Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile “NEMMENO UN APERITIVO IN SANTA PACE. IERI SERA HO SUBITO L’ENNESIMA VIOLENTA AGGRESSIONE VERBALE DA PARTE DI UN MANIPOLO DI NO VAX. È L’ENNESIMA DIMOSTRAZIONE CHE È IL LORO SCOPO È SOLO QUELLO DI FOMENTARE ODIO“
L’orrore, la violenza e la vergogna dei no-vax ancora una volta vanno a colpire Matteo Bassetti, il virologo genovese da tempo sotto sorveglianza per le minacce, anche di morte, ricevute dalla galassia anti-vaccino.
L’ultima denuncia del direttore del reparto Malattie infettive del San Martino di Genova arriva direttamente da Instagram, nella tarda mattinata di domenica 20 febbraio: Bassetti rivela l’ultima aggressione subita, il tutto mentre si trovava insieme alla moglie, Maria Chiara Milano Vieusseux. Non a caso, a corredo del post, una foto in cui l’esperto si mostra insieme proprio alla consorte.
“Nemmeno un aperitivo in santa pace – premette Bassetti – Ieri sera ho subito l’ennesima violenta aggressione verbale da parte di un manipolo di no vax no greenpass, o quello che erano, mentre ero seduto ad un tavolino in via XX Settembre, la principale via di Genova per un aperitivo con mia moglie. Un attacco vile, gratuito, in una contesto della mia vita privata in cui, l’unica mia colpa, era quella di godermi il venerdì sera nel centro cittadino”, rivela un esasperato Bassetti.
“Questi personaggi con un attacco simile (al grido di Bassetti vattene da Genova) per l’ennesima volta dimostrano quanto poco gli importi del vaccino, della salute, del benessere sociale, in quanto il loro scopo è soltanto quello di fomentare odio nei miei confronti e di tutti i sanitari e turbare la tranquillità dei cittadini”, aggiunge.
Chi mi attacca è un imbecille e mi auguro che la giustizia faccia presto il suo corso», dice Bassetti a Open aggiungendo, però, di sentirsi deluso dai tempi della giustizia «troppo lenta».
«Se si fosse provveduto a prendere decisioni in tempo, a fare processi rapidi, magari non saremmo arrivati a questo punto. Queste persone pensano di restare impunite, insultano perché sanno bene che tanto non gli faranno mai niente. E’ un attacco vile e gratuito». Insomma, racconta il medico, le denunce le ha fatte, anche spesso, ma inutilmente: «Tutto inutile, neanche i processi sono iniziati nonostante la mia prima denuncia risalga a gennaio 2021», precisa. C’è sicuramente, ma è ancora in corso, l’inchiesta della procura di Genova che ha indagato 36 persone accusate di stalking di gruppo e minacce. Bassetti, in un’occasione, ha ricevuto 50 telefonate in una notte; più volte è stato preso di mira dai gruppi Telegram dei No Green pass e dei No vax che pubblicavano in chiaro il suo numero di cellulare. Ad agosto è stato addirittura aggredito in strada e infatti per lui è stata disposta una vigilanza attiva rinforzata, ma a quanto pare, però, non basta. «Continuerò a lottare per quei valori di libertà, anche di espressione, che mi hanno sempre animato. Avanti a testa altissima», conclude.
(da Open)
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile “IL MOVENTE È TALMENTE INSULSO CHE PRATICAMENTE NON ESISTE”, DICONO GLI INVESTIGATORI ALLIBITI… LA RAGAZZA È STATA OPERATA, PER I FRATELLI ORA SI APRONO LE PORTE DEL CARCERE
«Il movente è talmente insulso che praticamente non esiste», dice allibito un
investigatore. Screzi, litigi, ripicche. Niente che possa spiegare una simile ferocia. Due gemelli di 17 anni hanno colpito la sorella ventiduenne mentre dormiva, prima a calci e pugni, poi con una mazza da baseball (che è stata trovata dai carabinieri nell’abitazione) e successivamente con un coltello da cucina e un’ascia.
Poi hanno urlato, svegliando i genitori che dormivano in un’altra ala della casa e sono scappati in strada, dove sono stati fermati poco dopo dai carabinieri.
È accaduto venerdì notte in un’abitazione di Polaveno in provincia di Brescia, in una famiglia del posto. «Un nucleo normalissimo, gente per bene. Tutti incensurati», raccontano gli abitanti del paese dove si conoscono tutti, meno di 2500 abitanti a cavallo tra la Valtrompia e il Lago di Iseo.
