Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
DA FINTI PACIFISTI A PERACOTTARI: LA MESCHINA FIGURA DEI CIALTRONI PADAGNI …SI SONO CALATI LE BRAGHE E VOGLIONO PASSARE PER EROI, MA LA NATO NON E’ SILVIO… CON UN MISERO 10% DI VOTI, SOLO BERLUSCONI POTEVA FARSI RICATTARE DA LORO E NON PRENDERLI A CALCI NEL CULO
Il modello da sfilata padagna Reguzzoni aveva appena terminato di dire che l’accordo con il Pdl sui bombardamenti in Libia era stato raggiunto sulla base del fatto che “il governo italiano si impegnerà con gli alleati nel fissare una data per la fine della missione e poi comunicarla al Parlamento”, che dalla Nato hanno fatto immediatamente sapere che stabilre un calendario di fine operazioni è impossibile.
Due schiaffoni in pieno viso hanno così riequilibrato il barcollante senatur e il suo fido modello, leccato capogruppo alla Camera dei Lord.
Dal quartier generale di Bruxelles è arrivata infatti subito la precisazione ufficiale:”dureranno fino a quando le forze di Gheddafi non smetteranno di attaccare la popolazione civile libica”, ha tagliato corto l’ammiraglio Rinaldo Veri, responsabile delle attività navali di ‘Unified protector’.
L’Alleanza “non è in grado di fissare un termine alla durata della missione militare in Libia. La missione – si fa ancora notare – durerà il tempo che sarà necessario”.
Crolla così subito il castello di bugie dei compagni di merende del governo italiano.
Dall’opposizione arrivano commenti al vetriolo.
“Questa ‘quadra’ che avrebbe trovato la maggioranza ancora non l’ho vista ma immagino che abbiano rappattumato un po’ tutto. E’ una cosa farsesca. Il solito tentativo di mettere insieme ciò che insieme non può stare, con molte furbizie, con qualche silenzio e con una grande strumentalità “, afferma dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro.
“Tra Bossi e Berlsuconi – denuncia una nota del Terzo Polo – si è svolta una pantomima umiliante” : il Terzo Polo ha deciso per questo motivo di votare soltanto la propria mozione ed è disponibile a dare la propria astensione a quella del Pd.
“Non eravamo mai caduti così in basso – prosegue il comunicato – Di comune, nel Governo, c’è solo la confusione. Una maggioranza seria, degna di tale nome e non asservita ai ricatti isolazionisti della Lega, avrebbe dovuto favorire una sola mozione che fosse espressione unitaria dell’intero Parlamento, con la quale stringersi intorno alle nostre Forze Armate e onorare gli impegni internazionali con un ruolo da protagonista”.
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
DUE ATTORI DA AVANSPETTACOLO CHE SI CONTENDONO IL PALCOSCENICO: UNO VIVE SOTTO RICATTO PERENNE DEI BEONI PADAGNI, L’ALTRO E’ COMPLICE DI UN CRIMINALE DI GUERRA… IL PRIMO CI FA FARE FIGURE DA PIRLA NEL MONDO, IL SECONDO FA IL PACIFISTA A ORE E INVOCA I FUCILI SOLO CONTRO MERIDIONALI E IMMIGRATI
“Abbiamo trovato l’accordo su tutti i punti previsti dalla nostra mozione”. 
Lo ha detto poco fa il capogruppo della Lega alla Camera, Marco Reguzzoni, al termine della riunione di maggioranza a Palazzo Chigi.
Non sono suonate le campane a festa, ma, per chi temeva una crisi di governo e la messa in discussione della pensione da parlamentare, non sono suonate neanche le campane a morto.
Il governicchio Berlusconi-Scilipoti può andare avanti in coma vegetativo, in attesa del duro risveglio elettorale.
Dopo quasi una settimana di chiacchiere, con minacce e schiarite, ultimatum e riconciliazioni, al dunque la maggioranza si è ricompattata sulla missione italiana in Libia.
E non poteva essere altrimenti, non essendo fattibile nè uscire dalla Nato, salvo essere spernacchiati in tutto il mondo, nè rinunciare allo stipendio da parlamentare e perdere le elezioni.
I punti più controversi che rischiavano di mettere in difficoltà la maggioranza erano due “apparenti” condizioni posti dal Carroccio nella mozione: la fissazione di una data precisa per il disimpegno dalla nostra missione in Libia e la questione del suo finanziamento, che non deve prevedere ricarichi fiscali ai danni dei contribuenti.
Sapete su quale base è stato trovato il compromesso?
Si questa frase che l’indossatore leghista Reguzzoni ha anticipato ai giornalisti: “Il governo si impegnerà con gli alleati nel fissare una data per la fine della missione e poi comunicarla al Parlamento”.
Cioè il nulla, tutto come prima: quando finirà la guerra in Libia, ce ne andremo anche noi come tutti gli altri, prima no.
