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SCANDALO CORRUZIONE REGIONE SICILIA, SI INDAGA SUL TURISMO DI FRATELLI D’ITALIA

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

DAI MILIONI PER CANNES AI FAVORI SICILIANI

L’indagine che agita i vertici nazionali di Fratelli d’Italia segue una traiettoria precisa: dalla Costa Azzurra alla Sicilia. La procura di Palermo sta verificando cosa ci sia dietro la pioggia di mancette erogate dal parlamento regionale a una galassia di associazioni e realtà civiche legate a politici della destra isolana.
I pm sono partiti dalla città del cinema, Cannes. Nel 2023 anche Domani aveva svelato dettagli di quell’intreccio che partiva dal pagamento di quasi 6 milioni di euro, a cui vanno aggiunti più di 9 mila euro di rimborsi spese, da parte della Regione per la promozione dell’immagine dell’isola durante il festival del cinema. Un’idea nata durante i governi della destra, con assessori al Turismo di Fratelli d’Italia.
Tra questi l’attuale parlamentare Manlio Messina, fedelissimo della premier Giorgia Meloni e della sorella Arianna: c’è la firma di Messina sulla strategia di marketing da cui, dunque, prende le mosse l’indagine dei pm siciliani che mette al centro, con le accuse di corruzione e peculato, il delfino di Ignazio La Russa, Gaetano Galvagno, presidente dell’Ars e principale indagato dal momento che avrebbe indirizzato i finanziamenti “sospetti” con l’intento di ottenere in cambio utilità di diverso tipo, per sé e per le persone a lui vicine.
«A seguito della divulgazione di alcune notizie di stampa, la Procura Europea (sede di Palermo) ha richiesto a questo Reparto
di effettuare preliminari accertamenti in merito a fondi utilizzati dalla Regione Siciliana ed eventuali violazioni della normativa in materia di appalti pubblici (circostanza menzionata negli articoli stampa)», si legge nell’informativa dei finanzieri.
Da qui «l’esecuzione di una prima tranche di intercettazioni telefoniche» che, continuano i finanzieri, hanno «permesso di raccogliere importanti elementi confermativi delle preliminari ipotesi», ma hanno anche fatto emergere «ulteriori e più gravi condotte che vedono protagonista Sabrina De Capitani Di Vimercate, portavoce di Galvagno», anche lei sotto inchiesta e ritenuta dagli organi inquirenti la «key account della Absolute Blue» e cioè della società lussemburghese a cui l’assessorato al Turismo ha affidato una montagna di quattrini nel corso della kermesse cinematografica. Assessorato da ben due legislature in mano a potenti uomini del partito di Meloni.
«Uomo 6»
Se le indagini svelano tutte le ombre sulla gestione dei fondi dell’Ars da parte del presidente Galvagno e confermano pure il coinvolgimento dell’assessora al Turismo Elvira Amata, pure lei meloniana, da giorni la domanda che rimbalza da una parte all’altra della Sicilia è precisa: c’è un coinvolgimento di Manlio Messina? O meglio: chi è l’Uomo 6 citato nelle intercettazioni che tanto imbarazzano Fratelli d’Italia? Lui esclude che possa essere finito nell’indagine. E neanche dalla procura arrivano conferme sull’identità del misterioso «Uomo 6».
Di riferimenti a Uomo 6 ce ne sono decine nelle conversazioni intercettate tra Galvagno, la sorella Giorgia (non indagata) e Sabrina De Capitani. Di lui si parla soprattutto nelle vicende che vedono protagonista Marianna Amato, dipendente della Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana, ente che dipende dalla Regione.
Amato è anche un’organizzatrice di eventi. Nel 2023 ottiene il via libera da Galvagno per l’organizzazione di una manifestazione in occasione della giornata per la lotta alla violenza sulle donne. A chiedere di avallare la richiesta, nell’interesse della donna, sarebbe stato appunto Uomo 6. Dalle intercettazioni emerge in modo chiaro come il legame tra Galvagno e Uomo 6 sia forte.
Davanti al rischio che la Fondazione Dragotto, il soggetto beneficiario dei fondi per promuovere l’evento, potesse tagliare fuori Amato dall’organizzazione, il presidente dell’Ars va su tutte le furie: «Ma è di Uomo 6, non la può fare fuori, perché io i soldi glieli sto dando, perché me lo ha detto, lei e poi me lo ha detto Uomo 6, quindi non la può fare fuori», dice Galvagno alla sorella.
Un uomo del partito
Uomo 6 è un politico? Nelle intercettazioni gli indizi portano al partito di Meloni. Sabrina De Capitani, mentre rivendica il proprio agire da lobbista, parlando di Uomo 6 sottolinea l’ammirazione provata da Galvagno nei confronti del soggetto misterioso: «Sono un gruppo…quelli di Fratelli d’Italia al contrario di tutti gli altri sono veramente uniti».
Il tema della lealtà di Galvagno nei confronti di Uomo 6 torna spesso e diventa un punto imprescindibile nelle decisioni da prendere per finanziare l’evento del 25 novembre 2023.
Per Marcella Cannariato, la vicepresidente della Fondazione Dragotto coinvolta nelle indagini, Amato e Uomo 6 sarebbero stati legatissimi. Contattata da Domani, non ha voluto rilasciare
commenti. Si è espresso, invece, Messina, il deputato nazionale di Fdi che è stato assessore regionale al Turismo tra il 2019 e il 2022. Per molti quello di Messina – da sempre vicinissimo a Galvagno – è il profilo che più si avvicina a Uomo 6. «Non escludo di aver presentato io Marianna Amato a Galvagno, anche se non la sento da due anni», ha detto il parlamentare al quotidiano La Repubblica, assicurando al contempo di esser convinto di non essere lui Uomo 6.
Il mistero continua, ma anche l’indagine e presto si capirà chi si nasconde dietro il nome in codice.
(da Domani)

