Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile ANGELA MARAVENTANO AVEVA DETTO: “LA NOSTRA MAFIA ORAMAI NON HA PIU’ QUELLA SENSIBILITA’ E QUEL CORAGGIO CHE AVEVA PRIMA”
Era il 3 ottobre 2020 e dal palco dell’evento Noi con Salvini, a Catania, l’ex senatrice leghista Angela Maraventano pronunciò queste parole: «La nostra mafia ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono?».
Due giorni più tardi, anche grazie alla sollecitazione del deputato Stefano Candiani, allora commissario della Lega in Sicilia, Maraventano lasciò il partito.
A distanza di due anni e pochi mesi, la procura di Catania, con il pm Agata Consoli, ha chiesto la condanna a un anno a sei mesi di reclusione: la politica avrebbe commesso il reato di istigazione a delinquere.
Per l’accusa, Maraventano avrebbe fatto «un’apologia pubblica del delitto di associazione mafiosa». Il pretesto di quell’intervento, definito da Candiani «grave e ingiustificabile», era fornito dall’udienza preliminare del caso Gregoretti.
All’epoca Matteo Salvini era imputato sempre per la gestione dei flussi migratori in qualità di ministro dell’Interno. L’inchiesta si è conclusa con sentenza di archiviazione.
Per quanto riguarda il processo, con rito abbreviato, che vede coinvolta Maraventano, si sono costituite le seguenti parti civili: l’associazione antimafie Rita Atria e il giornalista Riccardo Orioles, rappresentati dall’avvocato Goffredo D’Antona, che hanno chiesto simbolicamente un euro di risarcimento danni; le associazioni Libera, con la penalista Enza Rando, e Dhelia, con il legale Nicola Condorelli Caff, che hanno annunciato la donazione in beneficenza a progetti sociali dell’eventuale risarcimento.
Secondo la ricostruzione della procura di Catania, contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio, Maraventano «parlando del tema dei flussi migratori, afferma che “questo governo abusivo, complice di chi traffica carne umana e c’è anche dentro la nostra mafia che ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più perché noi la stiamo completamente eliminando perché nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”».
Per la procura, con quelle frasi, l’ex senatrice avrebbe «riconosciuto alla mafia qualità, come sensibilità e coraggio ed un ruolo di controllo e tutela del territorio, contrapposto a quello dello Stato, di cui contestava l’azione di contrasto alle associazioni mafiose». L’inchiesta della procura, tra gli atti, include la denuncia presentata dall’associazione Rita Atria, la quale contesta anche le dichiarazioni successive fatte dall’ex leghista per giustificare le parole del comizio. «Una frase infelice dettata dalla rabbia e dal momento difficile che sta vivendo il nostro Paese, ma io mi sono sempre battuta contro tutte le mafie». Maraventano precisò anche che «per vecchia mafia intendevo la difesa del proprio territorio, nel senso del coraggio che potevano avere i nostri. Non mi riferivo alla mafia brutta, quella che ha ucciso i nostri valorosi».
(da Open)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile SONO 330.000 GLI ATTRAVERSAMENTI IRREGOLARI DELLE FRONTIERE EUROPEE, MA NON SONO NUMERI DA “INVASIONI”
Altro che Ong “pull factor”. Il governo Meloni-Piantedosi sta facendo
di tutto per cacciare dal Mediterraneo le navi Ong ma questa “guerra” non ha nulla a che vedere con l’obiettivo che, ufficialmente, si vorrebbe raggiungere: contenere i flussi migratori. Perché il vero “pull factor” è un altro….
Frontex sbugiarda il Governo securista
Secondo i calcoli preliminari, nel 2022 sono stati rilevati circa 330.000 attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Ue. Si tratta del numero più alto dal 2016 e di un aumento del 64% rispetto all’anno precedente. E’ quanto rende noto l’ultimo report di Frontex Dopo il minimo indotto dalla pandemia nel 2020, questo è stato il secondo anno consecutivo con un forte aumento del numero di ingressi irregolari.
La rotta dei Balcani occidentali ha rappresentato quasi la metà del totale. Siriani, afghani e tunisini hanno rappresentato insieme il 47% dei rilevamenti nel 2022. Il numero di siriani è quasi raddoppiato, raggiungendo le 94.000 unità, si legge nel report.
Il numero di rilevamenti nel Mediterraneo centrale, rispetto al 2021, è aumentato di oltre la metà, superando di gran lunga i 100.000 rilevamenti. “Egiziani, tunisini e bangladesi sono state le prime tre nazionalità in un anno che ha visto il maggior numero di arrivi in questa regione dalla Libia dal 2017 e il maggior numero di arrivi dalla Tunisia nella storia recente”, spiega l’agenzia europea.
Ma quale “invasione”…
Dati che vanno letti con grande accuratezza per poter poi trarre le giuste, perché corrette, conclusioni. E’ quello che fa su Wired.it Kevin Carboni. Annota Carboni: “Nonostante gli ingressi di migranti irregolari nel 2022 siano aumentati rispetto agli anni precedenti, i dati di Frontex, l’agenzia comunitaria che sorveglia le frontiere, mostrano come qualsiasi allarme “invasione”” propinato dai politici sia totalmente infondato e venga smentito da numeri estremamente bassi. Inoltre, anche l’idea secondo cui il maggior numero di migranti diretti in Europa arrivi in Italia, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, viene smentita dai fatti, che indicano invece la rotta dei Balcani occidentali come quella più battuta.
I flussi sono diminuiti
Secondo i dati preliminari dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, nel 2022 sono stati rilevati circa 330 mila attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Unione europea. Si tratta del numero più alto tra il 2017 a oggi, ma inferiore ai 500mila registrati nel 2016 e drasticamente più basso rispetto al record di quasi 2 milioni di ingressi irregolari registrati nel 2015, a causa della guerra civile tra il governo della Siria e gli integralisti islamici dell’Isis e di al-Qaeda.
Il nuovo picco è quindi in realtà parecchio più basso rispetto ai momenti di vera crisi migratoria e sembra alto solo rispetto ai livelli di ingressi irregolari registrati tra il 2017 e il 2021, che sono stati pochissimi e pari a circa 150mila ogni anno. Inoltre, come sottolinea Frontex, i dati forniti contano gli attraversamenti delle frontiere e non il numero esatto di migranti.
Questo significa che il numero di persone entrate in Europa è in realtà più basso, perché la stessa persona può aver passato il confine più di una volta. Mentre non sono stati considerati i circa 13 milioni di profughi causati dall’invasione russa dell’Ucraina, perché entrati in maniera regolare.
