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RITORNA L’IRPEF SULLA PRIMA CASA: SI PAGHERA’ IL 20% DELLA RENDITA CATASTALE

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

ADDIO ALLA NO TAX AREA SUGLI IMMOBILI …PER 80 MQ PAGHEREMO TRA 50 E 90 EURO: E’ L’EFFETTO DEI TAGLI PREVISTI AGLI SGRAVI FISCALI

Forse è la delusione più cocente per i contribuenti: tornerà  l’Irpef sulla prima casa.
L’illusione di una no tax area sulla casa è finita.
Dobbiamo prepararci all’impatto e dovrà  prepararsi anche il governo in carica negli anni 2013-2014 a pagare un prezzo in termini di impopolarità .
Le tasse sulla casa, invece di scendere, come recita il mantra berlusconiano, sono destinate a salire.
Nonostante la discussa eliminazione totale dell’Ici sulla prima casa, avvenuta nel 2008 e costata ben due miliardi, le tasse sugli immobili cresceranno.
A partire dall’Irpef che tornerà  a mordere l’abitazione principale come annuncia una dettagliata e tempestiva analisi del Lef, l’associazione per la legalità  e l’equità  fiscale.
La “clausola di salvaguardia” contenuta nella manovra da 48 miliardi varata nei giorni scorsi prevede infatti un taglio delle agevolazioni fiscali, detrazioni e deduzioni, del 5 per cento nel 2013 e fino al 20 per cento nel 2014.
Un meccanismo che è già  legge dello Stato e che entrerà  in vigore se non sarà  varata la riforma del Welfare.
E tra le agevolazioni, una delle più in vista è proprio la deduzione integrale della rendita catastale dell'”unità  immobiliare adibita ad abitazione principale”, ovvero della prima casa, e delle relative pertinenze.
Di conseguenza la rendita catastale (tariffa d’estimo della zona relativa per numero dei vani rivalutata del 5 per cento) attualmente non concorre a formare l’imponibile Irpef.
Tutto ciò grazie ad una norma introdotta dal centrosinistra nel 2001.
Ora le cose cambiano.
Con il taglio previsto per il biennio 2013-2014, un orizzonte non troppo lontano, al momento della compilazione della denuncia dei redditi i proprietari della casa di abitazione dovranno sommare al proprio imponibile Irpef anche il 20 per cento del valore della propria casa, ovvero della rendita catastale.
Una stangata che colpirà  24 milioni e 200 mila italiani, possessori di prima casa e che assottiglierà  lo sconto medio che oggi ammonta a 126,8 euro e che costa allo Stato circa 3 miliardi.
Le simulazioni   parlano chiaro.
Un proprietario medio, con una casa di 80 metri quadrati, situata in una zona semicentrale di una grande città , dovrà  mettere sull’imponibile Irpef il 20 per cento dei 1.000 euro della sua rendita catastale.
Ebbene se questo contribuente-tipo ha un reddito annuo di 15 mila euro e una aliquota del 23 per cento dovrà  rassegnarsi a pagare 46 euro in più.
Non molto, ma se sommato agli altri aumenti in arrivo, dalle addizionali comunali e regionali Irpef del federalismo allora a regime, e agli altri tagli su detrazioni e deduzioni, non ci sarà  da stare allegri.
Il contribuente più agiato che guadagna 70 mila euro dovrà  sborsare 82 euro e quello con 100 mila pagherà  86 euro.
Mentre la pressione fiscale continuerà  a salire: secondo la Cgia di Mestre, rischia di raggiungere nel 2014 il 44,1 per cento.

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NEL PDL PANICO E RABBIA: “ADESSO IN GALERA CI FINIRANNO TUTTI”

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

L’ANATEMA DI PANIZ: “CHI OGGI SI RALLEGRA, PRESTO SE NE PENTIRA'”… I LEGHISTI MARONITI SI TRAVESTONO DA ANTICASTA… STRACQUADANIO SE LA PRENDE CON FELTRI E BELPIETRO…MARONI DAL RECUPERO CREDITI ALLA AVON A FINGERE L’INTERESSATO RECUPERO DELLA BASE LEGHISTA

