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UNA MIGRANTE 17ENNE SOPRAVVIVE PER 22 GIORNI ALLA DERIVA SENZA ACQUA NE’ CIBO: SALVATA CON ALTRE DUE PERSONE AL LARGO DELLE CANARIE. A BORDO ERANO MORTI DI FAME E DI SETE 56 MIGRANTI

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

SONO QUELLI CHE QUALCHE LURIDO RAZZISTA DICE CHE “VENGONO PER TURISMO”

Una 17enne della Costa d’Avorio e altre due persone sono sopravvissute per tre settimane senza acqua né cibo, a bordo di una fatiscente piccola imbarcazione di legno, a un viaggio verso la Spagna iniziato in Mauritania e costato la vita a ben 56 persone. A raccontare la storia di Aicha, questo il nome della ragazza, è oggi un video della Bbc che mostra anche le operazioni di salvataggio della 17enne e dei suoi due compagni di viaggio.
Il 26 aprile scorso, infatti, l’equipaggio di un elicottero dell’aeronautica spagnola ha avvistato la piccola imbarcazione a 500 km a sud-ovest dell’isola di El Hierro, nell’arcipelago delle Canarie, e ha tratto in salvo i tre superstiti.
La piccola barca di legno era alla deriva da 22 giorni, durante i quali, racconta la stessa Aicha nel video, sono morte di fame e di sete 56 persone, i cui corpi sono stati gettati in mare.
Il lungo viaggio di Aicha, sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è cominciato lo scorso novembre, quando la giovane ha lasciato la sua casa diretta verso la Mauritania informando dei suoi piani solo sua sorella maggiore. Si tratta della più grande tragedia che abbia mai coinvolto un’imbarcazione di migranti nelle acque delle Canarie.
(da agenzie)

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DRAGHI FA SPALLUCCE E SALVINI RESTA SOLO

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

IL PREMIER VA AVANTI SULLE RIFORME DI FISCO E GIUSTIZIA MALGRADO I DISTINGUO LEGHISTI

A Palazzo Chigi lo avvertono come un chiacchiericcio. Sono così tante le cose da fare – racconta chi ha in mano i dossier caldi – che non si ha tempo da perdere e soprattutto per badare a polemiche che non farebbero altro che far perdere i soldi del Recovery.
Insomma, alle minacce di Matteo Salvini, il governo reagirà portando a termine le riforme necessarie e il piano vaccinale, forte del fatto che i numeri in Parlamento ci sarebbero anche senza i leghisti.
Con una doppia intervista a due quotidiani il leader della Lega prima avverte Mario Draghi sulla mission ‘limitata’ del suo governo, escludendo che si possa procedere con le riforme, e poi candida l’attuale premier alla Presidenza della Repubblica.
Una doppia mossa che fa reagire con rabbia il resto della maggioranza.
Enrico Letta è il più netto di tutti: “Se quella è l’intenzione con la quale Salvini è al governo, per quanto ci riguarda credo che le strade debbano divergere al più presto. Salvini dice che non si fanno le riforme. Allora tiri le conseguenze ed esca dal governo”, dice il segretario dem.
A testimonianza del fatto che l’uscita della Lega della maggioranza, al centrosinistra non dispiacerebbe. Si realizzerebbe invece l’idea della maggioranza Ursula, fallita quando è nato il governo guidato da Mario Draghi. Ovvero un esecutivo con dentro tutto il centrosinistra e Forza Italia, che non a caso ha preso le distanze dal collega di centrodestra.
Ma in tanti leggono nelle parole di Salvini nient’altro che la paura dei sondaggi, che vedono crescere Giorgia Meloni a scapito della Lega. Ed è in questo senso che il leader leghista prova a recuperare terreno, bombardando il governo ma alla fine con scarsi risultati, non solo perché Forza Italia non abbocca ma anche perché – è la consapevolezza di tanti leghisti – Salvini non affonderà il colpo nonostante le distanze nella maggioranza riguarda le riforme ci siano e sono evidenti.
Il capogruppo alla Camera di Forza Italia Roberto Occhiuto chiarisce però che “i fondi europei del Pnrr saranno il carburante, ma senza vere riforme il motore del Paese rischia di rimanere arrugginito. E per realizzare tutto questo servono l’autorevolezza di Draghi e del suo governo, e la compartecipazione convinta di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, anche di quelle di opposizione”. Un messaggio chiaro che prende le distanze dagli intenti incendiari di Salvini.
Draghi certamente non retrocede, anzi. C’è un cronoprogramma e va rispettato. Chi voterà contro – è il ragionamento – si prenderà le sue responsabilità.
Al decreto Sostegni bis, già la prossima settimana, si potrebbe affiancare il decreto Semplificazione nelle mani del ministro Renato Brunetta, sempre in contatto con Palazzo Chigi perché è questa l’architrave della prima fase di riforme con cui l’Italia punta incassare la prima tranche di aiuti europei entro luglio.
Non solo. Entro fine giugno arriverà anche il decreto sulla concorrenza. Inoltre il premier avrebbe intenzione di accelerare anche sul decreto sulla governance del Recovery. Ed è qui che le scintille nella maggioranza potrebbe rallentare notevolmente il timing del capo del governo. Poi c’è la riforma della Giustizia a cui sta lavorando la ministra Cartabia e che va approvato in prima lettura entro giugno.
Draghi, per il momento, si tiene ben lontano dalle polemiche. Alla cabina di regia sulle riaperture di lunedì proverà a frenare le richieste di Lega e anche di Forza Italia. Accelererà invece sui primi decreti e sui nuovi sostegni, che saranno tarati anche rispetto alle decisioni di lunedì sulle aperture.
Ma su giustizia e fisco la maggioranza resta lontanissima da un’intesa. La riforma del processo penale avanzata dalla commissione del ministero della Giustizia, ad esempio, continua a innescare “forti perplessità nel Movimento 5 Stelle”, come spiega l’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi.
I grillini puntano a rallentare l’iter, concentrando le forze sulla riforma del processo civile. E sul fisco non va meglio. “Far pagare di più a chi sta meglio è una proposta di buon senso”, sottolinea Speranza. Difficile però che la proposta passi con la Lega e Forza Italia nel governo. Sarà necessaria una forte opera di mediazione
(da Huffingtonpost)