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PAPA LEONE XIV STA RESTAURANDO NON SOLO I SIMBOLI PAPALI COME LA MOZZETTA, L’APPARTAMENTO AL PALAZZO APOSTOLICO E LA RESIDENZA ESTIVA DI CASTEL GANDOLFO, MA ANCHE IL RAPPORTO CON LA CURIA, CHE CON BERGOGLIO ERA AI MINIMI STORICI

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

LE DIFFERENZE TRA “LA TERAPIA DELL’ABBRACCIO” DI PREVOST E “L’ALZHEIMER SPRIITUALE” DI CUI PARLAVA IL PAPA ARGENTINO

“Prudente”, “metodico” e “pronto all’ascolto” sono alcuni degli aggettivi usati dagli addetti ai lavori del Vaticano intervistati dall’AFP per descrivere l’approccio del primo papa americano, che l’8 maggio ha assunto la guida di 1,4 miliardi di cattolici nel mondo.
Leone è stato eletto dai cardinali dopo la morte di Papa Francesco, un riformatore carismatico che ha suscitato devozione in tutto il mondo, ma anche divisioni interne alla Chiesa durante i suoi 12 anni di pontificato. Il suo successore si è mosso con maggiore cautela, enfatizzando la tradizione e l’unità.
Leone è tornato a indossare la tradizionale mozzetta rossa (un mantello corto) e la stola sopra le vesti papali bianche. Si prenderà una pausa estiva dal 6 al 20 luglio nel palazzo papale di Castel Gandolfo, fuori Roma, la residenza di campagna storica per i pontefici che Francesco si è rifiutato di utilizzare.
Secondo una fonte vaticana, Leone XIV dovrebbe anche trasferirsi negli appartamenti papali del Palazzo Apostolico in autunno. Francesco aveva rifiutato il palazzo in favore di un semplice appartamento nella foresteria di Santa Marta.
In materia di politica, Leone ha tenuto numerosi discorsi, ma finora ha evitato di assumere posizioni che potessero offendere e non ha effettuato nomine importanti.
“Il suo stile è semplice… È una presenza che non si impone”, ha detto Roberto Regoli, professore alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. “Con lui, più che guardare alle apparenze, bisogna concentrarsi sui contenuti”.
Charles Mercier, professore di storia contemporanea all’Università di Bordeaux, ha affermato che Leone sembrava desideroso di promuovere l’istituzione piuttosto che se stesso come individuo.
“Francesco aveva un carisma che enfatizzava notevolmente attraverso la sua personalità. Leone sembra volersi integrare in un’istituzione, nell’ufficio papale, che è più di lui”, ha dichiarato Mercier all’AFP.
I dipendenti della Curia che hanno parlato con l’AFP hanno descritto Leone come un uomo “pragmatico”, “impressionantemente calmo”, “misurato e metodico”, “riflessivo” e “attento all’equilibrio”.
Anche coloro che hanno parlato sotto anonimato hanno offerto un’impressione generalmente positiva, a dimostrazione di come in soli due mesi Leone abbia ripreso il dialogo con la Curia.
“La Curia è stata scossa da Papa Francesco, con riforme decise a volte unilateralmente, persino in modo autoritario, e spesso accolte male”, ha dichiarato all’AFP una fonte vaticana in condizione di anonimato.
L’arrivo di Leone – “che ha una buona reputazione”, secondo la fonte – “ha portato un po’ di sollievo”. “Sentiamo che le cose saranno più fluide, meno personali”, hanno aggiunto.
Una frase pronunciata da Leone durante il suo primo incontro con la Curia, il 24 maggio, è rimasta impressa: “I papi vanno e vengono, la Curia rimane”. Questo contrasta nettamente con le critiche mosse da Francesco, che all’inizio del suo pontificato ha accusato la Curia di “Alzheimer spirituale” e di brama di potere.
“È chiaro che siamo in una fase di terapia dell’abbraccio”, ha commentato una fonte diplomatica europea.
Un altro inviato presso la Santa Sede ha aggiunto che Leone stava “perseguendo un approccio unificante, esattamente ciò per cui è stato eletto”.
Francesco è stato anche accusato dai critici di aver messo da parte la dottrina a favore delle questioni sociali, in particolare l’immigrazione, pur non avendo di fatto modificato i principi fondamentali della fede cattolica.
Nonostante avesse criticato la politica migratoria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump prima di diventare papa, Leone ha a malapena menzionato l’argomento da quando è entrato in carica, sebbene abbia sottolineato l’importanza della giustizia sociale.
Così come le sue aperture alla Curia sono state ben accolte, il ritorno di Leone ai simboli tradizionali del papato è stato salutato con favore da coloro che nella Chiesa accusavano Francesco di snaturare l’ufficio papale. Mercier ha però osservato che questo non esclude un cambiamento in futuro.
Leone punta a un “riequilibrio simbolico che deriva indubbiamente dal desiderio di unire il gregge cattolico, che ha dato l’impressione di essere polarizzato sotto Francesco”, ha affermato. Ma, ha aggiunto, potrebbe anche essere una strategia “per fornire garanzie simboliche che consentano di continuare a progredire nella sostanza”.
(da AFP)

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LA CAMPAGNA ELETTORALE PER IL CAMPIDOGLIO È PARTITA CON DUE ANNI IN ANTICIPO: OGGI, SU “LIBERO”, MARIO SECHI VERGA UN VELENOSISSIMO EDITORIALE CONTRO IL SINDACO, ROBERTO GUALTIERI

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

MA GIORGIA MELONI E I SUOI PATRIOTI NON HANNO FATTO I CONTI CON “IL MESSAGGERO”. IL QUOTIDIANO PIÙ LETTO DAI ROMANI, DI PROPRIETÀ DEL VEGLIARDO FRANCESCO GAETANO CALTAGIRONE, È PAPPA E CICCIA CON L’EX MINISTRO DELL’ECONOMIA COME A NAPOLI LO È CON GAETANO MANFREDI