Arriva il sì all’arresto, Berlusconi, che ha ascoltato con le mani sugli occhi tutto l’intervento di Alfonso Papa – «l’altra notte ho dovuto dire ai miei due bambini, dieci e dodici anni, che questo week end forse il papà  non tornerà  a casa» -, schizza via e si chiude nella stanza riservata al premier,
Papa si aggrappa a Renatone Farina – «portami lontano di qui» -, e le deputate del Pdl sono percorse da un’onda di panico.
Come ai funerali in cui ognuno piange la propria morte, anche qui si presagisce una fine.
«È finita!» dice infatti Viviana Beccalossi.
Mai vista la Santanchè così scossa.
Maria Rosaria Rossi, l’organizzatrice delle feste romane dell’estate scorsa, piange con le lacrime, le mettono occhiali scuri.
Anna La Rosa, che è qui come giornalista: «Sono terrorizzata, mi sento come nel ’93, stanno rifacendo quello che hanno fatto a Bettino!».
Anna Maria Bernini barcolla: «È andata male, molto male».
Quando poi Gabriella Carlucci annuncia la notizia del Senato – «Tedesco del Pd è stato salvato dall’arresto con i nostri voti!» -, la paura si muta in rabbia.
«Adesso finiranno in galera tutti!» dice Osvaldo Napoli, vicinissimo al premier.
Tutti, anche Milanese? «Anche Milanese!».
E Stracquadanio: «Berlusconi ringrazi Feltri e Belpietro. Sono loro che hanno agitato la polemica sulla casta, hanno spaventato i leghisti, hanno messo i nostri elettori contro di noi».
A quel punto tutti si ricordano della Lega. «Sono stati i leghisti!». «No, sono stati i maroniani!». «Maroni ha già  l’accordo con D’Alema per il governo tecnico».
«È la fine anche per Bossi, i suoi hanno votato in difesa di Papa, avete visto invece Maroni?».
Il ministro dell’Interno in effetti ha votato platealmente con il solo dito indice della mano sinistra, come tutto il Pd, per mostrare a fotografi e telecamere che lui poteva pigiare solo il tasto del sì all’arresto.
Dice un altro berlusconiano di aver visto leghisti fotografarsi con il telefonino mentre votavano contro Papa, e poi mandare l’immagine ai sostenitori, come a dire: «Io con la casta non c’entro nulla».
L’immagine della casta ha aleggiato su Montecitorio per tutta la giornata.
Paniz, dopo aver sostenuto che Berlusconi poteva davvero pensare che Ruby fosse la nipote di Mubarak, ieri ha superato se stesso.
«Chi vuole Papa in carcere non vuole che la legge sia uguale per tutti; vuole che i parlamentari siano meno uguali degli altri».
Paniz rivendica di aver letto tutte le 14.932 pagine mandate alla Camera dall’odiato Woodcock e invoca «il rispetto delle regole, anche quelle sgradite alla piazza. Non è forse lo stesso Woodcock che voleva in galera Salvatore Margiotta del Pd, poi assolto, e arrestò il principe Vittorio Emanuele, felicemente prosciolto?».
Buu e fischi dai banchi dei democratici, che al Senato annunciano di voler votare per l’arresto del loro collega Tedesco.
Riparte Paniz: «Rimanere indifferenti di fronte agli indici di un evidente fumus persecutionis è impossibile».
Poi parla Mannino, racconta la sua sofferenza personale, condanna l’abuso del carcere preventivo, «secondo solo alla tortura».
A Palazzo Madama, Tedesco chiede di essere arrestato; sa però che la maggioranza compatta voterà  per lasciarlo libero.
A Montecitorio ora interviene Papa, annunciato da un grido in romanesco: «Daje, a Pa’!».
«Io sono innocente davanti alla mia coscienza, a Dio, agli uomini. La verità  non ha bisogno di difensori; la verità  si manifesta per il suo stesso essere».
Poi il passaggio sui figli e sulla moglie, «unico mio bene da quando ventiquattro anni fa l’ho conosciuta».
Altro grido, stavolta in napoletano, un omaggio a Merola: «Je songo carcerato, e mamma muore!».
Ancora Papa, biblico: «La pianta della verità  cresce nel campo della vita come la zizzania della menzogna».
Berlusconi ascolta sinceramente angosciato, alla fine applaude, Cicchitto furibondo fa una tirata contro il giacobinismo «che tante vittime ha mietuto nel secolo scorso», con il Pdl in piedi che lo acclama freneticamente.
Tutto quel che riesce a dire Di Pietro è che Papa non dovrebbe votare su se stesso.
Nessuno, a destra come a sinistra, ha il coraggio di riflettere in pubblico su un fatto: se un magistrato, magari a torto, decide di arrestare un piccolo imprenditore che lascia a casa decine di operai, una madre con i figli piccoli, un marito con la moglie malata, nessuno potrà  impedirglielo; i parlamentari invece sono protetti da un filtro di solito efficacissimo, oggi spezzato dallo scontro interno alla Lega che vede prevalere Maroni su Bossi, i critici di Berlusconi sui suoi sostenitori.
D’Anna del Pdl viene quasi alle mani in Transatlantico con Cera dell’Udc, i commessi incerti non sanno se intervenire, ci pensa Casini che placca il suo deputato con inaspettata mossa da rugbista e lo trascina via.
D’Alema fa notare che nessuno a sinistra ha applaudito: «Non ci si rallegra per un arresto. Comunque, è ufficiale: la maggioranza non esiste più, e non da oggi».
Paniz lancia una maledizione tipo fra’ Cristoforo: «Verrà  un giorno in cui tanti di coloro che stasera si rallegrano proveranno l’amaro sapore del rimorso».

