Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile LA CASA DELLA LEGALITA’, OSSERVATORIO SULLA CRIMINALITA’ E LE MAFIE, INTERVIENE SULLA VICENDA LOCALE DI FUTURO E LIBERTA’: FINI VUOLE PULIZIA, NAN ACCOGLIE IN SEDE I MAMONE…IL PRESIDENTE DELLA CAMERA DIA L’ESEMPIO: ACCOMPAGNI NAN ALLA PORTA
Gianfranco Fini rilancia la necessità espressa da Paolo Borsellino affinchè la politica faccia
pulizia prima e indipendentemente dalle sentenze e dai rilievi penali di certe frequentazioni, contiguità e connivenze.
E Paolo Borsellino aveva ragione…
Gianfranco Fini farebbe bene, oltre che riprendere le parole ed il messaggio di Paolo Borsellino, nel giorno dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, anche nel dare l’esempio con il proprio partito…
Già in AN aveva lasciato dei portoni spalancati, ove entravano direttamente pullman di finti tesserati dalle cosche, che condizionavano congressi, liste ed eletti (provi a dare un occhio alla provenienza dei signori prediletti dal locale della ‘ndrangheta di Ventimiglia, e troverà Eugenio Minasso, Alessio Saso, Vincenzo Moio… e se ci si sposta sul candidato alle regionali del 2010 a Genova, spalleggiato da boss quali Gangemi, Condidorio, Bruzzaniti e Gorizia, di nuovo è un altro parto di An, Aldo Praticò).
Problema passato? No!
Il responsabile regionale di FLI in Liguria, l’avv. Enrico Nan, chi ti va ad incontrare?
I Mamone, ovvero gli esponenti della famiglia della ‘ndrangheta che si è fatta impresa e che – legata ai Mammoliti ed ai Gullace-Raso-Albanese e Piromalli – ha costruito un vero e proprio monopolio degli appalti pubblici (anche a seguito di interdizione atipica antimafia del Prefetto Musolino, di un rinvio a giudizio per corruzione, di un inchiesta per il controllo degli appalti pubblici, di miriadi di contestazioni di illeciti ambientali… nonchè un tentativo – documentato dalla Dia – di corruzione di un pubblico ministero)…
I Mamone che hanno appoggiato Burlando ed il centrosinistra alle amministrative e che per operare alla meglio si sono anche costituiti una propria loggia Massonica… sono stati ricevuti senza problemi dal Nan presso la sede di FLI a Fiumara…
Lo sa che uno degli uomini legati ai Mamone, ovvero il Pietro Malatesti, con la gestione del Nan, era indicato come uno dei Presidenti di Circolo di FLI?
Non sa chi è Malatesti, cerchi sul nostro sito e troverà quanto basta, da atti ufficiali quali un rapporto del Gico alla Procura della Repubblica di Genova, in merito ai rapporti dei Mamone con altri esponenti della criminalità organizzata calabrese (come lo Stefanelli Vincenzo, oltre che con il Carmelo Gullace, i Rampino, i Gorizia…) e – ma guardi che roba – per il condizionamento del voto alle elezioni Il brindisi del 1993 di Gino Mamone con i boss… e poi appalti su appalti amministrative del 2007 per il Comune e la Provincia di Genova e naturalmente per questioni di affari & appalti.
Persino Mastella disse che con certa gente non voleva avere a che fare (pensi un po, Mastella!)…
E pare anche che con i Mamone, ad incontrare Nan, ci fossero personaggi di quel Tigullio dove i Nucera di Condofuri (a partire dal Santo Nucera), ma anche i Piromalli, la fanno da padroni.
Ed allora: on. Fini non è forse il caso di dare l’esempio che l’invito formulato da lei oggi a Palermo può essere tradotto in pratica oltre che mediaticamente sparato nel giorno della memoria di Borsellino?
Borsellino diceva che certe frequentazioni devono trovare risposta dalla politica, mettendo fuori dalla porta i protagonisti, anche se di penalmente rilevante non vi è nulla nei loro atti e comportamenti.
Quindi: accompagna Nan alla porta o quella di oggi era solo sparata mediatica?
Nan dice che non li conosceva… ma a dirigere partiti in terre dove la ‘ndrangheta da decenni condiziona politica, economia, pubbliche amministrazioni e settori di controllo, non ci possono essere, crediamo, persone che non “conoscono” famiglie e personaggi arcinoti.
L’ingenuità , come le frequentazioni e contiguità , non si può tollerare, non condivide?
In molti, iscritti e dirigenti di FLI a Genova le hanno chiesto provvedimenti, non li hanno visti e si sono dimessi in massa… cosa penseranno nel sentirla parlare bene ma razzolare male?
Provi a porsi questa domanda e, non sarebbe male, che, coerentemente a quanto a detto oggi, dia una risposta.
Casa della Legalità
Ufficio di Presidenza
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile PALERMO RICORDA LA STRAGE DI VIA D’AMELIO 19 ANNI DOPO…FINI: “NELLA BATTAGLIA CONTRO LA CRIMINALITA’, QUELLO POLITICO E’ UN FRONTE DECISIVO: I PARTITI SONO TENUTI A SVOLGERE UN’OPERA DI PULIZIA AL LORO INTERNO”
“I partiti sono tenuti a svolgere un’opera di pulizia al loro interno”.
Così il presidente della Camera, Gianfranco Fini, nel corso della commemorazione della strage di via D’Amelio in cui 19 anni fa morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Fini è intervenuto nell’aula magna del palazzo di giustizia di Palermo. “Nella battaglia contro la criminalità organizzata – ha detto – quello politico è un fronte decisivo. È un fronte che passa sia per l’attività di governo e per quella legislativa sia per la forza di mobilitazione dell’opinione pubblica. Passa soprattutto per la capacità degli stessi partiti di fare pulizia al proprio interno eliminando ogni ambigua zona di contiguità con la criminalità e il malaffare”
Sul fronte delle indagini si parla di almeno «due verità possibili» e di almeno un tentativo di depistaggio.
Sullo sfondo, come unica certezza, resta la pista della trattativa, l’accordo tra Stato e Mafia che il braccio destro di Giovanni Falcone, ucciso pochi mesi prima, avrebbe scoperto alla fine di giugno 1992, mettendosi forse di traverso.
Per questo la sua eliminazione sarebbe stata affrettata.
