra la Calabria e la Sicilia.
E non è un caso che autori come Omero e Ovidio pongano a guardia dello Stretto di Messina due creature mostruose. Segno che non deve proprio trattarsi di una zona tranquilla. “È uno dei punti geodinamicamente più cruciali di tutta la Penisola. Una sorta di snodo tra la Sicilia e l’arco calabro”.
A parlare è Gianluca Valensise. Geologo e sismologo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), conosce bene quella regione. Sia per ragioni professionali che personali.
È, infatti, calabrese originario di Polistena. Autore, insieme alla storica dei terremoti Emanuela Guidoboni, del volume L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013, ha spiegato a IlFattoquotidiano.it le caratteristiche sismologiche della regione.
La stessa in cui da anni diversi presidenti del Consiglio, a un certo punto della loro vita politica, dichiarano di voler costruire un ponte. Come ha fatto, da ultimo, il premier Matteo Renzi, che ha rimesso al centro del dibattito politico la discussione relativa al ponte sullo Stretto di Messina.
Valensise, perchè lo Stretto di Messina è una delle regioni più cruciali d’Italia?
Succede molto in questo triangolo: c’è l’Etna, il sistema delle Eolie, e la faglia dello Stretto, responsabile del terremoto di Messina del 1908. È qui che è possibile, infatti, riscontrare una subduzione della placca africana sotto quella indo-europea.
Con quali conseguenze?
Il confine tra Africa ed Europa si è arcuato. Come due macchine che si sono scontrate, e contorte.
Non il posto migliore in cui costruire un ponte?
Uno dei rischi maggiori legati alla realizzazione del ponte è che ci potrebbero essere altre sorgenti sismiche che non riusciamo a cogliere. Ad esempio, delle possibili faglie che ancora non conosciamo del tutto, perchè si potrebbero trovare a decine di chilometri di profondità . I terremoti non sono tutti uguali.
Può spiegarci più in dettaglio?
I terremoti come quello di Messina, o quello ad Amatrice o a L’Aquila, sono tutti fratelli. Ma diversi, ad esempio, da quello del Friuli. Si tratta di terremoti estensionali. In pratica, si assiste a un’estensione est-ovest, e a un sollevamento di tutta la catena appenninica e dell’arco calabro. Un sollevamento che si estende in Sicilia, fino ai monti Peloritani, per arrestarsi sull’Etna e le Madonie. È un sollevamento della crosta terrestre, lo stesso che ha creato le montagne. È come se mettessimo una pagnotta in un forno: la conseguenza è che si spacca, s’inarca, si deforma.
E nello Stretto sta avvenendo un fenomeno analogo?
Questo sollevamento toglie spazio al mare e lo dà  alla terraferma. Infatti, circa un milione di anni fa l’Italia era un insieme di isole. Gli attuali siti di molte grandi città , ad esempio in Pianura Padana, erano sott’acqua. Senza questo sollevamento, oggi saremmo tutti aggrappati agli Appennini. Mi permetta di aggiungere una battuta.
Prego…
Se aspettiamo un po’ di tempo, il ponte non servirà  più. Tempo geologico, ovviamente. Il sollevamento sta, infatti, portando il fondo dello Stretto ad emergere. Tra 200-300 mila anni lo Stretto sarà  terraferma. E si potrà  camminare senza bisogno del ponte.
Si può quantificare questo sollevamento nell’arco di un anno?
La stima è che il fondale dello Stretto si stia sollevando fino a 2 mm l’anno.
Nei progetti sul ponte si parla di un’infrastruttura capace di resistere a scosse di magnitudo fino a 7,1 gradi Richte
Il dato è settato sul terremoto di Messina del 1908, che aveva quella magnitudo, ed è ragionevole. La magnitudo di progetto 7,1 potrebbe, infatti, essere sufficiente a coprire anche l’eventualità  di un terremoto profondo inatteso. Ma il problema, come dicevo prima, è proprio questo. Che, a differenza di altre zone d’Italia, ci potrebbero essere al di sotto dello Stretto altre sorgenti di terremoto che ancora non conosciamo bene. In fondo, anche i giapponesi nel 2011 hanno sbagliato le loro previsioni sui sistemi di subduzione.