Un grido si spande da via della Scrofa a Colle Oppio: Ripijamose Roma. È il mantra che si ripetono i Fratelli d’Italia, e anche le sorelle.
Negli ultimi giorni non si fa che parlare della possibilità che Arianna Meloni possa essere la candidata per il Campidoglio (si vota nel 2027).
È un chiodo fisso per la Ducetta, romana de’ Roma e ossessionata dalla Capitale, che ai suoi occhi richiama l’impero (su TikTok, gira ancora molto un vecchio video della premier che urla “La capitale d’Italia è Roma, e vi dico di più, dovrebbe essere la Capitale dell’Unione europea, è il posto che rappresenta al meglio la sua identità millenaria”)
La campagna elettorale per Roma è dunque già cominciata, e le truppe sono state sguinzagliate e i più proni sono già a disposizione.
Ecco che risponde subito all’appello quel falco di Mario Sechi. Il direttore di “Libero” ha vergato oggi un editoriale al veleno contro Gualtieri, un “bizzarro personaggio che indossa un caschetto da operaio e inaugura cantieri vantandosi dell’apertura di questo palazzo e del restauro di quel monumento, di quella piazza e di quel giardino.
Tutti lo guardano come il “marziano a Roma” di Ennio Flaiano, perché il tipo è lui, proprio lui, Roberto Gualtieri, il sindaco della Capitale, quella sagoma che per due anni la “vox populi” credeva fosse un fantasma”.
Poi l’affondo finale: “Nella gestione quotidiana, la Città è Eterna nell’essere un colabrodo (traffico, nettezza urbana, ordine pubblico, burocrazia sono a livelli inimmaginabili per un cittadino di Milano), ma Gualtieri gode di un immeritato momento positivo.
Le elezioni comunali sono più vicine di quanto s’immagini, il centrodestra dovrà trovare non solo un ottimo candidato, ma anche un efficace racconto della verità: il vero sindaco di Roma non è il Gualtieri tiktoker, è a Palazzo Chigi e si chiama Giorgia Meloni.”
La strada per marciare su Roma è dunque spianata? Mica tanto: la Fiamma magica delle Meloni sister non ha fatto i conti con “il Messaggero”. Il quotidiano più letto dai romani, infatti, è un fervido sostenitore di Roberto Gualtieri e delle sue scenette su TikTok.
Come potrebbe essere altrimenti: l’attivismo “inauguratorio” del primo cittadino è una manna per gli affari non editoriali di “Calta”. Per esempio, l’intensità dei lavori per le nuove fermate della metro C: tra le controllate del palazzinaro, c’è anche una società a cui è stata appaltata la costruzione dei nuovi tunnel (e per lo stesso motivo, Caltagirone è contrarissimo alla tramvia).
Un’altra brutta notizia per Fratelli d’Italia riguarda Napoli: anche “il Mattino”, principale quotidiano della città partenopea, è pappa e ciccia con il sindaco, Gaetano Manfredi, sostenuto dal centrosinistra. E chi è il proprietario del “Mattino”? Ma sempre lui, il riccone preferito da Fazzolari e Meloni…
(da Dagoreport)

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“AVETE MAI ASCOLTATO UN GIORNALISTA DI DESTRA AVANZARE UN DUBBIO SU MELONI?”: STEFANO CAPPELLINI INFILZA I SEDICENTI INTELLETTUALI DEL NUOVO CORSO MELONIANO

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

“L’INFINITO PIAGNISTEO SULLA EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA NASCONDE UN VUOTO DI IDEE E DI CORAGGIO INTELLETTUALE. CI SONO ECCEZIONI? POCHISSIME. UNA È GIORDANO BRUNO GUERRI, STORICO DI VAGLIA, INFATTI QUANDO C’È STATO DA ASSEGNARE IL MINISTERO DELLA CULTURA, MELONI LO HA DATO A GENNARO SANGIULIANO”

Nell’infinito piagnisteo della destra italiana sull’egemonia culturale della sinistra c’è un fatto che mi ha sempre colpito più degli altri.
L’assenza di idee e di coraggio intellettuale, ovvero la cortigianeria dei pensatori, o sedicenti tali, di area. Piangono per il presunto sopruso, e questa è la parte distruttiva, ma quando si tratta di dire come costruire una egemonia alternativa, sanno solo tornare a frignare, al massimo si limitano a magnificare le qualità della propria parte e dei propri leader.
Provate a chiedere un giudizio su Meloni a uno di questi professionisti del lamento, ascolterete una risposta simile a quella che Alberto Sordi dava al generale che lo interrogava
sulla sbobba servita ai soldati: com’è il rancio, soldato? Ottimo e abbondante. In questa corrività c’è una parte notevole dell’inconsistenza del pensiero di destra, mentre la funzione dell’intellettualità dovrebbe essere quella di cogliere le contraddizioni del proprio campo prima ancora di quelle del campo avverso. A sinistra, peraltro, è successo fin troppo, talvolta in forma di autolesionismo. Ma l’egemonia culturale – questo la destra italiana nel suo delirio vittimista non l’ha davvero mai capito – non si costruisce con le fanfare e gli applausi. L’egemonia è figlia di una guerra civile, fratricida.
Nanni Moretti è salito sul palco di una manifestazione del centrosinistra a piazza Navona e ha pronunciato la famosa frase che diede il via alla stagione dei Girotondi: “Mi spiace dirlo, ma noi con questi dirigenti non vinceremo mai”. Aveva ragione? Forse no, a quella classe dirigente sono legati i pochi successi elettorali della sinistra nella Seconda Repubblica, però il suo grido smosse e i motivi della sua insoddisfazione aprirono un dibattito fecondo su cosa funzionava e cosa no.
Ce lo vedete un regista di destra, a trovarlo, che fa lo stesso davanti a Meloni e Lollobrigida? Avete mai ascoltato un giornalista di area, in questo caso c’è la fila dei nuovi arrivati, avanzare un dubbio su Meloni? Ha sempre ragione. La sinistra sempre torto, contro ogni legge dei grandi numeri. Ci sono eccezioni? Pochissime. Una è Giordano Bruno Guerri, storico di vaglia, infatti quando c’è stato da assegnare il ministero della Cultura, Meloni lo ha dato a Gennaro Sangiuliano.
Ora, prevengo una facile obiezione. Pasolini, Sciascia, Eco non ci sono più e non se ne vedono i successori, da una parte e figuriamoci dall’altra. Ma questo non toglie nulla alla questione
di fondo. Il rapporto che la destra immagina con la cultura è quello del sostegno acritico: l’Istituto luce. Infatti i pochi e incerti tentativi di dire la propria in campo artistico sono paragonabili a una sessione di attacchinaggio, per chi ancora sa cosa fosse.
Qualche anno fa Renzo Martinelli girò un film su Federico Barbarossa, pellicola che voleva essere il Braveheart leghista. Aveva la credibilità di quelle fiction di Stato “governative” prese di mira in Boris, dove al Machiavelli alle prese con gli intrighi del suo tempo si mettevano in bocca esclamazioni tipo: “Serve la separazione delle carriere!”.
(da Repubblica)