Il procuratore nisseno Sergio Lari si appresterebbe infatti a concludere sulla base di queste ipotesi le indagini che porteranno alla richiesta di revisione del processo per alcuni condannati con sentenze definitive.
La svolta, attesa per settembre, dovrebbe coinvolgere anche investigatori – tre sono iscritti nel registro degli indagati per falso e calunnia – che avrebbero pilotato le accuse di Vincenzo Scarantino, il collaboratore di giustizia della prima ora smentito prima da Gaspare Spatuzza e poi da Fabio Tranchina, fedelissimi di Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio che avrebbe organizzato l’attentato premendo perfino il telecomando per innescare l’auto-bomba.
L’ombra del sospetto si allunga intanto sul gruppo di investigatori, guidati da Arnaldo La Barbera, questore morto nel 2002, che per Lari avrebbe allestito un «colossale depistaggio».
Tre funzionari risultano attualmente indagati, ma l’indagine tocca altri investigatori tra cui il poliziotto che avrebbe alterato un verbale del 1994.
Accanto alle dichiarazioni di Scarantino sono state trovate le annotazioni di un poliziotto che avrebbe svolto, si sospetta, un ruolo di «suggeritore».
Ma è tutto l’impianto accusatorio basato sulle indagini del pool di La Barbera a essere smentito su molti punti dalla Procura di Caltanissetta e dalle rivelazioni di Spatuzza considerato un collaboratore attendibile.
I nuovi indirizzi dell’inchiesta stanno insomma delineando quella che il procuratore Lari definisce una «deriva istituzionale».
Il Presidente della Camera Fini ha sollecitato un maggior impegno della politica sul fronte etico.
«La memoria deve infondere coraggio. Significa proseguire l’opera di chi ha sacrificato la vita per lo Stato, continuare a cercare la verità sul passato e sul presente perchè il diritto a conoscere non può andare in prescrizione.Sono qui perchè sono alla ricerca della verità , altrimenti non sarei venuto”.
Chiaro l’invito rivolto alle forze politiche: «Eliminare dai partiti quelle figure sospette per un principio di opportunità politica e di etica pubblica».
Siamo d’accordo Gianfranco, ora dalle parole passa ai fatti: inizia da Genova, dimostra di essere il leader del primo partito italiano che non fa allontanare da Fli gli onesti e i capaci per lasciare spazio a soci in affari di pregiudicati e a segnalati e attenzionati dalla Dia.
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile DALLE MOSSE DEL CAVALLO AI BIZANTINISMI DEMOCRISTIANI: FINO AGLI ASINI PADANI
Stavolta Umberto Bossi è davvero bollito.
Nessuno lo vuole dire, esplicitamente, dentro e fuori la Lega, ma moltissimi lo sussurrano a mezza bocca: Umberto Bossi perde colpi.
Nessuno lo dice così, nemmeno fuori, perchè teme di finire sotto il fuoco ustorio del politicamente corretto e perchè è difficile dire che Bossi perde colpi perchè automaticamente scatterebbe l’accusa di infierire contro una persona malata.
Invece Bossi perde colpi — e tanti — per motivi che prescindono del tutto l’ictus e dai suoi postumi, motivi che hanno poco a che vedere con la spigliatezza oratoria o con l’agilità intellettuale che segnarono la sua ascesa e che ora sono evaporati nel rutto, nel dito medio alzato e nella battutaccia sfiatata.
Bossi perde colpi perchè nessuno, nemmeno quelli che gli sono vicini, riescono più a capire dove stia andando e presumibilmente, nemmeno lui lo sa.
Perde colpi e sembra un pugile suonato, prima di ogni altra cosa, perchè non ha una linea.
C’era per esempio un Bossi, una volta, che sfotteva il suo stesso figlio soprannominandolo “Trota” e che non si sognava di rispondere ai satirici — come il geniale Maurizio Crozza — che mettevano in scena una pantomima grottesca del suo addestramento alla successione (“Ehi papi…”, “Dimmi trota”).
E c’è invece un Bossi che sentendo aumentare la sua insicurezza arriva a designare quello stesso “Trota”, come “possibile successore” in casa leghista, mettendo in subbuglio tutti i colonnelli.
E che sembra essere caduto prigioniero del “cerchio magico” che si è stretto intorno a lui negli ultimi mesi: la moglie, il figlio, l’ex sindacalista Rosi Mauro, e poi un puro e duro come Federico Bricolo e il minoritario capogruppo a Montecitorio, Reguzzoni.
C’era sicuramente il Bossi delle grandi sparate (come “La vita dei giudici vale meno di una pallottola” ), ma era un Bossi che dava alla sua irruenza il tono goliardico, antisistema e mai contaminato dal dubbio che lo rendevano così diverso dagli altri. Lui diceva cose del tipo “Questo è l’anno del Samurai” (1995, il grido di battaglia del ribaltone) “Berluskaz Berluskaiser, stavolta ti seghiamo il balconcino”, e tu capivi sempre dove voleva andare.
E perchè non avesse bisogno di ritrattare anche quando la sparava grossa: “Signora quel tricolore lo metta nel cesso”, alla mitica Lucia Massarotto da Venezia (correva l’anno 1997, adesso la signora è stata sfrattata).
E Bossi diceva anche cose ferocemente sublimi del tipo.
“Miglio? È una scoreggia nello spazio!”, al punto che era difficile distinguere l’imitazione di Corrado Guzzanti che gli attribuiva un’invettiva anti-papale come questa: “Wojtila è un papa polacco che ruba lavoro ai papi stranieri”.
Si arrabbiò come una belva, invece, il senatùr, quando lo stesso Guzzanti lo mise in scena con una maschera di ferro in viso alla Hannibal Lecter: “Quelli in Rai non ci tornano” (e infatti i Guzzanti, per un motivo o per un altro non tornarono).
Ma era sempre la vendetta di un capo guerriero, dell’uomo che dopo una prima vita passata a fingere di essere medico (usciva da casa, come ha raccontato la prima moglie, con la valigetta e non era laureato), era diventato un leader, uno che ripeteva: “Mia moglie scende in battaglia con me”.
Adesso è Manuela Marrone che viene sospettata di indicare la linea della battaglia.
E il Trota, che lui prendeva simpaticamente per il culo adesso, fa lo statista, come se pensasse di essere diventato un delfino.
