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“LIBERO” HA SCOPERTO CHE IL PD CHIEDE IL VERSAMENTO DI UNA TASSA PER I NOMINATI NELLE PARTECIPATE, MA STRANAMENTE SI DIMENTICA DELLA LEGA CHE FA LA STESSA COSA

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

LA PRASSI NON E’ ILLECITA MA METTE MOLTI DUBBI SULLA COMPETENZA DEI MANAGER PUBBLICI

Come si finanzia il Partito Democratico? Una parte (esigua) delle entrate proviene dal tesseramento degli iscritti o con il 2à—1000 e dai rimborsi per le spese elettorali.
Ma una fetta considerevole del finanziamento del PD è frutto dei versamenti e dei contributi effettuati da persone fisiche.
Ovvero gli eletti del PD, così come già  era in uso quando c’era il PCI o il PDS e come si fa in altri partiti, versano una quota del proprio stipendio al Partito, che poi ne gira una parte alle sezioni regionali e locali.
Niente di illecito o di sbagliato, e ci sono del resto parlamentari Dem che rivendicano con orgoglio di contribuire al sostentamento della macchina del partito governato da Matteo Renzi.
Quella degli eletti iscritti al PD tenuti, in base ai regolamenti finanziari interni, a versare una percentuale dello stipendio al partito non è nè una novità  nè un segreto. Non è nemmeno un unicum nel panorama italiano, i parlamentari leghisti sono tenuti a versare il 40% della propria indennità  al partito.
Nel PDL viene richiesta una quota fissa una tantum.
È un fatto meno noto invece che anche gli amministratori nominati dal Partito Democratico siano obbligati a versare un contributo in percentuale del compenso lordo percepito.
Ovvero non solo Senatori, Depuati, Assessori e Consiglieri Regionali, Sindaci, Presidenti di Provincia, Assessori Comunali o Provinciali, Consiglieri Comunali o Provinciali, Consiglieri di Circoscrizione devono versare al partito parte dello stipendio.
Sono tenuti a farlo anche   coloro che vengono designati (nominati) dal PD all’interno di enti e organizzazioni di vario livello in qualità  di consiglieri di amministratori, consiglieri di indirizzo, revisori dei conti o altro.
Questo vale per le società  per azioni a partecipazione pubblica, i consorzi, aziende pubbliche e così via.
Nel regolamento nazionale non se ne parla, ma nei vari regolamenti finanziari regionali e provinciali la questione viene descritta nel dettaglio.
Ne ha parlato il 30 agosto Franco Bechis su Libero e oggi Marco Palombi e Carlo Tecce sono tornati sull’argomento sul Fatto Quotidiano.
Ad esempio se si va a leggere il regolamento finanziario del PD del Friuli-Venezia Giulia è possibile scoprire che i nominati nei Cda delle partecipate dove governa il PD sono tenuti a versare una percentuale dell’indennità  lorda pari al 10%.
Le entrate poi vengono regolarmente messe a bilancio.
Altrove, come ad esempio nel regolamento del PD toscano non se ne trova traccia.
Ma basta andare a leggere il regolamento finanziario del PD di Siena «il capitolo contributi comprende le sottoscrizioni a cui sono tenuti gli iscritti, eletti e designati presso enti, aziende e società  pubbliche o private, come disciplinato dal presente regolamento, sulla base delle indennità  percepite, dei gettoni di presenza nonchè sui trattamenti di fine mandato e simili».
A Siena l’ammontare di questi contributi può arrivare fino al 30% del lordo percepito. Mediamente la “tassa” oscilla intorno al 10%, il minimo si registra in Veneto (6%) e a Mantova (8%)
Quanto costa la tassa della Lega?
Secondo Bechis il problema del PD è che da un lato sostiene di nominare manager e amministratori in base ai curricula mentre in realtà  valuta la disponibilità  dei nominati a versare il “contributo obbligatorio” nelle casse del Partito.
Insomma il PD più che la competenza tenderebbe a prediligere amministratori che si impegnino ad essere “riconoscenti” nei confronti di chi li mette al loro posto delle partecipate.
Verrebbe così premiata la lealtà  al Partito più che la capacità  di amministrare la cosa pubblica.
Ma Bechis finge di dimenticare che la fedeltà  alle scelte del partito cui sei “debitore” è una delle caratteristiche fondamentali delle nomine da parte dei partiti, nessuno escluso.
Questa la si cerca e la si ottiene con o senza “tassa democratica”.
E probabilmente è meglio esplicitare, per motivi di trasparenza, la richiesta di contributi che fare come è emerso fa un partito come la Lega Nord.
Durante un servizio di Report del maggio 2017 Mauro Borelli, Direttore Generale ASST Franciacorta ammetteva candidamente di versare ogni anni 6 mila euro nelle casse del partito di Matteo Salvini.
Senza contare che successivamente alla nomina Borelli diede l’incarico di realizzare la rete Intranet a Luca Morisi, spin doctor del Capitano della Lega.
Questo però curiosamente Bechis non lo dice.
Forse sono meglio le regole non scritte?