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L’ECONOMIA DI GUERRA DI PUTIN SI E’ INCEPPATA

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

PREZZI DEL PETROLIO IN DISCESA, INFLAZIONE AL 10%. TASSI ALTI E SPESA PUBBLICA PROSCIUGATA DAL CONFLITTO: IL MODELLO E’ FALLITO

Può sembrare un paradosso, ma l’ultima cattiva notizia per l’economia russa rischia di portare la firma anche di Mosca. Oggi i maggiori paesi produttori di petrolio riuniti nell’Opec+ vareranno un nuovo aumento della produzione di greggio, anche superiore a quello deciso e ribadito negli ultimi mesi. Arabia
Saudita, Russia, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Kazakistan e Algeria hanno infatti raggiunto, un’intesa di massima per aprire ulteriormente i rubinetti dell’estrazione di 548 mila barili al giorno a partire da agosto. Una decisione a sorpresa, quando la maggior parte degli osservatori si attendeva un aumento di 400 mila barili, in linea con gli incrementi decisi nei mesi precedenti.
Per i paesi del cartello è una mossa per riguadagnare quote di mercato: più offerta si traduce in prezzi più bassi tagliando fuori
i paesi con costi di estrazione più alti. Un azzardo in un contesto internazionale in cui il rallentamento dell’economia mondiale lascia pensare ad un calo della domanda, con il rischio che l’eccesso di offerta spinga ulteriormente al ribasso i prezzi.
Brutte se non pessime notizie per la Russia, la cui economia di guerra – spiega il Wall Street Journal –comincia a mostrare però le prime crepe. L’attività manifatturiera è in calo, l’inflazione è ancora sulla soglia della doppia cifra, i consumatori continuano e ridurre le spese e il bilancio statale è sempre più sotto pressione.
La fine di un modello
“Il modello di crescita basato esclusivamente sulla spesa militare è fallito», ha dichiarato Janis Kluge, esperto di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli Affari Internazionali e di Sicurezza, citato dal Wsj. “Le capacità del settore civile devono ridursi, liberando lavoratori affinché la macchina bellica possa continuare a crescere. Ma non è sostenibile”. Il ministro dell’Economia russo Maxim Reshetnikov ha avvertito invece il mese scorso che la Russia “è sull’orlo della recessione”, mentre il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha definito la situazione una “tempesta perfetta”.
L’economia rallenta
Gli indicatori macroeconomici confermano questi segnali. Nel primo trimestre dell’anno il Pil russo è cresciuto dell’1,4% rispetto all’anno precedente, in calo del 4,5% rispetto quarto trimestre 2024. Il pmi manifatturiero, l’indice dei direttori degli acquisti delle aziende considerato il “termometro” più aggiornato sullo stato di salute delle imprese manifatturiere, a giugno ha registrato un preoccupante 47,5, il dato più basso d
tre anni a questa parte e sotto la soglia dei 50 punti, che separa le fasi di contrazione da quelle di espansione dell’attività produttiva.
La guerra non paga più come prima
Il maxi investimento sulla guerra sembra quindi non pagare più come prima. La spesa militare oggi viaggia intorno al 6% del Pil, il doppio degli Stati Uniti e il più alto dai tempi dell’Unione Sovietica. Le spese per la difesa e la sicurezza – ricorda sempre il Wall Street Journal – rappresentano circa il 40% della spesa pubblica totale russa di quest’anno.
La corsa dei prezzi
Ma proprio l’impennata della spesa militare ha spinto l’inflazione al rialzo, costringendo la banca centrale a tenere alti i tassi per contenere la fiammata dei prezzi, a maggio scesi per la prima volta, dal 21 al 20%. Tassi più alti che ovviamente limitano le possibilità di credito per imprese e famiglie, a danno della crescita economia del Paese.
Campanelli di allarme registrati anche dalle principali banche del Paese che negli ultimi mesi hanno visto crescere la quota di Npl, cioè crediti deteriorati difficilmente esigibili, con VTB, il secondo maggior istituto di credito del Paese e controllato dallo Stato, ha registrato un tasso di crediti deteriorati nel segmento retail del 5% a maggio 2025, in aumento rispetto al 3,8% della fine del 2024. Numeri che non spaventano però la banca centrale russa, che si è affrettata a rassicurare che i rischi di insolvenza sono ampiamente coperti dal buffer di capitale delle banche.
Il rischio del petrolio low cost
Ma la macchina da guerra russa, pur super sanzionata, si è alimentata negli anni grazie alla consistente vendita di petrolio, pur già venduto a sconto rispetto ai prezzi delle quotazioni internazionali. Ora la discesa dei prezzi “guidata” dal cartello dei produttori porterebbe aggiungere ulteriori elementi di incertezza. Un report recente della banca centrale finlandese mostra come Mosca ha fissato nelle proprie previsioni di budget un prezzo del petrolio a 70 dollari al barile. Se i prezzi scendessero ancora il disavanzo pubblico potrebbe crescere ulteriormente. Nel dettaglio, secondo lo studio, se il prezzo medio di esportazione del petrolio greggio russo fosse di 55 dollari al barile nel 2025 e di 54 dollari nel 2026, invece dei 70 e 60 dollari previsti rispettivamente dal quadro di bilancio, il PIl russo perderebbe un punto ciascun anno. Non poco per un economia già in frenata.
(da agenzie)