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LA LEZIONE DI ALBERTINI A SALVINI E MELONI

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

LA RINUNCIA DELL’EX SINDACO DI MILANO (E DI BERTOLASO) SVELA IL BUCO A DESTRA: NON C’E’ UNA CLASSE DIRIGENTE PRESENTABILE

C’è un punto essenziale nella nobile lettera ai milanesi con cui Gabriele Albertini annuncia la sua indisponibilità a candidarsi che vale la pena sottolineare, un punto tutto politico su cui Matteo Salvini (nato nel 1973) e Giorgia Meloni (nata nel 1977) dovrebbero riflettere.
Un punto che peraltro accomuna la decisione dell’ex sindaco di Milano a quella di Guido Bertolaso (entrambi nati nel 1950), anch’egli non disponibile per la corsa a primo cittadino della capitale.
Questo punto è apparentemente “anagrafico” (ecco perché evidenzio le date di nascita nel testo) ma in realtà di ben altra portata, poiché investe l’elemento centrale dell’azione della destra politica italiana in questa fase storica, vale a dire la sua capacità di essere compiutamente classe dirigente, anche in una prospettiva di rinnovamento. Albertini infatti cita espressamente l’opportunità di scegliere un candidato più giovane (pur garantendo la sua volontà di partecipare con una lista alla campagna elettorale), ricordando persino la sua età al momento della prima elezione (era il 1997 e lui aveva 46 anni).
Stesso tema che peraltro anche l’ex Capo della Protezione Civile ha evocato pochi giorni fa, dicendo che Roma merita “forze giovani e motivate”.
Veniamo allora al tema che le parole di Albertini e Bertolaso rendono plasticamente evidente.
Il punto non è legato alla forza della loro candidatura. Men che meno è nei loro curriculum
Il punto quindi non riguarda loro, bensì la leadership politica della destra italiana ed in particolare i vertici di Lega e Fratelli d’Italia, cioè Salvini e Meloni.
Albertini e Bertolaso infatti hanno già alle spalle un lungo periodo di grande responsabilità e sanno molto bene quale fatica occorre per stare dietro a tutto: per questo capiscono che servono forze più fresche.
Ma la destra italiana fatica a costruire un nuovo ed articolato gruppo dirigente e proprio nella scelta dei candidati sindaci delle due più importanti città d’Italia tenta di rifugiarsi nell’”usato sicuro”, scelta forse rassicurante (ma poi smentita dai fatti) ma non certo coraggiosa o lungimirante.
Albertini e Bertolaso hanno dato il meglio di sé dentro la lunga stagione dominata dalla figura di Silvio Berlusconi, stagione che però è già alle nostre spalle
Oggi sono Salvini e Meloni a guidare le danze e loro debbono dimostrarsi capaci di costruire una squadra di governo a tutti i livelli, atteso che da ormai dieci anni consecutivi (con un solo stop di dodici mesi) al “comando” c’è il Pd.
Le prossime elezioni politiche non sono lontane e a destra ci sono voti in quantità sufficiente per poter pensare di vincerle. Ma come insegna l’esperienza dello stesso Berlusconi vincere non basta.
Lui ci è riuscito ben tre volte, ma nella maggioranza dei casi (due volte su tre) i suoi governi si sono sbriciolati nell’impatto con il Palazzo, quello con la “P” maiuscola. Ci pensino e ci pensino presto Salvini e Meloni: devono scommettere sul nuovo in senso vasto e solido, altrimenti i (possibili) successi elettorali finiranno in niente o poco più. Vedi alla voce M5S, rivoluzionari e padroni del mondo (per qualche mese), ma oggi placidamente, pacatamente, responsabilmente al governo con un certo Mario Draghi a Palazzo Chigi.
(da Huffingtonpost)