I gemelli sono stati arrestati con l’accusa di tentato omicidio aggravato dai futili motivi, la sorella invece è ricoverata in ospedale ed è stata sottoposta a un primo intervento chirurgico. Dovrà tornare in sala operatoria una seconda volta, ma fortunatamente non è in pericolo di vita nonostante l’aggressione brutale.
È arrivata alle quattro del mattino agli Spedali civili accompagnata dalla madre, con gravi ferite da arma da taglio al braccio sinistro (segno del suo disperato tentativo di difendersi) e alla schiena.
Inoltre parecchi ematomi e ferite in volto. In ospedale è curato, e controllato a vista dai carabinieri, anche uno dei due fratelli che durante la colluttazione si è ferito a una mano e anche lui dovrà essere operato.
Per loro ora si aprono le porte del carcere. Inizialmente sembrava dovessero essere portati al Beccaria di Milano, ma causa dei distanziamenti imposti dal Covid la struttura non riceve nuovi detenuti.
I due gemelli, prima quello che non ha riportato conseguenze e poi nei prossimi giorni anche il ragazzo ora piantonato in ospedale, potrebbero essere portati nel carcere minorile di Firenze.
I gemelli hanno confessato e sono stati interrogati dal pubblico ministero della Procura di Brescia applicato a quella dei minori Maria Cristina Bonomo. Studenti in un istituto professionale – anche se uno dei due ragazzi si era ritirato ad inizio febbraio – non sarebbero entrati nel dettaglio del movente.
Alla base del tentativo di omicidio della sorella ci sarebbero questioni banali che hanno lasciato senza parole gli inquirenti. Il pm ha secretato gli atti, a tutela prima di tutto dei due arrestati che sono ancora minorenni.
Il racconto dei due gemelli è al vaglio della magistratura. «L’ho saputo dai siti dei quotidiani. Sono sotto choc», è stato il primo commento del sindaco di Polaveno, Valentina Boniotti. «Ci conosciamo tutti e la famiglia coinvolta – ha sottolineato – è davvero composta da persone per bene».
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile L’IMMUNOLOGA VIOLA: ”MONITORARE E PREPARARSI”
Un gruppo di scienziati dell’Istituto Pasteur di Parigi e dell’Istituto Pasteur del Laos a Vientiane hanno identificato nei pipistrelli tre nuovi Coronavirus che mostrano «somiglianze specifiche» al Sars-CoV-2 responsabile della pandemia di Covid-19.
Le similarità sono state individuate «in un dominio chiave della proteina Spike», che permette al virus di attaccare le cellule bersaglio agganciando il recettore umano ACE-2, che è la principale porta che usa il virus per entrare nel nostro organismo.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, è rimbalza sui media internazionali, mettendo in guardia contro nuovi eventuali rischi futuri per la salute globale.
Coronavirus nei pipistrelli, il commento dell’immunologa Viola
I tre Coronavirus appena individuati sono stati chiamati Banal-52, Banal-103 e Banal-236. Appaiono tutti estremamente simili al Sars-CoV-2, soprattutto nella proteina Spike, ma in particolare il primo, al 96,8 per cento. La scoperta è stata commentata su Facebook da Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova: «Non risponde ancora a tutte le domande aperte, ma rafforza ulteriormente l’ipotesi dell’origine naturale del Sars-CoV-2», ha detto, facendo riferimento appunto al ruolo cruciale che il pipistrello potrebbe aver avuto nello scoppio della pandemia.
«Tuttavia, allo stesso tempo, ci conferma che molti altri virus sono già pronti a fare il salto di specie e infettarci», ha proseguito l’esperta, che tra l’altro vive sotto scorta dopo aver ricevuto minacce da no vax.
«Bisogna quindi non solo monitorare l’evoluzione dei Coronavirus da vicino, per evitare di essere colti impreparati. ma anche effettuare quei cambiamenti strutturali nella nostra sanità che ci avrebbero consentito una gestione migliore dell’emergenza. Bisogna imparare la lezione».
Coronavirus nei pipistrelli, il passaggio all’uomo sarebbe possibile
Nel corso della ricerca sono stati testati 645 pipistrelli, appartenenti a 46 specie diverse, catturati nelle caverne del nord del Laos. Rispetto al ceppo originale di Wuhan, i nuovi virus si sono dimostrati capaci di legarsi in modo più efficiente ad Ace-2: la presenza in natura di virus così simili al Coronavirus della pandemia rende possibile il passaggio diretto del virus dal pipistrello all’uomo, senza il transito intermedio in un altro animale.