Il punto di non ritorno è tutto racchiuso in un testa coda di venerdì 15 luglio, proprio a poche ore dal sì della Giunta della Camera all’arresto di Papa (coi due leghisti in commissione che si erano astenuti). Bossi intercettato dai cronisti è lapidario: il deputato Pdl deve andare “in galera”.
Tutto a posto? Macchè, nulla.
Sabato 16 luglio, il Senatur torna indietro precipitosamente per dire l’opposto: “Le manette non vanno messe mai, se prima non facciamo il processo”.
Che cosa è successo, in quelle 24 ore?
Di tutto. Il leader del Carroccio, per la prima volta, deve rincorrere se stesso, anzichè guardare da lontano l’effetto che fa.
C’è la Lega, la sua Lega che alla Camera ha un altro stratega, quel Bobo Maroni che era il più antico compagno d’arme quando andavano a fare le scritte sui cavalcavia.
Ci sono decisioni che gli passano sulla testa, e su cui lui vuole mettere il cappello.
E c’è Silvio Berlusconi che lo chiama per dirgli: “Umberto sei impazzito? Qui viene via tutto”.
Ma i ribelli della Camera avevano già dato un segnale della propria forza quando un mese fa stavano per decapitare Reguzzoni e il “Cerchio magico” si era dovuto stringere intorno al leader per convincerlo a cambiare idea.
E il malessere era emerso anche dopo Pontida, per quello striscione enorme esposto nella piana: “Maroni premier”.
E i bossiani a dire che era stato “autorizzato” dal leader (autorizzato un corno, se è vero che il giorno dopo aveva dovuto dire “Qui comando io”).
E che dire di quelle grida che lo avevano quasi stupito “Secessione-secessione!”.
E lui quasi a correre dietro al coro.
Dice Mauro Borghezio (uno che si definisce “Io sono in un solo cerchio: il cerchio operaio”), eurodeputato, ultimo cuore della Lega pura e dura, convinto che invece Bossi stia tornando faticosamente alle origini: “Bossi è lucido: qualche volta è stanco, certo. A Pontida era stanco, ma anche io a volte lo sono”.
E aggiunge, quello che fino ad oggi ha tenuto insieme il gruppo dirigente: “Io in una Lega senza Bossi non potrei starci volentieri”.
Già , il rischio di una guerra suicida per la successione è quello che fino ad ora ha fatto da freno.
Ma è vero anche che la malattia ha creato un precedente.
La Lega senza Bossi andava benissimo anche elettoralmente. E allora il problema è che Bossi perde colpi perchè non si può essere uomini per tutte le stagioni, soprattutto se si è assunta la politica come dimensione epica, spettacolare, fantasmagorica.
Ora Bossi è incatenato al berlusconismo come mai era stato legato a nulla.
Nel 1995 liquidò Berlusconi con una cena di sardine dopo aver passeggiato in sigaro e canotta nel suo giardino, e nel 2000 ricostruì l’alleanza con una spregiudicata passeggiata a Teano, prendendo il leggendario caffè con lo stesso Fini che aveva fatto voto di non incrociare mai più una tazzina con lui.
Ora Bossi è bollito perchè lui, che era stato il re della mossa del cavallo, si ritrova costretto a provare la via degli ossimori democristianissimi, il rinnovamento nella continuità che logora chi lo fa.
Alle amministrative Bossi poteva dire ai suoi che avrebbe divorato il Pdl, e spiegare a chi mordeva il freno a Milano per il sostegno alla Moratti (come Matteo Salvini) che a Gallarate si sperimentava lo sganciamento, con la Lega contro tutti.
Bossi è bollito perchè i voti del Pdl sono fuggiti via, perchè a Milano ha perso con la Moratti e perchè a Gallarate ha perso con la Bianchi Clerici.
Era il leader che le azzeccava tutte anche quando sembrava impossibile, adesso è quello che le sbaglia tutte, anche quando nessuno se lo aspetta.
Luca Telese blog
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile NON E’ SOLO QUESTIONE DI TICKET, MA ANCHE DI BLOCCO DEL TURN OVER: VI SARA’ IL 10% DI MEDICI IN MENO RISPETTO AI 120.000 ATTUALI… SITUAZIONI A RISCHIO A ROMA E NAPOLI
Giovedì gli stati generali delle associazioni di categoria per fare fronte comune.
Già in difficoltà i nosocomi più importanti come il Cardarelli di Napoli.
Non è solo questione di ticket da versare: le misure che, con la manovra, il governo ha introdotto sulla sanità sono destinate a produrre un taglio netto anche nel numero di medici a disposizione del servizio nazionale e quindi nell’offerta ai cittadini.
Per risanare i conti dello Stato è infatti previsto che le amministrazioni pubbliche continuino nel blocco del turn over, tanto più se stiamo parlando di regioni già sottoposte al piano di rientro della spesa sanitaria (per le quali è prevista solo una contestatissima deroga a favore dei primari).
La misura, secondo le proiezioni effettuate dallo Smi, (sindacato medici italiani) si tradurrà nella riduzione nel 2014 del 10% dei medici del servizio sanitario: 12 mila unità in meno rispetto agli attuali 120 mila.
«Il blocco del turn over dettato dai piani di risanamento riguarda Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna e Sicilia, regioni che nel complesso hanno un bacino d’utenza di 32 milioni di cittadini e fanno riferimento ad un corpo medico dirigente di circa 60 mila unità » spiega Gianfranco Rivellini, responsabile per la dirigenza medica dello Smi e psichiatra all’ospedale di Mantova. Ora, «se leggiamo assieme le previsioni sul blocco del turn over e i picchi di pensionamento che la categoria subirà nell’immediato futuro, le conseguenze della mancata copertura saranno devastanti».
Da qui al 2015 – secondo uno studio del sindacato ospedaliero Anaao-Assomed – si verificherà infatti un picco di uscite di medici dalle corsie (per via della concentrazione anagrafica di nati negli anni Cinquanta).
«Non si può dire che la qualità dei servizi possa subire un crollo del 10 per cento – precisa Rivellini – ma se non si riforma il sistema della specialistica di base e delle cure primarie, il taglio di presidi territoriali che la necessità di produrre risparmi ci richiede si tradurrà in Pronto soccorso che scoppiano e più lunghe liste d’attesa». L’emergenza è denunciata da tutte le associazioni di categorie: per giovedì prossimo, la ventina di sigle che la rappresentano ha indetto gli Stati generali per fare fronte comune conto i tagli dettati dalla manovra (8 miliardi) e il blocco della contrattazione. «Non solo, qui si tratta di riflettere sul destino del servizio sanitario» avverte Costantino Troise, segretario nazionale di Anaoo-Assomed «ci sono alcuni casi, come quello della Campania, dove la situazione è esplosiva: escono dalle corsie 4 mila medici all’anno e da quattro anni non si indicono concorsi, le voragine vengono coperte con medici precari sui quali nessuno fa formazione o aggiornamento».