Aldo Cazzullo
(da “Il Corriere della Sera“)

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CHI SOSTITUIRA’ PAPA ALLA CAMERA? LA PRIMA DEI NON ELETTI E’ LA SUA ASSISTENTE

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

SARA’ MARIA ELENA VALANZANO A PRENDERE IL POSTO DI ALFONSO PAPA, IN CASO DI SUE DIMISSIONI A MONTECITORIO

A volte il caso.
Sta di fatto che al posto di Alfonso Papa, a Montecitorio arriverà  il primo non eletto alle Politiche del 2008 nel collegio Campania e coincidenza vuole che si tratti proprio della sua assistente, Maria Elena Valanzano.
E si tratta — altra coincidenza — di un’altra persona coinvolta nell’inchiesta napoletana, diretta dai pm Francesco Curcio e John Woodcock.
E di lei, tre giorni f,a ha parlato l’avvocato civilista Santo Emanuele Mungari, ascoltato come persona informata sui fatti dai pm.
Mungari ha raccontato di aver conosciuto Papa tramite la Valanzano.
“Lei — ha detto il legale nell’interrogatorio — mi ha sempre detto di avere un rapporto diretto con Berlusconi e che anzi, in più di un’occasione, era stata lei stessa a far ottenere all’onorevole Papa un appuntamento con Berlusconi. La Valenzano mi ha detto diverse volte che lei stessa aveva cercato di accreditare l’onorevole Papa con il presidente, il quale, invece, non sembrava tenere Papa in grande considerazione. Dunque sempre per quanto rappresentatomi dalla Valenzano, lei stessa si era spesa con Berlusconi per la nomina di sottosegretario alla Giustizia”.
Pare insomma il caso di dire che “morto un Papa, se ne fa un altro”.
Se Papessa, ancora meglio.

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AL SENATO TEDESCO NON SI TOCCA: IL PD DICE SI’ ALL’ARRESTO, MA CHI LO SALVA E’ LA LEGA

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

ERA PRONTA LA SCENEGGIATA PADANA: ASPETTARE IL RISULTATO DELLA CAMERA, DICHIARARE IL SI’ ALL’ARRESTO ANCHE DI TEDESCO E POI VOTARE IN MODO OPPOSTO PER SCARICARE LA COLPA SU SETTORI DEL PD… LA “COERENZA” LEGHISTA SVELATA ANCHE DA UOMINI DEL PDL