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CONTINUA LO STALKING DEI SOVRANISTI SU BERTOLASO, MA LUI RIBADISCE: “NON CAMBIO IDEA”

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

LA GRANDE IDEA DI TAJANI PER LA SCONFITTA SICURA: “SE BERTOLASO NON CAMBIA IDEA, PENSEREI A GASPARRI”

Dopo la rinuncia definitiva di Gabriele Albertini per la corsa a sindaco di Milano, il centrodestra rischia un altro flop a Roma, dove al momento non c’è un nome forte e condiviso. Lega Fdi e Fi stanno provando anche in queste ore a convincere Guido Bertolaso, ma il corteggiamento, diventato ormai asfissiante, sembra non portare alcun frutto. L’ex capo della Protezione civile non ha cambiato idea.
Il commissario per la campagna vaccinale in Lombardia preferisce non commentare la scelta dell’ex sindaco di Milano e quando gli viene chiesto che intende fare per la sfida al Campidoglio, taglia corto così: “Cosa farò io? L’ho già detto…”. Nessun ‘ripensaci’, insomma, da parte di Bertolaso che ribadisce la sua contrarietà a scendere in campo.
Non demorde però il coordinatore nazionale azzurro Antonio Tajani: “Spero che per Roma ci sia Bertolaso, mi auguro che alla fine lui accetti. Sarebbe uno straordinario sindaco. Se non accettasse dovremo andare a un personaggio politico: penserei a Maurizio Gasparri. Ma intanto pensiamo a convincere Bertolaso”, ha detto a Sky Tg24.
Tra gli azzurri non nasconde il suo pessimismo il senatore Francesco Giro: “A questo punto mi sembra chiaro che ci sia sul tavolo un doppio no per le candidature ipotizzate dal centrodestra per Milano e Roma. Getto la spugna su Guido e mi dispiace immensamente, ma non possiamo costringerlo a dispetto dei Santi”.
Dopo l’ennesimo no di Bertolaso la Lega potrebbe aspettare che un nome, come chiesto da Salvini stesso nelle scorse ore, lo faccia Fratelli d’Italia. Con l’opzione di poter poi mettere sul tavolo candidati ‘politici’ come Giulia Bongiorno, senatrice e avvocato del leader, o Antonio Rinaldi, il prof euroscettico romano, parlamentare Ue del Carroccio: due ipotesi che erano circolate nelle scorse settimane.
Nome che arriva (torna) dalla società civile invece quello del giudice Simonetta Matone attuale consigliera di fiducia della Sapienza.
Nel vertice previsto per mercoledì o giovedì, per ora, l’unica certezza è che, al contrario di quanto chiesto da Fdi, non ci saranno al tavolo né Albertini, né Bertolaso, invitati per “parlare del loro programma elettorale”, visto il doppio dietrofront di questo sabato.
“A Roma mi auguro che Bertolaso ci ripensi. E se no, dovremmo andare su un personaggio politico e io penso a Gasparri che sarebbe uno straordinario candidato in campagna elettorale”. Intervistato da Massimo Leoni a ‘L’Ospitè, il coordinatore nazionale di Fi, Antonio Tajani, spera che l’ex capo della Protezione civile ritorni sui suoi passi.,
(da agenzie)

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CHI ANDRA’ A DIRIGERE IL GIORNALE DOPO L’ADDIO DI SALLUSTI?