(da tag43.it)
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile SPERANZA: ”IL VIRUS NON PRENDE L’AEREO E VA VIA PER SEMPRE”
Lo stato d’emergenza per la pandemia di Coronavirus scade il 31 marzo. E oggi, parlando
con Repubblica, il ministro della Salute Roberto Speranza fa capire che potrà essere superato. Ma conservando alcune “difese” che abbiamo imparato a conoscere in questi due terribili anni di emergenza sanitaria: Green Pass e mascherine al chiuso.
«Il mio è un messaggio di fiducia: se la tendenza di riduzione della curva continua, lavoreremo nelle prossime settimane per superare lo stato d’emergenza. Ma il Covid non prende l’aereo e va via il 31 marzo. Possiamo decidere formalmente di superare l’emergenza, penso che ci possano essere le condizioni per farlo, ma alcune cose dovremo conservarle. Il Green pass è stato ed è un pezzo fondamentale della nostra strategia. Le mascherine al chiuso sono ancora importanti: non riesco a vedere un momento X in cui il virus non esiste più e cancelliamo insieme tutti gli strumenti», dice il ministro.
Il green pass e la quarta dose
Per Speranza il 2022 «è l’anno cruciale per capire se torneremo a un vita pienamente normale. Sono ottimista, ma la partita non è chiusa. Tra pochi mesi, un pezzo di mondo entrerà nell’autunno: osservandoli, capiremo cosa ci aspetta. A marzo parte la quarta dose per gli immunocompromessi, ma dovremo valutare il richiamo per tutti dopo l’estate. È da considerare probabile, perché il virus non stringe la mano e se ne va per sempre. Purtroppo». E il Green pass, a oggi, ha consentito all’Italia di raggiungere percentuali di popolazione vaccinata tra le più alte al mondo. C’è un’alternativa? «Non ho una risposta, per questo sono prudente sul Green Pass. È ovvio che misure del genere devono avere una temporaneità, ma dire ora – con 60 mila casi al giorno – che l’impalcatura va smantellata, beh, penso sia un errore». Speranza ripete che «tutte le attività resteranno aperte. Nell’inverno 2021 l’Austria faceva il lockdown: l’Austria, che quasi riusciamo a vederla se ci affacciamo da qui. Lo stesso in diversi Lander della Germania. Noi abbiamo lasciato aperta la scuola e quasi tutto il resto. Con un Green Pass solido abbiamo piegato l’ondata senza chiusure generalizzate. Adesso sento dire: riaprite! Domando: ma cosa, se è già praticamente tutto aperto? Non è un caso se l’economia dell’Italia sia cresciuta del 6,5%, più della media Ue», dice il ministro.
Il lockdown
La pandemia, a oggi, scrive ancora Repubblica, è costata all’Italia 24 miliardi di euro di spesa sanitaria per farmaci, vaccini e personale. Speranza ripercorre questi ultimi due anni. «Il lockdown fu una scelta inevitabile». Guardava una partita alla tv, racconta, in quel terribile 20 febbraio 2020. «Squilla il telefono, è l’assessore alla sanità della Lombardia. Mi dice: c’è un primo caso a Codogno. Nella mia vita esiste un prima e un dopo quella telefonata. In quel preciso momento finisce la speranza coltivata dall’Occidente: il Covid non è come la Sars, non riusciremo a impedirne l’arrivo, è già tra noi. Decido subito di partire. Firmo le prime ordinanze. Poco dopo arriva l’altra notizia: il primo morto a Vo’ Euganeo». La prima vittima, di una conta terribile che arriva oggi a quasi 153mila vite perdute.
Ora il paese ha voglia di normalità. «Siamo dentro un percorso e dobbiamo continuarlo, ma tenendo i piedi per terra. Sappiamo che con il 91% di over 12 vaccinati e la variante Omicron c’è un contesto diverso. Ma serve gradualità», dice Speranza. Il lockdown allora era «inevitabile». «Molti hanno cambiato linea dieci volte: apriamo, chiudiamo, vacciniamo, anzi no. Io ne ho sempre avuto una sola: l’evidenza scientifica. La storia ci ha detto che non c’era alternativa al lockdown». Alle critiche sulla gestione dei primi focolai nel bergamasco Speranza risponde: «Nessuno conosceva il virus. C’erano solo parziali informazioni dalla Cina. Non mandammo subito le camionette a chiudere tutto il Paese, provammo a circoscrivere l’area, ma ci rendemmo conto che il virus era già altrove, nelle province di Piacenza, Bergamo, Brescia. La scelta del lockdown nazionale ha evitato che la prima ondata arrivasse al Sud, salvando molte vite: questa è la verità».