Tanto è vero che si parla di “fine della missione” non di “fine della nostra missione”.
Reguzzoni infatti non è entrato nel merito degli accordi, salvo anticipare la decisione di “individuare con gli alleati una data per la fine delle ostilità “. «Abbiamo trovato un accordo nella maggioranza» ha poi cercato di spiegare, aggiungendo che «l’accordo è stato considerato soddisfacente per il mio partito».
In pratica il pacifista a ore Bossi adesso ha deciso che si può bombardare Gheddafi, rimediando una figura da bauscia.
Non che la controparte abbia dato migliore immagine, se non quella del solito personaggio soggetto ai ricatti dei beoni padagni per via delle sue vicende giudiziarie private.
“Si impapocchierà un documento confuso per accontentare tutti – aveva previsto in mattinata l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema – Spero che in tutto questo l’immagine internazionale dell’Italia, già caduta in basso, non precipiti. Quando si partecipa a missioni così complesse bisognerebbe cercare di comportarsi seriamente”.
Ma nessuno dice l’oggetto reale della trattativa e cosa ha ottenuto Bossi per rinunciare ad arrancare alla marcia pacifista: il posto da vicesindaco per Salvini a Milano (cui la Moratti si era opposta), almeno un posto da sottosegretario per Brigandì (colui che era entrato al Csm in quota Lega senza averne titolo, dopo aver rinunciato al posto da parlamentare e, una volta cacciato, si era ritrovato senza stipendio da entrambe le parti).Nonchè una serie innumerevole di posti negli Enti che contano e che emergeranno nei prossimi giorni.
Il partito “di lotta e di governo” si è calato le braghe: anche a culo nudo, meglio essere comodi su una morbida e remunerata poltrona.
Cala il sipario sul palcoscenico da avanspettacolo.
In attesa del nuovo atto.
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
IL SINDACATO E’ DIVISO, MA PREVALE LA SCELTA TATTICA: “SAREBBE STATO FACILE SCARICARE SUI LAVORATORI LA SCELTA DEL NO”….”COSI’ L’AZIENDA NON AVRA’ PIU’ ALIBI PER NON FARE L’INVESTIMENTO PROMESSO”…ALTRI NON SONO D’ACCORDO: “VOTARE SI’ AD UN ACCORDO CHE SUPERA IL CONTRATTO NAZIONALE NON VA BENE”
Alla ex Bertone di Grugliasco, storica carrozzeria di qualità recentemente acquistata dalla Fiat, dove la Fiom ha la stragrande maggioranza dei delegati, le Rsu (rappresentanze sindacali unitarie) hanno deciso che voteranno “sì” all’accordo chiesto dall’azienda.
Diranno “sì”, cioè, a quello che è stato rifiutato a Pomigliano e poi a Mirafiori: riduzione delle pause, mancato pagamento di alcuni giorni di malattia, limitazione del diritto di sciopero tramite la “clausola di responsabilità ”.
Una scelta destinata a imprimere alla vertenza Fiat un volto nuovo.
Con una Fiom che cambia posizione rispetto alle precedenti consultazioni, anche se comunque si tiene le mani libere.
E con l’azienda che non dovrebbe avere più alibi per non fare l’investimento promesso.
La decisione si è materializzata ieri mattina dopo un’affollata assemblea dei lavoratori indetta dalle Rsu e a cui hanno partecipato il segretario Fiom, Maurizio Landini, il responsabile dell’auto della Uilm, Eros Panicali e il segretario della Fim torinese, Claudio Chiarle.
Il senso di questa scelta è stato spiegato dal leader degli operai Cgil in azienda, Pino Viola: “Abbiamo detto sì perchè questo referendum non è libero, è un ricatto e sarebbe stato troppo facile scaricare sui lavoratori la responsabilità di un eventuale vittoria del no. Questo non vuol dire che siamo d’accordo”.
In Fiom spiegano che si tratta di una scelta in parte obbligata: la fabbrica è chiusa da sei anni e quando la Fiat l’ha acquistata ai circa 1100 operai è sembrato che finalmente si potesse tornare a lavorare.
Tra l’altro su una produzione di qualità , la Maserati, che richiede una certa cura e professionalità .
à‰ a quel punto che è arrivata la doccia fredda della Fiat: se volete l’investimento di 550 milioni necessario a far ripartire la fabbrica, ha detto Marchionne, allora dovete accettare le condizioni già avviate a Pomigliano e Mirafiori.
Un “ricatto” hanno subito detto le Rsu dove la Fiom ha il 65 per cento dei consensi.
Ma Marchionne ha tenuto il punto fino a minacciare il trasferimento della Maserati in un’altra località , anche fuori dall’Italia.
Fa qui la decisione di ieri che ha una forte componente “tattica”.
Lo confermano le parole dello stesso Landini che, riferendosi alla decisione delle Rsu, parla di “azione di legittima difesa”.
