Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
PRESTO IL VOTO DEGLI ISCRITTI
L’annuncio di Vito Crimi durante l’assemblea dei parlamentari grillini. Poi il comunicato congiunto: «Grillo e Conte si sentiranno ancora nei prossimi giorni per definire insieme gli ultimi dettagli e dare avvio alle procedure di indizione delle votazioni»
Il garante Beppe Grillo e l’avvocato Giuseppe Conte hanno trovato l’accordo sulla nuova struttura del MoVimento 5 Stelle. E quindi a breve si voterà per il nuovo statuto e il nuovo presidente del M5s.
Lo ha annunciato oggi Vito Crimi, “capo politico” e reggente, nel corso dell’assemblea congiunta dei gruppi. I due leader hanno inviato un messaggio congiunto alla riunione: «Il MoVimento si dota di nuovi ed efficaci strumenti proiettando al 2050 i suoi valori identitari e la sua vocazione innovativa. Determinante è stato il contributo scaturito dal lavoro svolto dal comitato dei sette che Grillo e Conte ringraziano. Una chiara e legittimata leadership del MoVimento 5 Stelle costituisce elemento essenziale di stabilità e di tenuta democratica del Paese. Grillo e Conte si sentiranno ancora nei prossimi giorni per definire insieme gli ultimi dettagli e dare avvio alle procedure di indizione delle votazioni».
Il capogruppo dei grillini in Senato Ettore Licheri ha definito «storico» l’accordo tra i due leader. L’assemblea dei parlamentari è ancora in corso su Zoom.
Luigi Di Maio intanto su Twitter già esulta: «Abbiamo sempre creduto nel dialogo e nella mediazione invece che nello scontro e nella polemica. Grazie ai sei amici con cui abbiamo lavorato per raggiungere questo obiettivo».
Di Maio ha parlato anche all’assemblea dei gruppi: «Grazie Beppe e Giuseppe, questa intesa è frutto della vostra volontà di tenere unito il movimento. Grazie anche agli altri 6 componenti del direttivo per l’efficace lavoro svolto. Finalmente il Movimento può ripartire con una leadership forte. Grazie Vito, è stata una reggenza in un periodo difficile per il paese, ma hai dato il massimo. Grazie per la solidarietà per quello che mi è successo ieri».
Grillo e Conte avevano rotto dopo il post “Una bozza e via” pubblicato sul blog del Garante in cui si definiva l’Avvocato del Popolo «privo di capacità manageriali e visione politica». Alla base dello scontro i poteri del garante e la regola dei due mandati, oltre al ruolo di Rocco Casalino.
Il capodelegazione del M5s Stefano Patuanelli durante l’assemblea ha detto: «Questo accordo ci permette di ripartire in un momento di difficoltà. È stato un lavoro molto pesante ma ce l’abbiamo fatta». Raggiante anche la senatrice Paola Taverna: «Qualche giorno fa sembrava impossibile raggiungere un accordo. Ma l’intelligenza e l’amore per il M5S di Beppe e Giuseppe alla fine hanno prevalso. Un grazie anche ai 7 mediatori per il loro gran lavoro. Ora ripartiamo con coraggio».
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
TRA I MINISTRI EMERGONO FRANCESCHINI E BRUNETTA… POPOLARITA’ GOVERNO 51%, DRAGHI 61%
Il sondaggio di Proger index Research è uno di quelli destinati a lasciare il segno
poiché sembrano cambiare paradigmi e rapporti di forza nella politica.
La Meloni anche se di poco è il primo italiano (20,5%), è l’unico che sta all’opposizione e ne raccoglie con abilità tutti i vantaggi, anche perché gli effetti del Recovery Plan, dell’attesa e sperata rinascita del Paese non si sono ancora inverati. Siamo inoltre in un momento ancora troppo vicino alla tragedia della pandemia è ancora lontani dalla serenità di essercene finalmente liberati.
Assistiamo ancora troppi conflitti di forze politiche rinchiuse in una gabbia presidiata da un Draghi (che mantiene salda la sua fiducia al 61%) assolutamente persuasivo e dissuasivo e nei prossimi mesi, la necessità di conflitto si incrocerà con le campagne elettorali amministrative, dove dovrebbero emergere le differenze.
Quindi questo vantaggio di Fratelli d’Italia è tutto da verificare.