La Lega bifronte di Umberto Bossi salva il senatore Alberto Tedesco, già  Pd oggi nel gruppo misto, dagli arresti domiciliari.
La sceneggiata padana è stata preparata in modo accurato. Al punto che dai vertici del Pd ammettono amaramente: “Sono stati davvero bravi”.
A Palazzo Madama, alle quattro e mezzo del pomeriggio non c’è la tensione che si palpa a Montecitorio, dove si vota per le manette ad Alfonso Papa, piquattrista del Pdl.
Si comincia mezz’ora più tardi, rispetto alla Camera: un dettaglio fondamentale per attendere l’esito su Papa e poi esprimersi su Tedesco.
Questo il timing: alle 18.43 i deputati dicono sì all’arresto del loro collega berlusconiano, alle 18.50 i senatori bocciano l’autorizzazione per l’ex assessore alla Sanità  della Puglia, accusato di concussione.
Risultato: 157 no ai domiciliari (pulsante rosso), 127 sì (verde), 11 astenuti (bianco). Venticinque gli assenti.
In base alle dichiarazioni di voto, il sì poteva contare sui gruppi di Pd, Italia dei Valori, centristi e Lega. Una maggioranza netta a favore dell’arresto.
Invece il no ha vinto con 24 voti di scarto, tenendo presente che nel Pdl i presenti sono stati 118 su 131.
Che cosa è successo? Semplice.
La Lega, dopo aver incassato l’arresto di Papa, ha messo in pratica il piano già  pronto da martedì sera: votare nel segreto dell’urna contro i domiciliari di Tedesco per poi incolpare il Pd di averlo salvato.
Vari gli indizi. Il primo arriva a caldo.
L’aula ha appena votato e dai banchi del Carroccio si tenta di far partire un coro contro i colleghi di sinistra.
È Rosi Mauro, una delle zarine del cerchio magico del Senatùr, a intonarlo. Grida un paio di volte: “Vergogna”. Ma non ha fortuna. Poca convinzione.
Altra scena, qualche minuto più tardi, che tradisce il nervosismo dei leghisti. Alberto Tedesco è in Transatlantico, circondato dai giornalisti.
Ripete che non si dimetterà . Il senatore Cesarino Monti buca il muro dei cronisti e sbatte spalle al muro il senatore Salvato: “Tu sei un reo confesso, se sei un uomo dimettiti”.
È l’ultimo atto della sceneggiata, iniziata più di tre ore prima.
Ad aprire la seduta pomeridiana non è il presidente Renato Schifani, ma uno dei vice: Vannino Chiti del Pd.
Il primo a parlare è Luigi Li Gotti dell’Idv, relatore della Giunta per le autorizzazioni. Tedesco è seduto nella penultima fila in alto all’estrema sinistra. Tesissimo.
Dondola gambe e mani. Inforca gli occhiali, poi li toglie, infine li mette di nuovo per rileggere un testo scritto a mano.
Li Gotti non è un relatore vero e proprio. In realtà  la giunta, dopo aver respinto il no all’arresto proposto dal Pdl, ha scelto di non decidere rimettendo tutto all’aula.
Il governo è rappresentato da Calderoli, Giovanardi, Nitto Palma e altri sottosegretari . Li Gotti parla, nel frattempo arriva Schifani.
I senatori sono distratti, il brusìo è fortissimo.
Il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri è in piedi quando gli si avvicina il suo omologo della Lega, Federico Bricolo, altro pilastro del cerchio magico anti-maronita. I due escono e si appartano per venti minuti circa.
Gasparri assicura Bricolo che il Pdl chiederà  il voto segreto. Il gioco delle parti può andare avanti.
Dopo Li Gotti, tocca a Marcello Pera che attacca la Giunta per non aver deciso.
Alle 17.13 il rumore di fondo sparisce.
Si alza in piedi Tedesco per il suo intervento annunciato: chiederà  all’aula di votare a favore del suo arresto. Chiede scusa per aver costretto il Senato a occuparsi di lui “in coda ai lavori prima delle ferie estive”.
Respinge il sospetto su uno “scambio” di favori con Papa, si dice innocente, rinuncia al fumus persecutionis e dopo dieci minuti di discorso chiede all’aula, “sommessamente ma fermamente”, di “votare affermativamente e all’unanimità  alla domanda dei giudici di Bari”.
Di fronte a lui, nei banchi del Pdl, c’è chi si copre il viso con le mani, chi grida: “Dimissioni”.
Lui va avanti e conclude con la voce incrinata dall’emozione, citando, da ex socialista, Pietro Nenni: “Si faccia quel che si deve, accada quel che può”.
A questo punto, toccherebbe alle dichiarazioni di voto.
Ma il Pdl fa melina e manda avanti un po’ di senatori con questioni procedurali o di merito sulle accuse a Tedesco.
Tutto tempo guadagnato, aspettando Papa alla Camera.
Alle 17.46, Schifani dichiara chiusa la discussione generale.
Parte Cardiello della Coesione nazionale (l’equivalente dei “Responsabili” a Montecitorio), poi Li Gotti dell’Idv e Serra per l’Udc. Alle sei di pomeriggio è il turno di Sandro Mazzatorta della Lega.
Durissimo con il centrosinistra pugliese: “I furbetti del quartierino della Puglia hanno deciso però di salvare Vendola”.
Tira in ballo anche la Finocchiaro, che reagisce chiedendo il giurì d’onore. Conclusione: “Votiamo sì all’arresto”. Si alza la Finocchiaro per il sì del Pd.
Difende la “dignità ” di Tedesco che il Pdl non può comprendere perchè non riesce ad andare “più oltre”, come direbbe Totò.
La frase chiave è questa: “Dietro il vento dell’antipolitica c’è una richiesta vera. Noi non abbiamo paura, nè di rinchiuderci, nè di assecondare il vento”.
Il giro viene concluso da Gaetano Quagliariello del Pdl, che chiede il voto segreto per “difendere le istituzioni” dall’antipolitica.
Poi di nuovo Pera che accusa la Finocchiaro di essere “la Vishinsky in gonnella che ha convinto Tedesco a farsi arrestare”.
Si vota, finalmente. Alle sette di sera è tutto finito.
Gramazio, postfascista del Pdl, tenta la rissa.
Tedesco dice che il “voto fa male al Senato e al Paese”. Ma non si dimette, come chiedono numerosi gruppi sul web.
E Gasparri confessa: “Sì la Lega ha votato contro l’arresto”.