“Il fatto che le Rsu – osserva il segretario della Fiom – abbiano detto che nonostante il ‘sì’ non sono d’accordo per niente ma che non sono loro che devono decidere la chiusura della loro fabbrica è un atto di responsabilità e di intelligenza tanto che, non avendo rispettato il mandato, si sono detti disponibili a una verifica tramite una rielezione.”
Il passaggio si spiega, in effetti, con la particolare situazione della ex Bertone, fabbrica chiusa da anni con gli operai in cassa integrazione a talmente timorosi di non riuscire a riottenerla che uno di loro qualche giorno fa ha anche tentato di togliersi la vita gettandosi da un cavalcavia.
Ora è ricoverato in gravi condizioni.
Ma la tattica non sarà facile da spiegare.
E la “mossa” della Fiom non mancherà di avere effetti tra i lavoratori e all’interno della stessa organizzazione.
Se infatti da Cisl e Uil vengono apprezzamenti convinti, dall’interno della Fiom si sentono già diverse critiche. Il segretario nazionale Fiom, Sergio Bellavita, espressione di quella parte di Cgil che fa riferimento alla sinistra di Giorgio Cremaschi, parla di decisione “grave e al di fuori dei deliberati del Comitato centrale”.
Bellavita sostiene che con tale legittimazione si vanifica la via legale scelta finora e che, in ogni caso, “neppure la Rsu eletta nelle liste Fiom, può sottoscrivere un’intesa che cancella le libertà sindacali e accetta quello che si è rifiutato a Pomigliano e a Mirafiori”.
Da qui, la richiesta di convocazione urgente del Comitato centrale.
Un “chiarimento” lo chiede anche Augustin Breda della componente Cgil di Lavoro e Società .
Un primo scontro interno, del resto, si era avuto già sabato scorso, durante il Coordinamento nazionale dei lavoratori Fiat in cui sono volate parole grosse tra il segretario Landini e lo stesso Cremaschi che di fatto aveva accusato la segreteria nazionale di “arrendersi” al ricatto della Fiat.
Ne è seguita una riunione drammatica con delegati in lacrime e con una sensazione diffusa di amarezza.
Ieri un certo disagio lo si percepiva anche tra i delegati Fiom di Mirafiori, che solo lo scorso gennaio hanno condotto una difficile battaglia per il “no” al referendum voluto da Marchionne.
“Io onestamente non me l’aspettavo” dice Pasquale Lojacono delle Carrozzerie di Mirafiori venuto davanti ai cancelli della Bertone a parlare con i suoi colleghi.
“Pensavo che ci si sarebbe limitati a non dare indicazioni di voto perchè anche io capisco la difficoltà di chi non lavora da sei anni. Ma votare a favore di un accordo che supera il contratto nazionale non va bene, rischiamo di uscirne a pezzi”.
Ora la parola, ancora una volta, passa ai lavoratori Bertone che finiranno di votare oggi nel loro referendum.
La partecipazione di ieri è stata massiccia e il risultato dovrebbe essere in linea con le aspettative.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
NEL MIRINO IL CLAN POLVERINO CHE CONTROLLA LE PIAZZE DELLO SPACCIO… SEQUESTRATI IMMOBILI, TERRENI, AUTO, MOTO E SOCIETA’… ARMANDO CHIARO, CONS. COM. PDL DI QUARTO, E’ CONSIDERATO IL PRESTANOME DELL’ORGANIZZAZIONE CRIMINALE… PER SALVATORE CAMERLINGO L’ACCUSA E’ DI SPACCIO DI DROGA E DETENZIONE ILLEGALE DI ARMI
Ci sono anche due candidati del Pdl tra le quaranta persone arrestate questa
mattina dai carabinieri nel corso del blitz che ha interessato il clan camorristico dei Polverino.
Uno dei due, in particolare, è Armando Chiaro, consigliere comunale di Quarto (Napoli) e ritenuto prestanome dell’organizzazione, già destinatario negli anni passati di un’ordinanza di custodia cautelare.
L’altro nome che figura nelle liste del Partito delle libertà è quello di Salvatore Camerlingo, cugino del boss Salvatore Liccardi.
Anche per Camerlingo sono scattate le manette: è infatti accusato di spaccio di droga e detenzione illegale di armi. In particolare, Camerlingo è considerato “uomo d’ordine del clan”.
I provvedimenti notificati questa mattina sono stati emessi su richiesta dei pm Antonello Ardituro, Marco Del Gaudio e Maria Cristina Ribera.
Le altre 38 persone arrestate sono elementi di spicco e gregari del clan attivo nell’area nord di Napoli.
Le indagini sono partite nel 2007, in collaborazione con la Guardia civil spagnola, per il traffico di droga tra Italia e Spagna.
