Maggio 9th, 2021 Riccardo Fucile
LA MADRE TRASFERITA IN AMBULANZA ALL’OSPEDALE PER COVID
E’ rientrata in Italia la famiglia fiorentina di Campi Bisenzio che era rimasta bloccata
in India a causa del Covid. La missione per riportare con un volo sanitario Simonetta Filippini, il marito Enzo Galli e la piccola Mariam Gemma si è conclusa ieri notte, quando l’aereo è atterrato, alle 22,15, all’aeroporto di Pisa.
La famiglia Galli era partita per l’India per adottare una bambina e poi era rimasta bloccata dal Covid. Le condizioni di Simonetta Filippini, positiva al Covid dal 28 aprile scorso, nei giorni scorsi si erano aggravate: aveva avuto problemi di saturazione e bisogno dell’ossigeno.
Simonetta è stata trasferita con un’ambulanza di biocontenimento della Misericordia di Lucca all’ospedale fiorentino di Careggi, dove si trova ricoverata nel reparto di pneumologia. Il marito e la figlia sono stati accompagnati con un’ambulanza della Croce Viola di Sesto Fiorentino in ospedale per gli accertamenti e la quarantena: Enzo a Careggi per gli esami e Miriam al Meyer.
Ad accogliere all’aeroporto pisano la famiglia ieri notte c’era l’assessore Monia Monni. “Da mamma, non poteva esistere modo più bello per celebrare le mamme che andarne a prendere una che, dopo una battaglia durissima, torna a casa con la famiglia per la quale ha combattuto – ha scritto Monni su Facebook – Ora ci prenderemo cura di loro, perché possano iniziare, il prima possibile, la nuova vita che hanno tanto desiderato. Ero lì, sulla pista di atterraggio, vestita come un’aliena per dire a te, Simonetta, e attraverso di te a tutte le mamme del mondo (compresa la tua, che è dolcissima). Buona festa della mamma. Bentornati!”
“Simonetta, Enzo e la bimba sono seguiti dal nostro personale sanitario – ha scritto ancora Monni – La piccola è ricoverata in Pediatria del Meyer, coccolata e accudita dagli infermieri e dalle infermiere che si alternano giorno e notte per tenerla in braccio, farla giocare e farla sentire al sicuro. Le condizioni della bimba sono buone, da domani verrà seguita, oltre che dal personale sanitario, anche da una psicologa. Ringrazio ancora una volta il Meyer, che, come sempre, si dimostra un’eccellenza di umanità e amore”.
(da agenzie)
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Aprile 30th, 2021 Riccardo Fucile
ALTRI 357 SALVATI DA SEA WATCH E OCEAN VIKING: ERANO SU BARCONI ALLA DERIVA
Quarantove a bordo di un pattugliatore della Marina militare, centoventuno
sulla Sea Watch 4, 236 sulla Ocean Viking di Sos Mediterranée. Più di quattrocento migranti salvati nelle ultime ore a bordo di gommoni sovraffollati alla deriva in acque internazionali al largo della costa libica.
Gli ultimi questa mattina quando il pattugliatore della Marina militare Comandante Foscari, impegnato nell’Operazione mare sicuro (Oms), ha avvistato 49 persone a circa 75 miglia nautiche a nord di Tripoli.
Tutti stipati su un gommone troppo piccoli per contenerli e senza nessun giubbotto di salvataggio. Ai naufraghi sono stati distribuiti salvagenti e mascherine, prima di essere portati a bordo della nave della Marina. Ora sono a bordo del pattugliatore in buone condizioni di salute.
Due le operazioni di soccorso per la Sea Watch 4, la seconda imbarcazione delle Ong a tornare nel Mediterraneo dopo la Ocean Viking. Giovedì erano state soccorse 44 persone, di cui tre donne. Venerdì altre 77, tra loro anche undici donne e un neonato che con altri si trovavano a bordo di un gommone. Ora, riferisce l’organizzazione tedesca, sulla nave di salvataggio ci sono 121 migranti.
Dopo il naufragio di due gommoni, una da più di cento persone, l’altro di una cinquantina, a cui aveva assistito appena tornata in acqua, la Ocean Viking di Sos Mediterranée ha messo in salvo martedì 236 migranti a 32 miglia nautiche da Zawiyah, Libia. Tra loro ci sono anche 114 minori non accompagnati. Alcuni erano deboli e disadratati, le donne riportavano ustioni e avevano inalato del fumo, ma le loro condizioni di salute sono nel frattempo migliorate.
Da tre giorni la nave attende l’assegnazione di un porto sicuro dove farli sbarcare, navigando tra Linosa e Malta. “Molti di loro – raccontano da bordo – hanno detto al nostro team medico di essere stati picchiati e costretti dai trafficanti a imbarcarsi su un fragile gommone. Loro non avrebbero voluto, non erano convinti: erano spaventati dalle onde e dalle cative condizioni del mare”.