Davide Patitucci
(da “il Fatto Quotidiano”)

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PONTE SULLO STRETTO: “TRAFFICO QUASI INESISTENTE, COSTI STELLARI E GESTIRLO NON CONVERRA’ A NESSUNO”

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

GLI ESPERTI BOCCIANO IL PROGETTO: “MANCANO LE OPERE ORDINARIE CHE CREEREBBERO LAVORO”… “MEGLIO FARE LA MANUTENZIONE DELLE STRADE SICILIANE E CALABRESI CHE SONO UN DISASTRO”…”INTERESSI AFFARISTICI, LO STATO CI RIMETTERA'”

Una cattedrale nel deserto. Peggio: una cattedrale che unisce due intere regioni prive d’infrastrutture decenti.
Con costi altissimi sia di costruzione che di gestione, poca ricaduta occupazionale, e che alla fine sarebbe anche scarsamente trafficata.
È quello che rischia di essere il ponte sullo Stretto, l’eterno sogno promesso da trent’anni di governi, recentemente rilanciato anche da Matteo Renzi.
“Ma quale ponte? Da noi le autostrade chiudono per le frane”, si è sfogato con ilfattoquotidiano.it il sindaco di Messina, Renato Accorinti.
E infatti basta dare un’occhiata alle rete viaria di Sicilia e Calabria, le due regioni che il ponte dovrebbe collegare, per rendersi conto della situazione dei collegamenti nell’estremo Sud Italia.
“Ci sono decine di opere che hanno bisogno di manutenzione, strade che versano in condizioni disastrose”, dice Marco Ponti, professore ordinario di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano.
Sicilia e Calabria: il disastro delle infrastrutture
“Tra l’altro— continua il docente — queste piccole opere di manutenzione creerebbero lavoro. Tanto lavoro. Per definizione le piccole opere creano maggior occupazione per ogni euro speso, al contrario del ponte: vorrei tanto parlare con chi ha stimato in centomila i posti di lavoro generati dalla sua costruzione”.
Un rapido sguardo alle carte geografiche di Sicilia e Calabria certifica che nelle due Regioni persino le infrastrutture normali versano in condizioni disastrose: dalle carreggiate della Salerno-Reggio Calabria che si riempiono di fango ad ogni temporale, alla pericolosissima statale Jonica, dalle strade che crollano periodicamente sulle Madonie, isolando i comuni, fino all’autostrada Messina-Catania, franata all’altezza di Letojanni.
C’è poi la statale per Sciacca, ridotta quasi ovunque e da anni a corsia unica, fino a quello che è diventato il simbolo recente dello stato di salute della viabilità  al Sud: il viadotto Himera, sull’autostrada Palermo-Catania, crollato nell’aprile 2015, abbattuto e ancora mai ricostruito.
“Quella è una vera follia — commenta sempre Ponti — Sa che il Genio militare potrebbe sistemare quella strada in una settimana con un ponte d’acciaio? Solo che per legge non lo possono fare. Non possono fare concorrenza al mercato, ai privati. E dunque investiamo sempre nel cemento, facendo finta di non sapere che in alcune zone il cemento è appannaggio almeno in parte di una certa organizzazione criminale. Ma chissà  qualcuno verrà  a dirci che creano lavoro anche loro”.
La manutenzione delle strade? “Creerebbe più lavoro del ponte”
Al contrario secondo Ponti bisognerebbe investire in tecnologia. “È la tecnologia che crea sviluppo e fa evolvere il Sud non isolandolo dal resto d’Europa — spiega — Sono le piccole opere che hanno maggior ricaduta occupazionale, le opere di manutenzione della rete viaria che è in cattivissimo stato”.
Perchè non si fanno? “Perchè non si vedono, non fanno notizia, non sono buone per fare campagna elettorale. E dunque si parla di ponte e dei centomila posti di lavoro”.
Il traffico sul ponte? Quasi inesistente
Ma il problema non è soltanto attuale, e cioè legato alla cattiva condizione delle infrastrutture di Sicilia e Calabria. Al contrario il ponte rischia di essere un enorme flop anche in futuro, in caso di costruzione, per almeno due motivi: l’effettivo utilizzo e il fattore economico.
“A nessuno interessa quanta gente passerà  su quel ponte: a nessuno”, dice Ponti, autore in passato di uno studio che analizzava l’effettivo utilizzo del mega viadotto sullo Stretto.
Quattro i fattori analizzati dal professore in relazione al possibile traffico sul ponte: i passeggeri e le merci rispettivamente di lunga e breve distanza.