(da “NextQuotidiano”)

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IL SINDACO LEGHISTA CHE SI RIFIUTA DI CELEBRARE UNIONE GAY, MA POI DELEGA L’ASSESSORE, COSI’ NON RISCHIA LA POLTRONA

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

DA UN   LATO LO SPOT, DALL’ALTRO LO STIPENDIO… CE NE FOSSE MAI UNO CON LE PALLE CHE PER COERENZA ANDASSE   FINO IN FONDO E SI FACESSE COMMISSARIARE… CAPACI SOLO DI NEGARE DIRITTI, MAI DI METTERCI LA FACCIA

Il sindaco di Prevalle, nel Bresciano, non celebrerà  l’unione civile omosessuale: “per me non sarebbe da fare” ha detto con toni di memoria manzoniana il primo cittadino leghista. Amilcare Ziglioli.
Il matrimonio gay, invece, si farà  lo stesso grazie visto che, finita la sceneggiate a uso gonzi, ha poi delegato un suo assessore.
L’amministrazione di Prevalle da sempre si è definita “no gender”. Il sindaco lo aveva persino scritto sui pannelli luminosi lungo le vie del paese e a luglio aveva inaugurato anche lo sportello anti gender, gestito da un’insegnante locale.
Domani è prevista l’unione civile tra due trentenni del paese. “La mia cultura e la mia posizione non sono in linea con queste celebrazioni, ma la legge ci chiede questo e quindi qualcuno celebrerà . Io però avrei detto no” – spiega Ziglioli che aggiunge: “La celebrazione si farà  nella stessa sala dove si fanno i matrimoni normali”.
Tanto rumore per nulla, finito lo spot, l’unione civile si fa con tutti gli onori.
Ci fosse mai qualcuno che, per coerenza, andasse fino in fondo e si facesse commissariare per fatto di coscienza.
Certo, bisognerebbe rinunciare alla stipendio, concetto estraneo ai “rivoluzionari patacca”.

(da agenzie)

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“IO NON GLI HO FATTO NIENTE, PERCHE’ MI HANNO PICCHIATO?”

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

PARLA IL GIOVANE RAGAZZO SOMALO PICCHIATO AD ACQUI DA DUE MINORENNI ITALIANI

«Don’t touch me», non toccarmi. Lo ripete più volte, con un filo di voce.
Distoglie lo sguardo, alza le mani, per evitare lo scontro. Ma chi ha di fronte proprio non ne vuole sapere. Cerca la rissa e lo provoca.
Prima gli insulti, poi gli spintoni che rischiano di farlo finire sotto a un camion, mentre gli amici ridono, lo incitano a picchiare, filmano tutto con il telefonino.
E alla fine, quando Sahid, richiedente asilo somalo di 22 anni, prova a reagire alla violenza, il suo aggressore lo solleva e scaraventa di schiena sul marciapiede, prima di fuggire per l’intervento di un passante.
Sono le 13 di martedì 8 agosto, giorno di mercato ad Acqui, palazzine eleganti e viali ordinati in provincia di Alessandria.
Accade tutto sotto alle finestre del Comune, accanto a uno dei siti archeologici che punteggiano la città . Ma il caso esplode adesso, complice il video che, un paio di giorni fa, è spuntato su Facebook, provocando reazioni sdegnate.
I carabinieri, con un’indagine lampo, sono risaliti sia all’aggressore, che vive in un paese della zona, sia a uno degli amici bulli, residente in città . Hanno 17 anni, alle spalle altri brutti episodi.
Il pestaggio è costato al primo la denuncia per lesioni personali (il migrante ha riportato un lieve trauma cranico, 5 giorni di prognosi), al secondo, che incitava l’amico, quella per istigazione a delinquere.
Ma non è finita: le indagini proseguono per identificare l’autore del video e capire se, come sembra, fosse presente una quarta persona.
E mentre il bullo sul suo profilo chiede scusa — «so di aver fatto una c…a e avete tutte le ragioni di avercela con me però vi giuro che non succederà  più» — il giovane somalo si chiede «perchè?».
Si chiama Sahid, ha il fisico gracile protetto da un giaccone nero a strisce rosse nonostante il caldo.
Quando lo chiami, si volta con uno sguardo di paura e di preoccupazione. Non parla italiano, poche parole di inglese, gli amici dicono che non si è ancora ripreso dal viaggio e dal dolore di aver lasciato la sua terra.
Dell’aggressione ricorda tutto: «Guardavo una colonna antica e hanno iniziato a gridarmi contro. Io non capivo che cosa stavano dicendo, ma più chiedevo “che cosa?” più urlavano. Uno mi è venuto addosso, ho cercato di difendermi, ma lui mi ha colpito, poi mi ha fatto cadere». Si tocca la nuca: «Fa ancora male, anche se la botta non è stata violenta».
Il sindaco grillino di Acqui, Lorenzo Lucchini annuncia che il Comune si costituirà  parte civile all’eventuale processo: «È un atto vergognoso, chiedo scusa a nome di tutta la città . Vogliamo incontrare questo ragazzo per mostrargli la nostra vicinanza e ringraziare chi è intervenuto per allontanare l’aggressore».
Si tratta del ristoratore Davide Zendale, 39 anni. Lo si vede alla fine del video dire al bullo: «Cosa stai facendo?». «Passavo coi bambini, mi sono fermato. Gli dicevano “Tornatene a casa tua” ma pensavo a un battibecco. Sono intervenuto quando ho visto il ragazzo sbattuto a terra. Ho agito d’istinto, l’avrebbe fatto chiunque».
Invece, l’ha fatto solo lui. La coop Crescere Insieme, che ospita Sahid e ha denunciato subito l’episodio, dice: «Che l’aggressore sia un minore e l’aggredito un richiedente asilo interroga le coscienze di tutti noi cittadini, sul lavoro da fare per recuperare umanità  sul piano sociale, politico e delle relazioni tra le persone».
Sahid spiega che la città  gli è stata vicina, anche in queste ore, ma ammette di avere ancora paura di chi lo ha aggredito: «Io non gli ho fatto niente, perchè mi hanno picchiato?».