Il paese era preparato? Spesso si ricorda che l’Italia non aveva aggiornato il piano pandemico. «Ma chi lo era nel mondo? Nessuno – neanche noi – aveva un manuale d’istruzione. Per l’Italia penso che il punto sia stato uno: affrontiamo da sempre grandi calamità naturali come terremoti e alluvioni, ma non avevamo tradizione per gestione di un’emergenza sanitaria di lunga durata come questa», dice il ministro. E lo stato della Sanità non ha aiutato. «È quello che ho fatto, in questi due anni: 20 miliardi del Pnrr sulla sanità, il Fondo sanitario nazionale aumentato di 10 miliardi in 24 mesi, per la prima volte un Programma operativo nazionale per la salute». Resta il vaccino come spartiacque. «Negli ultimi due mesi abbiamo avuto più positivi del resto della pandemia, eppure le terapie intensive si sono fermate a 1.700 pazienti», ragiona Speranza, oggi tra i volti politici più noti. Tanti suoi omologhi, in altri paesi, hanno lasciato. «A volte è stata durissima, soprattutto marzo del 2020. Ma in nessun passaggio mi sono sentito solo: avevo al mio fianco la comunità scientifica italiana, il governo e il sorriso dei miei figli. Devo essere onesto, non ho mai pensato di mollare. Neanche per un istante».
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile LA LEGIONE GEORGIANA DI KIEV COORDINA LA DIFESA TERRITORIALE, PRONTI AD AZIONI DI GUERRIGLIA: ”NON ABBIAMO PAURA DI MORIRE PER LA NOSTRA PATRIA”
«La Legione georgiana è al fianco dell’Ucraina per combattere i russi. Abbiamo aperto l’arruolamento una decina di giorni fa e stanno arrivando un centinaio di richieste al giorno da tutto il mondo. Cinque italiani, ex militari, vogliono unirsi a noi per addestrare i volontari e aiutare gli ucraini a difendere la libertà del loro paese» rivela Mamuka Mamulashvili, barba ben curata capelli a spazzola e giubbone nero «US Army» regalato da un amico.
Al centro dello stendardo bianco della Legione, nata nel 2014, svetta un lupo. Il comandante aggiunge che «gli italiani dovrebbero arrivare molto presto, in questi giorni, se non bloccano i voli» come è già stato annunciato da lunedì.
Alle sue spalle sventola la bandiera crociata della Georgia in mezzo ad una specie di campo sportivo all’aperto, dove vengono addestrati i civili, che sono pronti a combattere se i russi invaderanno il paese.
I veterani georgiani sono 200, in gran parte sul fronte del Donbass. Quelli rimasti a Kiev come istruttori fanno avanzare le reclute in mezzo alla sterpaglia o sul terreno ghiacciato simulando un’imboscata e la risposta al fuoco.
La brigata è diventata internazionale con l’arrivo di americani, inglesi, albanesi e anche un indiano. Molti sono ex soldati e fra i georgiani alcuni non si fanno fotografare perché, ammettono gli stessi combattenti, «sono ricercati dall’Fsb», i servizi segreti russi.
William si copre il volto con una sciarpetta militare, che non nasconde l’accento americano: «Sono arrivato da un paio di giorni. La Legione recluta in tutto il mondo. Addestriamo i volontari alle tattiche sul campo di battaglia. Io ero nell’esercito Usa e terrò le lezioni di primo soccorso».
Il giovanotto in mimetica da combattimento viene dalla California e all’ingresso della «base», alla periferia della capitale, sventolano la bandiera a stelle e strisce e quella georgiana.
Dasha Khomenko è un’affascinante bionda di 23 anni con gli occhi verdi, che indossa per la prima volta un giubbotto militare con lo stemma di un teschio sulla spalla. «Voglio combattere contro i russi come hanno fatto i georgiani. Non scapperò e non ho paura di morire per la mia patria» garantisce la volontaria.
Ad un’ora di macchina da Kiev, dopo essere sbucati da una fitta foresta, altre centinaia di riservisti e volontari si addestrano in uno scenario post Chernobyl in mezzo a scheletri in cemento di vecchi stabilimenti.