Tra gli arrestati manca ancora il boss Giuseppe Polverino, che deve scontare due anni di casa-lavoro e che è da tempo ricercato.
Sequestrati anche con un decreto preventivo immobili, terreni, auto, moto e società .
Tutti gli arrestati rispondono a vario titolo di reati che vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, ai tentati omicidi, estorsioni, usura, traffico e spaccio di droga, trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, riciclaggio di capitali di provenienza illecita.
I Polverino controllano anche attività commerciali tra l’Italia e la Spagna, oltre a gestire il traffico di droga che dalla penisola iberica porta sostanza stupefacente a rifornire ‘le piazze di spaccio’ gestite da altri clan napoletani.
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
TREMILA SBARCHI NEL FINE SETTIMANA, SCATTATO IL PIANO DELLA PROTEZIONE CIVILE PER DISTRIBUIRE GLI IMMIGRATI IN TUTTA ITALIA
L’isola si è svuotata e la furia del mare e del vento che scarica sabbia africana promette un’altra tregua negli arrivi.
I quasi tremila immigrati arrivati nel fine settimana hanno già lasciato Lampedusa a bordo di due navi e adesso tocca alle regioni, soprattutto quelle del Centro e Nord Italia, aprire le porte ai profughi subsahariani fuggiti dalla Libia.
I nuovi arrivati vanno nei centri richiedenti asilo di Mineo, Caltanissetta, Pozzallo, Bari e Crotone nei posti lasciati liberi da chi, arrivato nelle scorse settimane, avrà ora una destinazione definitiva nei luoghi e nelle strutture messi a disposizione dalle Regioni secondo il piano di ripartizione concordato nelle scorse settimane con il ministro dell’Interno Maroni.
Il capo della Protezione civile Franco Gabrielli oggi darà il via all’operazione trasferimenti che coinvolgerà complessivamente 3.000 persone.
«Dai vari Cara – spiega Gabrielli – partiranno circa 1.500 persone per le varie regioni italiane e nel frattempo a prendere il loro posto arriveranno altri. Da Lampedusa sono già partiti domenica altrettanti migranti con la nave Flaminia e ancora altri 1.500 ieri sera con la Moby Vincent. Per questi 3.000 ci sarà dunque un passaggio per verificare le loro condizioni prima di trasferirli nelle varie Regioni».
Questa volta si comincia dal Nord: le destinazioni previste per i profughi che lasceranno i centri di accoglienza per i richiedenti asilo sono in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana.
Qualche centinaio di profughi saranno smistati anche in strutture di Marche, Puglia, Calabria, Campania e in provincia di Roma.
Distribuzione che – assicura il commissario per l’emergenza – avverrà tenendo conto della dignità delle persone.
«Non trattiamo pacchi, ma persone, quindi collaboriamo con le organizzazioni umanitarie per organizzare i trasferimenti nel migliore dei modi». Rassicurazioni che Gabrielli intende dare a quanti, nelle scorse settimane, hanno criticato aspramente il piano del governo nella parte che avrebbe implicato lo sradicamento dei richiedenti asilo già inseriti in contesti di accoglienza.
«Abbiamo già contattato l’agenzia dell’Onu per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale migranti, perchè i rifugiati sono persone con criticità psicologiche, proprio perchè provenienti da territori in guerra, come l’Africa subsahariana. Per questo collaboriamo con chi di questi problemi si occupa ordinariamente, nell’ottica dell’emergenza, certo, ma anche di creare meccanismi di accoglienza degni appunto di persone e non di pacchi».
A Lampedusa, dopo l’ultimo assalto, rimangono solo una settantina di tunisini che da oggi dovrebbero cominciati ad essere rimpatriati e circa 180 richiedenti asilo.
Ma il ministro dell’Interno Maroni non si fa illusioni.
La consapevolezza che barconi stracarichi di migranti riprenderanno ad apparire all’orizzonte non appena il mare si sarà calmato è diffusa.
Alessandra Ziniti
(da “La Repubblica“)
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
NATO NEL 1951, PER ANNI E’ STATO IL BRACCIO DESTRO DEL CAPO DI AL QAIDA…SULLA SUA TESTA PENDE UNA TAGLIA DI 25 MILIONI DI DOLLARI…MA VI SONO ALTRE PERSONALITA’ DI RILIEVO
Dopo la morte del leader di al Qaeda Osama bin Laden, si apre il problema della
successione all’interno dell’organizzazione terroristica.
A prendere il comando, anche secondo l’ex capo dei servizi pachistani di intelligence (Isi), il generale a riposo Hamid Gul, sarà il braccio destro dello sceicco saudita, Ayman al Zawahiri, medico egiziano nato il 19 giugno 1951 (Leggi la sua scheda sul sito dell’Fbi), fra i fondatori di al Qaida alla fine degli anni Ottanta.