Mercoledì l’equipaggio della Ocean ha assistito invece al respingimento di due gommoni da parte della guardia costiera libica.
(da agenzie)
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Aprile 22nd, 2021 Riccardo Fucile
“LA POLITICA NON SIA SOTTOMESSA AGLI INTERESSI DELLA FINANZA, MA SIA AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE”
Gualtiero Bassetti, cardinale Presidente dei Vesvoci italiani, in occasione di una lectio magistralis sui temi dell’enciclica di Papa Francesco ‘Fratelli tutti’, ha dichiarato: “La fraternità è da promuovere non solo a parole, ma nei fatti. Fatti che si concretizzano nella ‘politica migliore’, quella non sottomessa agli interessi della finanza, ma al servizio del bene comune dei popoli, in grado di porre al centro la dignità di ogni essere umano (creato ad immagine e somiglianza di Dio) e di assicurare il lavoro a tutti, senza discriminazioni di sorta, affinché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità umane e professionali”.
“Una politica – il richiamo di Bassetti – che, lontana dai populismi o sovranismi, sappia trovare soluzioni a ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali e che punti ad eliminare definitivamente ogni forma di esclusione sociale: inedia, pandemie, per non parlare dell’ignobile tratta di esseri umani. Di qui deriva la condanna che il Pontefice fa della guerra, ‘negazione di tutti i diritti’ e non più pensabile neanche in una ipotetica forma ‘giusta’, perché ormai le armi nucleari, chimiche e biologiche hanno ricadute enormi sui civili innocenti”.
(da Globalist)
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Aprile 22nd, 2021 Riccardo Fucile
CURE CHIRURGICHE GRATUITE PER I BAMBINI IN UN CONTESTO DOVE TUTTO E’ A PAGAMENTO
Oggi a Entebbe, in Uganda, si realizza un sogno: l’apertura del Centro di chirurgia pediatrica di Emergency, un progetto nato dall’incontro tra Gino Strada, chirurgo e fondatore della ong, e Renzo Piano, uno dei più importanti architetti al mondo.
Due uomini che hanno condiviso una visione: costruire un “ospedale scandalosamente bello” nel cuore dell’Africa che potesse unire la chirurgia pediatrica con il più alto livello di architettura per divenire un centro di riferimento per i bambini di tutto il continente.
Quel sogno è diventato realtà anche grazie al sostegno del ministero della Salute ugandese: sulle rive del Lago Vittoria, a 1.200 metri in una zona verde e salubre, il Centro di chirurgia pediatrica di Emergency è operativo da mercoledì.
I primi pazienti si chiamano Ramadhan, Topista, Justine, Katongole, Matovu e Jordan, hanno tra i 3 e gli 11 anni e sono stati ricoverati per problemi all’apparato genitale, gastro-intestinale ed ernie sovraombelicali.
L’ospedale di Entebbe curerà gratuitamente bambini e ragazzi di età inferiore ai 18 anni affetti da malformazioni congenite, problemi urologici e ginecologici, anomalie del tratto gastro-intestinale, patologie del sistema biliare, cheiloschisi.
“Il modo migliore per aiutare l’Africa è fare lì quelle stesse cose che vorremmo avere anche qui in Italia”, dichiara Gino Strada, chirurgo e fondatore di Emergency. “Siamo andati in Uganda con tutte le competenze, gli equipaggiamenti, le tecnologie necessarie a fare una chirurgia di alto livello e con una struttura straordinaria. Facciamo tutti parte della comunità umana: siamo ‘uguali in dignità e diritti’, come è scritto nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Abbiamo la responsabilità di curare un bambino africano esattamente come faremmo con un bambino italiano.”
In Uganda, la mortalità infantile sotto i cinque anni è di 49 morti su 1.000 nati e il 30% di questi decessi è causato dalla mancanza di cure chirurgiche adeguate.
Il Centro di Entebbe triplica di fatto la disponibilità di posti letto chirurgici per i bambini in Uganda e diventerà un punto di riferimento per le necessità chirurgiche di tutto il continente africano.
Dopo il Centro Salam di cardiochirurgia di Emergency aperto a Khartoum, in Sudan, nel 2007, quello ugandese è il secondo centro dell’ANME, la Rete sanitaria di eccellenza in Africa nata nel 2010 su iniziativa della ong, a cui hanno aderito 11 Paesi africani per sviluppare una rete di strutture sanitarie di eccellenza e rispondere a bisogni sanitari specifici su base regionale.