La Lega (20,0%) è in difficoltà con una crisi di leadership ed una incapacità di gestire questa fase. Come del resto è in difficoltà il Pd (18,4%) per non parlare dei Cinquestelle che con l’ipotesi di un Movimento guidato dall’ex Premier quotato al 9,8%, si ritroverebbero ad un dato che è poco più del 7%.
Il Governo, nel complesso, gode della fiducia del 51% degli italiani e tra i ministri emergono Dario Franceschini (Cultura) al 40%, Renato Brunetta (P:A.) al 37% e Marta Cartabia (Giustizia) al 35% .
(da Huffingtonpost)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
LEGGERO CALO PER FDI E LEGA, RISALGONO PD E M5S
Fratelli d’Italia si conferma primo partito ma accusa una lieve flessione, con il 20,6% e un -0,2% rispetto alla settimana scorsa.
Segno negativo anche per la Lega con un -0,1%, positivo per il Pd (+0,1%).
Ecco tutti i risultati dei partiti: Lega al 20,4%, Pd al 19,6% (+0,1), M5S al 15,1% (+0,4); Fi al 9,1% (-0,2), Azione al 3,2% (+0,1); Iv al 2% (-0,1); Sinistra italiana all’1,9% (-0,1); Articolo 1 1,7% (-0,1), Verdi all’1,6% (-0,1), +Europa all’1,6% (-0,1); Coraggio Italia stabile allo 0.9%.
I 18enni voterebbero il centrodestra.
È il risultato di Monitor Italia, il sondaggio Tecnè e Agenzia Dire sulle intenzioni di voto dei giovanissimi realizzato dopo l’approvazione della riforma costituzionale che attribuisce ai 18enni il voto per eleggere il Senato.
I giovani tra i 18 e i 21 anni non sono molto interessati alla politica, il 50% si dichiara per l’astensione o incerto su chi votare.
Al primo posto c’è Fratelli d’Italia con il 23%, segue la Lega con il 22%, il Pd prende un 21%. Il Movimento Cinque Stelle sembra avere poca presa tra i 18 enni con una indicazione del 9% contro un 15,1% incassato dal complesso dei votanti.
A seguire Fi e Azione con il 6%, Sinistra Italiana con il 4%, Verdi e più Europea incassano il 2%, altri partiti il 5%.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
E LA MELONI, A FORZA DI LAMENTARSI, SI PRENDE IL TG1
Bypassando i giochetti dei partiti e i possibili rinvii al prossimo autunno, che
avrebbero portato alla necessità di una proroga delle cariche vigenti, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha agito autonomamente e ha proposto due nomi per il nuovo Cda della Rai: Marinella Soldi, attuale presidente della Fondazione Vodafone, come presidente, e Carlo Fuortes, sovraintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, come amministratore delegato.
Un uomo e una donna, nel rispetto della parità di genere, e – soprattutto – nel rifiuto di attendere il valzer della politica su decisioni importanti.
“Via i partiti dal servizio pubblico”, è il mantra che si ripete a ogni nomina. Questa volta, forse, ci siamo davvero. Perché il nome sul quale ci si è maggiormente divisi in Parlamento, quello di Fuortes, risponde a un uomo che, dal 2013, gestisce il Teatro dell’Opera di Roma (ed era confermato fino al 2025). Prima, dal 2003 al 2015 è stato amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma, gestendo l’Auditorium Parco della Musica.
Manager ed economista, nel curriculum vanta “da più di vent’anni studi e consulenze sui temi dell’economia della cultura, con riferimento alla gestione di teatri, musei e beni culturali, allo spettacolo dal vivo, alla tv e cinema per conto di imprese pubbliche e private, enti locali, musei, sovrintendenze, associazioni di settore e istituzioni culturali”. Esperienza e competenza a disposizione del servizio pubblico, ma a destra si alza il coro del dissenso.
La Lega al palo sulle nomine
“Fuortes è nato come personaggio vicino alla sinistra, a Veltroni, proposto come candidato sindaco per il Pd, senza particolare esperienza televisiva, duramente contestato dai lavoratori dell’Opera di Roma. Di certo non una figura super partes”, il commento della senatrice e sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni.