Fra i casi limite che Anaao segnala vi è il San Camillo di Roma dove, grazie al taglio dei posti letto e alla scarsità di personale medico, nel 2010 oltre 2 mila persone hanno aspettato in barella più di 24 ore al Pronto soccorso.
Al Cardarelli di Napoli, il più grande nosocomio del Mezzogiorno, i sindacati denunciano «turni massacranti e preoccupazione per la salute dei pazienti».
Ma gli effetti dei tagli sono visibili anche nelle strutture più piccole: nel Pronto soccorso di Fratta Maggiore, dei 24 medici previsti dall’organico in servizio ce ne sono solo 12.
A Palermo il sindacato denuncia insufficienze del 10 per cento in tutte le principali strutture.
E se la carenza è generale ci sono categorie dove i buchi sono più profondi che altrove.
«La carenza di anestesisti e rianimatori sta creando seri problemi in diversi ospedali – racconta Vincenzo Carpino di Aaroi-Emac, sigla della categoria – ne mancano già 3.500, di cui 2.200 nelle Regioni che subiranno sicuramente il blocco, dai 500 del Lazio ai 350 della Sicilia. La manovra in questo caso rischia di essere davvero pericolosa».
Luisa Grion
(da “La Repubblica“)
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile I TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA RESTANO SOLO SULLA CARTA… L’INUTILE SEQUENZA DI PROPOSTE MAI REALIZZATE DAL PARLAMENTO
È il 15 maggio 2008, la legislatura è cominciata da sedici giorni e in Parlamento approdano le
“norme per il contenimento dei costi della politica, delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni”.
Alla Camera le ha presentate la Radicale Rita Bernardini, al Senato il suo collega Marco Perduca.
Con quelle proposte, spiegava la Bernardini agli onorevoli colleghi, si raccolgono “i dati-denuncia divulgati in più occasioni dai quotidiani nazionali e contenuti nei saggi Il costo della democrazia di Cesare Salvi e Massimo Villone (Mondadori, 2005) e La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (Rizzoli, 2007)”.
Che fine hanno fatto?
Sono in commissione Affari costituzionali da luglio di quell’anno.
È così che ancora ieri, sulla prima pagina del Corriere della Sera, quattro anni dopo l’uscita di quel libro, Rizzo e Stella hanno potuto lanciare il loro avvertimento: quando Fini annuncia al Fatto l’intenzione di tagliare i costi della politica “non può pretendere che gli italiani gli credano sulla parola. Sono stati già scottati troppe volte”. Solo nel 2008, almeno altre quattro: due proposte dell’Idv, tutte e due a firma del deputato Antonio Borghesi, sono ferme nei cassetti della Camera una da giugno, l’altra da ottobre di tre anni fa.
La prima chiedeva la “diminuzione del numero dei parlamentari, dei membri del governo e dei componenti dei consigli e delle giunte regionali, nonchè soppressione del Cnel”, l’altra pure sognava una più generica “riduzione dei costi della politica”.
Chiuse nel cassetto anche le buone intenzioni della Pd Olga D’Antona: sia quelle “per la semplificazione istituzionale” (assegnate a giugno 2008), sia quelle contro gli “sprechi e i costi impropri della politica” (settembre 2008).
Il 2009 non è andato meglio : al Senato è ferma dal 26 maggio di quell’anno la proposta presentata dal capogruppo dell’Italia dei Valori, Felice Belisario: chiede la “diminuzione del numero dei parlamentari, dei componenti dei consigli e delle giunte regionali, nonchè la soppressione delle province” (video sotto).
Un disegno di legge costituzionale identico è depositato anche alla Camera, primo firmatario Antonio Di Pietro.
Identico anche il destino: assegnato alla commissione Affari costituzionali il 30 giugno di due anni fa, non è nemmeno cominciata la discussione.
Lo stesso giorno di primavera del 2009, Belisario e Di Pietro hanno presentato altri due progetti di legge, a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Si tratta di “disposizioni per la riduzione dei costi della politica e per il contenimento della spesa pubblica” che servivano ad “onorare — diceva Belisario due anni e due mesi fa — i programmi di tutti i partiti politici e di tutte le coalizioni, che (…) sono rimasti lettera morta”.
Quelle depositate al Senato non hanno mai cominciato la loro corsa, il progetto presentato alla Camera, invece, è finito “assorbito” dalla Carta delle Autonomie di iniziativa governativa che dal 6 aprile scorso è all’esame delle commissioni del Senato.
Tutto fermo come le altre decine di proposte presentate in passato da Diliberto, Giordano, La Malfa, Salvi, Valdo Spini, perfino dal tanto vituperato Turigliatto: 24 proposte di legge in cinque anni e nessuna che sia mai arrivata almeno a un voto in aula.
Qualcosa vorrà dire…
Spesso si presentano e poi non si sollecitano, altre volte il governo le presenta solo per dare una illusione agli elettori.
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile VERRA’ CHIESTO DAI “RESPONSABILI”… SI TEMONO DEFEZIONI NEL PDL: OLTRE A VERSACE ANCHE GUZZANTI TENTATO DAL SI’ ALL’ARRESTO…E PARTE LA CONTROMOSSA DEL PREMIER: SI ACCELERA SUL CASO DEL PD TEDESCO PER CERCARE DI BARATTARE QUALCHE ASSENZA STRATEGICA
E siamo ai freddi calcoli d’aula.
Quelli di quando mancano ormai meno di 24 ore al voto.
Stime su cui balla il destino di Alfonso Papa, ormai ex toga, ormai ex magistrato del ministero della Giustizia, ormai pure ex iscritto al Pdl.
Resta deputato berlusconiano, sulla cui testa pende una richiesta d’arresto per estorsione e concussione dei magistrati di Napoli.
Alle 16 parte il dibattito, tre ore dopo si saprà se la sua sorte sarà quella di passare la notte in cella.
Il Pdl, dicono i vertici a Montecitorio, è «fiducioso». «Lo salveremo» assicurano i Cicchitto, i Napoli, i Corsaro.