La struttura si estende su 9.700 metri quadri e dispone di 3 sale operatorie, 72 posti letto, di cui sei di terapia intensiva e sedici di terapia sub-intensiva, una sala di osservazione e stabilizzazione, 6 ambulatori, una radiologia, un laboratorio con banca del sangue, una TAC, farmacia, amministrazione, servizi ausiliari, foresteria per i pazienti stranieri, area di accoglienza ed educazione sanitaria e una area gioco esterna
L’intero progetto è stato realizzato pro bono dallo studio Renzo Piano Building Workshop, in collaborazione con TAMassociati e la Building division di Emergency
“Mi piace pensare all’Africa come un laboratorio per il futuro e non solo come uno scenario di sofferenza e di guerre dimenticate”, afferma Renzo Piano. “Gino mi ha sempre chiesto di disegnare un ospedale ‘scandalosamente bello’. Parla dello scandalo della bellezza perché per certe persone è uno scandalo offrire bellezza ed eccellenza a tutti, in particolare ai più svantaggiati ed emarginati. D’altronde è risaputo che in tutte le lingue africane, lo swahili per primo, l’idea di bello è sempre accompagnata all’idea di buono: non c’è bellezza senza bontà”, spiega l’archistar.
La bellezza – nel progetto di Piano – va a braccetto con la sostenibilità ambientale, con una dotazione di circa 2.500 pannelli solari fotovoltaici in copertura di una parte del fabbisogno energetico del Centro. I muri dell’ospedale sono stati edificati in pisè, una tecnica di costruzione tradizionale che utilizza la terra cruda, garantendo un’inerzia termica che mantiene costanti la temperatura e l’umidità nell’edificio.
Tra gli obiettivi del Centro, la formazione di medici e infermieri che possano contribuire a migliorare la chirurgia pediatrica in Uganda. “Il Paese non è del tutto sprovvisto di strutture sanitarie, né di cultura medica, ma necessita della collaborazione internazionale per garantire a fasce più ampie della popolazione la continuità di cure mediche di secondo e terzo livello e la formazione di specialisti”, osserva Rossella Miccio, presidente di Emergency. “La scelta fatta per l’ospedale è stata di inserirlo nel contesto sanitario ugandese come centro di chirurgia elettiva pediatrica, generale e specialistica, al fine di permettere il trasferimento programmato dei piccoli pazienti da tutto il Paese e dall’estero”.
A regime, lo staff è composto da 385 addetti, di questi 179 sono personale sanitario. Chirurghi, pediatri, anestesisti, fisioterapisti, infermieri, farmacisti e tecnici sono per l′80% circa professionisti locali e per il 20% professionisti di provenienza internazionale. Lo staff non medico è costituito da internazionali per il 5% e da nazionali per il 95%.
“L’apertura dell’ospedale rappresenta un punto di svolta per i bambini dell’Uganda e dell’intera regione dell’Est Africa, grazie alla sua offerta di prestazioni di chirurgia pediatrica di alta qualità, senza alcun costo per i pazienti”, dichiara Ruth Aceng Ocero, ministro della sanità dell’Uganda. “Questa iniziativa è parte dello sforzo del governo volto a rafforzare il sistema sanitario nazionale, riducendo i trasferimenti medici all’estero e potenziando i servizi sanitari per i nostri bambini. Il Centro permetterà inoltre all’Uganda di diventare una destinazione di turismo sanitario per quanto concerne le prestazioni pediatriche e una istituzione centrale nella formazione del personale sanitario locale”.
Il ministero della Sanità ugandese ha partecipato da subito allo sviluppo del progetto, collaborando alla sua definizione, mettendo a disposizione il terreno su cui è stato costruito e finanziando, come previsto per tutti i progetti realizzati dalla rete ANME, il 20% dei lavori e dei costi di gestione.
“Questo Centro di chirurgia pediatrica curerà i bambini di tutta l’Africa, da diversi Paesi e con diversi problemi. Meritano un bellissimo ospedale, un luogo pieno di gioia e amore, qualcosa per ridare un po’ di speranza, un possibile futuro”, è il pensiero con cui Strada saluta il nuovo Centro. Da oggi quel posto è realtà, grazie all’incontro e alla determinazione di tutti quelli che ci hanno lavorato.
(da Huffingtonpost)
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Aprile 17th, 2021 Riccardo Fucile
A 13 ANNI HA LASCIATO LA COSTA D’AVORIO, POI LA TRAVERSATA NEL DESERTO E I CENTRI DI DETENZIONE IN LIBIA: ORA E’ UN CALCIATORE PROFESSIONISTA
Quando ha lasciato la Costa d’Avorio per cercare fortuna in Europa, ai genitori ha
detto che sarebbe tornato dopo qualche giorno. Il tempo di un provino in una società di calcio vicino casa.