“Da mesi aspettiamo un nome di alto profilo e invece ci ritroviamo un esponente dei Palazzi romani uscito dalla segreteria di partito”, le fa eco Alessandro Morelli capo dipartimento delle Telecomunicazioni della Lega.
Ma la scelta autonoma di Draghi, maturata tutta dentro Palazzo Chigi con un dossier gestito dal fidatissimo consigliere Francesco Giavazzi e dal capo di gabinetto Antonio Funiciello, resta inamovibile a prescindere da cosa accadrà mercoledì, quando è previsto il voto in aula per decidere su altri due consiglieri da sottoporre a Viale Mazzini.
Un passo destinato a porre fine all’egemonia grillino-leghista sulla tv pubblica, dove i gialloverdi avevano piazzato nel 2018 Marcello Foa (presidente) e Fabrizio Salini (amministratore delegato).
Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it è fatta invece per Gennaro Sangiuliano direttore del Tg1 (attualmente è a capo del Tg2), mentre la direzione di Rai2 andrà ad Angelo Mellone, ora Vice Direttore Rai 1. Due nomine in quota Fratelli d’Italia che certificano ancor di più come la Lega sia rimasta al palo in questa tornata.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
DICE CHE LUI HA PIU’ TITOLO DI ALTRI A DIRE NO AL DDL ZAN PERCHE’ HA SCRITTO LA CANZONE
Continua il gioco di Povia di associare sue canzoni alla lotta ormai senza regole che ha deciso di portare avanti contro il ddl Zan. Dopo aver dichiarato che una testo come quello di “Luca era gay” non sarebbe mai stato accettato a Sanremo se il disegno di legge fosse già entrato in vigore all’epoca, nel 2009, adesso il cantante che spesso rilancia complotti sul web ha pubblicato un video in cui si auto-elegge difensore dei minori – che secondo lui verrebbero “plagiati” dalla modifica alla legge Mancino – perché nel 2005 ha scritto “I bambini fanno oh”.
Nel filmato Povia se la prende con “tutta la sinistra”, rea – secondo lui – di aver infangato “anni di lotta operaia, di movimenti studenteschi” e di aver voltato le spalle a “Gramsci, Togliatti, Hegel e Marx” perché “mai si sarebbero sognati di violare la mente dei bambini”.
Un attacco al collega Fedez prima, che si è speso attivamente in favore del disegno di legge, e allo stesso deputato Alessandro Zan poi, che avrebbe proposto “una legge che impone ai genitori di accompagnare i bambini verso l’altro sesso perché si percepiscono opposti al loro sesso di nascita”.
Un’accusa che non si sa da dove provenga, visto che il ddl Zan parla esplicitamente di condotte che incitano alla violenza e alla discriminazione “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”.
Non solo: l’articolo 4 specifica che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
È vero, come dice Povia, che i bambini “sono spugne che prendono per buono quello che gli viene detto”. Ma è anche vero che non sono stupidi e che sarebbero perfettamente in grado di comprendere un testo scritto in italiano. A meno che non vengano “venduti, comprati e imbottiti di farmaci”, come sottolinea il cantante nel filmato: ma a quel punto staremmo parlando di tratta di esseri umani, e col ddl Zan – anche se hai scritto “i bambini fanno oh” – c’entra veramente poco.
(da NextQuotidiano)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
“SEMPRE PIU’ DONNE A CONDURRE”… PONITI UNA DOMANDA: MAGARI SONO PIU’ COMPETENTI DI CERTI UOMINI
Non tutti hanno apprezzato la notizia di Katia Serra che, per sostituire Alberto
Rimedio insieme a Stefano Bizzotto, è stata incaricata di fare la telecronaca dell’ultima partita di Euro 2020.
La finale Italia-Inghilterra sarà raccontata dalla voce di una donna, la prima volta per la Rai, e se tanti si sono detti felici e si sono congratulati con la professionista, altri hanno espresso un parere contrario e contrariato rispetto a questa scelta – visto il tempismo del tweet – e, più in generale, rispetto alle donne nel mondo del giornalismo sportivo.
Un riferimento che non può non essere colto, quello a Katia Serra, considerate anche le critiche che il giornalista che ha collaborato con Il Primato Nazionale le ha già precedentemente mosso.
Critica legittima per una telecronaca che può piacere o meno, ovviamente, ma che è sfociata evidentemente in un discorso più ampio con questo tweet uscito dopo l’annuncio che sarà Serra a fare la telecronaca della finale.