Ogni sabato, dopo la settimana lavorativa, tirano fuori la mimetica, gli anfibi ed i kalashnikov se hanno già servito nell’esercito oppure usano sagome in legno di fucili mitragliatori se sono alle prime armi. E avanzano in colonne, dividendosi in squadre sotto il comando di ex sergenti di ferro, per prepararsi alla guerra.
Vasily Grigoruk, 28 anni, è un imprenditore, che fa parte della difesa territoriale, una brigata per ogni distretto del paese. «Anche se civili in caso di emergenza siamo i primi ad arrivare per aiutare l’esercito a proteggere il nostro paese e gli ultimi ad andarsene», spiega con il fucile d’assalto a tracolla e porta munizioni piene sui fianchi. «Più ci addestriamo e prepariamo – dichiara in perfetto inglese – e meno possibilità avrà la Russia di invaderci».
Una ragazza con occhiali balistici si rotola nel fango eseguendo i comandi. Altri volontari si inginocchiano puntando i fucili a destra e a sinistra, come se il nemico fosse alle porte. Un riservista porta uno scudetto sull’uniforme che non lascia dubbi: «Mia madre è l’Ucraina e mio padre Bandera», l’eroe ultranazionalista che aveva dato del filo da torcere ai sovietici anche dopo la fine della seconda guerra mondiale con i partigiani annidati nell’ovest del paese. Mosca lo vede come fumo negli occhi.
Lo stemma sulla mimetica di un altro volontario raffigura la morte con la falce, che in bicicletta si dirige verso il Cremlino in fiamme.
La difesa territoriale, che al fianco dell’esercito, dovrebbe fermare i russi è composta pure da casalinghe, studenti, impiegati pubblici, informatici pronti ad imbracciare le armi. E conta su un testimonial d’eccezione, Taras Topoly, della banda musicale amata dai giovani, «Antytila», che rilancia video invitando alla mobilitazione generale. «Anche mia madre e donne anziane vogliono far parte della difesa territoriale – racconta un veterano della guerra nel Donbass – Sappiamo che a voi sembra incredibile, ma noi crediamo veramente che i russi ci invaderanno e siamo pronti a resistere».
(da agenzie)
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile “OBIETTIVO E’ TENERE ALTA LA PRESSIONE SULL’UCRAINA, PUTIN SI CIRCONDA DI EX AGENTI DEL KGB”
“Putin non ragiona come noi. Vuole mostrare che i regimi vincono”. A dirlo è Michael
McFaul, ex ambasciatore Usa a Mosca e ex consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca sulle pagine del Corriere della Sera.
A chi gli domanda se, posta l’ipotesi che Putin non voglia la guerra, è possibile che possa tenere le truppe al confine per danneggiare l’economia dell’Ucraina e dividere il Paese, McFaul replica: “È uno scenario che mi preoccupa. Putin controlla il bilancio, controlla tutto. Può tenere le truppe per un po’, ritirarle e rimandarle… Il punto è tenere alta la pressione sull’Ucraina, cosa che penso farà per il resto dei suoi giorni da presidente. La pressione sull’economia ucraina è forte. Se Putin invade, questo causerà tensioni nella società ucraina; Zelensky ha buone ragioni per cercare di mantenere la calma, ma se scoppia la guerra i suoi critici, che già dicono che non sta preparando il Paese abbastanza, alzeranno la voce”.
Per McFaul tutto questo fa parte dell’agenda di Putin che “vuole veder fallire questo governo e la democrazia ucraina, in modo da poter dire al suo popolo e al mondo: le democrazie non funzionano, i regimi come il mio sì”.
Alla domanda “Putin teme di più l’adesione alla Nato o all’Ue?”, l’ex ambasciatore Usa a Mosca replica: “La precedente crisi in Ucraina è stata scatenata dall’accesso nel lungo periodo all’Ue, non alla Nato. La più grande paura di Putin è un’Europa democratica fiorente che includa l’Ucraina, perché scalza la tesi con cui cerca di legittimare il suo regime autocratico davanti al popolo russo”.