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INTERVISTA A FRANCESCA ALBANESE: “LE CRITICHE SUL RAPPORTO GENOCIDIO A GAZA? HO RACCONTATO UNA REALTA’ CHE ESISTE DA ANNI”

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

LA RELATRICE ONU PER I DIRITTI UMANI NEI TERRITORI PALESTINESI: “QUELLA DI ISRAELE E’ DA ANNI UNA ECONOMIA DELL’OCCUPAZIONE E DEL SUO PROGETTO DI COLONIZZAZIONE”

La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese, ha consegnato il suo ultimo rapporto. Un documento immediatamente attaccato dall’amministrazione di Donald Trump che ne ha chiesto addirittura la rimozione. La giurista italiana si è concentrata
sulle aziende private di tutto il mondo che stanno guadagnando milioni grazie al genocidio a Gaza e alle politiche di occupazione portate avanti dal governo Netanyahu in Cisgiordania, con la distruzione dei villaggi palestinesi e l’allargamento delle colonie illegali.
Un rapporto, quello della Albanese, che descrive una vera e propria economia globale legata all’occupazione dei territori palestinesi e al mantenimento dell’offensiva militare a Gaza. Produttori di armi, produttori di aerei e droni, ma anche aziende che sviluppano tecnologie, università che prestano i loro cervelli per la ricerca e l’innovazione bellica, ma anche aziende di bulldozer, ruspe e gru, strumenti sempre presenti nelle politiche di occupazione. In questa intervista abbiamo provato a delineare i contorni del rapporto che per la prima volta non mette nel mirino solo le oggettive responsabilità degli Stati, ma anche quelle delle aziende private che stanno beneficiando della tragedia che si sta consumando a Gaza ed in Cisgiordania.
Tracciamo i contorni del suo rapporto, di questo lungo lavoro che ha ultimato.
“Il mio rapporto racconta di una realtà che sarebbe dovuta essere messa in luce già anni fa, cioè che Israele nel tempo, in quello che rimane dei territori palestinesi occupati, ha creato una vera e propria economia dell’occupazione, come parte integrante del suo progetto di colonizzazione. Il disegno è quello di cancellare i territori palestinesi, scacciare questi dalle loro terre, rimpiazzandoli con i coloni, e per fare questo hanno utilizzato tre settori. Il primo è quello della distruzione, cioè le armi, gli strumenti prodotti dalle imprese civili per abbattere le case palestinesi, ma anche l’acquisto massiccio di cancelli, muri,
blocchi di cemento e ferro, tutto quello che serve per spostare e innalzare confini, che riguarda tutti materiali che sono dual use, sia civile che militare. Il secondo settore è quello della costruzione, cioè una volta distrutte le case dei palestinesi bisogna costruire quelle per i coloni, ma anche creando un tessuto protetto di produzione di beni e servizi, fatto tutto dai coloni. Basti pensare che i prodotti al dettaglio lavorati nelle colonie costano meno degli altri, perché ad esempio non pagano l’energia. In questo settore ci inserirei anche l’economia legata al turismo internazionale, che fa appunto parte dei progetti di ricostruzione dei territori una volta cacciati via i palestinesi. Il terzo settore è quello dei facilitatori, le banche principalmente, i fondi pensione e anche le università. Questa è l’economia dell’occupazione, che è criminale in sé per sé”.
Da dove vengono le aziende che hanno fatto affari in questa economia dell’occupazione?
“Innanzitutto le imprese coinvolte non solo non si sono sottratte all’uso delle loro produzioni, che sono finalizzate all’occupazione dei territori palestinesi, così come avrebbero dovuto fare ai sensi del diritto internazionale, ma hanno invece implementato le produzioni. Hanno avuto un ruolo nella guerra genocidaria a Gaza, ad esempio. Tra le aziende che ho investigato il 20% sono statunitensi, invece una percentuale che va tra il 20% ed il 30% sono europee”.
Tra quelle italiane quali possiamo citare?
“La Leonardo gioca un ruolo fondamentale. Nella produzione di armi, nella consulenza tecnica, nello sviluppo di nuove tecnologie sempre votate ad avere un ulteriore “successo” bellico. La Leonardo contribuisce sia in modo diretto che in
modo indiretto, infatti è anche un luogo di transito grazie ai partenariati con le università. Ci sono tanti investimenti su questo tipo di economia grazie alla Leonardo, che a sua volta fornisce proprio il know how sulla parte di armamenti e su quella per le tecnologie. Ci sono anche altre aziende italiane e piano piano le sveleremo”.
Ci sono anche aziende che producono mezzi e strumenti per le costruzioni e le demolizioni, quali sono?
“Possiamo citare la Volvo e la Hyundai ad esempio. I loro mezzi vengono utilizzati per la demolizione dei villaggi palestinesi e anche per la costruzione e l’allargamento delle colonie. Anche loro partecipano in maniera importante all’economia dell’occupazione e ne hanno tratto grandi profitti”.
In questo quadro di interessi del settore privato esiste anche una responsabilità degli Stati?
“Gli Stati sono responsabili prima di tutti, perché sono loro ad avere gli obblighi di riconoscere le sanzioni nei confronti di Israele. Avrebbero già dovuto tagliare tutti gli accordi commerciali e soprattutto il trasferimento e la vendita di armi di sorveglianza. Avrebbero dovuto già prendere misure, invece sono lì, come il governo italiano, a storcersi le vesti chiedendosi se devono riconsiderare l’accordo di partenariato militare con Israele. Certo che lo devono assolutamente sospendere. Non capisco questo doppio standard quando si parla di Israele, o meglio lo capisco e mi dà ancora più fastidio perché è proprio ideologico e razzista. C’è un doppiopesismo quando si parla della Russia o della Siria e quando si parla di Israele, che commette crimini gravissimi e lo si giustifica sempre. Gli Stati sono responsabili in quanto violano il diritto internazionale
fomentano l’impresa di Israele, e sono responsabili anche di ciò che fanno le imprese, perché dovrebbero impedirglielo. Le imprese ora devono cominciare a pagare in prima persona, deve esserci un momento di svolta”.
Tra i soggetti interessati all’economia dell’occupazione ci sono anche le università…
“Ce ne sono anche molte tra quelle italiane, le renderemo pubbliche dopo aver fatto le procedure di messa in mora. Hanno delle responsabilità attraverso gli accordi di partenariato, anche con le università israeliane che hanno un ruolo nelle politiche di apartheid nei confronti dei palestinesi. Sono le stesse università che non hanno detto nulla mentre Israele distruggeva 11 università a Gaza, oltre a tutto il settore educativo, alle scuole. Hanno invece represso chi si è esposto ed espresso solidarietà con i palestinesi. E poi hanno un ruolo nello sviluppo della tecnologia militare, dei servizi di sorveglianza, ma anche sulle ricerche sull’acqua ad esempio. Tutte le università italiane, e poi saremo più dettagliati in futuro, quando tutti gli iter saranno completati, che hanno accordi con le università israeliane che partecipano alle politiche di occupazione, sono complici”.
Ha sentito gli attacchi di Trump al suo rapporto, cosa si sente di dire?
“Niente. Continuerò semplicemente a fare il mio lavoro”.
(da Fanpage)