Le opposizioni, Pd, Udc, Idv, Fli, all’opposto: «Papa ha già un piede in carcere. Troppe divisioni nella maggioranza. Stavolta non ce la fanno a salvarlo. Dopo di lui cadrà anche Milanese».
Di cui la giunta per le autorizzazioni comincia a occuparsi di buon ora.
I numeri. È da quelli che bisogna partire.
Quelli che in queste ore, freneticamente, si stanno facendo negli uffici del capogruppo Fabrizio Cicchitto per capire se la strada dev’essere il voto palese, oppure il voto segreto, o ancora la libertà di voto, in cui affogare comodamente un’eventuale sconfitta del cavaliere.
Ma sin d’ora, quasi al cento per cento, si può già dire che il voto sarà segreto.
Che ad assumersene la responsabilità non sarà uno del Pdl ma uno dei Responsabili.
Non è un calembour, un gioco di parole.
È quello che rivela il deputato Mario Pepe, berlusconiano nell’animo, ma animatore dei Responsabili. «Sì, potrei anche essere io a chiedere il voto segreto e a promuovere una raccolta di firme».
Ne bastano venti, alla fin fine una manciata. Si raccolgono prima del dibattito.
Si esibiscono all’ultimo momento, giusto quando il presidente indice la votazione.
Lui, Pepe, ci sta lavorando.
Il perchè è semplice. Svela il grande caos politico del momento.
I dubbi della Lega, Le sue divisioni. Ma anche il fermento nel Pdl.
Gli uomini di Cicchitto minimizzano: «Macchè dissidenti. Parliamo di due, tre, al massimo quattro deputati che voteranno per l’arresto. Non uno di più. Gli altri stanno tutti con Berlusconi».
Sul fronte dell’opposizione la stima è ben diversa: «Potrebbero essere oltre 15 i dissidenti del Pdl. Oltre a tutti quelli della Lega, 35, anche 40 deputati. Papa non può farcela» preconizza il finiano Nino Lo Presti.
Ufficialmente, solo Santo Versace ha detto che voterà contro Papa.
Un no, ieri, lo ha pronunciato anche il Responsabile Paolo Guzzanti («Sono tentato di votare per il suo arresto, anche se sono preoccupato perchè significa consegnare il Parlamento alla magistratura»).
Un fan di Berlusconi come Francesco Nucara dice che voterà per Papa libero, e pure per Milanese libero (ma vuole sfiduciare il ministro Romano per via del reato di mafia).
Sull’arresto esce netto il leader dell’Udc Casini: «Noi voteremo così, ma l’importante è che tutto avvenga alla luce del sole, senza l’escamotage del voto segreto».
Qui spunta di nuovo Mario Pepe.
«Certo – chiosa ridacchiando – perchè Casini lo sa bene che tra i suoi c’è chi voterà contro l’arresto. Io, in questi giorni, ho parlato con 50, forse 60 colleghi tra centristi e democratici che sono contro le manette. Certo, se il voto è palese, sono tutti per l’arresto, ma con quello segreto sono contrari. Per questo noi chiederemo il voto segreto».
Ma anche, lo sa bene Pepe, ma lo sa bene tutto il Pdl, perchè nonostante gli sms di Cicchitto sulla «presenza obbligatoria e le missioni sospese», non tutti, a cominciare dai componenti del governo, saranno a Montecitorio.
Quindi, chiosa lo stesso Pepe, «il voto palese è impossibile».
Il Pdl riunisce il gruppo stasera.
Con il segretario Angelino Alfano, si dice. Una minaccia i berlusconiani l’hanno già messa in circolo.
Il rischio che, al Senato, scatti l’arresto anche per il dalemiano Alberto Tedesco.
Richiesta del gip di Bari vecchia di cinque mesi, reati gravi nell’inchiesta sulla sanità (corruzione, concussione, turbativa d’asta, falso), potrebbe arrivare in aula, guarda caso, giusto la prossima settimana.
Nel Pdl lo dicono tutti: «Se fanno arrestare Papa, noi facciamo arrestare Tedesco».
Liana Milella
(da “La Repubblica”)
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile NEGLI STATI UNITI IL SENATO LAVORA IL 54% IN PIU’ CHE IL NOSTRO PARLAMENTO E L’ASSENTEISMO E’ DIECI VOLTE PIU’ BASSO…OGNI AMERICANO SPENDE 5,10 EURO PER MANTENERLO, OGNI ITALIANO 27,4 EURO…I RIMBORSI ELETTORALI AI PARTITI IN NOVE ANNI SONO AUMENTATI IN ITALIA 27 VOLTE IN PIU’ DEL NORMALE STIPENDIO DI UN IMPIEGATO
No, non possono chiedere ai cittadini di fidarsi ancora. 
Se Gianfranco Fini si dice «certo», in una lettera a il Fatto quotidiano, che «entrambe le Camere faranno la loro parte» e che i tagli ai costi della politica saranno «votati in Aula prima della pausa estiva» non può pretendere che gli italiani gli credano sulla parola.
Sono stati già scottati troppe volte. Carta canta.
Le promesse, le rassicurazioni e gli impegni non bastano più.
Il presidente della Camera, nella sua prima intervista dopo l’insediamento, convenne che «il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è quello della presenza» perchè «il vero costo che produce la “casta” è quello della improduttività ».
E ammonì: «I parlamentari devono essere presenti e lavorare da lunedì a venerdì, non tre giorni a settimana».
Risultato? Prendiamo quest’anno: dal 1° gennaio a oggi, su 28 venerdì in calendario, quelli con sedute in Aula sono stati 2.
Non sarà certo colpa sua, ma è così.
Quanto a palazzo Madama, Renato Schifani si prese mesi fa lo sfizio, nel corso della seduta imposta per varare la riforma universitaria voluta dal governo, di bacchettare i soliti criticoni: «Oggi, 23 dicembre, antivigilia di Natale, siamo qui a lavorare».
Ciò detto, diede appuntamento a tutti al 12 gennaio 2011: 20 giorni dopo.
Da allora, l’Aula è stata convocata 68 giorni su 198 e mai (mai!) di venerdì.
Come del resto era successo in tutto il 2010: mai.
C’è il lavoro in commissione? Anche a Washington. Eppure lì, dice uno studio di Antonio Merlo della Pennsylvania University, il Senato lavora in media 180 giorni l’anno: il 54% in più.