Ed invece Aziz Toure, all’epoca tredicenne, ha attraversato il deserto per sette lunghissimi giorni, prima di arrivare in Libia dove è stato detenuto per otto mesi. Per guadagnare qualcosa, ogni mattina andava a lavorare ma non sempre veniva retribuito. “A volte ci picchiavano con i fucili dicendoci che ci avrebbero ammazzato”.
Quando Aziz inizia a raccontare la sua storia, improvvisamente smette di sorridere. È arrivato in Italia con un barcone nel 2017. Ha attraversato il Mediterraneo rimanendo per tre giorni in mare aperto, prima che la Guardia costiera italiana salvasse le 150 persone a bordo di un barchino partito dalla Libia e rimasto in balìa delle onde poche miglia dopo. Alcuni di loro non sono mai riusciti a vedere le coste italiane: sono morti durante la traversata. Poi lo sbarco ad Augusta e l’arrivo a Palermo.
Oggi Aziz ha una nuova casa ed una seconda famiglia che lo ha accolto come un figlio, ma soprattutto tenta di realizzare il suo sogno: diventare un calciatore professionista. In lui ha creduto il Palermo calcio che ad inizio stagione lo ha tesserato nelle giovanili. Il giovane ivoriano gioca nella squadra primavera rosanero e spera, prima o poi, di esordire in serie C con la prima squadra.
“La mia destinazione finale non era l’Italia – racconta a Fanpage.it Aziz Toure – Il mio obiettivo era raggiungere la Francia, ma quando mi hanno chiesto di restare a Palermo non ci ho pensato due volte”.
Gli occhioni di Aziz si illuminano quando gli chiediamo qual è il suo sogno nel cassetto. Risponde d’istinto, senza pensarci due volte: “Vincere la Champions League”. Intanto, però, se lo gode il Palermo.
(da Fanpage)
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Aprile 16th, 2021 Riccardo Fucile
A SEI ANNI DAL PIU’ GRAVE MASSACRO NEL MEDITERRANEO,, IL RELITTO E’ STATO SALVATO DA UNA ASSOCIAZIONE DI VOLONTARI, IN MEMORIA DELLE 1.100 VITTIME
Non hanno avuto soccorso dalle istituzioni, morendo imprigionati in un guscio di legno e metallo. E solo i volontari hanno lottato per salvarne almeno il ricordo, quel terribile relitto che incarna il dramma dei migranti nel Mediterraneo.
Dopo due anni di abbandono sono riusciti a liberarlo dall’oblio della burocrazia e farlo tornare in mare, diretto in Sicilia: ad Augusta, dove diventerà il fulcro di un progetto culturale che ha già raccolto interesse in tutto il mondo.
Stiamo parlando della barca dove nelle prime ore del 18 aprile 2015 hanno perso la vita quasi 1.100 persone: bambini, donne, uomini trascinati nell’abisso mentre cercavano di fuggire dalla povertà.
Un anno dopo il governo italiano e la Marina Militare hanno recuperato a 370 metri di profondità i resti del peschereccio, con la stiva colma di corpi.
Un’operazione che ha permesso di ricostruire parte delle loro storie, dei loro sogni, delle loro speranza: come il ragazzino che aveva cucito negli abiti la sua pagella, la prova di un’educazione scolastica che riteneva decisiva per il suo futuro.
È la testimonianza più importante del massacro che da decenni avviene davanti alle nostre coste, un terribile monumento che obbliga ad aprire gli occhi. Le immagini del relitto minuscolo in cui erano accatastate più di mille vite rendono concreta la disperazione di chi affronta il viaggio verso l’Europa e mettono a tacere ogni propaganda xenofoba.
All’indomani del recupero, ci sono state idee e proposte per rendere onore alle vittime, esponendo quel reperto sconvolgente a Milano o a Bruxelles, ma sono state parole senza concretezza. Allora l’artista svizzero Christoph Buchel lo ha fatto trasferire fino alla Biennale di Venezia, mettendolo in mostra nell’edizione 2019 come un’opera d’arte: un’installazione choc.
Chiusa la rassegna, però, l’imbarcazione è rimasta abbandonata in balia di una controversia legale durata due anni. C’è stato persino il rischio che finisse rottamata. Ma il “Comitato 18 Aprile” non si è arreso e con il contributo del Comune di Augusta ha permesso un nuovo viaggio, proprio nel sesto anniversario del dramma.
A bordo di una chiatta, il barcone è salpato verso la Sicilia dove sarà il fulcro del progetto “Il Mare della Memoria”. Che – come spiega Mariachiara di Trapani, una delle animatrici dell’iniziativa – “individua nel relitto un nodo simbolico cruciale per comprendere le trasformazioni chiave del nostro tempo, mirando a unire memoria, immaginazione e progettazione per il futuro”.