Cinquantanove anni, nato in una famiglia di magistrati e medici egiziani, il ‘dottore’, numero due dell’organizzazione di Osama Bin Laden, è a fianco dello ‘sceicco del terrore’ da oltre un decennio, da quando, in nome della comune lotta contro “gli ebrei e i crociati”, l’ala egiziana del jihad si unì a quella che faceva capo al miliardario saudita.
Entrato nei “Fratelli musulmani” a 14 anni -il gruppo radicale sunnita che ha ispirato Osama Bin Laden sin dall’inizio dei suoi studi in una scuola religiosa di Gedda — Al Zawahiri fu tra le centinaia di persone arrestate a seguito dell’assassinio del presidente egiziano Anwar al Sadat, il 6 ottobre del 1981. Rilasciato poco dopo, si recò in Afghanistan, dove si unì alla resistenza dei mujahidin contro l’occupante sovietico: fu allora che per la prima volta entrò in contatto con Bin Laden, con cui diede vita ad Al Qaeda.
Già nel 1996, gli Stati Uniti — che su di lui hanno posto una taglia di 25 milioni di dollari – lo ritenevano la minaccia più seria e credibile contro gli obiettivi americani.
Come poi dimostrato dagli attacchi alle ambasciate degli Stati Uniti in Kenya e Tanzania, nell’agosto del 1998, costati la vita a oltre 250 persone.
Le autorità del Cairo lo ritengono responsabile anche dell’attentato nel novembre del 1997 a Luxor, nel quale morirono 62 turisti, per il quale è stato condannato a morte in contumacia.
Volto e voce di Al Qaeda — numerosi sono i messaggi video e audio che ha registrato in questi anni per incitare al Jihad, denunciare “i crociati, le cospirazioni sioniste e gli arabi traditori”- al Zawahiri fu già obiettivo di un raid americano all’inizio del 2006.
Il 13 gennaio, la Cia lanciò un attacco a Damadola, un villaggio pachistano al confine con l’Afghanistan, dove credeva si trovasse il medico egiziano invitato a una cena di leader militanti.
Nel raid morirono 18 persone, tra cui cinque donne e cinque bambini, mentre al Zawahiri, la cui presenza a quella cena non venne mai in realtà confermata, sfuggì all’attacco aereo americano.
In un messaggio audio del mese di aprile 2008, il numero due di al Qaeda definì le Nazioni Unite “un nemico dell’Islam e dei musulmani” e assicurò che Bin Laden era “vivo e in buona salute”.
Nel gennaio successivo, in un nuovo messaggio, il medico egiziano giurò vendetta per gli attacchi israeliani su Gaza.
Il 14 dicembre 2009 Zawahiri rilanciava l’appello a dar vita ad uno stato islamico in Israele ed esortava i suoi a “promuovere il jihad contro gli ebrei” e i loro sostenitori.
Ma vi sono altre personalità di spicco nell’organizzazione integralista che sono da tempo nell’occhio delle autorità americane.
Saif Al-Adel: egiziano, 50 anni circa, anche lui ex membro Jihad islamica egiziana, sarebbe il capo del ramo militare di Al Qaeda. Ricercato per gli attentati contro le ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salaam nel 1998. Su di lui una taglia di 5 milioni di dollari.
Ali Said Ben Ali El-Hoorie: saudita, 46 anni, accusato di aver partecipato agli attentati di Dahran del 1996 (19 militari Usa morti). Cinque milioni di dollari la taglia.
Amwar Al-Aulaqi: statunitense d’origine yemenita, 39 anni, imam e predicatore radicale, non è ritenuto organico ad Al Qaeda, con la quale avrebbe però legami per via della sua intensa opera di predicazione e reclutamento via internet e la sua influenza. Si ritiene sia nascosto all’interno della sua tribù nello Yemen.
Fasul Abdullah Moahammed: originario delle Comore, 40 anni circa, si ritiene diriga Al Qaeda nell’Africa orientale, sia l’interfaccia con gli Al Shabaab somali e sia coinvolto negli attentati di Nairobi e Dar es Salaam.
Adam YaHhiye Gadanh: 32 anni, statunitense convertito all’ Islam, reclutatore e predicatore su internet in arabo e inglese. Ricercato dagli Usa per «tradimento» e per «atti terroristici». Taglia di un milione di dollari.
Suleiman Abu Ghaith: 46 anni, imam del Kuwait, bandito dalla predicazione per il suo radicalismo, si unì a Bin Laden nel 2000, divenendone uno dei principali portavoce.
Fahd Mohammed Ahmed Al-Quso: 37 anni, yemenita, ritenuto uno degli organizzatori dell’attentato contro la nave Uss Cole ad Aden nel 2000. È stato in carcere nello Yemen dal 2002 al 2007 e ora sarebbe in Al Qaeda nella Penisola araba (Aqpa).