Insomma, nonostante i 300mila ingressi irregolari l’Unione europea non sta affrontando una crisi migratoria o un’invasione, termine allarmista e scorretto usato dalle destre europee a fini propagandistici. Al contrario, se paragonati all’intera popolazione europea, pari a 447 milioni di persone, i migranti arrivati quest’anno sono appena lo 0,07% del totale e, calcolando in eccesso, tutti i migranti arrivati dal 2017 a oggi sono appena lo 0,22% del totale
Quali sono le rotte più battute
Quasi la metà di tutti gli ingressi irregolari avvenuti nel 2022, esattamente il 45% del totale, sono avvenuti attraverso la rotta dei Balcani occidentali – cioè nella regione composta da Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia – con un incremento pari al 136% rispetto all’anno precedente, per un totale di 145.600. Tra le persone in arrivo, la maggior parte era di nazionalità siriana, afghana, turca o tunisina.
Un altro incremento pari al doppio dell’anno precedente è avvenuto anche nella rotta del Mediterraneo orientale – che riguarda gli arrivi in Grecia, Cipro e Bulgaria. Nel 2022 sono infatti avvenuti 42.831 ingressi irregolari nella regione, il 108% in più rispetto al 2021. Mentre nella rotta del Mediterraneo centrale – cioè verso Italia e Malta – l’aumento rispetto al 2021 è stato del 51%, per un totale di 102.529 persone, provenienti prevalentemente da Egitto, Tunisia, Bangladesh e Siria.
Questa percentuale si riflette anche sul numero di persone sbarcate in Italia. Secondo i dati del ministero dell’Interno, per esempio, nei due mesi successivi dall’insediamento del governo Meloni sono sbarcati sulle coste italiane quasi 23.400 migranti. Nello stesso periodo del 2021, durante il governo Draghi, gli sbarchi erano stati circa 12.600. Numeri che smentiscono fermamente le dichiarazioni rilasciate alla trasmissione L’aria che tira dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, secondo cui “la curva di crescita degli sbarchi è diminuita”, da quando Giorgia Meloni è diventata presidente del Consiglio.
Al contrario, la rotta del Mediterraneo occidentale – che riguarda gli arrivi in Spagna – ha conosciuto una discreta diminuzione della pressione migratoria nel 2022, con circa un quinto di rilevamenti in meno rispetto all’anno precedente, pari a soli 14.582 ingressi”.
Il “pull factor” si chiama meteo
E qui veniamo allo svelamento della fake governativa sulle Ong “pull factor”. Il merito va a il Post.
Che scrive: “Nei primi dieci giorni del 2023 sono sbarcati sulle coste italiane 3.709 migranti, un numero dieci volte superiore a quelli arrivati nello stesso periodo del 2022, quando furono appena 378.
In quei giorni, sia nel 2022 sia nel 2023, il tratto di mare fra la Sicilia e le coste del Nord Africa è stato presidiato dalle stesse due navi: la Geo Barents e la Ocean Viking, rispettivamente delle ong Medici Senza Frontiere e SOS Méditerranée.
A cambiare, a distanza di un anno, sono state le condizioni meteo nel tratto di costa della Tunisia da cui parte la maggior parte delle imbarcazioni di migranti.
Nel 2022 erano sfavorevoli per la navigazione: il vento soffiava fortissimo e le temperature erano assai basse, due condizioni che creano onde troppo alte per gommoni e piccole imbarcazioni. Nel 2023 invece il tempo è stato molto più mite, con livelli inusuali per i primi di gennaio e quasi ideali per la navigazione.
La differenza non è passata inosservata. Ormai da qualche tempo esperti di migrazione e persone impegnate nel soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale ritengono che il vero “pull factor”, cioè il fattore che condiziona maggiormente le partenze dalle coste dal Nord Africa, non sia la presenza delle navi delle ong, come sostenuto ancora oggi senza molte prove dal governo di Giorgia Meloni: bensì le favorevoli condizioni del meteo nei luoghi di partenza. «Le imbarcazioni partono quando c’è la possibilità di navigare: esattamente come i pescatori escono a pescare quando c’è bel tempo», spiega Riccardo Gatti, responsabile delle operazioni di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere.
«Se il mare è agitato mettere in mare un’imbarcazione è praticamente impossibile, è un problema fisico». Il sito di meteorologia Rp5 mostra che a Homs, in Libia, all’estremità orientale del golfo che inizia a Sfax, in Tunisia, nei primi dieci giorni del 2023 la velocità delle raffiche di vento era di circa un terzo rispetto a quella registrata nello stesso periodo del 2022. Sempre a Homs nel 2022 la temperatura media in quei dieci giorni era stata di 14,4°C, mentre nel 2023 è stata superiore di quasi due gradi, 16,3°C.
«Per le condizioni del mare anche una differenza di pochi gradi di temperatura cambia tutto», spiega Matteo Villa, ricercatore dell’ISPI esperto di migrazioni, uno dei primi a trovare una correlazione fra condizioni meteo e partenze di migranti dalle coste del Nord Africa.
Nel 2019 Villa stava lavorando a un articolo con Eugenio Cusumano, ricercatore di relazioni internazionali dell’università di Leida, nei Paesi Bassi, per capire se ci fosse una correlazione fra la presenza delle navi delle ong nel Mediterraneo Centrale e la partenza di migranti dalle coste del Nord Africa: il cosiddetto “pull factor” di cui si parla ancora oggi, più volte smontato in seguito dallo stesso Villa e da altri studiosi.
«All’inizio dello studio volevo capire quanto spostassero le ong in termini di numeri di partenze: intuitivamente pensavo fosse molto poco, non che fosse addirittura niente. Le ong sembrano avere un piccolo effetto di incentivo delle partenze, di fatto irrilevanti in termini assoluti, nei mesi invernali, quando le partenze sono già molto basse e tali restano. E nullo nell’arco di tutto l’anno». spiega Villa. «Accumulando dati, abbiamo verificato che erano solo due i fattori importanti a spiegare le partenze: le condizioni atmosferiche dei luoghi di partenza e le condizioni economiche dei paesi d’origine».