La prima fase sarà la manutenzione, perché nessuno si è mai preoccupato di preservare la barca rimasta da cinque anni all’aperto.
Poi ci sarà il lavoro sensibilizzazione e di contestualizzazione per dare un “nuovo significato” che unisca arte e ricerca: fare della testimonianza del massacro “lo strumento per facilitare convergenze e collaborazioni, tra ricerca scientifica, lavoro umanitario e riflessione artistica”, continua Di Trapani.
L’obiettivo finale è arrivare a creare un museo diffuso dei diritti umani. Il Comune di Augusta da tempo ha votato l’allestimento di un “Giardino della Memoria” che ricordi il destino dei migranti nel Canale di Sicilia. Una volontà ribadita dall’amministrazione e dal sindaco Giuseppe Di Mare che assieme alla mobilitazione del “Comitato 18 Aprile” hanno reso possibile il ritorno nell’isola del relitto. Ma questo sarà solo il punto di partenza, da cui lasciare germogliare molto altro.
C’è stato un momento alla Biennale che ha colpito gli ideatori di questo progetto. Quando uno dei superstiti del naufragio è arrivato a Venezia e si è trovato davanti lo scafo. La sua unica preoccupazione è stata quella di spiegare ai visitatori cosa fosse accaduto, chi erano le altre persone rimaste per sempre a bordo: la necessità di mantenere viva almeno la memoria.
Per questo adesso saranno coinvolti direttamente testimoni e familiari delle vittime della strage del 18 aprile e degli altri affondamenti nel Mediterraneo ma anche le comunità che hanno accolto le salme. In questo disegno, Augusta diventerà il crocevia di una rete di contatti con musei, artisti, organizzazioni della società civile, associazioni di sopravvissuti e migranti, istituzioni internazionali – a partire dalla Croce Rossa – e mondo universitario.
Tra i primi enti che stanno collaborando ci sono Cir Migrare, l’Università di Palermo, Grotwoski Institute Wroclaw, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense della Università di Milano, il dipartimento di antropologia della Columbia University.
L’idea è stata concepita da *2.51collective, un team multidisciplinare formato da volontari che hanno riservato, nella carriera professionale e nell’attività di ricerca, particolare attenzione all’affondamento del 18 aprile 2015. Il nome *2,51 si riferisce all’estensione del Mediterraneo, quasi 2,51 milioni di chilometri quadrati, perché fa del relitto il punto per tracciare una riflessione sull’intero mare. “Il progetto nasce dalla necessità di opporre ad una logica di patrimonializzazione della storia, della memoria, dei traumi diffusa nel panorama artistico-mediatico, la nozione di patrimonio universale, come ricchezza e responsabilità collettiva, come “bene comune””, conclude Mariachiara Di Trapani.
Uno degli aspetti più importanti è l’identificazione delle vittime: Croce Rossa Internazionale e Università di Milano sono già riuscite a dare un nome a quattrocento dei corpi recuperati sul relitto. Che possono così tornare persone e non più fantasmi, abbandonati al loro tragico destino nel disinteresse collettivo in una notte di sei anni fa.
(da “a Repubblica”)
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Aprile 16th, 2021 Riccardo Fucile
“IL MIO SOGNO E’ ESSERE PORTABANDIERA DELL’ITALIA ALLE OLIMPIADI, PER ME SAREBBE UN ONORE” … “LA MIA PELLE E LE MIE SCELTE”… “PERCHE’ UN ESSERE UMANO DEVE CAUSARE DOLORE A UN ALTRO?”
Paola Egonu vuole prendersi tutto e lo dice con il sorriso sulle labbra. Nessun proclama, niente parole forti, ma solo lo sguardo verso il futuro e una serie di obiettivi da provare a raggiungere. Quella che viene considerata, non a torto, la più forte giocatrice di volley del mondo parla del suo mondo a 360° e lo fa a modo suo. Poco più di 15 giorni fa è stata premiata come MVP della Coppa Italia A1 2021 ma i suoi obiettivi per questa stagione sono ancora tanti.
Ai microfoni di Fanpage.it Paola Egonu ha parlato del suo percorso nel mondo della pallavolo, delle Olimpiadi di Tokyo, di Conegliano e della Champions League ma si è soffermata ad analizzare alcune vicende personali e problematiche sociali che l’hanno coinvolta emotivamente negli ultimi tempi.
Da qui ad un mese la finale di Champions League con VakıfBank: come stai vivendo e tutto il gruppo questa attesa?