L’altro interrogativo che viene posto a McFaul è se ci siano indicazioni che la minaccia di sanzioni stia funzionando. A questo, la replica è: “È un’ottima domanda e non ho un’ottima risposta. Putin non incontra più i suoi consiglieri per l’economia, i cosiddetti oligarchi, come faceva all’inizio della sua carriera. Questo significa che coloro che vogliono fare pressioni contro la guerra non hanno molte occasioni per provarci. Sono tutte persone che conosco bene, con cui interagivo quando ero ambasciatore: il loro accesso con il Cremlino stava sfumando già allora, mentre aumentava il peso dei falchi, i siloviki, gli ex agenti del Kgb la cui influenza è in ascesa da anni”.
(da agenzie)
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile L’ANALISI DI UN GIORNALISTA IN PRIMA LINEA
“Un giorno in pretura”, un programma che andava su Rai3, era nato nel 1988. Dava in diretta i processi di competenza pretorile, cioè per reati la cui pena massima non superasse i quattro anni. Insomma reati quasi bagatellari.
Fine febbraio 1992. Io lavoravo all’Indipendente di Feltri, ma in quei giorni ero in vacanza nella casa di proprietà dei genitori della mia fidanzata. Una sera il padre di lei, che come tutti gli anziani passava ore davanti al piccolo schermo, mi venne a cercare e mi disse: “Vieni a vedere la tv, c’è una trasmissione interessante, curiosa”. Andai e vidi qualcosa che allora aveva dell’incredibile. Un noto politico democristiano alla sbarra, messo sotto il torchio da un tipo massiccio, atticciato, dall’aria contadina, il Pubblico ministero.
Era Antonio Di Pietro. Fu una trovata geniale quella di Francesco Saverio Borrelli, che dirigeva la Procura di Milano e il gruppo di magistrati che sarebbe stato poi chiamato “il Pool di Mani Pulite” – che allora comprendeva solo Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro (Ilda Boccassini, Davigo, Greco si aggiunsero dopo) –, di affidare gli interrogatori in aula, tutti quelli che potemmo vedere in tv, proprio a Di Pietro.
Agli indagati che cercavano di difendersi col solito, fumoso, politichese, Di Pietro opponeva il suo buonsenso contadino e a quel politichese totalmente fuori dalla materia del contendere replicava col suo famoso: “che c’azzecca”? Vedemmo sfilare una serie di intoccabili con tutta la loro miseria.
A me colpì molto l’interrogatorio di Claudio Martelli, uscito dalla casa di Carlo Sama con 500 milioni in contanti nascosti in un giornale. Claudio era stato mio compagno di banco al liceo classico Carducci. Ma come, dicevo fra me, noi siamo stati educati nei migliori licei di Milano per diventare classe dirigente e tu sgattaioli con 500 milioni in tasca come un malandrino qualunque. Ricordo lo sguardo di Martelli rivolto a Di Pietro. Era di ghiaccio. Se avesse potuto ucciderlo, almeno col pensiero, l’avrebbe fatto. Martelli aggravò la sua posizione affermando che pensava che quei 500 milioni non fossero della Montedison ma personali di Sama. Martelli ne uscirà con un “patteggiamento”, restituendo quei 500 milioni.
Mani Pulite ebbe all’inizio un grande consenso da parte della popolazione, stufa dell’arroganza impunita della classe dirigente, e anche della grande stampa che aveva la coda di paglia per aver taciuto e assecondato il regime. Ma ebbe anche un eco internazionale. Si plaudiva all’Italia che aveva il coraggio di ripulire in pubblico i propri panni sporchi.
Certamente ci furono degli eccessi in quei due anni. Ma non da parte della Magistratura. Bensì da parte di una popolazione inferocita presa dalla sindrome ben descritta da Buzzati in Non aspettavano altro (le monetine lanciate a Craxi davanti al Raphael, l’inseguimento del ministro degli Esteri Gianni De Michelis fra le calli di Venezia).
Per accanimento forcaiolo si distinse proprio Feltri (diventerà “ipergarantista” quando passerà alla corte di Berlusconi): la foto di Enzo Carra in manette sbattuta in prima pagina, l’appellativo di “cinghialone” affibbiato a Bettino Craxi trasformando così una legittima inchiesta della magistratura in una “caccia sadica”, il coinvolgimento dei figli di Craxi. Toccò a me, sempre sull’Indipendente difendere loro (“Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi” – L’Indipendente, 11-5-1992 ) e in qualche modo lo stesso Craxi nel momento della sua caduta, quando improvvisati fiocinatori, fra cui eccellevano alcuni suoi amici, si accanivano sulla balena ferita a sangue (“Vi racconto il lato buono di Bettino” – L’Indipendente, 17-12-1992).