(da “La Stampa”)

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“GLI URLAVANO DI TORNARSENE A CASA, NON E’ RAZZISMO QUESTO?”: PARLA CHI E’ INTERVENUTO IN DIFESA DEL GIOVANE SOMALO PICCHIATO AD ACQUI DA DUE MINORENNI

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

DAVIDE ZENDALE E’ IL RISTORATORE CHE LO HA SOCCORSO IN STRADA

«Ho agito d’istinto, è stato naturale. L’avrebbe fatto chiunque». Davide Zendale, fisico possente e barba folta, è stupito dell’attenzione delle ultime ore, per un gesto a cui quasi non pensava più.
Ristoratore, 39 anni – è titolare di due locali storici come la paninoteca «Zeta» e l’enoteca «La betula et carat» – è stato lui a intervenire e a fermare l’aggressione di cui, l’8 agosto, è rimasto vittima il giovane richiedente asilo di Acqui Terme.
«Era l’una, mattina di mercato. Dalla Betula, che si trova a pochi passi da dove è successo tutto, andavo verso casa coi miei figli, di 9 e 8 anni — racconta -. Ho notato quella lite, pensavo a un battibecco tra ragazzini. Poi ho sentito frasi pesanti: “Tornatene a casa tua”. Non è razzismo, questo? Quando ho visto quel giovane di colore finire per terra, sono intervenuto».
Lo si vede entrare in scena anche nel video finito su Facebook, affrontare il bullo a muso duro: «Cosa stai facendo?».
«Quando sono arrivato i ragazzi sono fuggiti, non saprei nemmeno dire in che direzione. Uno sono riuscito ad agguantarlo per i capelli ma si è divincolato. Meno male che ho resistito alla tentazione di mollargli un ceffone, ora che so che si trattava di minorenni».
Zendale ha poi chiamato l’ambulanza: «Il ragazzo era stralunato, tra lo spavento e la botta presa per terra credo non capisse neppure più dove si trovasse. Da allora non l’ho più visto, sono felice di sapere che sta bene. Lo incontrerò volentieri, se ci sarà  l’occasione, ma niente passerelle».
Essere sotto i riflettori per un’azione che considera «naturale, fatta d’istinto, che a me è venuta più facile che ad altri solo per via della mia stazza» non gli piace.
Lui — «mai una rissa in tanti anni nei miei locali» – che non si era neanche accorto di essere ripreso da un telefonino: «Sono rimasto stupito quando ho visto arrivare i carabinieri che mi hanno parlato di quelle immagini. Di quei ragazzi non ricordavo più bene nemmeno le facce, se non li avessi visti video non avrei saputo nemmeno riconoscerli».