“Nel primo caso — spiega — è chiaro che chi deve andare a Roma o a Milano e persino a Napoli, prende l’aereo, più veloce ma ormai anche più economico. Le due conurbazioni maggiori interessate dal coprire una distanza breve sono invece Catania-Messina e Messina-Reggio Calabria: per loro però il Ponte è scomodo, perchè è molto alto, bisogna fare le rampe, salire in quota, riscendere. Insomma alla fine anche in questo caso è più comodo il traghetto”.
Stessa storia anche quando a spostarsi devono essere le merci. “È noto che per spostare merci a lunga distanza la nave sia l’alternativa migliore: costa poco e inquina pochissimo. Per quanto riguarda la breve distanza, bisogna invece considerare che Calabria e Sicilia hanno produzioni molto affini: per quale motivo dovrebbero scambiarsele?”.
Un progetto a perdere
C’è poi il capitolo dei costi di costruzione e di gestione. Il bando originario era stato aggiudicato a 4 miliardi di euro, fondi coperti al 40 percento dallo Stato e al 60 percento dai privati.
“A parte il fatto che oggi quel contratto è in contrasto col nuovo codice degli appalti, bisogna considerare che quei numeri nel frattempo sono lievitati, toccando quota 8 miliardi e mezzo: cifra che oggi mi sembra anche troppo esigua”, dice il professor Domenico Marino, docente di politica economica dell’Università  di Reggio Calabria, autore di un saggio che analizza i costi del ponte.
“Si parla di cinesi, arabi, americani: ma imprenditori interessati a mettere i soldi non ce ne sono. Sanno benissimo che si tratta di un’opera che produrrà  utile dopo almeno 30 anni dalla sua inaugurazione, ma c’è chi parla anche di 40, e per allora non si sarà  neanche ripagata: chi può essere interessato a un investimento simile?”.
E infatti per camuffare il project financing ecco l’escamotage: a ponte ultimato le Ferrovie dovranno pagare non un abbonamento sulla base del numero treni che lo attraversano, ma un contributo standard da 100 milioni di euro all’anno.
“Ma le Ferrovie di chi sono? Sempre dello Stato: è un project financing truccato. Senza considerare che i treni su quel ponte non potranno neppure viaggiare, anche se doveva costare un miliardo in più proprio per renderlo attraversabile dai vagoni”, continua Marino che cita l’esempio del ponte di Akashi in Giappone, il viadotto sospeso più lungo del mondo.
“Ha una luce massima di 1.900 metri, cioè circa la metà  di quello sullo Stretto: e su quel ponte i giapponesi non fanno andare i treni. Voglio dire: i giapponesi qualcosa di tecnologia sapranno, o siamo più bravi noi?”, sorride amaro Marino.
Quando i soldi voleva metterceli la mafia canadese
Lo utilizzeranno in pochissimi, costerà  una cifra esorbitante e gestirlo non converrà  a nessuno: ma allora perchè da 30 anni governi di ogni colore tornano alla carica per costruire questo benedetto ponte?
“Per motivi politici, affaristici, economici: sono diversi gli interessi in campo, nonostante la qualità  della proposta sia scadente”, dice Guido Signorino, professore d’economia all’Università  di Messina e assessore della giunta Accorinti.
“In questo momento comunque la costruzione del ponte è fuori da ogni orizzonte praticabile”, continua l’assessore, che poi cita l’unico imprenditore veramente vicino a finanziarne la costruzione in passato: Giuseppe “Joseph” Zappia, ingegnere italo canadese pronto a mettere sul piatto quattro miliardi di dollari nei primi anni duemila. Solo che nel 2005 la procura di Roma lo fece arrestare per associazione a delinquere, accusandolo di essere il referente di Vito Rizzuto, potente boss mafioso di Montreal. Intercettato mentre parlava con un suo collaboratore, Zappia si fregava le mani: “Se tutto va bene io farò il ponte di Messina e ti dico un’altra cosa: è che c’è da un lato la mafia, la Sicilia. Da quell’altro posto c’è la ‘ndrangheta”. In mezzo vorrebbero farci un ponte.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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“ROMA 2024, VINCE LORENZO”: IL TEMA DI QUESTO BAMBINO E’ LA MIGLIORE RISPOSTA AL NO ALLE OLIMPIADI