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TRUMP ERA STATO ELETTO PER RIDARE SPERANZA ALL’AMERICA DIMENTICATA, E INVECE RUBA AI POVERI PER DARE AI RICCH

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

IL TYCOON FIRMA IL “BIG BEAUTIFUL BILL” LA LEGGE DI BILANCIO CHE TAGLIA SUSSIDI E PROGRAMMI SANITARI AI PIÙ DEBOLI, HA SPACCATO IL PARTITO REPUBBLICANO.E POTREBBE ESSERE UN CLAMOROSO BOOMERANG PER LE ELEZIONI DI MIDTERM DEL 2026

Nel Giorno dell’indipendenza Donald Trump ha firmato il One Big Beautiful Bill (Obbb), la maxi manovra che è il fuoco artificiale più luminoso della sua presidenza.
Ma già da giovedì, quando la Camera ha votato il provvedimento dopo giorni di turbolenti negoziati e pesanti malumori nel mondo Maga, il presidente ha inaugurato la seconda fase del suo piano, quella in cui deve far accettare la riforma a un elettorato che chiedeva protezione sociale e rigore
nella spesa, e si trova invece tagli fiscali per gli ultraricchi, riduzione della copertura sanitaria e spese massicce sull’immigrazione sostenute creando 3.300 miliardi di debito.
In Iowa Trump ha inaugurato America250, un tour di eventi pensato per celebrare la cavalcata di un anno verso il 250° anniversario della Dichiarazione di indipendenza, ma che ha lo scopo politico più immediato di rassicurare e ricompattare un popolo repubblicano scosso da crescenti perplessità.
L’architettura del Obbb è un esercizio di redistribuzione al contrario. Il cuore del provvedimento consiste in una massiccia riduzione delle imposte per i ceti alti, con l’estensione permanente dei tagli fiscali del 2017 e nuove deduzioni per professionisti e grandi proprietari.
A beneficiarne sarà soprattutto il 10 per cento dei contribuenti più ricchi: secondo l’Urban-Brookings Tax Policy Center, otterranno il 72 per cento dei vantaggi fiscali.
Un’opera chirurgica a favore di chi già sta bene, mascherata da manovra per le famiglie. Nel frattempo, l’impatto sui redditi bassi e medi sarà tutt’altro che trascurabile.
Secondo le stime del Congressional Budget Office, il 10 per cento dei meno abbienti perderà quasi il 4 per cento del reddito e circa 17 milioni di americani perderanno l’accesso al programma Medicaid – la copertura sanitaria per i ceti più bassi – nei prossimi dieci anni. I requisiti lavorativi più rigidi, la riduzione dei finanziamenti federali e la scomparsa della cosiddetta “provider tax” – che aiutava stati e ospedali a finanziare le cure – colpiranno soprattutto anziani, disabili e lavoratori poveri
L’Obbb non è solo una legge finanziaria: è una dichiarazione di
intenti. È la promessa che il «grande governo» verrà ridimensionato e che l’America tornerà autosufficiente, grazie all’iniziativa individuale.
Ma, per sostenere questa visione, la manovra accumula una montagna di debito pubblico. E mentre i tassi d’interesse salgono, i costi del servizio del debito rischiano di strangolare le finanze federali in tempi di crisi.
Una legge pensata per liberare l’economia dalle catene dello stato finirà per creare nuove catene finanziarie per le generazioni future.
Con le elezioni di midterm del 2026 già nel radar, Trump tenta di costruire un’agenda di risultati concreti da presentare agli elettori. Ma l’Obbb potrebbe avere l’effetto opposto: mobilitare l’elettorato democratico e spaventare i moderati.
I democratici hanno già annunciato una campagna aggressiva contro i tagli a Medicaid e Medicare, puntando soprattutto ai distretti suburbani e agli swing states dove il consenso per i programmi di assistenza resta forte.
Il partito repubblicano, dal canto suo, è spaccato.
L’elezione di Midterm è di fatto un referendum sul partito al potere. Ma qui il potere è incarnato in modo pressoché totale da una sola figura: Trump.
L’Obbb, nel suo impianto ideologico e fiscale, è una sua creazione personale, fatta anche in contrasto con un’ampia corrente del partito.
Se l’operazione dovesse fallire – se gli effetti negativi inizieranno a farsi sentire prima del voto – il danno sarà distribuito a tutto il paese, ma la firma del provvedimento sarà chiaramente leggibil
Trump scommette sulla sua narrazione, cioè che i massicci tagli fiscali saranno il catalizzatore di una crescita che darà ragione delle spese a debito. Ma dietro lo storytelling la realtà è brutale.
L’Obbb rischia di svuotare il contratto sociale americano in nome di un modello effimero costruito per i ricchi e pagato dai più vulnerabili.
Se la manovra si rivelerà impopolare – e i sondaggi preliminari lo suggeriscono – le urne potrebbero presentare il conto già nel novembre 2026. Con un paradosso finale: una legge voluta per consolidare il potere del Gop potrebbe finire per eroderlo.