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL DISFACIMENTO DI BERLUSCONI

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

IL PUGNO SUL TAVOLO E L’IRA DI BOSSI: COSI’ FINISCE UN’EPOCA

“Sono impazziti, è una vergogna!”, grida Silvio Berlusconi, e batte il pugno sul banco e si incazza, e corre inseguito da due ali di ministri nei meandri di Montecitorio, verso la stanzetta del presidente del Consiglio, sguardi attoniti passi di minuetto, la faccia stupefatta di Michela Brambilla e quella costernata di Andrea Ronchi dietro di lui, e rumori di tacchi, forse anche così finisce un’era.
Questi sono impazziti: il paese che si congeda dal ventennio di consenso al Cavaliere, i parlamentari che sfuggono al controllo dei capibastone, un blocco di ghiaccio che si scioglie per colpa di un dito.
Già , il dito. Il dito indice della Creazione, ma anche quello del voto elettronico.
Nel primo pomeriggio questo dito lo roteava Tonino Di Pietro, in pieno Transatlantico, come se fosse un’arma. “Vedi? Se voti con l’indice attaccato alla buca dei tasti di voto, si vede solo quello. E se hai dentro la buca un solo dito, non puoi andare sul tasto del no!”.
Intorno deputati, giornalisti, le portavoci del gruppo dell’Italia dei Valori. Di Pietro sorride alla sua capoufficio stampa, Fabiola Paterniti. “Sai che faccio io? Mentre voto mi scatto una foto con il telefonino e poi lo mettiamo sul blog!”.
Esce dall’aula elettrizzato dal dito anche Dario Franceschini, capogruppo del Pd.
Per un giorno intero tutti dicevano che il suo gruppo sarebbe crollato, sotto il peso dei franchi tiratori, protetti dallo scudo del voto segreto.
È accaduto esattamente il contrario. E adesso Franceschini, mentre corre verso la sala stampa con passo garibaldino sorride: “Se non ci fosse stato il dito la Lega non sarebbe crollata”.
Cioè? “Ha avuto un peso di deterrenza, no? Mi pare chiaro. L’idea che il nostro voto fosse trasparente, ha impedito la sommersione di chi voleva votare a favore. Ed è questo che ha spaccato la Lega. Se Papa si salvava, era chiaro che si trattava di loro”. Già , la Lega.
Quanto conta quel colpo d’occhio dall’alto della tribuna, la feroce sintesi dei simboli. Umberto Bossi non c’era.
E tra i banchi svettava Bobo Maroni, questa volta più vicino ai suoi che al governo.
I “Maroniti”, ormai tutti li chiamano così, sono stati quelli che seguendo il grande ventre della base popolare del Carroccio hanno spinto in ogni modo sul sì. Prima in commissione, poi in aula.
Più di tutti vale il racconto di Anna Rossomanno, deputata piemontese del Pd, che ha seguito il caso Papa nel dettaglio. “Vedi, già  in quei giorni del voto c’erano segnali importanti e stupefacenti, su come stava montando la marea nella Lega”.
Ovvero? “Due colleghi del partito di Bossi mi hanno fatto vedere i loro telefonini: mentre noi discutevamo di Papa, erano tempestati di messaggini di militanti che li azzannavano. ‘Mica manderete libero quello lì”.