(da “La Stampa”)

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I PADRI NOBILI M5S BOCCIANO DI MAIO E SPAVENTANO GRILLO

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

DA IMPOSIMATO A GIANNULI: “CHE TRISTEZZA VEDERLO ANDARE AL FORUM DI CERNOBBIO, SE IL MOVIMENTO NON E’ ANTICASTA MEGLIO CHE CHIUDA”

Torniamo per un attimo all’aprile del 2013 e scorriamo l’elenco dei dieci candidati più votati sul blog di Beppe Grillo alla presidenza della Repubblica per il M5S.
Si può notare come uno dopo l’altro, quasi tutti hanno prima o poi dichiarato una distanza dal Movimento del comico genovese.
L’ultimo è forse il nome più pesante, la bocciatura che può fare più male.
Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Corte di Cassazione, magistrato da sempre ben piantato nel pantheon del M5S, non può tollerare che Luigi Di Maio partecipi alla passerella del Forum Ambrosetti e si è preso la briga di farlo sapere: «Che tristezza che il candidato premier del M5S Di Maio sieda a Cernobbio, con un esponente della Trilaterale, che voleva la riforma della Costituzione. Il dialogo con i nemici della democrazia non è tollerabile. È la fine dell’alternanza».
Il riferimento del giudice è alla commissione Trilateral nata negli Anni Settanta per creare un think tank tra Stati Uniti, Europa e Giappone sui temi dell’economia, della politica e della tecnologia e spesso associata al gruppo Bilderberg e considerata dai grillini più cospirazionisti un club chiuso dove in pochi decidono le sorti di molti.
Lo sfogo ha comunque costretto Di Maio a giustificarsi («Non dobbiamo commettere l’errore di rimanere al chiuso del nostro guscio») e ha fatto saltare dalla sua sdraio Grillo, obbligandolo a mettersi al telefono per capire cosa stava succedendo.
Perchè questo davvero suona come il de profundis del Movimento nella sua prima versione, l’anarchica brigata che Grillo guidava inseguendo l’utopia della politica incontaminata dai rapporti con il potere economico e aziendale.
Anche perchè è la stessa voce, quella di Imposimato, che nel 2014 aveva benedetto l’ascesa del deputato: «Io mi riconosco in Di Maio – disse l’ex magistrato -. È lui il futuro del M5S».
Ma le cose cambiano in fretta, anche troppo, con una voracità  che semina delusioni tra i patriarchi che avevano creduto nella rivoluzione pentastellata, puntualmente invitati a sostenere la battaglia sul blog di Grillo.
Non c’è solo Imposimato, tra questi.
Anche Aldo Giannuli, storico, amico di Gianroberto Casaleggio, profilo certo non militarizzato ma comunque firma tra le più autorevoli tra i padri dell’ideologia a 5 Stelle.
Il suo giudizio sulle parole di Di Maio, pronto a difendere la polizia dopo gli scontri con i migranti che occupavano un palazzo in centro a Roma, è impietoso: «Una posizione autolesionista che disgusta una fetta di elettori 5 stelle. Il Movimento serve se è anticasta, non se dice le stesse cose degli altri».
Di Maio, sempre lui. Di Maio l’istituzionale, Di Maio «il democristiano», Di Maio il normalizzatore.
A 20 giorni dalla sua incoronazione a candidato premier resta il bersaglio prediletto nelle convulsioni interne prodotte dalla mutazione del M5S.
Ma a ben vedere lo scollamento da figure riferibili a una forma embrionale di intellighenzia a 5 Stelle è cominciato da un po’.
Senza scomodare Paolo Becchi, il prof genovese con la patente di ideologo che per mesi fu invitato ovunque, basta prendere uno dopo l’altro i nomi finiti nella top ten delle Quirinarie.
La giornalista, Milena Gabanelli, ormai arruolata tra i sostenitori del ministro Marco Minniti, dopo essere arrivata prima tra le preferenze degli attivisti, per tutta risposta chiese dove finivano i soldi del blog.
Stefano Rodotà , compianto dai grillini dopo la sua morte, aveva osato criticare Grillo e in cambio si era beccato dell’«ottuagenario miracolato dalla Rete».
Inutile soffermarsi sull’ex premier e padre del Pd, Romano Prodi, mentre dell’ex toga Gian Carlo Caselli si può ricordare la strigliata al deputato grillino Giorgio Sorial quando definì l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «un boia».
Tra i dieci candidati del 2013 c’era anche Emma Bonino che appena qualche giorno fa ha annoverato Di Maio tra gli «imprenditori della paura» assieme a Matteo Salvini.
Di Maio, ancora lui. Sempre lui.