“Stiamo bene, siamo molto felici di essere arrivate fino alla fine perché era uno dei nostri obiettivi. In questo momento siamo concentrate sullo Scudetto ma penso che lavorare bene per il primo obiettivo ci aiuti ad essere pronte anche per il primo maggio. Siamo cariche, sappiamo che mancano pochi giorni e quindi questi ultimi allenamenti valgono tanto. Quando è così tendi a innervosirti di più perché vuoi che tutto sia perfetto. C’è un bel clima perché tutte stanno spingendo, tutte ci tengono, dalle atlete allo staff”.
Con Conegliano l’anno scorso avete vinto praticamente tutto: che annata è stata?
“Stupenda sotto tutti i punti di vista, sia di squadra che personale. È stato un dispiacere non poterci giocare lo Scudetto e la Champions perché era incredibile il nostro stato di forma: stavamo vincendo tutto, credevamo molto in noi stesse e l’idea è sempre la stessa, ovvero dare il 100% e crederci sempre. Tutte noi cerchiamo di dare sempre il massimo perché siamo coscienti che solo così possiamo raggiugnere gli obiettivi. La compattezza di questo gruppo, lo spirito e l’unità ha prevalso in tante situazioni e sono davvero fiera quando ci penso”.
Cosa lascia dentro di te quest’anno senza il pubblico?
“Sembra un po’ impossibile che mi sia abituata a giocare in questo modo. Manca tanto il pubblico, quando torneremo a giocare con i tifosi sarà come la prima volta e il cuore andrà a mille. Adesso siamo solo noi atlete in campo e si sente tutto quello che ci diciamo”.
Come ti sei avvicinata alla pallavolo e come guardi adesso ai tuoi inizi?
“Non ero la giocatrice che sono adesso. Ero inguardabile, facevo fatica a prendere il tempo su una palla alta. C’è stato molto lavoro in tutto, e in tutti i fondamentali, però è stato divertente e quando guardo indietro penso alla mia determinazione per arrivare fin qui”.
Tu sei giovanissima e hai già vinto tanti trofei: come fai ad essere sempre al top?
“Mi pongo degli obiettivi. Anche nei giorni in cui vorrei stare a casa, magari sul divano a guardare una serie tv, io lavoro per questo e penso a quello che vorrei. È difficile, perché qualsiasi tipo di lavoro è complicato e non tutti i giorni ci sentiamo allo stesso modo, ma fissando degli obiettivi cerco di raggiungerli e questo fa la differenza. Mi fanno tener botta (ride, ndr)”.
Sei ‘la giocatrice più forte al mondo’ ma in campo hai mai paura di qualcosa?
“In campo no, ma prima sì. Se ripenso a tutte le partite importanti c’è sempre quella tensione che rispecchia quanto ci tieni a quella gara. Non c’è paura perché ogni giorno in palestra cerco di allenarmi e di arrivare pronta. C’è paura prima, quando studi le avversarie e vedi le loro qualità, in quel momento c’è un po’ di tensione. Appena entri in campo c’è tranquillità. I primi due punti sei tesa e pensi che deve andare bene, devi essere in grado di uscire dalle difficoltà, ma in campo non sei sola perché ci sono le compagne, l’allenatore e tutti gli altri che sono lì per sostenerti”.
Tra circa 100 giorni le Olimpiadi. Con quali sensazioni ci arrivi?
“Tendo a pensare periodo per periodo. Mi focalizzo molto sul presente e quello che sto vivendo adesso ma ogni tanto il pensiero vola lì. Sono tutte sensazioni positive ma non potrò avere risposte valide perché non abbiamo iniziato il collegiale, ormai sono due anni dall’ultima volta che abbiamo lavorato insieme e ognuna di noi ha avuto un percorso di crescita diverso per migliorarsi e arrivare più pronta possibile a questo momento. Per quanto mi riguarda sono convinta di aver fatto tutto il possibile per essere pronta. Ho due obiettivi importanti da raggiungere in questi 100 giorni ma sono pronta. Mi sudano già le mani perché l’abbiamo aspettata tanto e penso che potremmo fare belle cose”.
La Serbia ha battuto l’Italia nella finale dei Mondiali 2018 e nella semifinale europea del 2019: è arrivato il momento di prenderci la rivincita?
“Vi racconto una cosa molto buffa, che è successa dopo la gara perso all’Europeo contro la Serbia. Ero devastata, non riuscivo a ritrovarmi anche nelle cose semplici, e ricordo di aver ricevuto questa chiamata da mio padre. Mi ha detto ‘Ok, vi hanno messo in difficoltà ma immagina di poterle battere alle Olimpiadi. Non è ancora finita. Siete forti come sono forti loro e con il tempo voi imparerete ad essere più lucide e ad arrivare pronte’. Questa chiamata mi ha tirato su di morale e più ci penso e più sono convinta che deve essere così”.