Il tweet del giornalista e conduttore televisivo italiano vuole rispondere a una domanda, di base, ha ben poco senso. «Perché ci sono sempre più donne a condurre programmi sportivi? – scrive su Twitter – Perché non ci sono più giornalisti autorevoli, capaci di incalzare gli addetti ai lavori con domande vere e notizie serie. E gli editori cercano l’ascolto facile con la presunta bellona di turno. Scelta suicida!».
Secondo quanto si legge, quindi, se le donne emergono nel mondo della telecronaca sportiva è perché i giornalisti maschi – come inteso nella contrapposizione – non sanno più fare il proprio lavoro come un tempo. L’altra parte della colpa va cercata nelle scelte editoriali, che puntano a fare ascolti con la “fi*a”, come qualcuno ha scritto nei commenti al tweet. Di per sé questa è un’affermazione che ha ben poco senso: parliamo di telecronaca, ergo le persone che guarderanno la partita sentiranno solamente la voce delle persone che la racconteranno.
E parliamo di Katia Serra, che ha alle spalle dieci anni di telecronaca per Rai e Sky e che non è di certo l’ultima arrivata. O la «bellona di turno», come scrive Bargiggia, non mancando di fare riferimento anche a un’altra conduttrice televisiva che è finita nel suo mirino, Diletta Leotta.
L’emergere della professionalità delle donne in moltissimi ambiti dai quali prima erano escluse – compreso il giornalismo sportivo – è indice di un mondo che va nella direzione giusta e che tende a premiare la competenza delle persone a prescindere dal sesso.
Serve ancora sottolineare, nel 2021, che pregi importantissimi per un giornalista come autorevole e capace di incalzare gli addetti ai lavori non hanno assolutamente niente a che vedere con il fatto che qualcuno sia uomo o donna? Quando si lavora ci deve essere una sola differenza, quella tra chi è un professionista serio e competente e chi non lo è. Punto.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
CADE NEL VUOTO L’IDEA DI UN REFERENDUM ABROGATIVO DEL REDDITO DI CITTADINANZA, L’UNICO A SEGUIRLO E’ SALVINI
Chissà cosa si aspettava, Matteo Renzi. In fondo proporre un referendum per abolire il reddito di cittadinanza ad un convegno di Confindustria aveva un po’ il sapore del tiro a porta vuota in uno stadio amico.
Eppure è riuscito a “spararla” in tribuna. Anche dai giornali “amici”, o comunque non ostili, la proposta è stata pressoché ignorata.
Il Sole 24 Ore, quotidiano di proprietà di Confindustria, non dedica alla proposta neppure una riga. Lo stesso su La Stampa della famiglia Agnelli e tutto tace pure sul Corriere della Sera di Urbano Cairo o su Il Messaggero di Francesco Gaetano Caltagirone. La Repubblica, sempre degli Agnelli, dà conto dell’uscita di Renzi ma solo per sottolineare la “reazione fredda” della platea di industriali. L’unico che raccoglie la palla di Renzi è Matteo Salvini che “twitta” ancora sulla leggenda degli imprenditori del turismo che non trovano personale a causa del reddito di cittadinanza. A conferma del progressivo avvicinamento dei due Matteo, già messo in luce dalla sintonia contro il Ddl Zan.
Del resto Confindustria, che ha appena portato a casa la vittoria sulla fine del blocco dei licenziamenti, non sembra intenzionata ad imbarcarsi per una crociata che, in un periodo di forte disagio sociale, avrebbe davvero il sapore dell’accanimento contro i più deboli.
Ieri l’Istat ha fatto sapere che 1,6 milioni di nuclei familiari hanno beneficiato di reddito o pensione di cittadinanza, in totale 3,7 milioni di persone per un esborso complessivi di 7 miliardi di euro. Guardando ai dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio si scopre che solo lo scorso anno le imprese hanno ricevuto aiuti e incentivi per oltre 50 miliardi di euro
Forse anche alla luce di queste cifre, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha sottolineato la necessità di procedere spediti verso una riforma complessiva degli ammortizzatori ma non ha “stressato” il tema del reddito di cittadinanza.