Villa e Cusumano si sono concentrati sulle prime, più facilmente misurabili rispetto alle seconde. In un grafico hanno messo le condizioni meteorologiche registrate nella stazione dell’aeroporto di Tripoli, in Libia, dando loro un punteggio da 1 a 14 (1 rappresenta le condizioni meteo peggiori, 14 le migliori), insieme ai numeri delle partenze giornaliere dalle coste della Libia. La correlazione è evidente: nei giorni di meteo migliore partono decine di persone, in quelli peggiori non parte praticamente nessuno, e la curva sale in maniera graduale col progredire delle condizioni meteo. Villa spiega che la correlazione rimane la stessa anche con i dati aggiornati fino al 2021.
Esaminando lo stesso periodo, cioè i primi dieci mesi del 2019, Villa e Cusumano hanno cercato correlazioni fra la presenza delle ong e il numero di partenze: come si vede nel grafico a sinistra qui sotto, non ne hanno trovata alcuna. In media, anzi, dalle coste libiche partivano in media più persone nei giorni in cui non c’erano navi delle ong nel Mediterraneo centrale.
Negli anni fra gli addetti ai lavori la percezione che le condizioni meteo condizionino parecchio le partenze dal Nord Africa si è solidificata. Da qualche tempo è comparsa anche nei documenti interni di Frontex, l’agenzia di controllo delle frontiere dell’Unione Europea. In un documento interno diffuso nel marzo 2021 e letto dal Post, si dice per esempio che «il flusso migratorio irregolare nel Mediterraneo Centrale continua ad essere condizionato dalle condizioni meteo in mare».
Una simile correlazione è stata osservata anche in altre zone di flusso migratorio in Europa: per esempio nel Canale della Manica, fra Francia e Regno Unito. Nel 2021 il sito specializzato InfoMigrants, parlando degli arrivi via mare sulle coste britanniche, scriveva che «un periodo di bel tempo coincide spesso con un aumento del numero di migranti che provano ad attraversare le acque fra Francia, Belgio e Regno Unito».
Gatti, il responsabile delle operazioni di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere, racconta che nella sua esperienza nel Mediterraneo centrale «in inverno i periodi di bel tempo sono intervalli in media di tre giorni, ma possono essere anche di uno, in mezzo a periodi più lunghi di cattivo tempo». In quella breve finestra di bel tempo partono diversi imbarcazioni: è la ragione per cui le imbarcazioni arrivate a Lampedusa dall’inizio del 2023 sono ormai decine.
Il fatto che i periodi di bel tempo siano così brevi, però, aumenta anche i rischi della traversata. E nella logica di Gatti rafforza le ragioni per cui le navi delle ong dovrebbero rimanere a presidiare il Mediterraneo Centrale, e non tornare in Italia dopo una sola operazione di soccorso come prescritto dall’ultimo decreto-legge del governo Meloni, approvato a fine dicembre.
«In questo periodo le imbarcazioni che partono col bel tempo possono ritrovarsi improvvisamente in mezzo a mare grosso, e questo aumenta il rischio di morte delle persone a bordo. Oggi, però, accade spesso che non ci sia nessuno a soccorrerle».
Così il report de il Post.
Le documentazioni citate, gli studi, le ricerche portati a supporto di queste valutazioni finali sono di dominio pubblico. Chiunque può leggerle, anche a Palazzo Chigi e al Viminale. Se non lo fanno non è per ignoranza ma per dolo. Lo stesso di cui si macchia quella stampa mainstream che fa da amplificatore mediatico alle narrazioni criminalizzanti propinate dalla presidente del Consiglio e dai suoi ministri impegnati sul fronte migranti. Criminalizzanti e false. Come quella sul “pull factor”.
(da Globalist)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile I DUE STANNO PROVANDO A ROSICCHIARE VOTI, SOPRATTUTTO PER IL VOTO IN LOMBARDIA… SE FRATELLI D’ITALIA FA IL PIENO DI CONSENSI PER IL PIRELLONE, SALVINI BECCA IL FOGLIO DI VIA E FORZA ITALIA PUO’ ANCHE SCIOGLIERSI
Sebbene continui nella sua campagna di chiarificazione e contro-informazione (dopo l’appuntamento settimanale degli “appunti di Giorgia”, ieri ha rilasciato interviste al Tg1 e al Tg5), Meloni sta attraversando il suo primo vero momento di difficoltà, anche prima dei fatidici cento giorni dalla nascita del governo.
Lo sciopero dei benzinai, proclamato per il 25 e 26 gennaio, forse anche per dare a Palazzo Chigi il tempo di ripensare sul mancato taglio delle accise e sulla pratica inutilità del decreto adottato martedì, avrà anche l’effetto di mobilitare e organizzare una categoria considerata tra quelle sostenitrici del centrodestra.
E non a caso appoggiata da Forza Italia, il partito della coalizione che, diversamente dalla Lega, non ha mai sposato la versione – smentita dalla Guardia di Finanza – degli “speculatori” che sarebbero nascosti dietro i distributori e lavorerebbero ai danni di autotrasportatori e cittadini automobilisti.
Diciamo la verità, se Meloni fosse ancora la leader dell’opposizione, si sarebbe gettata a pesce nella difesa di questi lavoratori e piccoli imprenditori, in tutto simili, dal punto di vista politico, ai gestori dei ristoranti e dei bar all’epoca del Covid e del lockdown, o ai balneari alle prese con la direttiva europea Bolkestein e con la possibilità, per le loro concessioni di essere rimesse all’asta, o ai tassisti in lotta contro i titolari delle licenze “noleggio con conducente”: insomma, uno qualsiasi degli insiemi corporativi che hanno cercato di difendere i loro interessi, a discapito di regole superiori o europee, e si sono trovati accanto la destra e il centrodestra, anche ai tempi recenti di Draghi.
Una resistenza degna di miglior causa, che adesso trova una situazione capovolta, con Meloni alla guida del governo che difende le scelte maturate con la legge di stabilità e resiste alle richieste dei suoi alleati, preoccupati che questa imprevista stagione di tensioni sociali possa ripercuotersi sul voto del 12 e 13 febbraio per le regionali in Lazio e Lombardia. Da oggi allo sciopero dei benzinai, c’è di mezzo il lunedì dei sondaggi: chissà che Meloni non debba tornare sui suoi passi, nel caso di un primo segnale negativo.
(da La Stampa)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile L’ESPERTO: “IN REALTA’ BAKHMUT NON HA NESSUNA RILEVANZA STRATEGICA, SOLO UNA TESTA DI PONTE VERSO KRAMATORSK”… “A PUTIN SERVE RIVENDICARE UNA VITTORIA”
Città rase al suolo e uno scenario apocalittico. È quanto raccontano –
più dei dispacci ufficiali degli eserciti – le immagini satellitari scattate dalla statunitense Maxar a Bakhmut e Soledar, nell’oblast di Donetsk, località da settimane al centro di furenti attacchi da parte delle forze russe e di una strenua resistenza delle truppe di Kiev.