(da “Huffingtonpost“)

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ATAC, COSA SUCCEDE CON IL CONCORDATO PREVENTIVO

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

COME FUNZIONA E COSA PUO’ ANDARE STORTO

ATAC ha deciso: il consiglio di amministrazione della municipalizzata ha comunicato che sarà  il concordato preventivo in continuità  la soluzione per i conti disastrati.
Il concordato preventivo cercherà  un accordo con i creditori sotto l’egida del tribunale. La decisione è stata ratificata dalla sindaca Virginia Raggi con un post su Facebook.
La decisione arriva dopo che oggi è stata annunciata l’apertura di un’istanza di fallimento nei confronti dell’azienda da parte di un creditore, ovvero uno dei fornitori di carburante che vanta un credito a sei zeri dalla municipalizzata.
Cosa succede con il concordato preventivo in continuità ?
L’azienda in questo momento ha 1,38 miliardi di debito accumulato e nel bilancio 2015 ha chiuso con un passivo di 79 milioni (quello del 2016 non è stato ancora licenziato), 141 milioni di euro aveva perso nel 2014 mentre il totale dei debiti con i fornitori dovrebbe ammontare a circa 325 milioni.
Con il concordato preventivo in continuità  si dovrebbe tutelare sia l’azienda sia il suo creditore.
Il debitore paralizza ogni possibile azione esecutiva nei suoi confronti mantenendo l’amministrazione dell’impresa (con limiti) mentre i creditori possono ricevere soddisfazione del proprio debito evitando i tempi lunghi del fallimento.
Con il concordato preventivo il tribunale autorizza qualsiasi atto e approva un piano di rientro: la gestione dell’azienda diviene puramente contabile e in alternativa c’è il fallimento.
Sarà  il commissario a decidere cosa fare degli attivi e come verranno soddisfatti i creditori. Se i creditori rimanessero insoddisfatti potrebbero chiedere il fallimento dell’azienda.
Il Cda ha affidato l’incarico di advisor finanziario e industriale alla società  Ernst & Young, di supporto alla procedura di soluzione della crisi.
Il vantaggio principale del concordato rispetto al fallimento è che il commissario che gestisce il concordato viene nominato dall’azienda. Il tribunale alla fine omologa il risultato ma ha un ruolo molto più marginale, lasciando alle parti molta più libertà  di azioni.
Cosa può andare storto nel concordato preventivo?
In sintesi, nel concordato è prevista la possibilità  che i creditori vengano divisi in classi; è quindi necessario garantire il 100% del loro credito ai privilegiati (dipendenti, professionisti, debiti tributari e previdenziali).
Gli altri creditori devono accettare un taglio del proprio credito; ma il primo problema è che tra i creditori di ATAC c’è anche il Comune di Roma, che così potrebbe trovare difficoltà  a chiudere il bilancio.
Il rischio del danno erariale c’è. In più, ai fini delle maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato, si prevede la necessità  che: “Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi”.
Quindi bisogna raggiungere questa maggioranza: se il concordato salta scatta la procedura di fallimento.
Nel suo intervento su Facebook la Raggi non ha fornito particolari sulla procedura. Ha invece spinto sul fatto che l’azienda debba rimanere pubblica: “Abbiamo un obiettivo chiaro: Atac deve rimanere pubblica, deve rimanere dei cittadini e non finire nelle mani di privati che puntano esclusivamente a fare cassa sulle spalle dei romani e dei dipendenti. Sull’azienda ci sono le mire di chi la vuole a tutti i costi privatizzare e vuole dividersi le spoglie. I privati puntano a creare linee di serie A e linee di serie B; a fare profitto”.
Variegate le reazioni alla decisione di Virginia Raggi.
Per Federica Tiezzi, presidente dei revisori dei conti di Roma Capitale, “se il Comune, con il concordato preventivo di ATAC, dovesse essere costretto a svalutare i crediti che vanta verso la sua partecipata, l’impatto sul bilancio di Roma sarebbe pesantissimo”.
Orsa, Tpl Lazio, Faisa-Confail Sul ct, Utl e Fast-Confsal hanno proclamato uno sciopero dalle 8:30 alle 12:30 per martedì 12 settembre. Lo stop di quattro ore, spiegano in un comunicato, è per contestare il concordato preventivo, che “metterebbe a serio rischio livelli occupazionali, diritti salariali e normativi dei lavoratori”.
I sindacati sottolineano anche “la totale assenza di interlocuzione da parte dell’assessorato della Città  in movimento e della governance aziendale con le rappresentanze del lavoratori, unici a non venir ascoltati su una questione da cui dipende il loro prossimo futuro”.
Il sindacato Cambia-Menti di Micaela Quintavalle ha invece annunciato il suo giudizio favorevole.
Anche Stefano Fassina, deputato Sinistra italiana e consigliere Sinistra per Roma, è in disaccordo: “Il bilancio del 2015, l’ultimo approvato — sostiene — indica un debito di 1 miliardo e 350 milioni a fronte di crediti per 1 miliardo e 266 milioni verso la Regione Lazio (quasi 650 milioni), in particolare della ex Giunta Polverini, e verso il Comune di Roma (381 milioni). La Giunta Raggi ha perso un anno di tempo con una girandola di amministratori, prima nominati e poi rimossi senza alcuna spiegazione. Portare ATAC al fallimento è una scelta politica della Giunta Raggi. Poteva essere evitata con una coraggiosa e radicale riorganizzazione. Cosa succederà  se, come previsto dalla legge, una parte dei creditori chiederà  il fallimento di ATAC? A chi darà  la colpa la sindaca? Quali saranno le conseguenze sul bilancio comunale?”.
Maurizio Leo, ex assessore al Bilancio di Roma nella giunta Alemanno, segnala lo stesso problema che potrebbe aprirsi sul bilancio qui spiegato e illustrato anche dall’ex Mazzillo: “Questo potrebbe comportare una riduzione del credito che ha il Comune nei confronti di Atac; si verrebbe così a creare uno squilibrio dei conti con un rischio default per il Comune” afferma all’Adnkronos . “Hanno visto bene i dati del bilancio del Comune? Il Comune ha crediti importanti nei confronti di Atac. Nel momento in cui si decide il concordato parte un iter che porta alla falcidia dei crediti che i soggetti creditori, e nel caso di specie anche il Comune di Roma, vantano verso la società ”.