Con un assenteismo 10 volte più basso.
Quanto ai costi, la Camera e il Senato Usa nel 2011 pesano insieme sulle pubbliche casse circa cento milioni meno dei nostri.
Ma in rapporto alla popolazione, ogni americano spende per il suo Parlamento 5,10 euro l’anno, ogni italiano 27,40: cinque volte e mezzo di più.
Diranno: ma poi lì ci sono i parlamenti statali.
Vero: ma in California c’è un parlamentare locale ogni 299mila abitanti, in Lombardia ogni 124mila. Nel Molise ogni 10.659.
Questo è il quadro.
C’è poi da stupirsi se una pagina di Facebook aperta domenica mattina da un anonimo ex dipendente della Camera deciso a vuotare il sacco sotto il titolo «I segreti della casta di Montecitorio», alle otto di sera aveva 135 mila «amici»?
L’impressione netta è che, mentre chiedono ai cittadini di mettersi «una mano sul cuore e una sul portafoglio», per usare un antico appello di Giuliano Amato riproposto da chi aveva seminato l’illusione di non mettere mai le mani nelle tasche degli italiani, quelli che Giulio Einaudi chiamava «i Padreterni», non si rendano conto che il rifiuto di associarsi a questi sacrifici rischia di dar fuoco a una polveriera.
Come possono imporre «subito» i ticket sanitari fino a 45,5 euro a operai e impiegati rinviando a «domani» (quando?) l’inasprimento del costo a carico dei parlamentari dell’assistenza sanitaria integrativa?
Come possono imporre «subito» un taglio alla rivalutazione delle pensioni oltre i 1.400 euro rinviando a «domani» (quando?) quello dei vitalizi loro, che nel 2009 hanno pesato per 198 milioni di euro e pochi mesi fa sono stati salvati con voto plebiscitario dalla proposta che voleva trasformarli in pensioni «normali» soggette alle regole comuni?
Come possono imporre «subito» il raddoppio della tassa sul deposito titoli che colpirà i piccoli risparmiatori rinviando a «domani» (quando?) l’abolizione di quell’infame leggina che consente a chi regala denaro ai partiti di avere sconti fiscali 51 volte più alti di quelli concessi a chi dona soldi alla ricerca sulle leucemie infantili?
Nessuno contesta la necessità di provvedimenti anche duri.
È irritante subirli dopo aver sentito e risentito che «la crisi è già alle spalle» (Renato Brunetta, agosto 2008), che occorreva «finirla con i corvi del malaugurio» (Claudio Scajola, febbraio 2009) e che chi diffidava dell’ottimismo era un «catastrofista» che alimentava, come tuonò Silvio Berlusconi nel maggio di due anni fa, «una crisi che ha origini soprattutto psicologiche».
Ma è così: quando la casa brucia, va spento l’incendio.
Costi quel che costi.
Ma il golpe notturno che, con un paio di emendamenti pidiellini, ha stravolto all’ultimo istante la manovra di Tremonti che prevedeva l’adeguamento delle indennità dei parlamentari italiani a quelle dei colleghi europei, non è solo un insulto ai cittadini chiamati a farsi carico della crisi.
È una scelta che rischia di delegittimare la stessa manovra delegittimando insieme la classe dirigente che la propone al Paese.
Non è più una questione solo economica: è una questione che riguarda il decoro delle istituzioni. La rappresentanza. La democrazia stessa.
Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione sono certi di essere nel giusto e che quanto prima metteranno mano sul serio ai costi della politica?
Mettano da subito tutti i costi in piazza, su Internet.
Tutto pubblico: stipendi, prebende, assunzioni, distribuzione delle cariche, consulenze, curriculum dei prescelti, voli blu, passeggeri a bordo, tutto.
Barack Obama, pochi giorni fa, ha rivelato che i suoi più stretti collaboratori alla Casa Bianca prendono al massimo 172.200 dollari lordi: 118.500 euro.
Cioè 15 mila in meno di quanto poteva guadagnare quattro anni fa un barbiere del Senato.
Hanno o non hanno diritto, anche i cittadini italiani, a essere informati?
È stupefacente, oltre che offensivo, che in un momento di difficoltà qual è questo, una classe politica obbligata a farsi «capire» da un Paese scosso, impoverito, spaventato, non capisca la drammatica urgenza di una svolta.
Ed è sconcertante che ancora una volta, a chi chiede conto dell’arroccamento in difesa delle Province o dei rimborsi elettorali cresciuti fra il 1999 e 2008 addirittura 26 volte di più del parallelo aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici (per non dire di quelli privati…) risponda rinviando tutto a una riforma complessiva ormai entrata nel mito come l’«Isola che non c’è» di Peter Pan.
Una riforma che, in un futuro rosa pastello, vedrà finalmente ricomporsi in un magico e perfetto equilibrio la Camera e il Senato, il Quirinale e le città metropolitane, le province e le circoscrizioni e i bacini imbriferi montani.
Un mondo meraviglioso dove tutti vivremo finalmente felici e contenti.
Con Biancaneve, Pocahontas, Cip e Ciop.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere della Sera“)
argomento: Costume, denuncia, economia, emergenza, governo, la casta, Parlamento, Politica, radici e valori | 2 commenti presenti »
Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile UN LABIRINTO DI NORME E RIMBORSI: COSI’ LO STATO CONGELA LE ROVINE… ECCO LE CIFRE DI UN INTERVENTO MOLTO PROPAGANDATO MA NELLA SOSTANZA INEFFICACE, CON I LAVORI DI RICOSTRUZIONE PARALIZZATI
Trentasettemila assistiti, centro storico inaccessibile, macerie ancora ferme dal 6 aprile 2009, economia al collasso.
Due anni dopo il sisma che provocò 309 vittime, oltre 1.600 feriti, la devastazione della città e di altri 56 comuni del cratere sismico, i numeri e le immagini disegnano ancora uno stato di emergenza.
Non sono ancora terminati i lavori di messa in sicurezza degli edifici pericolanti.
La ricostruzione del centro storico è una chimera. Nelle periferie la ripresa consiste in uno sviluppo disordinato, quasi fai-da-te.
La ricostruzione bloccata.
La ricostruzione pesante, classificata E (16mila appartamenti) è ferma al palo, in centro come in periferia.
Sono appena 721 i contributi definitivi già assegnati. Il resto è fermo.
Due anni dopo il sisma, si sta ancora discutendo sulla definizione delle regole.