Bakhmut e Soledar sono diventate da tempo il cuore del conflitto. Per la Russia rappresentano un trampolino di lancio per la conquista del Donbass, mentre per l’Ucraina è determinante non perdere nuovamente porzioni di territorio dopo i successi delle controffensive dei mesi scorsi.
In questo quadro gli scontri sono furenti e continui. “È in corso un bagno di sangue”, ha spiegato a Fanpage.it il professor Gastone Breccia, storico ed esperto di teoria militare.
Professore, da settimane si combatte a Soledar e Bakhmut. Perché queste città sono considerate strategiche dalla Russia? E qual è la situazione sul campo?
Si sta verificando un bagno di sangue, le perdite sono molto alte sia tra gli ucraini che tra i russi. Per questi ultimi prendere Soledar sarebbe fondamentale perché consentirebbe poi di attaccare Bakhmut da nord. Questa città, che di per sé non ha nessuna rilevanza strategica, rappresenterebbe la testa di ponte dalla quale lanciare una futura offensiva su Kramatorsk che, in caso di successo, garantirebbe alla Russia il controllo pressoché totale dei due oblast di Donetsk e Luhansk. La vera importanza della battaglia che si sta combattendo da più di un mese a Bakhmut però è un’altra ed è soprattutto simbolica. Il Cremlino, dopo mesi di difficoltà, ha bisogno di un successo tattico tangibile da spendere nei confronti dell’opinione pubblica interna e mondiale. È soprattutto per questo che Putin vuole che a Bakhmut sventoli la bandiera russa.
Il fondatore del Gruppo Wagner, Yevgeny Prigozhin, ha dichiarato pubblicamente che nessuna unità, ad eccezione dei suoi combattenti , ha preso parte all’assalto a Soledar. È così?
Le dichiarazioni di Prigozhin sono importantissime. A quanto mi risulta non è affatto vero che a Soledar e Bakhmut stanno combattendo solo mercenari della Wagner, quindi evidentemente Prigozhin ha altri scopi: intende mostrarsi all’opinione pubblica russa come l’unico in grado di ottenere risultati positivi sul campo. La dichiarazione fatta martedì di aver conquistato definitivamente Soledar è in questo senso sorprendente, visto che è stato smentito dal Ministero della Difesa russo. Non è normale, ed è una grave anomalia, che il capo di un gruppo di contractors si sostituisca al governo: si tratta di un grosso sgarbo verso il Cremlino e chi sta conducendo davvero la guerra in Ucraina. Infatti a Mosca non l’hanno presa benissimo. Prigozhin sta chiaramente sgomitando per proporsi come numero uno sul campo.
Va letta in questo modo la nomina del capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov, come nuovo comandante dell’esercito nella cosiddetta “operazione speciale” in Ucraina?
Quello di Gerasimov è un nome che non è ben visto dai cosiddetti “falchi”, come il capo del Gruppo Wagner Prigozhin o il leader ceceno Kadyrov, che da mesi criticano apertamente e aspramente il Cremlino e lo stato maggiore russo. Nominare Gerasimov è stato quindi un modo per Mosca per riaffermare la sua leadership, per dire che le decisioni che contano vengono e verranno prese da Putin e dal suo entourage. Non dal proprietario di un gruppo di soldati mercenari.
Francia, Germania, UK e Stati Uniti invieranno all’Ucraina carri armati e veicoli per il trasporto truppe. Perché questi mezzi sono così importanti per le forze armate ucraine?
In questo momento per gli ucraini ricevere carri armati sarebbe fondamentale perché consentirebbe loro di riprendere azioni offensive efficaci nei prossimi mesi. Ma cosa si sta davvero muovendo? Si dice che Berlino invierà i migliori “panzer” a Kiev, ma in realtà spedirà 40 Marder: non si tratta affatto di carri armati ma di veicoli per il trasporto truppe corazzati simili agli M110 che si impiegavano decenni fa. Sono mezzi vecchi, quasi fondi di magazzino. Che 40 vecchi mezzi corazzati possano davvero cambiare la situazione sul campo è assolutamente impensabile.
Si è parlato anche di carri armati Leopard e Challenger.
Sì, i polacchi – che come sempre sono molto attivi – hanno chiesto ai tedeschi il permesso di inviare carri armati Leopard II in Ucraina. Qui il discorso cambia, parliamo di carri armati veri di ultima generazione che in caso di offensiva potrebbero avere una grande utilità. Certo, dipenderà anche da quanti ne verranno inviati: si è parlato di 60 unità, un numero decisamente insufficiente. Ne servirebbero centinaia per ottenere qualche risultato. Comunque il dato più importante è un altro: le capitali europee sembrano aver capito che va fatto un salto di qualità. Se si vuole che la guerra non si trascini per i prossimi anni servono armi migliori, anche se non vanno ignorate le problematiche logistiche di una scelta del genere.
Cosa intende?
Fino a che abbiamo inviato agli ucraini vecchi carri armati di origine sovietica come i T72 erano perfettamente in grado di utilizzarli. Ma se decidiamo di inviare armi Nato la catena logistica è ben diversa: seve munizionamento dedicato, pezzi di ricambio appropriati e una formazione specifica delle truppe. Insomma, inviare carri armati sarebbe solo il primo passo.
Cosa servirebbe allora all’Ucraina per respingere definitivamente i russi?
Se l’obiettivo di Kiev è quello di tornare alle posizioni antecedenti il 24 febbraio servono carri armati da battaglia come i Leopard II in numero adeguato. Serve anche più artiglieria, perché abbiamo visto l’importanza degli Himars negli ultimi mesi. Infine occorrerebbero aerei da guerra: un conflitto del XXI secolo non può prescindere da supporto aereo tattico. Non sono informatissimo sullo stato dell’aviazione ucraina ma temo sia significativamente impoverito rispetto a 11 mesi fa.
Fornire cacciabombardieri però sarebbe una decisione molto forte da parte dell’Occidente.