(da “NextQuotidiano”)

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NOGARIN: “LEMMETTI E’ CAMBIATO, SI VESTE COME UN DAMERINO”

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

IL SINDACO DI LIVORNO SCHERZA (MA NON TROPPO) SUL SUO EX ASSESSORE ARRIVATO A ROMA

Filippo Nogarin parla oggi con Repubblica di Gianni Lemmetti, ex assessore al Bilancio di Livorno transitato a Roma.
Nogarin riconosce che la decisione di spostarsi nella Capitale ha creato qualche problema in giunta e nella maggioranza grillina che governa la città  toscana, poi scherza sulle abitudini di vestiario dell’assessore:
«Certo non dico che si sia trattato di una dinamica normale, ma non tocca a me dire se debba o meno rimanere un’eccezione, nè so se avrà  riverberi a livello nazionale. Io so solo che la discussione in corso a livello locale porterà  ad una conclusione politica. Io alla mia conclusione sono già  arrivato: per colpa di Lemmetti ho saltato le ferie, questo difficilmente glielo perdonerò».
Due consiglieri 5 Stelle lasceranno il gruppo in polemica per il caso Lemmetti, teme ripercussioni sulla sua giunta?
«Certo non nego che ci sia un dibattito forte, cosa che ritengo una sana e corretta forma di democrazia. Ma nessuno della maggioranza, anche quelli più critici, hanno messo in discussione il sostegno alla nostra rivoluzionaria azione di governo. Io del resto come sindaco ho dato immediata risposta alla città  e dopo 4 minuti dalle dimissioni di Lemmetti avevo nominato la sua sostituta: Livorno non ha avuto alcuna conseguenza. In questa vicenda quel che potevo fare l’ho fatto».
Parla come se avesse subito e basta la partenza dell’assessore Lemmetti.
«Io ho solo provato a coordinare la situazione che si era venuta a creare. Lemmetti mi ha chiarito che era sua intenzione mettersi a disposizione della giunta di Roma. È chiaro che mi sono opposto alle sue volontà , abbiamo avuto dei dibattiti anche forti. Ma la situazione era chiara, io ho negoziato sui tempi dell’operazione ed è andata così. Lui si è messo a disposizione di un altro progetto rimanendo nello stesso alveo politico: non è un sindaco eletto, ma un assessore nominato, non viola nessuna regola. Spero possa fare bene anche se è già  cambiato: ha mollato le tshirt e si veste come un damerino: già  non lo riconosco più».

(da agenzie)

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OGNI GIORNO UNDICI STUPRI, MA C’E’ UN SOMMERSO ENORME ALL’INTERNO DELLE FAMIGLIE