Abdullah Ahmed Abdullah: 50 anni, egiziano, ritenuto braccio destro di Abdullah Mohammed in Africa orientale. Nelle lista originale dei 22 più ricercati per terrorismo dell’Fbi. La taglia è di 5 milioni di dollari.
Anas Al-Liby: libico, 47 anni, vero nome Nazih Abdul-Hamed Nabih al-Ruqai, ex rifugiato in Gran Bretagna, anch’egli ricercato per gli attentati in Kenya e Tanzania del 1998.
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
LA TESI DI GIULIETTO CHIESA: E’ STATA CREATA AD ARTE UNA NOTIZIA PER I FINI ELETTORALI DI OBAMA…LE DICHIARAZIONI DI CHI NE AVEVA GIA’ CONFERMATO LA MORTE ANNI FA…LA RICOSTRUZIONE FA ACQUA DA TUTTE LE PARTI E IL CADAVERE NON VIENE MOSTRATO
La foto di Osama Bin Laden “morto” è solo una patacca, miserabile e macabra: un puerile fotomontaggio che risale addirittura al 2006, trapelato già allora dai network dell’intelligence e pubblicamente smascherato.
La verità ? Lo “sceicco del terrore” sarebbe morto da anni, mentre la sua rete terroristica, Al Qaeda — famigerata e fantomatica — avrebbe cessato di esistere almeno dal 2002, se non prima.
Pertanto, quella che è andata in scena il 2 maggio 2011 in tutto il mondo non sarebbe che l’ennesima puntata di una clamorosa fiction.
Lo afferma Giulietto Chiesa, che con bestseller come “La guerra infinita” e il documentario “Zero” è stato il primo, in Italia, a smontare la versione ufficiale sull’11 Settembre e sul “terrorismo islamico” di marca afghana.
Pur ammettendo la doverosa necessità di attendere conferme e riscontri che ancora mancano, rispondendo alla mail di un lettore sul sito “Megachip”, Giulietto Chiesa conferma: è vero, abbiamo letteralmente «visto crearsi la notizia» della morte di Osama Bin Laden.
E, almeno in prima battuta, se la sono “bevuta” tutti: non solo gli italiani, ma anche i «paludati» americani, i tedeschi, gli inglesi.
Che non hanno esistato a mostrare al mondo intero «una falsa fotografia» di Bin Laden, ottenuta “taroccando” una celebre foto di lui in vita: l’immagine sotto accusa, scrive Chiesa, «era già stata dimostrata falsa nel 2006, mi pare, quando emerse per la prima volta dai meandri di qualche servizio segreto».
Appendice comica: una giornalista italiana ha notato, nel fotogramma, «l’occhio che Osama aveva perduto», confondendo Bin Laden con il Mullah Omar.
E nessuno che, finora, si sia soffermato sulle modalità di uccisione dell’Osama che figura nell’immagine esibita: si è parlato di “un colpo di pistola alla testa”? «Non so da dove sia venuta la notizia — premette Chiesa — ma se fosse venuta da una fonte ufficiale, mi sarei chiesto subito: perchè ucciderlo? Non era meglio tenerlo in vita e mostrare al mondo il trofeo?».
Un conto, infatti, è uccidere un ricercato in uno scontro a fuoco: può succedere. «Ma ammazzarlo a freddo non quadra».
Eppure, «tutti zitti ad accettare tutto quello che viene da Washington».
Ovvero, dalle stesse fonti secondo cui il cadavere sarebbe stato “sepolto in mare”, e per giunta “secondo il rito islamico”: che non prevede affatto — anzi, vieta — la sepoltura in mare.
Tutte voci da prendere con le pinze, avverte Giulietto Chiesa: «Se non ci fanno vedere il cadavere io starei molto, molto attento ad accreditare qualsiasi virgola successiva, qualsiasi testimonianza, qualsiasi prova. Inclusa, ovviamente quella del Dna».
Motivo?
Presto detto: le autorità americane dopo l’11 Settembre fornirono prontamente il Dna di passeggeri e “terroristi” coinvolti nell’attentato al Pentagono: «Basta chiedersi quanto costa la parcella di un collegio di analisti del Dna, specie se si tratta di medici militari, e il problema è risolto», commenta Chiesa, sarcastico.
Come dire: l’unica vera “prova” sarebbe l’esibizione del cadavere.
Che invece, almeno per il momento, sembra sia scomparso. In mare?
Mistero.
Per niente misteriose, invece, le notizie ormai datate sulla morte di Bin Laden: ne parlò la defunta Benazir Bhutto in una intervista ad Al-Jazeera, tuttora visibile sul sito web della televisione araba.
Problema: la Bhutto è stata assassinata in un attentato nel 2007, dopo aver denunciato come «dittatore» il presidente pachistano Pervez Musharraf, alleato di ferro di George W. Bush nella “guerra al terrorismo”: è noto che l’Isi, il servizio segreto del Pakistan — addestrato dalla Cia — ha svolto un ruolo determinante nelle retrovie afghane, dall’omicidio del leader Ahmad Shah Massoud in poi, fino ai più recenti attentati attribuiti a gruppi “islamici”.