È vero. Fornire pezzi d’artiglieria e carri armati è tutto sommato accettabile per l’opinione pubblica occidentale, ma inviare jet di ultima generazione sarebbe un passo davvero importante e non poco problematico: i piloti ucraini andrebbero prima addestrati per mesi nelle basi Nato prima di diventare davvero operativi. Naturalmente non possiamo sapere se tale addestramento sia già iniziato e se la decisione di inviare cacciabombardieri Nato, con piloti ucraini e non occidentali, sia stata segretamente già presa.
(da Fanpage)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile “VENIVAMO A CONOSCENZA DI QUANTO DECIDEVA DAI GIORNALI”
Anche Luigi Di Maio, nel 2019 vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro, ha attaccato l’attuale ministro dei Trasporti: “Ho appreso del divieto di concessione del Pos alla nave Open Arms attraverso le dichiarazioni pubbliche del ministro Salvini. In quel periodo si stava consumando una crisi di governo, le uniche interlocuzioni avute col ministro Salvini erano legate appunto alla crisi di governo”.
Non ci sono state comunicazioni neanche per decidere sulla questione Open Arms: “Non vi è stata alcuna riunione o confronto del Consiglio dei ministri, sulla concessione del porto sicuro”, ha detto l’ex vicepresidente del Consiglio.
“Casomai, le riunioni vennero fatte per affrontare le conseguenze del diniego di Pos”. Nell’operato del suo ministero, “tutto quello che veniva fatto da Salvini era per il consenso”, ha concluso Di Maio.
(da Fanpage)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile L’INCHIESTA DI FANPAGE E’ ATTENDIBILE, MA LA PROCURA NON HA POTUTO DIMOSTRARE IL REATO
La Procura della Repubblica di Milano ha chiesto al giudice per le
indagini preliminari l’archiviazione per gli otto imputati nel procedimento aperto in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta Lobby Nera del team Backstair di Fanpage.it. Come noto, le indagini avevano coinvolto a vario titolo il barone nero Roberto Jonghi Lavarini, la sua collaboratrice Lali Panchulidze, l’europarlamentare di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza, il commercialista Mauro Antonio Rotunno, il consigliere regionale Massimiliano Bastoni, l’europarlamentare della Lega Angelo Ciocca, l’esponente del gruppo Lealtà e Azione Riccardo Colato e l’attuale consigliera comunale di Fratelli d’Italia Chiara Valcepina. L’inchiesta condotta dai procuratori Polizzi e Romanelli ha provato a chiarire l’esistenza di “un meccanismo illecito finalizzato a incamerare denaro in nero, da destinare alla campagna elettorale di alcuni candidati alle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre 2021”, che sembrava emergere dai video realizzati dal giornalista sotto copertura di Fanpage.it Salvatore Garzillo .
I reati ipotizzati erano quelli di finanziamento illecito ai partiti e di riciclaggio. Dopo oltre un anno di indagini, la procura di Milano ha concluso “nel senso dell’insussistenza delle ipotesi di reato formulate”, spiegando che “non sono emersi elementi in grado di confermare quanto emerso dai video”. Nello specifico, come si legge nella richiesta di archiviazione, le affermazioni di “Jonghi Lavarini e Fidanza sul sistema di riciclaggio e illecito finanziamento ai partiti non hanno trovato riscontro nelle indagini svolte sull’attività del commercialista Rotunno, che a dire dei due, avrebbe dovuto avere un ruolo chiave”. Secondo la procura, però, quello di cui parlano i due politici “parrebbe trattarsi di un progetto futuro ancora in fase iniziale nel momento in cui sono subentrate le indagini penali”, anche se il barone nero affermava si trattasse “di un sistema già utilizzato” (fatto di cui gli investigatori non hanno trovato conferma).
Ma andiamo con ordine e ricostruiamo gli eventi che hanno portato alla richiesta di archiviazione, provando a chiarire alcuni passaggi che in queste ore sono trattati in modo ambiguo da alcuni organi di informazione. Che, probabilmente, non hanno ben chiara la differenza basilare fra un’indagine giudiziaria e una giornalistica, e che tralasciano in queste ore il quadro d’insieme svelato dalle telecamere di Fanpage.it, con rapporti ambigui fra partiti ora al governo e formazioni di estrema destra, non esattamente collocabili nell’ambito del “pittoresco/goliardico”.§
Cosa hanno svelato le indagini della Procura dopo l’inchiesta di Fanpage.it
Cominciamo col dire che la procura di Milano conferma in pieno l’impianto dell’inchiesta giornalistica di Fanpage.it, pur giungendo a concludere per l’insussistenza delle ipotesi di reato. Infatti, scrive il procuratore, “pur essendo emersi elementi che inducono il sospetto del ricorso a finanziamenti illeciti – le affermazioni degli indagati registrate dai video e la consegna della valigia che avrebbe dovuto contenere il denaro – le risultanze delle indagini non hanno restituito riscontri convergenti e concludenti al punto da sostenere l’accusa in giudizio”. È un passaggio importante, perché significa che la procura non può sostenere la sussistenza dei reati, dunque il procedimento nei confronti di Fidanza e degli altri indagati va archiviato, ma al contempo riconosce che la validità delle risultanze giornalistiche.
Come ricorderete, Fanpage.it aveva consegnato alla Procura il girato integrale dei servizi pubblicati sul sito e contestualmente mandati in onda nella trasmissione PiazzaPulita di La7. Il materiale è stato passato al setaccio dagli inquirenti, i quali nella richiesta di archiviazione confermano la coerenza dei montaggi con le riprese integrali. Dai video, scrivono i magistrati, emergerebbe il ruolo di coordinamento di Roberto Jonghi Lavarini nella “raccolta del denaro contante destinato alle campagne elettorali di candidati sostenuti dal gruppo di attivisti appartenenti all’estrema destra milanese”. È sempre il barone nero a rivelare al nostro giornalista sotto copertura, Salvatore Garzillo, “il meccanismo per far arrivare i fondi ai destinatari”. Nel caso di somme consistenti, “il riciclaggio sarebbe dovuto avvenire tramite l’intermediazione di Mauro Rotunno” (presidente del circolo AlaDestra), il quale sarebbe stato in grado “di far confluire mediante bonifici le risorse finanziare sui conti correnti ufficiali dei candidati, dissimulandone la provenienza”. Per le somme minori, invece, sarebbe stato lo stesso Lavarini a “elargire denaro contante ai presidenti dei circoli per consentire di far fronte alle piccole spese concernenti l’attività di propaganda elettorale”, come aperitivi e cene. Proprio a margine di uno di questi incontri è l’europarlamentare Fidanza a menzionare “in modo generico e allusivo” la possibilità di “fare black”, che secondo la procura di Milano è chiaramente riferita a “pagamenti in contanti e non mediante versamenti sul conto corrente aperto per le elezioni”.