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

IN POLE POSITION MICHELE BRAMBILLA, ATTUALE DIRETTORE DEL QUOTIDIANO NAZIONALE… ALTERNATIVE: PORRO, MINZOLINI E LIGUORI

Da ieri è ufficiale: Alessandro Sallusti ha lasciato la direzione de Il Giornale. La conferma è arrivata dalla Società Europea di Edizioni, editrice del quotidiano della famiglia Berlusconi. “Risolto dopo dodici anni di proficua collaborazione il rapporto di lavoro. L’editore Paolo Berlusconi e il presidente Alessia Berlusconi ringraziano il direttore Sallusti per l’impegno profuso in tutti questi anni”.
Sallusti ha quindi detto si al corteggiamento della famiglia Angelucci: sarà il nuovo direttore di Libero. A dargli una mano ci sarà, come condirettore Pietro Senaldi
Ora – per chiudere il cerchio – resta da capire chi sarà il nuovo direttore de Il Giornale.
In pole position al momento c’è un nome a sorpresa, Michele Brambilla attualmente alla direzione del Quotidiano Nazionale.
Nei giorni scorsi si era parlato anche di Nicola Porro e Augusto Minzolini. Qualche possibilità ce l’ha anche Paolo Liguori.
Un altro profilo che rispondeva a tutti i requisiti era quello di Andrea Pucci, della vecchia guardia del Giornale e autore della grandi inchieste del quotidiano di via Negri, che resta però ben saldo a news Mediaset. Valutati anche altri nomi “interni” ed “esterni” ma senza alcuna chances.
(da TPI)

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NON CHIAMATELA GUERRA: QUELLO DI ISRAELE A GAZA E’ UN MASSACRO A SENSO UNICO

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

L’OCCIDENTE DOVREBBE INTIMARE A ISRAELE DI PORRE FINE A UNA POLITICA RAZZISTA DI SEGREGAZIONE E DISCRIMINAZIONE

Le parole sono importanti? Bene, e allora smettiamo di chiamarla guerra, quella tra Israele e Palestina. O meglio, smettiamo di raccontare la storia per cui ci sono due parti che lottano per far soccombere l’altra. Un tempo era così, forse.
Oggi, nonostante tutto, le forze in campo sono talmente sbilanciate che non ha più nemmeno senso parlare di conflitto. Ma di massacro. A senso unico.
Lo raccontano le cifre di poche ore di bombardamenti su Gaza, 122 morti dall’inizio delle ostilità, 33 dei quali bambini, 11 solo nelle ultime 24 ore, cui si sommano più di 250 feriti, contro i sette morti israeliani.
Lo racconta, anche, la facilità con cui Israele, grazie al sistema d’arma mobile Iron Dome – letteralmente Cupola di Ferro – ha intercettato e reso inoffensiva la pioggia di missili di Hamas su Tel Aviv e su numerose altre città.
Ancora più delle cifre, tuttavia, lo racconta la sproporzione della forza economica e militare in campo, con un fazzoletto di terra lungo 40 chilometri e largo 10, poverissimo e sovrappopolato come nessuno al mondo che si ritrova a combattere nemmeno si capisce bene per cosa contro un nemico ricchissimo, all’avanguardia globale della tecnologia militare e scientifica – parliamo del primo Paese al mondo che ha raggiunto l’immunità di gregge contro il Covid-19 – che per di più lo circonda su tre lati del confine, di fatto assediandolo e impedendo la libera circolazione dei suoi abitanti, anche solo per cercare un lavoro altrove.
Fossimo in Sudafrica, nel secolo scorso, lo chiameremmo apartheid, e parleremmo di segregazione, e nessuno nell’opinione pubblica parlerebbe di equidistanza come sinonimo di obiettività.
Solo che siamo in Medio Oriente, e maneggiamo la materia infiammabile della Shoah e del senso di colpa occidentale per secoli di persecuzioni antisemite, così come quella del’islamofobia che pervade le nostre società dopo gli attentati di matrice islamista che hanno punteggiato questo inizio di millennio.
E allora, in fondo, del massacro di Gaza ci importa relativamente poco. E ci importa poco del fatto che Israele decida a proprio piacimento – come ha fatto con le deportazioni di Sheikh Jarrah – di alzare a proprio piacimento il volume della tensione per avere il pretesto per tagliare l’erba di Gaza a suon di bombe, per far dimenticare gli scandali che coinvolgono il presidente Bibi Netanyahu con una bella prova di forza, per far insediare altri coloni israeliani nei Territori palestinesi, in nome della sicurezza nazionale e del diritto a Israele a esistere.
Solo che, piccolo dettaglio, qui è in gioco il diritto di Gaza a esistere, non quello di Israele. E se, come comunità internazionale, abbiamo anche solo il dubbio che quel diritto vada difeso, forse dovremmo smetterla con le ipocrite e pilatesche manifestazioni di equidistante solidarietà, e chiedere a Israele di smettere di segregare, discriminare, bombardare chi vive nell’enclave di Gaza.
Se non lo facciamo – e non lo stiamo facendo – non siamo altro che complici di un massacro a senso unico, l’ennesimo che facciamo finta di non vedere. Niente di nuovo, pure qua.
(da TPI)