Settembre 30th, 2016 Riccardo Fucile

HA 10 ANNI E SOGNA IL PODIO OLIMPICO NELLA SCHERMA A ROMA 2024

“Roma 2024, scherma. Vince Lorenzo Capolicchio”. Lorenzo ha 10 anni e un grande sogno: salire sul gradino più alto della competizione a cinque cerchi.
Non una qualsiasi ma l’Olimpiade di Roma 2024. Quella che non si farà  mai perchè così ha deciso il sindaco di Roma Virginia Raggi bollando come “irresponsabile” la candidatura della capitale per i giochi della trentatreesima Olimpiade.
Ma il piccolo Lorenzo non ci sta e armato di penna, righello e matite colorate ha deciso di esprimere tutto il suo malcontento su un quaderno a righe.
Un breve tema e un disegno: il compito più bello che abbia mai realizzato.
“Voglio diventare lo schermidore più forte del mondo”, attacca. Crescere, diventare il migliore e salire sul gradino più alto del podio: “Vorrei un futuro pieno di gare, viaggi e sport”, scrive.
La mamma ha postato su Twitter le foto del tema e del disegno del piccolo Lorenzo e ha chiamato in causa il presidente del consiglio Matteo Renzi.
Il messaggio è stato subito retweettato dal Coni sul suo profilo ufficiale. Il compito di Lorenzo si conclude con un podio stilizzato con tanto di nomi, numeri e bandiere e l’insegna di “Roma2024”.
La cartolina dell’Olimpiade della Capitale si conclude così: al primo posto Lorenzo Capolicchio, al secondo l’americano Jastin Masiallas e al terzo il cinese Lin Quon Zan.
“Se diventassi molto esperto nella scherma, viaggerei in tutto il mondo: le gare, i tornei e le Olimpiadi! Questo è un sogno che si può avverare, ne sono certo!”, spiega il piccolo schermidore che sogna di diventare il più grande nome della disciplina e di riscattare il bottino amaro degli schermidori di Rio2016.
“La scherma non è uno sport come tutti gli altri: ci vuole disciplina, precisione e concentrazione. Quando ti arrabbi, hai già  perso l’incontro perchè devi stare concentrato. Ricordo che al primo anno di scherma certe volte mi scoraggiavo ma ora che la pratico da quasi cinque anni ho tutte queste capacità . Per me la scherma sarà  il mio futuro!”.
Il piccolo Lorenzo non vincerà  mai l’Olimpiade di Roma 2024, ma per lo schermitore con la stoffa del campione che vuole diventare il più forte al mondo il sogno continua. A Parigi, Budapest o Los Angeles dal gradino più alto del podio la vista è sempre splendida.
E chissà  se un giorno il più grande schermidore rispolvererà  quel quaderno a righe dove disegnava a pastelli e righe il suo futuro…