Vale la pena di sottolineare come a spiegare il meccanismo di finanziamento sia lo stesso Lavarini, mentre il nostro giornalista si limita ad ascoltare e chiedere ulteriori informazioni. In un incontro del 22 settembre, il barone nero parla espressamente di un commercialista che avrebbe “una serie di lavatrici che aiuterebbero l’operazione”. Come scrivono i giudici, anche Fidanza sembrerebbe essere “consapevole del meccanismo delle lavatrici”, tanto da fare una serie di “riferimenti allusivi per quanto generici” per poi delegare a Roberto (Jonghi Lavarini, ndr) le successive interlocuzioni con il finto finanziatore della campagna.
In incontri successivi, sarà poi il solo Jonghi Lavarini a spiegare a Garzillo il doppio binario di finanziamento: le piccole somme direttamente ai destinatari, le grandi somme con il meccanismo delle lavatrici “tramite il commercialista”. E sempre il barone organizzerà la consegna del contante tramite la valigetta.
Gli investigatori hanno dunque provato a capire nel dettaglio come funzionasse questo sistema e in tal senso hanno analizzato alcune movimentazioni di denaro, senza giungere a conclusioni ultimative. A parte la coincidenza temporale di alcuni prelievi di Jonghi, infatti, la conclusione è che non vi siano chiari collegamenti con il finanziamento delle campagne elettorali. Parimenti, analizzando i conti del commercialista Rotunno, non hanno trovato adeguato riscontro le affermazioni di Jonghi Lavarini e Fidanza sull’esistenza “del sistema di lavatrici in grado di ripulire il denaro in contanti”.
Su questo punto, però, gli investigatori danno una lettura particolarmente interessante: “Parrebbe quindi trattarsi di un progetto futuro, rimasto ancora in fase iniziale nel momento in cui sono subentrate le indagini penali”. Dall’analisi della copia forense, inoltre, appare “verosimile” la cancellazione di messaggi tra diversi soggetti coinvolti “in seguito alla diffusione della notizia nell’ambito della trasmissione PiazzaPulita”
Dal punto di vista giornalistico, ovviamente, non ci sono dubbi che quello che Fanpage.it mostra sia estremamente rilevante: è Jonghi a parlarci dei meccanismi di finanziamento, è Fidanza a fare riferimento al black e a mostrarsi consapevole del sistema delle lavatrici, è sempre il barone nero ad affermare che si tratti “di un sistema già utilizzato”. Non avremmo potuto far altro che pubblicarlo, appunto senza omissioni o manipolazioni, proprio in quanto di estremo interesse pubblico.
La questione della valigetta e il “reato impossibile”
È particolarmente interessante approfondire questo aspetto della vicenda, perché ci consente di smontare ulteriormente le baggianate sull’inchiesta giornalistica “flop”. Come ricorderete, alle insistenze di Jonghi decidiamo di dar seguito fissando un appuntamento in pieno giorno a Milano. Nel trolley che avrebbe dovuto contenere denaro contante decidiamo invece di mettere dei libri sull’Olocausto e una copia della Costituzione Italiana. È fin troppo ovvio che non avremmo mai e poi mai potuto inserire del denaro contante, né che saremmo stati in grado di seguire la valigetta a destinazione, così come è superfluo aggiungere che non è mai stata nostra intenzione quella di commettere un reato.
Ciò che i colleghi (che hanno vergato editoriali al veleno sul “mistero della valigetta”) hanno finto di non capire, appare limpidissimo agli occhi degli inquirenti che scrivono: “ il denaro promesso non era contenuto nella valigetta consegnata e, a monte, non era nella disponibilità del giornalista, il quale ha solo finto di avere alle spalle un’azienda in grado di procurare il denaro”.
Ciò comporta anche l’impossibilità che si configuri il reato in oggetto, perché “viene in rilievo l’istituto del reato impossibile di cui all’art. 49 c.2 c.p. che esclude la punibilità quando per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. In questo caso, vale la pena di ribadirlo, il denaro all’interno della valigia non c’era semplicemente perché mai avrebbe potuto esserci.
Dunque, la lettura della Procura è del tutto condivisibile: “Non solo fin dall’inizio il denaro non avrebbe dovuto esserci perché non era intenzione del giornalista finanziare effettivamente le campagne elettorali, ma non era nella valigia proprio perché, in radice, quel denaro non esisteva, così come non esisteva la società – fittizia appunto – che avrebbe dovuto erogarlo”.
Sul piano giornalistico, ancora una volta, la questione è totalmente differente: dopo aver pressato per settimane il nostro giornalista, Jonghi Lavarini, che ha millantato un ruolo centrale nella raccolta dei finanziamenti, invia una sua collaboratrice a ritirare una valigia in cui crede sia contenuto del denaro. È lo stesso politico che è stato candidato anni prima con Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, che organizza appuntamenti elettorali in favore di candidati al consiglio Comunale e che ha rapporti strettissimi con consiglieri regionali e, appunto, parlamentari europei. Appuntamenti in cui si celebrano le gesta hitleriane, ci si riconosce col saluto gladiatorio, si parla di affondare barconi e ci si lascia andare a goliardate nei confronti di giornalisti sotto protezione per le minacce degli estremisti di destra.
Tutto ciò resta, a prescindere dalla rilevanza penale dei fatti e dei comportamenti individuali. È il compito fondamentale dei giornalisti: informare, far luce su ciò che è nascosto e dare ai cittadini tutti gli strumenti per farsi un’opinione.
(da FanPage)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile IL 71% DEI MAMMOGRAFI HA SUPERATO I 10 ANNI DI VITA (DOVREBBERO ESSERE GETTATI DOPO 6). VANNO ANCORA PEGGIO I MACCHINARI PER LE “TAC”: IL 74% È DA MANDARE IN PENSIONE… LA SITUAZIONE DA INCUBO PER LE CURE DOMICILIARI
Se le liste d’attesa si allungano, se aumentano le diagnosi tardive di tumore, se sempre più giovani medici fuggono all’estero e l’assistenza domiciliare resta un miraggio per la quasi totalità dei nostri anziani di deve anche al Jurassic park tecnologico della nostra sanità, dove l’89% delle strutture utilizza macchinari obsoleti.