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

GLI AUTORI: 61% ITALIANI, 8,6% ROMENI, 6% MAROCCHINI, 1,9% ALBANESI, 1,3% TUNISINI

Quasi 11 stupri al giorno, quattromila ogni anno. Più di un milione di donne colpite in Italia. «È un reato orribile che resta purtroppo opaco, spesso consumato in famiglia e in cui le denunce sono ancora troppo poche». Fotografare la piaga delle violenze sessuali alla luce dei dati ufficiali non è facile: «Il fenomeno è in gran parte sommerso», avvertono gli esperti. Ma una cosa è certa: i numeri che circolano sono impressionanti.
Secondo l’Istat, un milione e 157mila donne avrebbero subito una violenza sessuale nel corso della vita, tra stupri e tentati stupri.
Eppure, nelle denunce degli ultimi anni, si registra una lieve flessione: 6% in meno tra il 2014 e il 2015 e 13% in meno dal novembre 2015 al novembre 2016.
Quanto agli autori, in maggioranza sono italiani, solo quattro denunciati su dieci sono stranieri.
Nonostante il ripetersi di fatti di cronaca con al centro violenze sulle donne, anche gli ultimi dati del Viminale confermano la diminuzione delle denunce per stupro: le violenze sessuali tra gennaio e luglio 2017 sono state 2.333, contro le 2.345 denunciate nello stesso periodo dell’anno scorso.
Chi sono gli autori?
Crescono gli italiani denunciati: 1.534 nei primi sette mesi del 2017 contro i 1.474 dello stesso periodo del 2016. Ma resta alta l’incidenza degli immigrati su questo reato, sia come autori che come vittime: gli stranieri denunciati per violenza sessuale sono infatti 904 da gennaio a luglio 2017, poco meno dei 909 dello stesso periodo del 2016.
A fotografare il fenomeno nel suo complesso aiuta una recente indagine realizzata dall’istituto Demoskopika: nel corso degli ultimi anni, denunce e arresti hanno interessato in maggioranza gli italiani (61% dei casi), seguiti da romeni (8,6%), marocchini (6%), albanesi (1,9%) e tunisini (1,3%).
Anche le vittime sono principalmente donne di nazionalità  italiana (68% dei casi), seguite da romene (9,3%) e marocchine (2,7%).
E ancora: ogni quattro casi di violenza sessuale in Italia, almeno uno coinvolge un minorenne. Mentre Lombardia e Lazio detengono il triste record dei territori dove avvengono, in valore assoluto, il maggior numero di reati.
Il fenomeno però è lontano dall’essere fotografato con chiarezza.
«A differenza di altri reati, come quelli contro il patrimonio – spiega Marzio Barbagli, sociologo, esperto di sicurezza e criminalità  – le denunce per stupro non raccontano adeguatamente la realtà . Le violenze sessuali denunciate sono infatti solo una piccola parte di quelle davvero compiute. Molte violenze avvengono in famiglia per opera del partner o comunque di una persona conosciuta e questo è un fenomeno che resta in gran parte sommerso».
Anche Lella Palladino dell’associazione “Donne in Rete contro la violenza”, a cui aderiscono 80 centri antiviolenza in tutta Italia, invita a leggere i dati con cautela: «Attenti al sommerso, cioè alle violenze tra le mura di casa, che arrivano raramente a livello di denuncia. Tra le donne che si rivolgono ai nostri centri, gli episodi di violenza domestica si rivelano infatti nell’80% dei casi anche episodi di violenza sessuale. E qui parliamo di situazioni in cui vittime e stupratori sono in stragrande maggioranza italiani».

(da “La Repubblica”)

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IN FUGA ATTRAVERSANDO IL MAR NERO, ORA I PROFUGHI SBARCANO IN ROMANIA

Settembre 1st, 2017 Riccardo Fucile

ALLESTITE TENDOPOLI PER OFFRIRE PASTI AI PROFUGHI SIRIANI E IRACHENI… CHIUSA LA ROTTA BALCANICA, ECCO NUOVE VIE PER L’EUROPA