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I TERRORISTI DI ISRAELE BOMBARDANO IL GRATTACIELO DELLA STAMPA A GAZA, SI INDIGNA PERSINO IL GOVERNO USA

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

ERA LA SEDE DELL’ASSOCIATED PRESS E DI AL-JAZEERA, I GIORNALISTI: “INORRIDITI, LAVORIAMO DALL’OSPEDALE”… CASABIANCA: “LA SICUREZZA DEI MEDIA VA GARANTITA”

Abbattuto il grattacielo di al-Jala, sede di diversi media. La giustificazione di Israele: “Hamas usa edifici elevati a Gaza per fini militari”. L’emittente: “Atto chiaro per impedire ai giornalisti di svolgere il loro sacro dovere di informare”
Il numero uno di Ap: “Ora il mondo sarà meno informato su quel che accade a Gaza”. In mattinata l’esercito di Tel Aviv ha colpito un campo profughi: tra le vittime ci sono almeno 8 bambini.
Il bombardamento ha fatto crollare uno sull’altro tutti i 12 piani del grattacielo di al-Jala, nel pieno centro di Gaza, che si è dissolto dentro un’indefinita massa di polvere. Un luogo di importanza cruciale per i media internazionali, visto che agli ultimi piani ospitava le sedi di al-Jazeera e di agenzie di informazione, tra le quali l’Associated Press, mentre gli altri piani sono occupati da uffici commerciali.
E’ stato annunciato con un’ora di anticipo: Jawad Mehdi, proprietario dell’edificio, ha ricevuto l’ordine di evacuazione dall’intelligence israeliana e la sua richiesta di concedere un tempo maggiore, anche solo pochi minuti, è stata respinta.
L’ultimatum stringente ha quindi impedito ai reporter di mettere in salvo materiale e attrezzature. Mentre l’esercito israeliano, che prosegue senza sosta l’offensiva nella Striscia, ha giustificato la sua azione, “diretta a un palazzo che Hamas – dicono i militari – usava come nascondiglio”.
Da Washington la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki fa sapere che gli Usa hanno “comunicato agli israeliani che garantire la sicurezza e l’incolumità dei giornalisti e dei media indipendenti è una responsabilità fondamentale“. Oggi il presidente Joe Biden ha avuto due colloqui telefonici con il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen.
Associated Press: “Siamo inorriditi”. La reporter di Al Jazeera: “Lavoriamo dall’ospedale”
La giornalista di Al Jazeera Youmna al-Sayed ha riferito dal sito dell’emittente che attualmente l’ospedale Al Shifa di Gaza City è “l’unico posto” dal quale la testata è in grado di lavorare. “È il posto più sicuro che conosciamo – ha spiegato -. Shifa è stato preso di mira in passato, ma ovviamente è un ospedale, quindi potrebbe essere il posto più sicuro ora a Gaza da dove trasmetteremo”.
Durissima la presa di posizione dell’emittente del Qatar: “Al Jazeera condanna con la massima fermezza il bombardamento e la distruzione dei suoi uffici da parte delle forze armate israeliane a Gaza e vede questo come un atto chiaro per impedire ai giornalisti di svolgere il loro sacro dovere di informare il mondo e riferire gli eventi sul campo. Chiediamo a tutti i media e alle istituzioni per i diritti umani di denunciare questo crimine atroce”
“Siamo sconvolti e inorriditi”, scrive in una nota l’Associated Press rispetto alla distruzione di al-Jala, che era anche sede di un ufficio dell’agenzia di stampa americana. “Questo episodio rappresenta uno sviluppo incredibilmente inquietante della situazione”, afferma il numero uno dell’Ap, Gary Pruitt. “Abbiamo evitato per un soffio la perdita di vite umane“, aggiunge, sottolineando come ora “il mondo sarà meno informato su quello che accade a Gaza“.
Gli attacchi e le vittime
Nella notte tra venerdì e sabato è proseguita con una costante e inarrestabile escalation di violenze: finora ci sono 144 vittime, quasi tutte palestinesi, e tra loro ci sono anche 37 minori e 22 donne. Sono invece oltre 950 le persone rimaste ferite.
E la pioggia di bombe ha centrato anche un campo profughi di Al-Shati, nel nord della Striscia, in cui hanno perso la vita almeno 10 persone, tra cui 2 donne e 8 bambini.
(da agenzie)