Quello lì. Papa, “il terrone”.
Pier Luigi Bersani rilascia interviste sulla rampa del giardino: “È finito il vincolo di maggioranza”.
Ci deve essere un mondo che scompare e il sipario di un’epoca che si avvicina all’ultimo atto, anche nella reazione a catena che si potrebbe innescare.
Sì a Papa e Sì anche a Milanese, ma poi perchè dire No, allora, per i reati del Ministro Saverio Romano?
La grande montagna dell’emiciclo pidiellino rumoreggiava cori e insulti   “Vergogna!” — contro quelli che chiedevano l’arresto, e sommergevano letteralmente di improperi Rita Bernardini che diceva: “Il 40 per cento degli italiani sono in carcere per la custodia cautelare. Ma non abbiamo fatto nulla per loro. Quindi, noi Radicali, riteniamo di dover votare…”.
E parte il grido: “Buffona!”. La Bernardini non si scompone: “Votare sì”.
Torna a battere sullo stesso tasto, Benedetto Della Vedova di Futuro e libertà : “Il vostro rigore garantista , onorevole Paniz, non l’ho ascoltato quando in gioco c’era la libertà  dei poveracci”.
Ci deve essere un mondo che finisce nell’ira con cui Silvio Berlusconi in serata, dopo il voto insegue Bossi, con il sospetto del tradimento che gli scava dentro.
“Chiarirò con lui. Questo è un gioco allo sfascio, così finisce anche la Lega”.
In fondo anche il Senatùr è chiuso dentro un paradosso feroce: o è sospettato di aver fatto un gioco delle parti con Maroni.
Oppure è sospettato di non controllare più lui il gruppo parlamentare del partito (e forse nemmeno più il partito).
Forse c’è un’epoca che finisce nella regolare sfida a duello che si inscena in Transatlantico fra il casiniano Angelo Cera e il pidiellino Vincenzo D’Anna: “Se vuoi usciamo di fuori e la regoliamo come dico io”, grida il deputato dell’Udc.
E D’Anna, sarcastico: “Allora facciamo così. Quando arriva l’autorizzazione su Cesa ci divertiamo!!”.
Forse il mondo che finisce lo puoi leggere anche nelle parole di Roberto Castelli, uomo forte del Carroccio che dice: “Berlusconi è arrabbiato? Mi dispiace perchè domani io gli darò un altro dispiacere votando contro la missione”.
E come mai l’arringa di Maurizio Paniz questa volta non fa presa? Come mai tutti dicono che l’Udc potrebbe smarcarsi invece non accade nulla?
Quando il voto si celebra Rosy Bindi corre via dall’aula, con le lacrime agli occhi: “Piange per Papa?”.
E lei: “No. Per quel poveraccio mi dispiace. Ma sto piangendo di gioia perchè il voto di oggi è una grande prova per questo paese, un segnale che la politica può cambiare”. Le lacrime della Bindi, e l’ira di Berlusconi.
Forse anche così passa un’epoca. Berlusconi ha perso molte battaglie, in questi mesi. Ma è la prima volta che vediamo la sua rabbia in diretta, la sua impotenza, il suo pugno che batte sul tavolo. Forse è la prima volta che vediamo il Cavaliere rappresentare la sua debolezza in diretta televisiva, sotto l’occhio delle telecamere. Una debolezza che potrebbe costargli cara.