Siamo nel 2021 ma il razzismo è ancora un problema sociale: come hai vissuto quello che è accaduto negli USA dopo la morte di Floyd e l’esplosione del movimento Black Lives Matters?
“Tante emozioni. La prima domanda è ‘perché siamo ancora a questo punto?’. Mi chiedo da cosa parte quest’odio, perché abbiamo voluto dividerci per razze e perché non si tenta di capire l’altro. Io sono una persona molta emotiva e fa male. Fa male sia per quello che accade in America e sia perché ora si punta in dito contro gli asiatici per il virus. Come se lo avessero creato loro. Faccio fatica ad aiutare come vorrei ma sono con tutti loro spiritualmente. Non capisco perché un essere umano debba creare dolore ad un altro, non capisco cosa c’è alla base”.
Sei stata al centro di un dibattuto al limite del surreale per la tua relazione: perché la sessualità di una persona continua ad influire nel giudizio?
“Parlando di me, non mi sono messa nessun etichetta addosso, è una cosa che hanno fatto gli altri. E ci tengo a precisare che non vorrei nessun tipo di etichetta. Le persone cambiano e non sai mai cosa può succederti nella vita. In questo momento la sessualità di una persona è giudicata perché non tutti hanno il coraggio di parlarne per come sono cresciuti, per quante poche persone si esprimono e parlano di come si sentono realmente. È un peccato. Io dico sempre ‘sii te stesso’ ma nello stesso momento devi avere il coraggio di renderti libero perché potresti essere te stesso a mettere dei paletti perché non vuoi deludere la società o la tua famiglia. Inizi a pensare ai cambiamenti che potrebbero esserci, al modo in cui ti guardano gli altri. Credo che piano piano più persone stanno iniziando a parlarne e questo mi rende felice. Con l’andare avanti nel tempo questo discorso diventerà normale e ci sarà l’accettazione di chi si è veramente. Deve partire prime di tutto da se stessi, accettarsi”.
Nelle ultime settimane c’è stata una discussione animata tra tanti personaggi dello spettacolo e l’esponente della Lega Pillon sulla legge Zan: perché secondo te in Italia è così difficile lavorare per contrastare le discriminazioni e si gioca con la vita delle persone?
“Perché si è egoisti, perché si pensa solo a se stessi e non ci si mette mai nei panni degli altri. Lo stesso discorso vale anche per i migranti: ci si pone mai la domanda sul perché lasciano il loro paese non avendo nemmeno la certezza di sopravvivere? Una volta che si proverà a capire perché lo fanno allora si potrà trovare una soluzione”.
Hai detto che se tu fossi scelta come portabandiera a Tokyo sarebbe un grande messaggio. Perché?
“Perché sono diversa. Dal colore della pelle, che è la prima cosa che noti; al mio modo di pensare e per come affronto determinati temi. Sono consapevole che ci sono un sacco di ragazze che si trovano nella mia stessa situazione e si sentono sole, non vedono quella luce, e non fanno mai quel primo passo. Potrei dare tanti bei messaggi. Sarebbe un onore e sarebbe qualcosa di diverso. Accettare tutte le diversità che questo mondo offre”.
(da Fanpage)
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Aprile 14th, 2021 Riccardo Fucile
IL LIBRO SU RIACE TRADOTTO IN GIAPPONESE
A distanza di sei anni dalla pubblicazione in Italia, il libro di Antonio Rinaldis “Riace, il paese dell’accoglienza. Un modello alternativo di integrazione” (Imprimatur, 2016), riprende il suo cammino in Giappone.
Nella prefazione all’edizione nipponica del volume si legge: “Riace è un piccolo villaggio della costa calabrese, nel profondo sud dell’Italia. In questo luogo così contraddittorio è avvenuto un piccolo miracolo, per merito del Sindaco Mimmo Lucano e di un gruppo di sognatori e utopisti, che hanno creato un villaggio globale, guidati dall’idea di una comunità aperta e inclusiva, capace di superare le differenze di razza, di origine e di religione”.
Poi, ancora: “Ai lettori giapponesi l’esperienza del piccolo villaggio calabrese può offrire motivi di riflessione per comprendere il senso della mobilità umana del nostro tempo, perché quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione non può ridursi alla libera circolazione delle merci, ma deve estendersi agli esseri umani, soprattutto a quelli che nella lotteria della nascita hanno avuto la sorte di crescere nei luoghi più poveri della Terra”.
Come è nato questo progetto editoriale?