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IL LIBRO DI GIORGIA MELONI OVVERO QUANDO LA BIOGRAFIA CEDE IL PASSO ALLA MISTIFICAZIONE DELLA REALTA’

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

TUTTE LE BALLE CONTENUTE NEL LIBRO

Primavera del 2001, le famiglie italiane ricevono in dono un prezioso volumetto illustrato stile fotoromanzo. È Una storia italiana, il libro che promette di raccontare chi è davvero Silvio Berlusconi.
Maggio 2016, viene pubblicato Secondo Matteo, la (quasi) autobiografia di Matteo Salvini.
Maggio 2021, Giorgia Meloni esce in libreria con Io sono Giorgia, l’autobiografia con la quale si prepara a vincere le prossime elezioni. Sembra quasi che se si ambisce a guidare il centrodestra italiano ci sia un modo solo per farlo, non primarie, non congressi: autobiografie.
Va da sé che queste pubblicazioni vadano oltre l’autodichiarato compito di raccontarsi e diventano invece un manualetto per militanti, candidati e sostenitori. Un prontuario con tutti gli alternative facts per rispondere alle obiezioni della controparte.
Curiosamente il libro della leader di Fratelli d’Italia e quello di Salvini condividono l’incipit. Salvini che nel 2013 sale sul palco del congresso che lo investirà leader della Lega “mentre il pubblico intona il coro ‘Matteo Salvini, là là là là là là, Matteo Salvini!’”.
Giorgia Meloni parte invece da quello di Piazza San Giovanni del 2019, quello dal quale lancerà il tormentone io sono Giorgia, sono una madre, sono una donna, sono italiana.
Non sono le uniche somiglianze: come Salvini anche lei ha una certa nostalgia per i vecchi Nokia e si parla pochissimo di mafia o ‘ndrangheta.
Nel libro della Meloni c’è tutto: l’infanzia difficile, i traumi, il bullismo, la militanza nel Fronte della Gioventù. Ragazzi descritti come dei sognatori e dei rivoluzionari . Dei tanti ex compagni del Fronte la Meloni dimentica di citare il vicepresidente di CasaPound Simone Di Stefano, che pure raccontò di averle fisicamente aperto la porta della sezione MSI della Garbatella.
Selvaggia Lucarelli ha fatto notare su TPI come il dettaglio di Giorgia Meloni che ha rischiato di essere abortita sia un po’ strano. Non solo perché l’aborto fosse illegale nel 1976 (la Meloni è nata a gennaio del 1977) quanto perché all’epoca era piuttosto raro fare gli esami clinici prima dell’interruzione di gravidanza.
Il problema è quando la biografia cede il passo alla mistificazione della realtà. Perché un conto è raccontare la storia di Giorgia che a quattro anni dà fuoco alla casa (per errore), rinasce dalle sue ceneri e si mette a cavallo del drago della Destra italiana.
Un altro è raccontare ad esempio che Alberto Angela abbia fatto nel 2017 in RAI un elogio dei muri, quelli che dividono e separano. Quando in realtà aveva precisato che “Non è il muro il nostro nemico, ma l’uso che se ne fa”, precisazione convenientemente omessa.
Il senso di Giorgia per la vita
Oppure, tornando al tema dell’aborto, quando si scaglia contro le “multinazionali dell’aborto” descrivendo l’orrore di quello che chiama “aborto a nascita parziale”.
Un termine che non esiste in ambito medico, che riguarda una pratica chirurgica (Intact dilation and extraction) che non viene utilizzata in Italia (ed era poco diffusa anche negli USA) dove si ricorre all’isterosuzione e al raschiamento. Nessuno in Italia ha mai chiesto di adoperare quella tecnica che la Meloni descrive. Ma soprattutto nessuno ne fa uso nel nostro Paese. Però è più comodo confondere le acque.
E non è l’unico caso. Nel 2018 ad Atreju arrivarono i genitori di Alfie Evans, un bambino britannico affetto da una rara malattia neurodegenerativa associata ad una grave forma di epilessia oggetto di un contenzioso legale tra i genitori e i medici che chiesero (e ottennero) dal giudice la sospensione dei trattamenti terapeutici che lo tenevano in vita. Con l’incredibile delicatezza che le deriva dall’essere mamma la Meloni scrive: “se ci hanno detto che il papà di Eluana Englaro doveva essere libero di poter staccare la spina della macchina che la teneva in vita, dato che ‘nessuno sa meglio di un genitore cosa sia bene per i suoi figli’, lo stesso diritto non è valso per i genitori di Charlie Gard e Alfie Evans, bambini ai quali i medici hanno voluto staccare la spina rivolgendosi addirittura ai giudici perché fosse imposta per legge quella decisione alle famiglie?”.
Questa però è una mistificazione. La battaglia legale che vide protagonista il padre di Eluana Englaro non riguardava la richiesta da parte di Beppino Englaro che fosse sancito che lui sapeva cosa fosse meglio per la figlia. Fu invece un processo per stabilire e ricostruire (attraverso diverse testimonianze) se davvero Eluana avesse espresso – prima del suo incidente avvenuto 17 anni prima – il desiderio di non continuare a vivere attaccata ad una macchina qualora si fosse trovata in quella situazione.
Fermo restando che Italia e Regno Unito hanno leggi differenti quindi il paragone è pretestuoso, non fu Beppino Englaro a decidere cosa era meglio per la figlia, esattamente come accadde per Charlie Gard e Alfie Evans.
Ma in questo modo la Meloni strumentalizza una vicenda drammatica che insieme ad altri casi bio-grafici simili contribuì ad avviare il lungo percorso che portò il nostro Paese a dotarsi nel 2017 della legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento.