La misura è stata menzionata dal presidente dei Giovani imprenditori Riccardo Di Stefano che, tuttavia, non è si è spinto a chiederne l’abolizione ma piuttosto dei correttivi.
Pur con evidenti imperfezioni, soprattutto per quel concerne la parte “attiva” relativa all’opera di collocamento, dalla sua introduzione il reddito di cittadinanza ha raccolto per strada diversi sostenitori, persino alcuni convertiti.
Complice il periodo pandemico, che ha reso indispensabili misure di sopravvivenza per le fasce più disagiate della popolazione, sono in molti a riconoscere che il reddito ha contribuito ad attutire gli aspetti più devastanti della crisi arginando le tensioni sociali.
Di recente abbiamo assistito alle lamentele di alcuni cuochi e capi bagnini che si sono lamentati perché con un reddito garantito (che raggiunge al massimo i 750 euro al mese) a trovare giovani disposti a lavorare è diventato più difficile.
Salvo poi scoprire che le condizioni lavorative proposte alla “gioventù recalcitrante” erano salari da fame e orari senza nessuna regola.
Ma questa linea falsamente moraleggiante è quella che Matteo Renzi ha deciso di sposare, nel momento in cui definisce il reddito di cittadinanza un “provvedimento diseducativo”. Questo approccio sull’effetto disincentivante di redditi di base è stato peraltro molto ridimensionato nel corso degli anni dagli studi e dalle ricerche condotte sull’argomento.
Molte sono riassunte nel libro “The economics of belonging” dell’editorialista del Financial Times (il giornale della finanza internazionale) Martin Sandbu
L’autore spiega tra l’altro come uno dei meriti dei redditi universali di base sia proprio quello di stabilire una soglia al di sotto della quale le buste paga non possono scendere. Questo incentiva le aziende a cercare la crescita di competitività migliorando produttività, processi e prodotti, piuttosto che adagiandosi sul basso costo del lavoro. Dare alle persone almeno una minima possibilità di dire “no” a lavori sottopagati e senza diritti, finisce per avere un effetto positivo su tutta la struttura economica di un paese.
Inoltre, spiega Sandbu, sostenere che un reddito di base induca le persone a non lavorare significa ignorare la differenza tra sopravvivere ed avere un buon tenore di vita, dimenticare l’importanza dello status sociale, il senso che può dare un’occupazione e il piacere stesso che può derivare dal lavoro. Non esiste nessuna evidenza che la semplice possibilità di non lavorare porti le persone a non farlo per davvero. L’Alaska paga da anni i suoi cittadini grazie alle royalties derivanti dallo sfruttamento dei suoi giacimenti petroliferi e afferma di non aver mai registrato “alcun effetto sull’occupazione”.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
I DETTAGLI AL VERTICE DI FINE OTTOBRE
È andata come ci si aspettava che andasse. Senza sorprese, senza novità. L’accordo
sulla tassazione globale delle multinazionali, chiuso al G20 di Venezia a presidenza italiana, ricalca il documento uscito due settimane fa in sede Ocse e sottoscritto da 132 Paesi su 139. Un primo passo, senza dubbio. Molto timido, altrettanto inequivocabilmente.
Ci sarà tempo di capire se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, gli esperti di sistemi fiscali e lotta a elusione ed evasione per ora propendono per la seconda opzione.
Poi, naturalmente, ci sono le dichiarazioni di rito. Come quella del commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni che parla di “giornata storica” o del ministro tedesco dell’economia, Olaf Scholz, che afferma: “È un grande progresso aver raggiunto un accordo sulla minimum global taxation dal 15% in su, e sono sicuro che questa sarà la base per le decisioni di tutti gli Stati del mondo, che seguiranno questo accordo”.
Un’unica aliquota globale
L’aspetto più noto della riforma è l’introduzione di un’aliquota minima globale sui profitti delle 100 multinazionali più grandi del mondo. Aliquota che dovrebbe collocarsi al 15%. In sostanza se un Paese decide di tassare i profitti aziendali, ad esempio, al 7%, il Paese di residenza della multinazionale (molto spesso gli Stati Uniti) può riscuotere il rimanente 8%.
Un regime che renderebbe inutile il ricorso ai paradisi fiscali, come Bermuda o Isole Cayman, dove il prelievo è praticamente inesistente.