Uno dei tanti errori di Craxi fu definire Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante il 17 febbraio 1992 mentre buttava una mazzetta nel cesso, un “mariuolo”, come se si trattasse di una mela bacata in un cesto di mele immacolate.
Se avesse fatto in quel momento la chiamata di correità di tutti i partiti avrebbe avuto un valore, farla in Parlamento cinque mesi dopo nel luglio del 1992, quando era stato pescato lui stesso con le mani sul tagliere, era troppo comodo.
Passata la prima buriana, la classe politica cercò di reagire, col famoso decreto “salvaladri” del ministro della Giustizia Biondi (primo governo Berlusconi) che metteva in libertà numerosi detenuti di Tangentopoli. Ma era troppo presto. Il decreto fu ritirato per la reazione popolare e perché i quattro magistrati Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in tv affermando che se le cose stavano così avrebbero chiesto di essere assegnati ad altro incarico.
Il più astuto a cercare di approfittare della situazione fu Berlusconi. Prima cercò di lisciare il pelo ai magistrati offrendo a Di Pietro, che la rifiutò, la carica di ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro diverrà poi nel linguaggio berlusconiano “un uomo che mi fa orrore”) poi, inquisito a sua volta, innescherà la reazione attaccando senza soste i magistrati di Mani Pulite e la Magistratura in generale, suonando la grancassa dell’anticomunismo perché a essere spazzati via dalle inchieste furono la Dc, il Psi, il Pli, il Pri, mentre il Pci si era in qualche modo salvato, perché il compagno Primo Greganti arrestato si rifiutò, in perfetto e coerente stile vecchio Pci, di fare qualsiasi nome, di imprenditori e tantomeno di uomini del suo partito.
Durante gli anni della reazione berlusconiana il fuoco di fila si concentrò soprattutto su Antonio Di Pietro, messo sette volte sotto processo e sette volte assolto.ù
Perché fu possibile Mani Pulite? I suoi presupposti vengono da lontano. Col collasso dell’Urss era venuta meno la paura dell’“orso russo” e quindi anche il detto di Montanelli secondo il quale era necessario votare la Dc (“turatevi il naso”).
Nel frattempo era nata la Lega di Umberto Bossi, il primo, vero, partito d’opposizione dopo anni di consociativismo, perché il Pci era stato appunto associato al potere. Se quindi prima era possibile innocuizzare i magistrati che cercavano di ficcare il naso nella corruzione politico-imprenditoriale senza che nessuno osasse alzare una voce, adesso questa voce c’era e si chiamava Lega. E al Nord, che era particolarmente colpito dalla corruzione, la Lega prendeva il 40 per cento dei consensi, non solo provenienti dalla Dc, e non si poteva ignorarla. Prima della nascita della Lega, il sistema per paralizzare le inchieste era quello di farle finire alla Procura di Roma, non a caso chiamata “il porto delle nebbie”, che regolarmente le insabbiava.
Oggi, a trent’anni di distanza, si cerca di capovolgere completamente la storia di Mani Pulite. S’inventano tesi molto fantasiose come quella che vede dietro Mani Pulite gli americani.
Non si vede proprio perché mai gli americani volessero la distruzione di partiti atlantisti a favore dell’unico partito che atlantista non era, il Pci-Pds. E ci fermiamo qui perché le fake in materia sono innumerevoli.
È vero invece che Mani Pulite non ha cambiato l’Italia in meglio, ma in peggio. Ma questa non è responsabilità dei magistrati di Mani Pulite, ma della politica. Mani Pulite, che richiamava anche la classe dirigente al rispetto di quella legge che noi tutti siamo tenuti ad osservare, avrebbe potuto essere una lezione e un’occasione per questa stessa classe dirigente per emendarsi dalla propria corruzione.
E invece nel giro di pochi anni, per la politica ma anche per i grandi giornali, i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Non c’è quindi da stupirsi se, con simili esempi, la corruzione discendendo giù per li rami abbia finito per coinvolgere quasi tutti, anche cittadini che per loro natura sarebbero onesti ma che non vogliono passare per “i più cretini del bigoncio”, e insinuarsi in ogni ambito della nostra vita istituzionale e sociale, compresa la stessa Magistratura. E così il cerchio si chiude.