Sempre sul tema della famiglia Giorgia Meloni scrive che “in Italia non è consentita l’adozione ai single”. Ma non è vero, perché in casi particolari la legge consente l’adozione anche ai single.
L’affido ai single invece è consentito, come sa bene il capogruppo di Fratelli d’Italia al comune di Ferrara che nel 2019 presentò una curiosa interrogazione per sapere “quanti bambini ad oggi siano stati affidati a persone single (e, tra queste, quante si dichiarino omosessuali) e quanti bambini a coppie omosessuali nel nostro comune”.
Per Giorgia Meloni i radical chic hanno ucciso Willy Monteiro Duarte
Nel capitolo Il razzismo del progresso Giorgia Meloni se la prende con i buonisti che vorrebbero farla passare per razzista o peggio ancora per fascista quando in realtà i veri razzisti sono loro.
Non manca la stoccata al politicamente corretto ai figli di papà che distruggono “statue che ricordano eroi di guerra, memorie di nazioni” e che si scagliano “contro i grandi del passato, in nome di una riscrittura puritana della storia e della società” quando in realtà si abbattono statue di schiavisti o di re genocidi (Leopoldo del Belgio) e si chiede semplicemente di tenere in considerazione altre prospettive storiche.
Deve essere ben difficile per la Meloni coniugare la critica al colonialismo francese in Africa e far finta di non vedere come le potenze coloniali abbiamo scritto e insegnato una storia a senso unico.
Caso da manuale dell’ideologia buonista secondo la leader di Fratelli d’Italia è la vicenda dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro il 6 settembre 2020.
A processo ci sono Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, accusati di omicidio volontario. Come ha scritto Valerio Renzi su Fanpage non si può negare che dal momento che Willy era di origine capoverdiana una certa componente di odio razziale possa aver avuto un peso ma gli imputati sarebbero imbevuti di una cultura machista (mascolinità tossica, direbbero i buonisti) che vede in certi modelli criminali un esempio e che non si limita al razzismo o a presunte simpatie neofasciste.
Giorgia Meloni fa di meglio. Scrive testualmente che i quattro “sono invece figli di tutt’altra ‘cultura’: quella di chi ha propagandato tra i giovani modelli come Gomorra per farci sopra i milioni» e di «di quei modelli cari a certi artisti ‘progressisti’, o ‘comunisti col Rolex’ che dir si voglia, per i quali il successo si misura con la cilindrata delle macchine, il costo delle borse, il numero di partner che si riescono ad avere e quello delle droghe che si riescono ad assumere”.
Insomma, nemmeno troppo velatamente dice che la colpa è dei vari Saviano (l’autore di Gomorra) e di tutti quelli che hanno scritto romanzi o serie televisive su temi simili (che ne so, Breaking Bad conta?). Non solo: è colpa anche degli artisti di sinistra, naturalmente drogati, promiscui e pieni di soldi (Mick Jagger e Keith Richards?).
Io sono Giorgia
I fatti alternativi proseguono come quando la Meloni scrive “il consigliere comunale a Roma lo faccio gratis, e dato che sono più presente del sindaco Raggi in assemblea capitolina, direi che è un bene che faccia il mio lavoro a Roma senza costare nulla alla collettività”.
Ora, a parte che il Sindaco non è un consigliere comunale mentre la Meloni sì i dati sulle presenze – incontestabili, si diceva un tempo – dicono un’altra cosa.
E cioè che su un totale di 108 giornate di seduta nel 2020 (ma negli anni precedenti la musica non cambia) la Meloni è risultata presente 43 volte.
Peggio di lei Alfio Marchini (11) e Virginia Raggi (16).
Ma se invece guardiamo le presenze effettive dei consiglieri in Assemblea Capitolina, commissioni capitoline, Capigruppo e Ufficio di Presidenza la Meloni è penultima con 45 presenze (nel 2020 perché gli anni precedenti erano poco più di una decina) mentre la media del consiglio è attorno alle 200 presenze.
La storia insomma la si può scrivere e riscrivere come si vuole. Ad esempio quando parla della nascita del Governo Monti nel 2011 con toni epici:
“Dissi a Berlusconi, con chiarezza, che il Popolo della Libertà non avrebbe dovuto assolutamente dare appoggio al governo Monti. Era intollerabile consegnare l’Italia agli emissari di quelle consorterie europee che avevano manovrato contro la nostra democrazia; era come dire che avevano ragione i nostri avversari, e non l’avevano”.
Ma dimenticandosi purtroppo di dire esplicitamente che poi lei la fiducia a Monti la votò. Così come votò il Salva Italia (che conteneva la Legge Fornero) e l’abbassamento del limite del contante a mille euro che oggi contesta. Eppure la Meloni del 2021 dice: “Nel 2011 l’asse franco-tedesco ha dato un segnale inequivocabile all’Italia: ‘La sovranità ve la potete scordare’”.
Ammesso e non concesso che le cose siano andate così, se è successo è anche perché qualcuno i voti a Monti li ha dati.
E quando spende parole di elogio per Guido Crosetto ricordando che “si era alzato in aula a Montecitorio per annunciare il suo voto contrario al Fiscal Compact” dimentica di dire che poi Crosetto aveva già votato a favore alla legge costituzionale che introduceva il Pareggio di Bilancio in Costituzione che è proprio uno dei punti del Trattato Europeo sul Fiscal Compact (curiosamente la Meloni era assente a tutte e due le votazioni finali).
(da TPI)