I fautori dell’accordo sostengono che questa svolta interrompe la corsa al ribasso che ha causato, in tutto il mondo, una progressiva riduzione del prelievo sulle imprese, senza che questo abbia generato vantaggi per l’economia nel suo complesso. Sino a giungere a situazioni paradossali: 55 tra le più grandi aziende Usa tra cui Nike, Hp o Fedex, hanno pagato zero dollari di tasse nell’ultimo anno ma hanno anzi ricevuto 3 miliardi in forma di crediti di imposta.
È vero che dopo anni di infruttuose interlocuzioni si riesce a dare forma a un’intesa concreta. Ma è vero altresì che il 15% è un’aliquota bassa (gli Stati Uniti avevano proposto il 21%), vicina a quella di paesi come l’Irlanda (12,5%) che sulla competizione fiscale a danno degli altri paesi hanno impostato un sistema economico. La corsa verso il basso verrebbe sostituita da una corsa verso il minimo.
Meglio, ma non risolutivo. Secondo le prime stime l’aliquota unica al 15% dovrebbe comunque garantire un gettito aggiuntivo di 240 miliardi di dollari a livello globale, fino a 70 miliardi nella zona euro e oltre 3 miliardi (2,7 miliardi di euro) per la sola Italia.
Competitività “al rialzo” e non più “al ribasso”
L’altro pilastro della riforma è il sistema che permette di condividere una parte del gettito tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera. La parte che eccede il 10% di margine operativo, vale a dire la differenza tra i costi sostenuti per la produzione e i ricavi ottenuti dalle vendite, potrebbe, per una quota di “almeno il 20%”, essere tassata nel paese dove l’azienda realizza le vendite, con il suo normale prelievo sui profitti societari (in Italia al 24%).
Questa possibilità scatta se l’azienda realizza in un paese ricavi per almeno un milione di euro l’anno, soglia che scende a 250mila euro nelle economie più piccole (Pil al di sotto dei 40 miliardi).
Esempio: se la società estera X in Italia ha ricavi per 10 miliardi e costi per 8 miliardi con una differenza (il margine) di 2 miliardi ossia il 20% dei ricavi, una quota del 20% della parte eccedente il 10% (ossia 1 miliardo) del margine, e quindi 200 milioni, potrebbe essere tassata nel nostro paese con la nomale aliquota del 24% con un gettito di 48 milioni.
Nel complesso, l’ambizione della riforma è quella di spostare il paradigma della competitività, come ha recentemente spiegato la segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen, una dei principali artefici della “rivoluzione”. Da una corsa tra paesi “al ribasso” (meno tasse, meno diritti, meno regole, meno stipendi) ad una corsa verso l’alto in cui un paese diventa più attrattivo perché dotato di (forza lavoro più istruita, investimenti in scuola e infrastrutture, etc).
I punti deboli della riforma
Il diavolo però sta nei dettagli. Gli Stati Uniti chiedono ad esempio che, con l’entrata in vigore della riforma, realisticamente dal 2022, vengano eliminate le web tax che una trentina di paesi, tra cui anche Italia, Francia e Gran Bretagna, applicano oggi a colossi web come Facebook o Google.
Secondo alcune simulazioni dallo scambio i colossi statunitensi potrebbero persino guadagnare, finendo per pagare meno tasse di quanto non facciano oggi. Londra ha poi ottenuto di esentare la City e quindi le banche internazionali che qui hanno sede, dal nuovo regime fiscale.
Ancora, la soglia del 10% del margine operativo mette in salvo colossi come Amazon che hanno margini bassi a causa degli alti costi ma guadagnano miliardi grazie al gigantesco volume di vendite.
Nel complesso la bozza di riforma è favorevole agli Stati Uniti che cedono poca base imponibile agli altri paesi, salvaguardano i loro campioni nazionali del web e avvicinano la tassazione globale alla aliquota che l’amministrazione Biden vuole alzare dal 21 al 28%.
L’Europa dal canto suo fa resistenza sull’ eliminazione delle web tax mentre spinge al ribasso il compromesso sull’aliquota unica, per assecondare le posizioni di stati membri come l’Irlanda.