Anche il vedovo di Benazir Bhutto, l’attuale presidente pachistano Zardari, dichiarò che, secondo le sue informazioni, Osama Bin Laden era «morto da tempo».
«Due dichiarazioni di non poco conto», osserva Giulietto Chiesa, sulla vera fine di Bin Laden: che risalirebbe quantomeno a prima del 2007.
Per non parlare di Al Qaeda, il temutissimo network di Osama: secondo quanto ammesso da Alain Chouet, ex capo dell’antiterrorismo francese, in una audizione ufficiale al Senato di Parigi, Al Qaeda «non esiste più dal 2002».
E comunque, anche quando esisteva, per Chouet era composta «da non più di una quarantina di elementi», ai quali non era comunque possibile attribuire «tutti gli attentati che le furono assegnati».
Nonostante ciò, dice Chiesa, prepariamoci pure a sorbirci «il florilegio di scemenze su Al Qaeda “decapitata”».
Tutto falso: nessuna decapitazione, «sempre che sia davvero esistito qualcosa di simile a ciò che la Grande Fabbrica dei Sogni e della Menzogne ci ha venduto in questi anni», aggiunge Giulietto Chiesa, convinto che la sigla Al Qaeda sia stata essenzialmente un alibi per giustificare la “guerra infinita”, con truppe occidentali dislocate in aree vitali, petrolifere o comunque strategiche, contese da Cina e Russia.
Ma l’opinione pubblica, si sa, preferisce credere agli «asini che volano»: basta che lo dica la televisione, come insegna il saggio “La società dello spettacolo” di Guy Debord.
Ma perchè “far morire” Bin Laden proprio ora, se lo stesso Obama ha dichiarato che il super-ricercato era stato localizzato già dallo scorso agosto?
«Troppe sono le ipotesi in campo, tutte ugualmente attendibili, e inattendibili», ammette Giulietto Chiesa, che propende per la chiave di lettura elettoralistica: un colpo di scena a favore della traballante presidenza Obama. «Non so se lo rieleggeranno, ma è certo che le sue sorti politiche erano in forse. La campagna elettorale per la sua rielezione è cominciata oggi: sotto il segno giubilante di “Obama il vendicatore dell’America”. Questa è una spiegazione possibile. Delle altre avremo occasioni di parlare»
Giulietto Chiesa
(da libreidee.org)
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
PARE CHE SIA PRONTO UN BELL’INCARICO ALLA MONDADORI: TRA LIBRI E POESIE, LONTANO DA QUELLI CHE NON L’HANNO CAPITO… MA DOPO AVER GARANTITO IL SEGGIO ALLA COMPAGNA
Molto dolente per l’esperienza (al ministero dei Beni culturali) e per la mozione di
sfiducia, Sandro Bondi medita sul futuro.
Lo si vede all’ora di colazione, a fianco l’amata compagna onorevole Manuela Repetti, nei bar del centro di Roma, due passi dal Palazzo, in golf lilla o di un mauve che farebbe impazzire Antonio Caprarica (e quindi il principe di Galles, secondo l’interpretazione di Caprarica, però).
Colori così da vispa Teresa sono accettabili per chi ama il genere, nel weekend forse.
Scelti nella settimana parlamentare diventano significativi: sono la bandiera della lontananza, l’esibizione della distanza dalla tavolozza abituale di chi fa politica.
Figuriamoci rispetto al funereo cromatismo ideologico del prediletto leader della libertà .
Il progetto, affinato, è questo, e i colleghi deputati sostengono che il Cavaliere ne è stato già messo a parte.
Il primo pensiero di Bondi è Repetti, che brav’uomo!
Quindi la garanzia che lei abbia un seggio sicuro nelle prossime elezioni. Repetti non è uno stracchino, è di tempra dura, trame e tradimenti non la scalfiscono, anzi la mandano in sollucchero.
Per una così la politica è più che il suo karma.
E in un certo senso, infatti, lei sembra già aver preso il posto di lui: non solo l’identità dei colori, in lavanda lui, in lavanda lei, ma anche quella del numero di cellulare: sì, chi chiama lui si sente rispondere da lei.
Prima il comunismo, poi il berlusconismo, due epoche, due delusioni: Bondi accarezza ora un’altra chance intellettuale.
Ha dovuto abbandonare il sogno utopico-mitologico di diventare il nuovo Bottai.
Naturalmente per colpa dei tumulti della sinistra “ideologizzata e fanatizzante”.
Quindi sistemata al meglio la sorte di Manuela, il desiderio è di abbandonare il partito per un’altra provincia dell’impero: la Mondadori.