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SONDAGGIO DEMOS: LEGA CALA AL 21,3%, LETTA FA SALIRE IL PD AL 20,1%

Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile

FDI 18,2%, M5S 17,7%, FORZA ITALIA 7,6%, SINISTRA+ LEU 4,3%, AZIONE 2,6%, + EUROPA 2,1%, ITALIA VIVA 2%…. SALE IL GRADIMENTO PER DRAGHI

I sondaggi politici di Demos illustrati oggi da Ilvo Diamanti su Repubblica dicono che la Lega è ancora in calo ed è tallonata dal Partito Democratico.
L’attuale inquilino di Palazzo Chigi convince. Più di 3 italiani su 4 lo valutano positivamente (con un voto da 6 a 10), mentre il 70% considera in modo favorevole il suo governo.
Se consideriamo gli ultimi 5 anni, solo il governo guidato da Giuseppe Conte nel marzo 2020 aveva ottenuto un giudizio (appena) migliore. Di un solo punto: 71%. Le stime di voto invece vedono i primi 4 partiti affiancati, a pochi punti di distanza.
Davanti a tutti è ancora la Lega di Salvini, con il 21,3%, ma in discesa di un punto rispetto allo scorso marzo, ma di 13 rispetto alle Europee del 2019.
Insegue il Partito Democratico con il 20,1%. Cresciuto di quasi 3 punti dopo le dimissioni improvvise di Zingaretti. La nomina a segretario di Enrico Letta ha risollevato il consenso al partito.
Inseguono Fratelli d’Italia e MoVimento 5 Stelle, a loro volta distaccati di mezzo punto percentuale. Ma con destini diversi: il M5s perde voti (-1,1%), FdI li guadagna (18,2%).
Gli altri si posizionano molto più in basso. Sotto il 10%. Anzitutto FI, stimata al 7,6%. A seguire, i partiti a sinistra del Pd, al 4,5%. In fondo alla graduatoria, addensati intorno al 2%, vi sono Azione, +Europa, Italia Viva e, ancora più in basso, altre liste. Si delinea, così, un quadro incerto e instabile.
(da agenzie)

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