“Per volontà di un docente dell’Università di Tokyo, la professoressa Chieko Nakabasami, che aveva letto il libro dopo un viaggio che aveva fatto a Riace. Per la Nakabasami era stata una folgorazione, nonostante le differenze culturali e sociali tra il suo Giappone ed un piccolo borgo calabrese. Il senso di quel suo innamoramento è tutto racchiuso in questa sua frase: ‘Se non c’è l’amore il mondo è come il vento che soffia fuori dalla finestra. Non lo si può sentire sulle mani, non se ne percepisce l’odore’. In essa è percepibile una saggezza tutta orientale, che però si sposa benissimo lo spirito di Riace”.
Possiamo dire, allora, che lo spirito di Riace è ancora vivo, ben oltre i confini del piccolo borgo della Locride e della Calabria
“Non c’è dubbio. Proprio la pubblicazione del mio libro in Giappone è il segno che l’esperienza di Riace suscita ancora interesse e curiosità anche in paesi molto lontani, sia dal punto di vista geografico che da quello culturale e politico. Non credo di esagerare se affermo che la storia di Riace, con i suoi valori di solidarietà e umanità, appartenga ormai al mondo intero. Sul piano pratico, invece, si può tranquillamente sostenere che il modello di integrazione realizzato da Mimmo Lucano a Riace costituisca la prova tangibile che l’immigrazione non è un problema di sicurezza e di polizia, ma, a certe condizioni, una grande opportunità per i paesi interni, soggetti ad erosione economica e demografica. Un modello virtuoso, oltre che ispirato a sentimenti di profonda umanità”.
Forse per questo il “modello Riace” ad un certo punto è finito nel mirino non solo della politica
“Beh, una cosa è certa: il successo dell’esperienza di Riace, dal punto di vista dei risvolti economici e sociali, ad un certo punto va a confliggere con la narrazione secondo cui i migranti, gli sbarchi, costituiscono una minaccia per la società (‘la difesa dei confini’, per intenderci), per la nostra sicurezza ed il nostro benessere. Riace ha dimostrato non soltanto che i migranti non ci tolgono il lavoro, ma che grazie a loro possono aumentare le occasioni di lavoro anche per gli abitanti del posto, mitigando il fenomeno della fuga dalle aree interne, che nel Mezzogiorno sta diventando una vera e propria piaga sociale”.
Quindi un modello da rilanciare?
“Certamente. Dopo i tentativi di demolizione dell’intera esperienza, è importante rilanciare l’idea di un’accoglienza che non sia emergenziale, ma progettuale, capace di attivare processi economici virtuosi e di sviluppo. Lo dico anche a partire dalle mie origini calabresi, quelle che mi hanno spinto a divulgare l’immagine di una Calabria progressista e innovatrice, in grado di superare le sue contraddizioni per proporsi come modello e progetto di futuro, anche rispetto ad altre realtà italiane, che invece rispetto al fenomeno migratorio hanno proposto soluzioni primitive e arretrate”.
In autunno si terranno in Calabria le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale. Quale migliore occasione per parlare del modello Riace e farne il cuore di una proposta programmatica che coniughi visione e pragmatismo.
“Sono d’accordo. Penso che il modello Riace debba essere uno dei punti qualificanti del programma di una coalizione per il cambiamento che veda Mimmo Lucano tra i protagonisti. La traduzione in Giappone può essere un argomento ulteriore a favore della bontà di quella proposta politica e culturale che ha messo al centro l’uomo e la solidarietà incondizionata”.
Mimmo Lucano insieme a te in Giappone a parlare della sua Riace e del modello di integrazione che lo ha consacrato come una delle cinquanta personalità più influenti al mondo?
“Sarebbe bellissimo”.
(da TPI)
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Aprile 13th, 2021 Riccardo Fucile
AVEVA VISTO IN UNA FOTO LA GIOVANE, CON UNA GAMBA AMPUTATA, MENTRE VENDE BOTTIGLIE D’ACQUA A LAGOS
Le vie dei social sono infinite. Lo sa bene Victor Osimhen che lunedì aveva lanciato
un appello: “Aiutatemi a contattare questa persona”, aveva scritto l’attaccante del Napoli nelle stories di instagram pubblicando la foto di una ragazza, probabilmente nigeriana, con una gamba amputata e una stampella, necessaria per camminare, e un recipiente in testa che contiene alcune bottiglie d’acqua, probabilmente da vendere.
Un’immagine che gli ha ricordato la sua infanzia a Lagos, quando – per sbarcare il lunario – vendeva bibite ai semafori per dare una mano alla famiglia.
Osimhen è riuscito a rintracciare la ragazza e le ha parlato a telefono, come ha testimoniato su instagram: “L’ho trovata – ha scritto il numero 9 del Napoli in inglese – voglio ringraziare tutti coloro che hanno mostrato preoccupazione per la sua situazione. Dio vi benedica”, ha concluso Osimhen, pronto ad aiutare chi è meno fortunato di lui. Campione in campo, ma anche di solidarietà.
(da agenzie)
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