Il peschereccio Emek 1 è ancora ormeggiato al porto, sotto al diluvio, poco lontano dal «Maritimo Lounge Bar». Potrebbe trasportare al massimo dieci persone. Ma l’11 di agosto da lì sono sbarcati in 69: trenta uomini, dieci donne, ventinove bambini.
Tutti migranti siriani e iracheni. È stato quello il momento in cui in Romania hanno capito che stava succedendo qualcosa di nuovo.
Il Mar Nero deve il suo nome alla pericolosità . È squassato da rovesci improvvisi e tempeste. Gli antichi greci lo chiamavo «mare inospitale».
Non è mai stato facile attraversarlo. E invece, stanno arrivando. Dalle coste della Turchia ci vogliono quasi due giorni di navigazione.
Il secondo barcone è stato intercettato il 20 agosto, quando ormai era già  in vista a occhio nudo dalle spiagge. A bordo portava altri settanta migranti. Quasi tutti siriani.
«Erano affamati, sofferenti, stravolti da un viaggio molto duro», racconta Claudia-Andreea Corbu, reporter del giornale locale Replica de ConstanÈ›a.
«Sono stati soccorsi, alcuni hanno avuto bisogno di cure mediche. Ma non sappiamo dove siano stati portati. La Romania non è un Paese ricco che può farsi carico da solo di questa situazione. La gente incomincia ad essere impaurita».
Da allora è successo ancora, con barche persino più piccole. Tre giorni fa è stata soccorsa una donna di Aleppo incinta all’ottavo mese.
Nessuno conosce la contabilità  esatta degli sbarchi. Non è facile ottenere informazioni dalla guardia costiera. Ma sono già  sette i trafficanti di uomini finiti a processo davanti al tribunale di Costanza durante l’estate. Gli ultimi due si chiamano Petros Petridis e Peter Spasov, un cipriota e un bulgaro.
Questa è la zona più ricca della Romania, l’estremo est.
Il porto di Costanza è collegato a Bucarest attraverso una autostrada moderna lunga 200 chilometri. Passano le merci, arrivano i turisti.
Ovunque puoi vedere cliniche dentistiche che offrono prestazioni a basso costo. Casinò. Nuovi palazzi in costruzione davanti al mare rigonfio di pioggia.
Dopo altri quaranta chilometri di costa, si raggiunge Mangalia, l’ultima città  romena prima del confine bulgaro.
«Il fatto è che noi abbiamo sette resort di proprietà  comunale», dice il sindaco Christian Radu. Ed elenca i nomi: Saturn, Jupiter, Neptune… «Proprio qui sgorgano acque termali. La gente viene a riposarsi. Abbiamo 40 mila residenti e 200 mila turisti all’anno. Non eravamo preparati».
Nel suo piccolo ufficio al primo piano del «Municipiului», apre la mappa sul telefonino per spiegare la situazione: «Dalla Grecia non si passa più. La Bulgaria ha muri e militari schierati al confine, così come ha fatto l’Ungheria, lungo le frontiere con la Serbia e la Croazia. E quindi, l’unico passaggio per tentare di raggiungere il Nord Europa, siamo noi. Ci stanno provando».
Quest’anno sono già  2600 i migranti fermati in Romania perchè cercavano di attraversare illegalmente il confine.
Domenica notte, la polizia ha aperto il fuoco contro un’auto che ha tentato di forzare un posto di blocco nella città  di Moravica, al confine occidentale: due migranti e un agente sono rimasti feriti.
Lunedì è stato bloccato un camion che trasportava vestiti dalla Turchia alla Germania, 42 profughi erano nascosti fra gli scatoloni. È una nuova rotta. L’effetto domino di altre decisioni. Nel 2016, secondo i dati di Frontex, solo un migrante aveva tentato la via del Mar Nero.
Il governo romeno è preoccupato. Laurentiu Regeba, membro del Parlamento Europeo, ha dichiarato: «Quest’estate, mentre i romeni erano presi dalle diatribe politiche e scendevano in piazza per esasperazione, nel silenzio è accaduto qualcosa di nuovo. Un fatto ignorato da molti, ma grave. I migranti in Romania si sono moltiplicati. La rotta balcanica è stata chiusa. La pressione si è quindi spostata sul Mediterraneo centrale. Ma adesso anche l’Italia è riuscita a contenere i flussi. Ed ecco che gli sbarchi sono quadruplicati in Spagna, così come da noi. È chiaro che il fenomeno sta diventando cronico».
Proprio ieri, sull’altra sponda del Mar Nero, la scena è stata questa.
Nel villaggio di pescatori di Cide, nel distretto turco di Kostamonu, all’alba hanno visto arrivare tre pullman carichi di persone. Troppe per passare inosservate. Qualcuno ha chiamato la polizia. Quando gli agenti sono arrivati, 146 migranti erano già  per mare, molti di loro erano bambini, sono stati inseguiti e bloccati dalla guardia costiera turca. Altri 82 profughi erano ancora sulla spiaggia, in attesa di partire.
Nessuno conosce il loro destino, dove siano adesso esattamente. In quali condizioni. Quello che sappiamo è che scappavano dalla Siria. Come molti altri che hanno provato ad attraversare «il mare inospitale».
Questa è una cronaca senza facce. Senza voci. Senza nomi. Una cronaca di tentativi invisibili.
Secondo i ricercatori di Verisk Maplecroft, che tracciano un report annuale sulle moderne schiavitù nel mondo, la Romania è un Paese «ad alto rischio».
Quello con il maggior incremento di sfruttamento del lavoro in condizioni miserabili nel 2017, davanti alla Turchia. Gli unici altri Paesi della zona europea citati sono Italia, Cipro e Bulgaria. Cosa succede a chi non riesce a passare la frontiera? Dove finiscono questi uomini, queste donne e i loro bambini?
Qui a Mangalia non si vede niente. Continua a piovere. Il sindaco Radu ci tiene a tranquillizzare tutti. «Gli abbiamo dato da mangiare, certo. Ma poi sono stati trasferiti verso un centro per migranti, forse quello di Galati. Non sono rimasti qui per più di due ore». Tutti parlano di loro. Dei migranti.
Eppure non sono mai stati così rimossi come nell’estate del 2017.

(da “La Stampa”)

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