Quale posto migliore e familiare dove occuparsi di libri e di cultura, di collane e cataloghi, non più di correnti carogne finalmente, per lui così scrittore e così poeta?
Prospettiva alla quale, invece, Sara Giudice, ex giovane Pdl ora Fli, ha detto no.
Lo ha raccontato ai giornali, a Radio radicale e alle tv locali: dopo le proteste per l’inserimento alquanto forzato di Nicole Minetti nelle liste regionali Pdl, dopo aver fatto petizioni sulla faccenda e aver ripetutamente telefonato al premier senza risposta – per forza – le sarebbe arrivata la proposta di un bel posticino alla Mondadori: rimandato al mittente.
Bondi forse sì, Giudice no.
Comunque due indizi di novità : che la casa editrice presieduta da Marina Berlusconi, più volte sospettata di essere l’erede politica designata del Cavaliere – la Marine Le Pen italiana – prenda un giorno il posto della Camera dei deputati diventando la camera di compensazione di profughi e ribelli, il rifugio dei papaveri del partito.
E si trasformi nel blue print, nel canovaccio di quello che agli esordi della discesa in campo fu la concessionaria Publitalia, il serbatoio della prima ondata di classe politica berlusconiana.
Sempre che Marina non ponga il suo veto.
Anche se con quello che è successo c’è da comprendere il desiderio di reincarnazione di Bondi.
Meglio le carpe e le oche del laghetto di Segrate che i serpenti e gli scorpioni del Transatlantico.
Denise Pardo
(da “L’Espresso“)
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Maggio 3rd, 2011 Riccardo Fucile
PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI VARESE, SIEDE NEL CDA DELLA FINANCIERE FIDERAUM DI PARIGI… COME CI SIA ARRIVATO SENZA COMPETENZE SPECIFICHE NON LO DICE, MA L’ARTICOLO CHE GLI HA DEDICATO “IL FATTO” NON E’ STATO INSERITO DALLA BANCA NELLA RASSEGNA STAMPA… E SPUNTA ANCHE LA NOMINA NEL CDA DI FINMECCANICA
“E allora, qual è il problema?”, ribatteva il leghista Dario Galli quando il Fatto Quotidiano, due settimane fa, gli ha chiesto del suo incarico di amministratore della Financière Fideuram di Parigi.
Già , qual è il problema se il presidente della provincia di Varese, ex deputato e poi senatore del partito di Bossi, si è visto assegnare una poltrona da banchiere all’estero e per di più da un grande gruppo come Intesa?
Proprio lui, ingegnere e piccolo imprenditore senza nessuna esperienza specifica in campo bancario.
Qualche problema, però, ci deve essere se, come rivela un comunicato del sindacato Fisac Cgil, Banca Fideuram ha scelto di censurare l’articolo del Fatto Quotidiano nella rassegna stampa che ogni giorno viene diffusa tra i dipendenti dell’istituto milanese.
Chissà , forse non era esattamente motivo d’orgoglio far sapere in giro che la banca si affida a un politico leghista mentre sbandiera merito e competenza come unici criteri per nomine ed incarichi.
Galli, 53 anni, sostiene invece che l’incarico a Parigi gli serve per capire come vanno le cose nel mondo del credito. Insomma, sarebbe una specie di stage. Uno stage retribuito, però.
In un anno l’inesperto banchiere riceve 10 mila euro per partecipare a sole quattro riunioni del consiglio di amministrazione, con tanto di viaggio pagato fino alla magnifica Place Vendome, dove ha sede Financiere Fideuram.
Insomma “i leghisti, legati al territorio, che aspirano alla secessione dall’Italia non disdegnano però una poltrona, addirittura in terra transalpina”, commenta il comunicato della Fisac.
Galli, a dire il vero, ha conquistato un posto di prestigio anche in Italia.
E questa volta la nomina è pubblica, perchè il presidente della provincia di Varese fa parte del consiglio di amministrazione di Finmeccanica, il grande gruppo di Stato (quotato in Borsa) che produce aerei, armi, treni e sistemi di comunicazione.
Lì però la scelta si spiega con la logica della lottizzazione partitica: incarico a un leghista, per di più espressione di un territorio dove Finmeccanica è presente con numerosi e importanti impianti.
Quando il Fatto Quotidiano gli ha chiesto di raccontare come era arrivato ad accomodarsi al vertice della banca parigina, Galli è rimasto nel vago. “Non posso spiegare esattamente”, ha replicato.
L’ex parlamentare è l’unico consigliere senza un’esperienza specifica in campo bancario.
Gli altri quattro amministratori di Financiere Fideuram sono tutti funzionari del gruppo Intesa.
Tocca a loro governare quella che a prima vista sembra una scatola gonfia di perdite. In bilancio ci sono oltre 70 milioni di passività legate agli esercizi 2007 e 2008, chiusi in profondo rosso. Insomma per Galli, banchiere per caso, c’è molto da fare.
E da imparare.
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