La formula che si sta delineando è sgradita anche a molti paesi poveri, che in partica vengono quasi del tutto esclusi dalla compartecipazione al gettito, anche se le multinazionali operano nei loro confini.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 11th, 2021 Riccardo Fucile
“POCHI TAMPONI, ENTRO FINE AGOSTO 11.000 CASI AL GIORNO”
L’unico modo per frenare l’arrivo di una possibile quarta ondata di contagi da Coronavirus, temuta per la fine dell’estate, è capire per tempo dove e come il virus si stia attualmente diffondendo.
Il rischio di un mancato tracciamento dei casi è quello di arrivare a fine luglio con circa 3 mila nuovi positivi al giorno, e al 30 agosto con 11 mila casi ogni 24 ore.
Non sono numeri casuali, ma le stime provenienti dal report riservato messo a disposizione del governo in queste ore e di cui il Corriere riporta i punti principali.
La situazione epidemiologica italiana viene messa a confronto con quanto sta succedendo negli Paesi, in particolar con il Regno Unito, dove la variante Delta ha già avuto modo di provocare una pericolosa impennata di casi.
L’ondata prevista in Italia per la fine dell’estate andrebbe a coincidere con la ripresa delle attività lavorative e scolastiche, in un periodo dunque di ulteriore riapertura generale. La risalita della curva non avrebbe, secondo gli esperti, le stesse gravissime conseguenze delle ondate precedenti grazie alla presenza dei vaccini, ma porterebbe comunque a effetti pesanti.
Questo considerando soprattutto due nodi fondamentali: l’elevata contagiosità della mutazione Deltae i milioni di over 60, e quindi fragili, che ad oggi risultano senza neanche la prima dose di vaccino anti Covid. Un pericolo per la ripresa non solo dei contagi ma anche della pressione ospedaliera.
L’Italia cerca poco il virus
La relazione riservata sul tavolo del governo parla di «un continuo calo dei tamponi che porta al ribasso i nuovi positivi individuati». Uno dei punti più critici della gestione emergenziale di questa fase epidemiologica è proprio questo: nonostante il tasso di incidenza sia ora finalmente tanto basso da permettere il tracciamento dei casi e quindi l’individuazione capillare del virus sul territorio nazionale, l’Italia non lo sta cercando abbastanza. A confermare quanto si legge nel documento riservato è stato giorni fa anche lo stesso presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta che, commentando il consueto monitoraggio settimanale, ha chiaramente spiegato quanto «l’attività di test continui ad attestarsi su numeri troppo bassi con conseguente sottostima dei nuovi casi e insufficiente tracciamento dei contatti».
Gli attuali numeri di positivi riportati dai bollettini nazionali sarebbero dunque al ribasso. Una notizia che preoccupa gli esperti soprattutto per una curva di positivi che incomincia a risalire. Nella prima settimana di luglio «c’è stato un incremento di nuovi casi pari al 13% nonostante il progredire della campagna vaccinale», si legge nella relazione. Senza contare le notizie di focolai che continuano a spuntare in diversi punti del Paese, frutto di viaggi, comportamenti irresponsabili e vaccinazioni ancora assenti. Per tutti questi motivi il tracciamento dei casi è in questo momento uno degli unici modi per impedire la veloce diffusione di un virus che ad oggi sembra tutt’altro che sconfitto.
Servono 300 mila test al giorno ma ne facciamo 80 mila
Secondo gli esperti, «un tracciamento efficace prevede di effettuare almeno 300 mila test al giorno per non sottovalutare il rialzo che avverrà nelle prossime settimane, con l’80% di molecolari». Un numero ben lontano dai 70/80 mila tamponi segnalati dal 1° di luglio ad oggi. Meno persone testate equivalgono a meno eventuali focolai individuati e a un virus che in questo modo può tornare a circolare in maniera indisturbata. «Il vero nodo è quale riflesso avrà l’innalzamento dei contagi in termini di ospedalizzazioni e decessi» spiega il ministro della Salute Speranza, «rispetto agli altri Paesi già fortemente colpiti dalla variante Delta noi per fortuna siamo indietro, quindi possiamo osservare quel che accade altrove». Lo scarto di tempo tra la notizia della diffusione all’estero e l’effettivo dominio della mutazione su territorio nazionale si rivela fondamentale, così come nel caso della variante Alfa o “inglese”, che però ci colse impreparati. Continuare a tracciare e a sequenziare così poco non è certo il modo per approfittarne.
(da Open)
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