Quelli che andando più facilmente fuori uso fanno allungare i tempi per eseguire una tac o una risonanza, che spingono i camici bianchi in carriera verso Paesi dove la tecnologia è più avanzata, che non fanno individuare un cancro allo stato iniziale o che non permettono il monitoraggio da casa di un anziano cronico.
Come stanno le cose ce lo rivela l’Osservatorio parco installato di Confindustria dispositivi medici, l’associazione che rappresenta le imprese del settore. Il 71% dei mammografi convenzionali ha superato i 10 anni di età, il 69% delle Pet ha più di 5 anni e il 54% delle risonanze magnetiche chiuse hanno oltre 10 anni.
Partiamo dai mammografi. L’età media di quelli convenzionali è di 13,4 anni, quando non dovrebbero superare i sei, secondo gli standard di sicurezza e adeguamento tecnologico. Ma solo il 9% ha meno di 5 anni e l’84% supera comunque il limite anagrafico che darebbe diritto al pensionamento. Va un po’ meglio per gli angiografi, le apparecchiature che servono a valutare lo stato dei nostri vasi sanguigni e delle coronarie. Insomma un esame importante, che nel 61% dei casi affidiamo a una strumentazione ormai obsoleta.
La risonanza magnetica sappiamo tutti a cosa serve e quanto sia importante per diagnosticare in alcuni casi malattie, come quelle oncologiche, che prese per tempo possono ancora essere sconfitte. Peccato che ben il 74% di queste apparecchiature abbia superato il limite di età che le rende non più al passo con i tempi.
Anche perché parliamo di risonanze magnetiche con minor livello di precisione, secondo l’unità di misura “Tesla”, che in questo caso è pari a 1, mentre quelle tecnologicamente più avanzate arrivano anche oltre il valore di 3. Qui la percentuale di obsolescenza scende al 41%. Ma le risonanze 4.0 sono una rarità degli ospedali italiani.
Le tomografie assiali computerizzate, le tac tanto per capirci, sono troppo in là negli anni in un caso su due (il 51% per l’esattezza). Anche in questo caso la percentuale si abbassa quando si va a contare l’età delle apparecchiature multistrato, capaci di vedere più in profondità dentro ossa e organi.
Ma anche qui le Tac più avanzate sono quelle meno diffuse. A volte per fare una diagnosi corretta basta una semplice radiografia. Peccato che se parliamo degli apparecchi radiografici tradizionali l’81% abbia superato il limite dei 10 anni di anzianità, oltre i quali si farebbe bene a sostituirli, mentre obsoleto è il 48% di quelli digitali, che sono ancora una rarità nei nostri centri diagnostici.
Quando pensiamo a una sala operatoria ci vengono in mente bisturi e chirurgo ma non immaginiamo quanta tecnologia ci sia. Ad esempio per monitorare i nostri parametri vitali con quei grandi macchinari, definiti in termini tecnici “sistemi mobili ad arco”, obsoleti nel 57% dei casi. «Per capire come l’obsolescenza tecnologica finisca per influire sul nostro lavoro e sulla sicurezza dei pazienti basti pensare alla chirurgia mininvasiva laparoscopica. È chiaro che se abbiamo telecamere di ultima generazione aumenta la definizione delle immagini e questo ci permette di operare con più precisione» spiega Il professor Marco Scatizzi, presidente dell’Acoi, la società scientifica dei chirurghi ospedalieri.
Che poi aggiunge: «Purtroppo oggi con le imprese stritolate dal cosiddetto Pay back, che le impone di rimborsare 2,2 miliardi per il ripiano dello sfondamento di un tetto di spesa sottostimato, oggi abbiamo carenza anche di cose come bisturi elettrici e suturatrici meccaniche», denuncia. Lamentando poi il fatto che «il Pnrr investe circa 4 miliardi per l’ammodernamento tecnologico della sanità, ma nulla per quello delle sale operatorie».
Ma se negli ospedali la tecnologia appartiene in media all’era giurassica, nel territorio spesso manca proprio.
In Italia ci sono oltre 200 mila pazienti con supporto ventilatorio domiciliare, 100 mila in ossigenoterapia, 30 mia nutriti artificialmente per via enterale o parenterale. In moltissimi casi i pazienti domiciliari necessitano di più terapie contemporaneamente, si pensi ad esempio agli oltre 6 mila pazienti affetti da Sla, che nelle fasi più avanzate della patologia hanno bisogno di supporto respiratorio continuo, di essere nutriti tramite Peg, di assistenza sanitaria e riabilitativa, di ausili per la comunicazione oculare.
Secondo distributori e produttori di dispositivi medici però oggi la fornitura di queste terapie domiciliari complesse va spesso a singhiozzo, ed è disomogenea da Asl a Asl, nonostante siano prestazioni a pieno titolo garantite dai Lea, i livelli essenziali di assistenza che garantiscono la mutuabilità delle cure.
E questo finisce per pesare anche economicamente sui pazienti e badanti o familiari che li assistono in casa. Ma anche dove le apparecchiature ci sono mancano poi personale formato a leggere i dati prodotti e reti digitali in grado di connettere tra loro strutture sanitarie e professionisti. «Tutto il flusso di dati che arrivano dal monitoraggio dei pazienti a domicilio devono essere strutturati e gestiti da un collettore di informazioni, che le veicoli poi in modo strutturato giorno per giorno ai medici curanti e alle strutture sanitarie che hanno in carico il paziente.
Per questo occorre formare chi va a domicilio del paziente come avviene per le strutture ospedaliere. E per questo servirebbe un sistema di accreditamento anche per i servizi di assistenza a domicilio, che preveda l’uso delle tecnologie rispetto alla tradizionale presa in carico del paziente e l’integrazione tra medical device, telemedicina e professionisti della sanità».
Mentre oggi larga parte dell’assistenza domiciliare è delegata a cooperative e associazioni private, che hanno poco interesse a pagare di tasca propria la formazione digitale dei propri dipendenti. E così tra apparecchiature ospedaliere simili a vecchie 500 che arrancano nei nostri ospedali e Ferrari tecnologiche parcheggiate nei garage dell’assistenza territoriale la sanità 4.0 resta per ora un sogno.