(da “Huffingtonpost”)

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ROMA A RISCHIO DEFAULT: LA RELAZIONE DELL’UOMO DEI CONTI PRIMA DI LASCIARE LA RAGGI ALLE SUE MENZOGNE

Settembre 29th, 2016 Riccardo Fucile

E IL GRANDE STATISTA DI MAIO COMPLETA L’OPERA: “SE UN BUROCRATE SE NE VA TANTO MEGLIO”, SALVO POI CORRERE DIETRO A TUTTI I BUROCRATI DISPONIBILI PER RIEMPIRE LE CASELLE VUOTE

C’è una relazione che fa tremare il Campidoglio.
Si trova sul tavolo del sindaco ed è stata lasciata dal Ragioniere generale del comune di Roma, Stefano Fermante, il quale ha rimesso il mandato nelle mani di Virginia Raggi: lettera protocollata il 28 settembre.
In realtà  Fermante aveva già  rimesso il suo mandato nella seconda metà  di luglio, ma da allora non sarebbe mai stato convocato dal primo cittadino, così all’inizio di questa settimana ha nuovamente rimesso l’incarico non senza consegnare un report sullo stato dei conti capitolini: “Così non ci sono le condizioni per lavorare”, avrebbe detto Fermante a persone a lui vicine.
L’immagine della Capitale che viene fuori dal dossier è di una città  sull’orlo del default, con debiti delle società  partecipate che si vanno sommando di giorno in giorno.
Luigi Di Maio contrattacca: “Se un burocrate se ne va, c’è da essere contenti”.
Tuttavia le criticità  innegabili ereditate si aggiungono alla situazione attuale di stallo in cui versa il Comune da oltre 100 giorni e tutto ciò pesa in vista della legge di bilancio. La scadenza non è dietro l’angolo, ma non è neanche lontanissima.
Entro il 31 dicembre i Comuni devono redigere ed approvare il bilancio di previsione per l’esercizio finanziario successivo e il bilancio triennale di previsione.
Si tratta di un passaggio nevralgico e obbligatorio perchè in questo documento l’amministrazione indica quali risorse finanziarie intende reperire e come intende utilizzarle.
Non rispettarlo vuol dire andare incontro alla scioglimento del Consiglio comunale e al commissariamento.
A pesare oggi è anche l’assenza dell’assessore al Bilancio. Per questo con le dimissioni di Fermante, alcuni esponenti politici hanno paventato il concreto rischio del secondo commissariamento consecutivo per il Campidoglio.
È stata l’ennesima giornata caotica. Mentre in consiglio comunale si discuteva la mozione per ritirare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, con bagarre annessa, il Campidoglio a notizia ormai diffusa ha fatto trapelare che invece non risultavano al sindaco le dimissioni del ragioniere generale, che “è regolarmente al lavoro”. “L’ennesima bugia”, dicono le opposizione.
È probabile che il primo cittadino abbia voluto giocare sulla differenza sottile, in punta di diritto, che c’è tra “rimettere il mandato” e di dimissioni.
Il dato politico ma soprattutto pratico è il caos che vi è in Campidoglio.
“I conti di Roma sono in balia degli eventi — dice Alessandro Onorato, consigliere della Lista Marchini — nessuno si sta occupando dell’assestamento di bilancio. Un ragioniere generale serio e onesto, nel momento in cui non ha una linea politica chiara, siccome su di lui pesano le responsabilità  dei conti della Capitale, è evidente che mette in allarme il primo cittadino e poi se non ha le risposte si dimette”. Interviene anche Stefano Fassina, di Sinistra italiana, esperto di economia: “Rischiamo o di fare un bilancio improvvisato che non corrisponde alle priorità  della città  oppure rischiamo addirittura di arrivare all’esercizio provvisorio”. “Altro capolavoro Raggi-Grillo”, dice il Pd.
Il Campidoglio — si apprende in serata – starebbe già  pensando al sostituto di Fermante: il suo omologo della città  metropolitana di Roma Capitale Marco Iacobucci. Contatti ci sarebbero già  stati, ma visti i precedenti di annunci e smentite è meglio glissare.
Sta di fatto che bisogna fare in fretta poichè, secondo il Testo unico degli Enti locali, se il bilancio di previsione non è approvato dal Consiglio comunale nei tempi previsti dalla legge (cioè il 31 dicembre), il Consiglio comunale è sottoposto a procedimento di scioglimento e il Comune è sottoposto a gestione provvisoria.
La capacità  di un’amministrazione locale di programmare investimenti e spese senza assessore al Bilancio e senza il responsabile del servizio finanziario, è decisamente limitata.