“Non c’è chiarezza su una serie di punti fondamentali”, spiegano all’ordine degli ingegneri: dalla delocalizzazione degli interventi, fino alla spinosa questione delle seconde case. Tra i principali elementi d’incertezza c’è il costo dei restauri. Un’ordinanza ministeriale molto discussa fissa un rimborso pari a 800 euro al metro quadro. Troppo poco, secondo proprietari e professionisti. Poi c’è la questione dei criteri: in quali casi demolire, in quali riparare l’esistente. Poi, in quali aree può andare a costruire chi ha perso la casa”.
I progetti finanziati.
I progetti E finora finanziati, 721 a fronte di 2.761 domande presentate, secondo i tecnici sono più che altro riconducibili alle super B, cioè ai casi più semplici.
Tuttavia, questi interventi servono a realizzare il rinforzo degli edifici e non la sostituzione edilizia.
Numeri decisamente più consistenti, invece, per le ristrutturazioni delle abitazioni categoria B e C, che non presentano danni strutturali.
Per la prima categoria sono state ammesse a contributo 7.850 domande, mentre 1.020 sono quelle vistate positivamente per la seconda.
Complessivamente, la somma totale ammessa a contributo per le case con tipologia B, C ed E risulta pari a 571 milioni di euro, per un totale di 9.591 domande.
Per le case A (danni lievi) sono stati concessi 7.160 contributi pari a 65 milioni.
Le richieste di indennizzo sono finora 12mila.
Per 4.600 edifici è stata presentata la dichiarazione di fine lavori, quindi i residenti sono potuti rientrare in casa.
La città al collasso. La questione economica è una delle partite ancora aperte.
Ormai da un anno gli aquilani sono tornati a pagare le tasse dopo la sospensione di 14 mesi (aprile 2009-giugno 2010).
La restituzione delle tasse sospese scatterà , al cento per cento, a fine anno.
Si è tornati a pagare le bollette di telefono, gas, energia elettrica e acqua, oltre ai pagamenti di Ici e Tarsu, del canone Rai e dei bolli auto.
Gli aquilani sono alle prese con le rate di mutuo, in molti casi anche su abitazioni danneggiate, interessi compresi.
Ricomparse anche le cartelle esattoriali di Equitalia per il recupero di vari tributi (Ici, Tarsu, Irpef, multe).
L’annuncio della zona franca urbana, una misura di sostegno alle imprese per favorire il rilancio del sistema economico piegato dagli effetti del sisma, è rimasto tale.
L’iter burocratico per ottenere la concessione, particolarmente lungo e complesso, è ora nelle mani dell’Europa.
A due anni dal sisma la disoccupazione è salita dal 7,5 all’11 per cento, senza tener conto di chi usufruisce degli ammortizzatori sociali. Un vero esercito.
Le macerie arenate.
Per capire il dramma delle rovine dell’Aquila basta leggere un rapporto di Legambiente.
Il contenuto è durissimo: L’Aquila e gli altri 56 comuni terremotati saranno liberi dalle macerie solo nel 2079.
In un contesto di indecisioni, ritardi, rimpalli di responsabilità , dal dossier emerge la macchina pubblica in tutta la sua inadeguatezza, a cominciare dall’azione più semplice, cioè la valutazione delle macerie prodotte dai crolli nella notte del 6 aprile 2009 e dalle demolizioni controllate degli edifici pericolanti.
Sulla base di calcoli fatti dalla Protezione civile e dai Vigili del fuoco, risultano 4,5 milioni di tonnellate di macerie, pari circa a 3 milioni di metri cubi.
Di questi solo un milione di metri cubi si troverebbe sulle strade, impedendo di fatto l’accesso e quindi la possibilità di procedere alla ristrutturazione degli edifici.
La stima massima complessiva raggiungerebbe i 2.650.000 metri cubi di calcinacci, di cui circa 1.480.000 solo nel capoluogo (56%).
Il nodo dello stoccaggio.
L’altro problema messo in luce nel dossier è quello dello stoccaggio dei detriti.
Dallo studio emerge che: “Le macerie spostate finora sono state portate sempre ed esclusivamente alla cava ex Teges, il sito di Paganica individuato un anno fa dalla Protezione civile, affidato al Comune dell’Aquila e gestito dalla Asm, la municipalizzata incaricata del servizio rifiuti nel capoluogo abruzzese.
Secondo le informazioni fornite dall’assessorato all’Ambiente, qui vengono conferiti i detriti tal quali, così come previsto dal decreto terremoto dell’aprile 2009, per un quantitativo che oscilla tra le 500 e le 600 tonnellate al giorno.
Dopo le proteste degli aquilani, con le incursioni del popolo delle carriole nella zona rossa, viene definito, a valle di un incontro al ministero dell’Ambiente, un nuovo piano di rimozione.
Da quella data, lo smistamento dei materiali come il ferro, il legno, la plastica, avviene direttamente sulle strade con l’impiego di grossi container, mentre gli inerti e il sovvallo rimanenti prendono la strada della ex Teges, in cui attualmente arrivano a una media di 150 tonnellate al giorno.
Quello che dovrebbe essere un sito di stoccaggio temporaneo, però, rischia di diventare a tutti gli effetti una discarica. Fino a oggi, infatti, la ex Teges si è riempita e quasi mai svuotata, tanto che ormai è vicina alla saturazione.
Dal sito, grazie a due bandi del Comune dell’Aquila, sono uscite in totale 23.000 tonnellate di inerti a fronte, sempre secondo le stime dell’amministrazione comunale, di circa 90.000 tonnellate di macerie rimosse.
Nell’ipotesi volutamente più pessimista, procedendo cioè al ritmo attuale, per eliminare tutte le macerie del terremoto ci vorrebbero altri 69 anni.
Per scongiurare questa prospettiva occorre un cambio di marcia deciso, con l’immediata individuazione e attivazione di tutti i siti necessari”.
Il riciclo che conviene.
Inoltre, passaggio fondamentale del dossier è quello sulla green economy e sul riciclo delle macerie della ricostruzione.
La produzione e l’utilizzo di materiale edile da riciclo è un’attività prevista dalla legge 203/2003, che obbliga all’impiego negli appalti pubblici del 30% di materiali riciclati (che la circolare n.5205 del 15 luglio 2005 ha esteso al settore edile).
Una legge dello Stato in vigore da sette anni che risulta totalmente disapplicata, e non solo in Abruzzo.