(da agenzie)

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A POCHI GIORNI DALLA SCADENZA DELLO STOP AI DAZI, IL 9 LUGLIO, GLI STATI UNITI MINACCIANO NUOVE TARIFFE DEL 17% SUI PRODOTTI AGRICOLI EUROPEI. TRUMP PRETENDE CHE BRUXELLES CONCEDA ESENZIONI PARTICOLARI ALLE AZIENDE AMERICANE, E CHE COMPRA GAS E PETROLIO (A CARO PREZZO) DAGLI STATES

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

GLI STATI UE SPACCATI TRA CHI VUOLE CEDERE SUBITO (MERZ E MELONI) PUR DI NON INDISPETTIRE IL TYCOON E CHI INVECE È DISPOSTO A RITORSIONI PESANTI (MACRON E SCHOLZ), COME QUELLE ATTUATE DALLA CINA. CHE POI HA TROVATO UN’INTESA DECENTE CON WASHINGTON

Gli Stati Uniti hanno minacciato di colpire le esportazioni agricole dell’Ue con tariffe del 17% in una drammatica escalation del loro conflitto commerciale con Bruxelles.
Lo riporta il Financial Times citando alcune fonti. La richiesta dell’ultima ora arriva a pochi giorni dalla scadenza del 9 luglio. Donald Trump vuole che Bruxelles conceda alle aziende americane esenzioni dalle regole e riduca il suo surplus commerciale con gli Stati Uniti.
La mossa, spiega il Financial Times, è arrivata prima della scadenza del 9 luglio per concordare un accordo commerciale, dopo la quale gli Stati Uniti hanno dichiarato che imporranno tariffe del 20% su tutti i beni dell’Ue se non verrà raggiunto un accordo.
Il presidente Donald Trump vuole che Bruxelles conceda alle aziende statunitensi ampie esenzioni dai regolamenti e che riduca il suo surplus commerciale con gli Usa. E’ quanto emerge dalle discussioni avute nella riunione degli ambasciatori Ue, dove sembra che il pessimismo si stia diffondendo in vista della scadenza del 9 luglio. «Siamo esattamente dove eravamo la settimana scorsa. Non c’è mai stato un senso di ottimismo. Tutti, fin dall’inizio, dicevano che sarebbe stato difficile», ha riferito all’AGI una fonte diplomatica.
«Non c’è un accordo chiaro, tutte le opzioni rimangono sul tavolo», ha confermato una seconda fonte. L’obiettivo rimane comunque di arrivare a un accordo di principio entro il 9 luglio per evitare che tornino i dazi al 20%. I colloqui – a quanto si apprende – andranno avanti anche nel weekend.
Gli americani si sono irrigiditi e stanno alzando la posta. È questo, in sintesi, il messaggio che il capo di gabinetto di Ursula von der Leyen ha trasmesso ai rappresentanti dei 27 governi ieri, durante una riunione dedicata a fare il punto delle trattative dei giorni scorsi tra il commissario al Commercio, Maros Sefcovic, e le sue controparti americane.
Gli esponenti dell’amministrazione Usa non soltanto non sembrano disposti ad accettare le richieste europee di esentare determinati settori dai dazi, avanzate per «digerire» il mantenimento del livello-base al 10%, ma insistono con la domanda di abbattere alcune barriere non tariffarie e addirittura hanno minacciato di introdurre dazi al 17% sull’export dei prodotti agroalimentari, andando a colpire un settore politicamente molto sensibile in Europa.
Proprio ieri c’è stata una telefonata tra Giorgia Meloni e il presidente americano Donald Trump. Per parlare soprattutto di Ucraina, ma anche di dazi
«Non posso dire cosa accadrà – ha messo le mani avanti la premier – perché la competenza è della Commissione. Da parte italiana, abbiamo lavorato per fare in modo che il rapporto con gli Usa fosse franco e costante, teso a cercare di risolvere insieme i problemi. Dobbiamo essere soddisfatti per essere riusciti a ricostruire un dialogo, vedremo nei prossimi giorni». Durante la missione negli Stati Uniti del commissario Sefcovic non c’è stata alcuna schiarita.
L’impressione – spiegano fonti Ue qualificate – è che tutto sia nelle mani di Trump. Lunedì sarà il 7 luglio e in assenza di un’intesa il 9 scadrà la pausa «concessa» dal presidente americano. Un accordo di principio entro quella data consentirebbe di evitare l’aumento dei dazi, rinviandolo per dare spazio ai negoziati di secondo livello. Diversamente da mercoledì scatterebbe l’aumento: Trump aveva minacciato il 50%, ma l’aspettativa è che in una prima fase dovrebbero salire al 20%.
A quel punto l’Ue non potrà non rispondere. E su questo punto si riaprirebbe il dilemma che minaccia di rompere la compattezza Ue: accettare un accordo non ottimale pur di evitare una guerra commerciale oppure mostrare i muscoli e far scattare la rappresaglia?
Le contromisure sono sul tavolo, ma solo una piccola parte è già stata approvata e dunque al momento le armi europee sono spuntate. Per questo la prima linea sembra essere prevalente, ma fonti diplomatiche avvertono: «Prima di decidere, vogliamo avere un quadro chiaro. E questo quadro ancora non c’è».
Trump gioca con il tempo, visto che la scadenza del 9 luglio è dietro l’angolo e i tentativi di posticipare l’innesco delle tariff
per 170 Paesi non hanno sin qui prodotto grandi risultati. Parlando dall’Iowa giovedì sera, il capo della Casa Bianca aveva annunciato per il giorno successivo l’invio di lettere a dieci Paesi alla volta per comunicare il livello di dazi cui il loro export verso gli Usa sarà soggetto.
È una mossa che evidenzia l’impossibilità di negoziare e chiudere intese con tutti i Paesi coinvolti nei dazi reciproci. Dopo aver sbandierato il 2 aprile che l’America era pronta a discutere con chiunque e aver lanciato lo slogan, «90 accordi in 90 giorni», il presidente ha riposto nel cassetto l’ambizione: «Ci sono oltre 170 Paesi, e quanti accordi possiamo fare? È troppo complicato», ha commentato.
Il caso delle discussioni con l’Unione europea è evidente. Ma pure con il Giappone ci sono nodi che all’inizio sembravano superabili e che poi – complici anche le imminenti elezioni legislative – si sono ulteriormente ingarbugliati.
(da La Stampa)