(da “Huffingtonpost”)

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COMICHE. GRILLINE: “ABBIAMO PORTATO A ROMA IL SEI NAZIONI DI RUGBY”. PECCATO CHE SI GIOCHI NELLA CAPITALE DA 17 ANNI

Settembre 29th, 2016 Riccardo Fucile

IL VICE-SINDACO FRONGIA ENTRA NEL GUINESS DEI PATACCARI… SI INTESTA ANCHE GLI ALL BLACKS A ROMA, MA LA DATA ERA STATA FISSATA GIA’ NEL 2010 DALLA FEDERAZIONE RUGBY

Mentre infuria la polemica sul ritiro della candidatura per i Mondiali di Rugby 2023, il vicesindaco della Capitale Daniele Frongia interviene sui grandi eventi di rugby a Roma, durante la seduta straordinaria dell’Assemblea Capitolina per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. “Invitiamo tutta la cittadinanza a partecipare ai grandi eventi di rugby il Sei Nazioni 2017 e gli All Black a Roma che abbiamo portato noi, questi sono i fatti”.
Ma in realtà  i grandi eventi del Rugby internazionale a Roma sono arrivati all’inizio dell’anno santo, il 2000.
Era il 5 febbraio quando allo Stadio Flaminio l’Italia, che era stata ammessa nell’elitè della palla ovale due anni prima (1998) dall’International Rugby Board, giocò la sua prima partita del Sei Nazioni che per l’occasione cambiò la sua denominazione che fino ad allora era stata Cinque Nazioni. Vinse l’Italia sulla Scozia, 34 a 20, con una meta di Giampiero “Ciccio” De Carli, pilone romano, come se il destino avesse voluto mettere la sua impronta decisiva su quell’evento eccezionale.
Da allora sono state giocate 17 edizioni di quel torneo sempre nella Capitale con la sola differenza che dal 2012 si gioca allo Stadio Olimpico e non più nell’insufficiente Flaminio.
Il Sei Nazioni ha visto per adesso, succedersi sullo scranno principale del Campidoglio quattro sindaci: Rutelli, Veltroni, Alemanno e Marino.
Quanto agli All Blacks a Roma, la leggendaria squadra della Nuova Zelanda, campione del mondo in carica, la sua presenza in Italia per il tour europeo, è stata fissata dalla Federazione Internazionale di Rugby nel maggio del 2010: gli All Blacks, si legge nel comunicato del 30 maggio di quell’anno della Federazione Italiana Rugby, sarebbero stati nel nostro paese nel 2012, 2016 e nel 2018.
Così come si sa anche quando saranno in Italia le altre grandi squadre mondiali non europee (Sud Africa, Australia, Argentina ecc.ecc) in base ad un calendario che arriva fino al 2019.
Quanto poi alla sede della partita del 12 novembre prossimo, la decisione è toccata alla FIR in base alla disponibilità  degli impianti: in accordo con il CONI — titolare dell’Olimpico di Roma — la FIR il 19 luglio di quest’anno ha reso noto che i tutti neri neozelandesi avrebbero giocato contro la Nazionale nell’impianto del Foro Italico. Appena un mese dopo la vittoria di Virginia Raggi nel ballottaggio.

(da agenzie)

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