A tal proposito si legge nello studio di Legambiente: “Secondo l’Anpar (l’associazione che riunisce i produttori di aggregati riciclati, ndr), un impianto di riciclaggio di taglia medio-grande può trattare fino a 250mila tonnellate di inerti all’anno. Il che significa che, potenzialmente, una decina di impianti dislocati nel territorio della provincia dell’Aquila potrebbero lavorare in circa due anni tutti gli inerti derivanti dalle macerie del terremoto e produrre oltre 4 milioni di tonnellate di aggregato riciclato (la quantità di aggregato riciclato prodotto coincide in genere con la quantità di materiale lavorato)”.
Giuseppe Caporale
(da “La Repubblica“)
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Luglio 19th, 2011 Riccardo Fucile TRA CAMERA E SENATO CI SONO TREDICI FORMAZIONI, OGNUNA CON PERSONALE PROPRIO E SPESE DI SEGRETERIA CHE INCIDONO PER IL 69,5% SUI COSTI DI FUNZIONAMENTO….MONTECITORIO SPENDE 35,3 MILIONI DI EURO L’ANNO
Casta, stipendi parlamentari e privilegi a non finire. 
Dopo la manovra che non taglia niente ai parlamentari ma impone pesanti sacrifici ai cittadini scatta una nuova ondata anti-casta con l’Italia intera che attraverso la rete invoca a gran voce una rivoluzione totale.
Ma attenzione perchè forse è meglio che nulla cambi, che tutto continui all’insegna della “l’immobilità parlamentare”.
Perchè ogni lite, ogni discussione o distinguo rischia solo di generare nuovi costi sulle spalle dei contribuenti.
Lo rivela Il Sole24Ore che ha messo sotto la lente il costo dei Gruppi parlamentari e delle singole formazioni che ne fanno parte.
Il conto è salatissimo.
I gruppi pesano sulle tasche degli italiani 35,7 milioni di euro e ogni volta che ne nasce uno nuovo arriva a costare da solo tre milioni di euro.
Ogni gruppo, infatti, ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento.
Per ospitare un nuovo gruppo bisogna trovare nuovi uffici o adibire i vecchi a nuovi “ospiti”: sposta di qua, trova nuovi spazi di là , non è stupefacente il fatto che solo per l’affitto di uffici al centro di Roma Montecitorio spenda 35,3 milioni di euro all’anno. Alla fine dei conti la sola Camera spende ogni anno 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari.
La loro conflittualità , infatti, costa cara ai cittadini.
Resta una domanda di fondo: ma la legge elettorale non doveva mettere un freno alla proliferazione di partiti, sigle e partitini? Doveva, in teoria.
Alle ultime politiche, infatti, i gruppi a Montecitorio erano solo cinque ma neanche due anni dopo sono diventati tredici.
Con un costo aggiuntivo di 24 milioni di euro per i cittadini.
Il perchè è presto detto.
La legge elettorale ribattezzata “Porcellum” che porta la firma di Roberto Calderoli ha imposto sbarramenti al 4% dei voti a livello nazionale alla Camera e all’8% su base regionale al Senato.
La legge ha quindi bloccato la “mobilità in entrata”, lasciando sulla soglia del Parlamento le minoranze e con esse buona parte della rappresentanza del Paese (ad esempio tutta la sinistra e la destra radicale).
Ma non quella interna all’aula che si traduce in una proliferazione senza freni di nuove formazioni da parte degli eletti.
Deputati e senatori, una volta occupato il loro legittimo scranno su mandato degli elettori, decidono di sedere su un altro.
Così, complici i cambi di maggioranza, le scissioni si assiste al walzer dei gruppi e alla nascita di nuove sigle e siglette.
Ogni gruppo ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento.
In pratica la Camera spende ogni anno 35,7 milioni di euro per il funzionamento dei gruppi: si tratta di 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari.
Ma questo pare interessare poco gli eletti, che non si lasciano imbrigliare dai costi e perseguono (ad ogni costo) i loro principi.
Infatti i casi di scissione e nuova formazione sotto altre spoglie sono numerosi e stanno a destra e manca.
Prima l’esodo di singoli nel Gruppo Misto, poi la diaspora dei finiani in Futuro e libertà e la nascita dei Responsabili, rispettivamente causa ed effetto del voto pro Berlusconi del 14 dicembre.
A questi però vanno aggiunti i sottogruppi del misto (all’interno ci sono, per esempio, i Repubblicani azionisti e Liberaldemocratici) che comprendono anche l’Api di Francesco Rutelli fuoriusciti dal Pd.
Se il quadro nazionale è questo bisogna poi verificare gli effetti a valle delle scissioni a monte.
Perchè se a Roma nasce un nuovo gruppo, facilmente questo si ritroverà a sedere su altre poltrone anche in regioni e province.
Con effetti “moltiplicatori” dei costi che spesso sono stupefacenti.
Sempre il quotidiano di Confindustria stigmatizza la situazione della Basilicata dove la popolazione conta circa 600mila abitanti (metà di quella milanese) e in consiglio regionale siedono in 30, divisi però in ben 11 gruppi.
Uno, in particolare, segna il massimo della coesione interna: Popolari Uniti, infatti, sono uniti davvero perchè il loro gruppo è composto da un solo consigliere che è ovviamente capogruppo e lo stesso accade a Io amo la Lucania, a Per la Basilicata, oltre a Sel, Idv, Psi, Api ed Mpa.
Così gli 11 capigruppo ai 6.529,49 euro al mese che compongono l’indennità e i rimborsi del consigliere senza stellette possono aggiungere 667 euro al mese per il grado di capogruppo.
Più generoso l’extra dei capigruppo nel Lazio (813 euro), e in Piemonte e Veneto (mille euro).
La riprova che a trainare le scissioni e i nuovi gruppi sia il vil denaro arriva dal Molise dove non sono ammessi per statuto extra per i capigruppo.
Qui il tempo si è fermato: la geografia dei gruppi è rimasta la stessa del 1994 con i gruppi di Forza Italia, Alleanza Nazionale, i Ds, la Margherita, lo Sdi e l’Udeur.
Nel consiglio regionale molisano ci sono ancora tutti, e convivono serenamente con le ultime novità in fatto di partiti (c’è il Fli, oltre all’Mpa) e con le sigle locali (Per il Molise, Progetto Molise e Molise Civile).
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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