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PER TRUMP NON CI SONO ALLEATI O NEMICI, MA SOLO OPPORTUNITÀ DI FARE AFFARI; ZELENSKY HA CHIESTO PATRIOT E TRUMP HA MOSTRATO INTERESSE, MA NESSUN AIUTO GRATUITO. L’ASSISTENZA DIVENTA BUSINESS, RAFFORZA L’INDUSTRIA AMERICANA E SCARICA I COSTI SU KIEV ED EUROPA

Luglio 5th, 2025 Riccardo Fucile

OGNI ALLEATO È UN CONTRATTO, OGNI GUERRA UN INVESTIMENTO DA VALUTARE…L’EUROPA, NEL FRATTEMPO, RESTA AI MARGINI, SENZA UNA STRATEGIA AUTONOMA NÉ UNA VOCE UNITARIA. LA SUA INFLUENZA RESTA ACCESSORIA

La sequenza è rivelatrice: il 2 luglio il Pentagono sospende l’invio di armamenti vitali, inclusi i missili Patriot. Il 3 Trump parla con Putin, e quella notte avviene il più massiccio bombardamento russo dall’inizio della guerra. Il 4 chiama Zelensky.
La telefonata Trump-Putin è diretta, pragmatica. Trump cerca risultati immediati, non compromessi di principio. Ma il muro russo resta invalicabile: Trump si dichiara «molto deluso» , ma non chiude la porta.
Putin parla di «cause profonde del conflitto»: un lessico strategico che maschera un’agenda imperiale: annessioni riconosciute, neutralizzazione dell’Ucraina, esclusione dalla NATO e limiti permanenti alla sua capacità militare.
L’atteggiamento attendista di Putin mette alla prova l’impazienza strategica di Trump. Putin prende tempo, punta a massimizzare i risultati della nuova offensiva estiva per arrivare al tavolo più forte, in posizione di superiorità. Trump si limita a chiedere «una fine rapida delle ostilità», eludendo volutamente il nodo cruciale della sovranità ucraina.
L’asimmetria è strutturale: Mosca vuole l’accettazione dello status quo, Washington cerca una tregua a qualsiasi prezzo, anche se significa congelare il vantaggio russo sul campo.
La telefonata è la rappresentazione plastica di un mondo tornato a logiche bilaterali e imperiali.
L’interruzione unilaterale degli aiuti militari americani è alla base della telefonata con Zelensky.
La decisione americana è politica: fare pressione su Kiev, spingerla al negoziato e offrire aperture a Mosca in cambio di dividendi su Iran, energia, Artico, Cina.
Zelensky ha definito la telefonata «molto importante e fruttuosa» e affermato che Trump si è impegnato ad aiutare Kiev nella difesa aerea. Ma i dettagli dicono anche altro: Zelensky ha chiesto Patriot e proposto la coproduzione di droni, cercando di agganciare la sicurezza ucraina agli interessi industriali americani.
Trump ha mostrato interesse, ma nessun aiuto gratuito. L’assistenza diventa business, rafforza l’industria americana e scarica i costi su Kiev ed Europa. Trump agisce secondo una logica transazionale: l’assistenza non è solidarietà, ma scambio. Ogni alleato è un contratto, ogni guerra un investimento da valutare.
Questo approccio riflette la nuova politica estera americana: meno regole, più affari. Trump non vede l’invio di armi come un dovere di sicurezza collettiva, ma come scelta legata alla convenienza immediata.
Se le forniture riprenderanno, come probabile, non saranno comunque generose. Sufficienti a evitare la critica di impedire all’Ucraina di difendere le proprie città, ma non a irritare Mosca. L’Ucraina, infatti, è solo una parte del più ampio rapporto con la Russia.
L’Europa, nel frattempo, resta ai margini. Tenta di colmare il vuoto americano con forniture e diplomazia, ma senza una strategia autonoma né una voce unitaria. La sua influenza resta
accessoria. E mentre l’Ucraina rischia l’isolamento operativo, l’Europa rischia quello strategico.
L’imprevedibilità del presidente americano non è un incidente: non ci sono alleanze durature, solo interessi. La sicurezza di Ucraina ed Europa è subordinata al successo personale ed economico del presidente.
Mosca gioca una partita lineare (restaurazione imperiale), Pechino una paziente (egemonia sistemica), Trump una caotica: distrugge le regole senza crearne di nuove. È questo il vero vuoto strategico che minaccia l’Occidente.
Trump ragiona per transazioni, non per strategie. Ogni alleato è sacrificabile
L’imprevedibilità non è un difetto, ma una leva deliberata. In un mondo concepito come gioco a somma zero, il rispetto si ottiene con la forza, la coerenza è sacrificata alla flessibilità.
L’erraticità diventa sistema: una diplomazia del caos che destabilizza e obbliga tutti a confrontarsi con un’America imprevedibile ma ancora decisiva.
Trump, Putin e Zelensky incarnano tre visioni incompatibili: restaurazione imperiale, diplomazia transazionale, difesa della sovranità.
Il rischio è che in un sistema privo di regole condivise, la sovranità diventi negoziabile e chi non definisce l’ordine finisca per subirlo.
Ettore Sequi
per “La Stampa”

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