Luca Telese
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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COSI’ I PARLAMENTARI FANNO LA CRESTA SUI PORTABORSE: DUE TERZI SONO PAGATI IN NERO

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

OGNI DEPUTATO PRENDE 3.600 EURO PER ASSUMERE UN COLLABORATORE, MA SOLO UN TERZO FA UN CONTRATTO REGOLARE… SOLITAMENTE PAGANO IN NERO 1.000 EURO E SI TENGONO IL RESTO DELLA SOMMA

Ce n’è uno che ha dovuto scrivere le partecipazioni di nozze per conto del suo onorevole, prossimo al matrimonio.
Ce n’è un altro che ha supervisionato l’allaccio delle utenze nella casa romana del parlamentare, prima che fosse inaugurata.
E ce n’è un terzo che viene spedito ogni giorno a fare la spesa, con la lista delle vivande da acquistare scritta dalla moglie del senatore.
E poi c’è chi si ribella.
Come il misterioso “SpiderTruman” – pseudonimo di un sedicente ex portaborse che ha raccolto centinaia di migliaia di seguaci raccontando su Facebook piccoli e grandi privilegi dei parlamentari.
Tecnicamente i portaborse si chiamano “collaboratori parlamentari”, da non confondersi con gli “assistenti parlamentari” che sono dipendenti della Camera e del Senato, insomma i “commessi” con la coccarda tricolore al braccio.
I “collaboratori” invece sono figure indefinite, prive di un vero riconoscimento e inesistenti dal punto di vista dell’inquadramento professionale.
E pertanto soggetti spesso ad abusi ed angherie.
Come quelli denunciati nel 2009 da Celestina, già  portaborse della parlamentare del Popolo delle Libertà , Gabriella Carlucci, che dopo anni di sfruttamento si è rivolta alla magistratura e ha vinto: la Carlucci è stata condannata a risarcire la ex collaboratrice che – pur svolgendo di fatto mansioni da dipendente — riceveva un rimborso di soli 500 euro mensili, rigorosamente in nero.
E così adesso un altro portaborse ha deciso di seguire le tracce di Angelina: è uno dei collaboratori di Domenico Scilipoti, che si è appena rivolto all’Ispettorato del Lavoro, per denunciare – presentando una cospicua mole di documenti – le pessime condizioni di lavoro e il misero trattamento economico ricevuto dal suo ex capo.
Ma per un paio di portaborse che si rivolgono alla magistratura, tutti gli altri tacciono. O parlano in modo riservato con Emiliano Boschetto, che si è assunto la briga di provare a risolvere i problemi quotidiani dei suoi colleghi ed è ora portavoce del Co.Co.Parl., il coordinamento dei collaboratori parlamentari.
Spiega Boschetto: «Ogni deputato prende, in busta paga, 3.690 euro sotto la voce “fondo spese rapporto eletto-elettore”.
Questa cifra viene erogata dalla Camera indipendentemente dalla rendicontazione della spesa che il parlamentare ne fa.
E’ questa la voce cui teoricamente attingono i parlamentari per coprire le spese dello staff.
Ma la media dei compensi dei collaboratori parlamentari è di circa mille euro mensili lordi, quindi esiste di fatto un gap fra quanto intascato dai parlamentari e la cifra realmente destinata al collaboratore.
Molti onorevoli dicono di utilizzare gli altri 2.600 euro per tenere in attività  le loro segreterie sul territorio, ma quasi sempre è una balla, anche perchè con l’attuale legge elettorale il rapporto locale fra l’eletto e gli elettori è molto blando».
Ma i problemi non sono finiti: «L’altro punto da sottolineare», dice Boschetto, «è che quella voce in busta paga viene erogata indipendentemente dall’intercorrere o meno di regolari contratti di lavoro tra il collaboratore ed il parlamentare».
In altre parole, il deputato si prende tutti i 3.600 euro, poi però non è tenuto a fare un contratto a nessuno, se non vuole.
Infatti alla Camera dei Deputati – i dati del Senato non sono noti – solo un terzo dei collaboratori parlamentari ha un regolare contratto.
Gli altri, tutti pagati in nero.
In pratica, due terzi dei parlamentari violano le leggi sul lavoro e sono correi di evasione fiscale.
Per i portaborse non avere un contratto regolare non è solo un problema economico.
E’ anche un ostacolo pratico, perchè senza contratto non viene loro dato alcun badge di ingresso alla Camera, quindi tutte le mattine sono fatti entrare come “ospiti”.
Senza dire che non tutti i badge sono uguali: «C’è quello bianco, ambitissimo, che consente di entrare ovunque, anche in Transatlantico, tranne che in aula. Quello verde invece non consente l’accesso al Transatlantico e quello marrone vale solo per la sede dei gruppi parlamentari», spiega Gianmario Mariniello, collaboratore di Italo Bocchino.

Cristina Cucciniello
(da “L’Espresso“)

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“CARO PAOLO, TI SCRIVO”

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

LETTERA A BORSELLINO DI ANTONIO INGROIA…A 19 ANNI DA VIA D’AMELIO I MAGISTRATI CHE HANNO LAVORATO CON LUI HANNO LETTO IN PUBBLICO LE LORO LETTERE AL COLLEGA UCCISO DA COSA NOSTRA

Antonio Ingroia, il “pupillo”, che da giovane magistrato ha lavorato prima a Marsala e poi a Palermo, fino a quel maledetto 19 luglio, ha raccontato i suoi primi passi da “giudice ragazzino” fino ad oggi, procuratore aggiunto a Palermo, l’incarico che il suo maestro aveva quando venne ucciso.