Massimo Fini
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile IMPEGNATO PER I GIOVANI, A LUI SI DEVE UNA CITTADELLA DELLA SCIENZA DI NOVEMILA METRI QUADRATI
Ieri, 19 febbraio, è morto a Bologna l’industriale e filantropo Marino Golinelli. Aveva 101
anni: imprenditore farmaceutico, negli anni si è occupato di diverse iniziative filantropiche come la costruzione dell’Opificio Golinelli, ovvero una cittadella della scienza di 9 mila metri quadrati dedicata soprattutto ai più giovani.
Golinelli è anche il fondatore di Alfasigma, società farmaceutica multinazionale italiana con sede a Bologna nata nel 2017. Alfasigma è stata partner di Open in un contest che ha assicurato una borsa di lavoro di un anno a una giovane giornalista, Giada Giorgi, nella sede di Milano. Borsa di lavoro che, poi, si è trasformata in un contratto a tempo indeterminato.
Chi era Marino Golinelli
Golinelli ha brevettato farmaci come il vaccino Salvioli contro la tubercolosi, il Vessel e il Normix. Figlio di agricoltori del Modenese, si è laureato in Medicina e ha creato il suo laboratorio già nel 1948. Appena tre stanze che presto si sarebbero trasformate addirittura in una multinazionale.
Nel 1988 ha fondato la sua Fondazione che si occupa di educazione, formazione e cultura soprattutto per i giovani. Nel 2015 ha inaugurato l’Opificio Golinelli, una splendida cittadella della scienza di 9 mila metri quadrati. Nel 2017 ha inaugurato il Centro Arti e Scienze, un parallelepipedo luminoso progetto da Mario Cucinella. Golinelli – già insignito di due lauree honoris causa e grande appassionato di arte – lascia la moglie e due figli.
Le reazioni
Per Pier Ferdinando Casini Golinelli «è stato un uomo straordinario che ha amato la sua città, Bologna, e il suo Paese, l’Italia. Ma soprattutto ha amato sognare e progettare per i giovani, dando loro opportunità e occasioni di crescita indipendentemente dalle loro condizioni personali. È stato un visionario a cui Bologna deve molto».
«La sua Fondazione – ha spiegato – è un esempio conosciuto in tutta Italia. Se n’è andato dopo una lunga vita e di lui ricorderemo sempre il suo sorriso intelligente e disincantato, il suo amore per l’arte, la sua giovanile curiosità che non lo ha mai abbandonato neppure negli ultimi mesi», ha aggiunto.
Dello stesso avviso anche il sindaco di Bologna Matteo Lepore: «A Marino Golinelli Bologna deve enorme gratitudine. Sostenitore del Teatro comunale e di numerose altre progettualità artistiche e culturali. L’Opificio che porta il suo nome, il sostegno alla ricerca, all’innovazione, alla formazione dei giovani in modo nuovo e diffuso. Il mondo di Marino era una porta aperta sul futuro e grazie alla sua saggezza e generosità continuerà ad esserlo».
«Durante la pandemia, un giorno lo andai a trovare a casa. Dopo avermi raccontato un secolo di vita, straordinaria, disse con uno sguardo entusiasta e brillante: “io credo nell’uomo sappilo e nella conoscenza”. Questa per lui doveva essere la missione di Bologna nel mondo, senza paure. A lui ho fatto una promessa, che se fossi diventato sindaco mi sarei dedicato anima e cuore a questo obiettivo», ha concluso.
(da Open)
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Febbraio 20th, 2022 Riccardo Fucile FLOP A MILANO E TORINO
A manifestare contro il Green pass il sabato sono rimasti in pochi irriducibili, tra cui gli studenti universitari a Milano e qualche altro attivista più in là con l’età.
La protesta si è trasformata da un sit-in piazza Leonardo Da Vinci, vicino al Politecnico milanese, a un corteo improvvisato, bloccato subito dopo dalla polizia nella vicina via Pascoli.
Più folkloristica la protesta di Torino, dove sono stati bruciati alcuni Green pass stampati in piazza Castello. La citazione dei manifestanti va a scomodare le gesta di Giordano Bruno, del quale ricorre il 422mo anniversario dalla morte: «Ma oggi nelle fiamme del rogo bruciamo le certificazioni e non il libero pensiero per cambiare il corso della storia» hanno detto i manifestanti, accompagnati da un attore nei panni del filosofo.
Presente anche il leader del movimento «La Variante torinese» Marco Liccione: «Bruciare il Green pass è l’ennesimo sfogo della persone stanche di un governo incompetente che non è disposto ad ascoltare e confrontarsi»
(da agenzie)
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