(da “la Stampa”)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile IL PREZZO DI BENZINA E GASOLIO È COMPOSTO DA QUATTRO MACRO-VOCI: IL COSTO DELLA MATERIA PRIMA, LE COMMISSIONI PER BROKER, TRASPORTATORI, GROSSISTI E INTERMEDIARI VARI, IL PESO DELLA COMPONENTE FISCALE E IL MARGINE LORDO CHE FINISCE NELLA TASCHE DI CHI GESTISCE I DISTRIBUTORI (CHE VALE CIRCA L’8-10% DEL PREZZO PER IL GASOLIO E ARRIVA AL 12% PER LA BENZINA)
Come si forma il prezzo della benzina, quanto ci guadagnano le
società che estraggono petrolio, quanto incidono le commissioni di intermediari e grossisti, quanto pesano le tasse e, infine, qual è il guadagno dei gestori delle pompe di servizio? E dove potrebbe inserirsi la “speculazione” dei prezzi e da parte di chi?
La catena che parte dal giacimento di idrocarburi e arriva al serbatoio delle nostre automobili è lunga e oltre modo complessa. Ma a una domanda è facile rispondere: in Italia – ma anche in molto paesi europei – a guadagnarci più di tutti è lo Stato, a causa del peso di accise e Iva. Poi vengono i produttori, raffinatori e intermediari nel loro complesso e solo in fondo alla catena abbiamo il “guadagno” dei distributori. Vediamo nel dettaglio.
LE COMPONENTI DEL PREZZO
Sostanzialmente, il prezzo di benzina e gasolio è composto da quattro macro-voci principali: il costo della materia prima, le commissioni per broker, trasportatori, grossisti e intermediari vari, il peso della componente fiscale, per arrivare al margine lordo che finisce nella tasche di chi gestisce i distributori.
IL MERCATO DEL GREGGIO
Partiamo dalla materia prima. I prezzi di gasolio e benzina seguono l’andamento delle quotazioni del greggio. Gli indici di riferimento sono il Brent per l’Europa e il Wti per gli Stati Uniti, oltre al Fateh per l’area del Golfo Persico. Al momento, il Brent è ai minimi dell’anno: quota attorno agli 80 dollari al barile, dopo un picco toccato a fine giugno a 122 dollari. A formare i prezzi è soprattutto l’Opec+, il cartello “storico” dei maggiori produttori guidato dall’Arabia Saudita, a cui negli ultimi anni si è aggiunta la Russia. Aumentando o diminuendo la quota di produzione complessiva dei paesi membri, riesce a indirizzare i prezzi.
LA FILIERA INDUSTRIALE
Dal giacimento al serbatoio delle automobili agiscono una serie di intermediari che vanno dai broker dei prodotti raffinati a chi procura il carburante per i distributori, in particolare per quelli indipendenti e “no logo”. Sulla componente raffinazione incide anche il Platts. Di cosa si tratta? Platts è il nome di un’agenzia specializzata che definisce il valore di benzina e gasolio nel momento in cui vengono vendute alle raffinerie. Si tratta quindi di una valutazione di “domanda e offerta industriale”, quindi esprime i prezzi finale dei prodotti raffinati. Complessivamente, il peso della componente industriale vale il 30-35% del prezzo complessivo alla pompa.
PERCHÈ IL GASOLIO È PIÙ COSTOSO
Per rispondere bisogna prima capire cosa è accaduto nel mercato della raffinazione. Il numero di impianti in Europa si è ridotto negli ultimi 10-15 anni, provocando un’aumento della domanda, in particolare dall’Asia (Corea e India soprattutto). La Russia ha garantito una parte delle forniture in calo per la chiusura e la ristrutturazione degli impianti europei, ma sono andate in calando a causa della guerra russo- ucraina. E dal 5 febbraio scatterà il nuovo embargo commerciale nei confronti di Mosca e che riguarda proprio i prodotti raffinati. Il timore è che – almeno in una prima fase – questo comporti un ulteriore aumento delle quotazioni del gasolio.
IL PESO DI IVA ED ACCISE
Come noto, l’Italia è sul podio dei Paesi europei dove maggiore è la componente fiscale: è al primo posto per il gasolio, al secondo per la benzina. Per la benzina la componente fiscale è pari al 58%, mentre il prezzo della componente industriale e commerciale si ferma al 42%. Se si prendono i prezzi del 9 gennaio scorso, con un prezzo della benzina di 1,812 euro al litro la componente fiscale risultava di 1,055 euro al litro mentre la componente industriale era pari a 0,757 euro al litro. Della componente fiscale 0,728 euro/litro sono accise mentre 0,327 euro/litro è Iva (al 22%).
LE TASSE PIÙ ALTE D’EUROPA
Leggermente diversi i numeri con cui si forma il prezzo del gasolio: nel prezzo medio di dicembre scorso (1,717) la componente industriale pesava per il 45% (0,777 euro/ litro) rispetto al 55% (0,940 euro/ litro) della componente fiscale, che porta l’Italia al primo posto in Europa per il peso complessivo delle tasse.
QUANTO INCASSANO I BENZINAI
Il margine dei gestori dei distributori, di conseguenza, vale circa l’8-10 % del prezzo per il gasolio e arriva fino al 12% per la benzina: ed è questo il margine sui cui l’operatore può agire per modificare il prezzo alla pompa.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2023 Riccardo Fucile LA POLIZIA MILITARE E I SOLDATI HANNO LASCIATO PASSARE I MANIFESTANTI: BOLSONARO ERA IL LORO UOMO
Nella casa dell’ex ministro della Giustizia del Brasile Anderson Torres la polizia federale ha trovato un piano elaborato dall’ex presidente Bolsonaro per ribaltare il risultato delle elezioni che hanno portato alla vittoria di Lula. Lo riferiscono i media brasiliani parlando di documento incostituzionale.
Secondo quanto si legge su Folha de San Paulo, il documento sarebbe stato trovato nell’armadio dell’ex ministro durante una perquisizione. Il testo sarebbe stato redatto dopo lo svolgimento delle elezioni.
L’ex ministro della Giustizia di Bolsonaro, ieri si era detto pronto a costituirsi alla polizia per scontare una pena detentiva derivante dalla suo presunto coinvolgimento nell’assalto di domenica scorsa ai palazzi del potere di Brasilia da parte dei sostenitori radicali dell’ex presidente brasiliano.
Torres, che il 2 gennaio era stato nominato segretario alla Pubblica sicurezza di Brasilia, è accusato di «omissione volontaria» per non aver impedito le depredazioni di quattro giorni fa. Nelle scorse ore, la Corte suprema ha approvato per nove voti a due l’arresto dell’ex ministro, che sarebbe dovuto rientrare nelle prossime ore dagli Usa negli aeroporti di Brasilia o San Paolo.
(da agenzie)
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