Caro Paolo, sono passati 19 anni da quel maledetto 19 luglio 1992. 19 anni che mi manchi, che ci manchi, che non ti vedo più, che non ti incontriamo più.
E mi colpisce che 19 sono anche gli anni che ci dividevano: infatti ora ti ho raggiunto, ho la tua stessa età .
Gli stessi 52 anni che avevi tu quando sei morto ed è singolare, un segno del destino beffardo, il fatto che mi ritrovo alla tua stessa età , nello stesso posto da te ricoperto (Procuratore Aggiunto alla Procura Distrettuale Antimafia di Palermo).
Del resto, in questi 19 anni non ho fatto altro che inseguirti: inseguire la tua ombra, inseguire le tue orme, inseguire il tuo modello, inseguire la tua carriera (insieme a Marsala ed insieme da Marsala a Palermo, e poi fino al posto di Procuratore Aggiunto a Palermo), ma la cosa che ho più inseguito di te è stata un’altra: la Verità  sulla tua morte.
Cercando di ispirarmi ai tuoi insegnamenti: inseguire la Verità , cercarla, lottare per trovarla, senza mai rassegnazione, anzi quasi con ostinazione.
Perchè non posso rassegnarmi all’ingiustizia di una verità  dimezzata e quindi incompiuta, e perciò negata.
Perchè la piena verità  sulla tua morte terribile è sempre stata negata. Finora.
Ma a quella verità  ho diritto come tuo allievo e come tuo amico, e ne hanno ancor più diritto i tuoi figli, tua moglie, i tuoi fratelli.
E non solo i tuoi parenti, anche gli italiani onesti, di ieri e di oggi.
E quella verità  — lo sento — si avvicina, anno per anno, momento per momento.
La verità  rende liberi, ma bisogna essere liberi per poter conquistare la verità .
Tu avevi un’ossessione per la verità , specie sulla fine di Giovanni Falcone, il tuo migliore amico, quasi un fratello, e anch’io ho una specie di ossessione — lo confesso — per la verità  sulla tua morte.
Certo, se tu vedessi l’Italia di oggi resteresti impressionato per il puzzo del compromesso morale, ma saresti felice dei tanti giovani liberi che vogliono verità .
Dai quindi a loro e a noi ancora più energia e convinzione per vincere, per prevalere su chi non è libero, su chi non vuole la verità .
Noi possiamo dirti, ed io in particolare ti assicuro che faremo, che farò di tutto per trovarla questa verità .
E con la verità  verrà  la giustizia.
Il tuo esempio, il tuo modello ci aiuterà , così farai giustizia attraverso tutti noi. Sarà  un modo di averti sempre fra noi, perchè così, fra noi, ti abbiamo sentito in questi 19 anni, ed ancor più ti sentiremo, convinti di poterti sentire, da domani in poi, in un’Italia più giusta, in un’Italia più uguale.
Più libera nella verità . Perchè la verità  rende liberi. La giustizia rende eguali.
E noi vogliamo come te un’Italia più libera e più giusta.
Un’Italia senza mafie e senza corruzione.
Per rivederti sorridere.
Per rivedere sul tuo volto quel tuo sorriso inconfondibile, il sorriso con il quale mi salutasti l’ultima volta che ci incontrammo, quel pomeriggio di metà  luglio in Procura. Lo stesso sorriso che hai regalato ai tanti che ti hanno conosciuto, ti hanno apprezzato, ti hanno amato.
I tanti dell’Italia migliore.

Umberto Lucentini
(da “L’Espresso”)

argomento: Attentato, criminalità, Giustizia, governo, Politica, radici e valori | Commenta »

LA GELMINI E LA COLONIA DEI BRESCIANI AL MINISTERO

Luglio 21st, 2011 Riccardo Fucile

SONO TANTI I DIRIGENTI DEL MINISTERO DELL’ISTRUZIONE ARRIVATI DALLA CITTA’ DI PROVENIENZA DEL MINISTRO…LE CHIAMATE DIRETTE DI DIVERSI MEMBRI DEL SUO STAFF

Un “cerchio magico” non si nega nessuno. E anche Mariastella Gelmini ha il suo. Costruito sapientemente nel corso della legislatura, oggi il gabinetto del ministro dell’Istruzione rappresenta un esempio davvero unico nel governo di cosa voglia dire “fare casta”.
O tenere famiglia.
Ecco, la Gelmini, nel tempo, si è circondata di persone di sua stretta fiducia non badando a professionalità  o curricula, ma alla provenienza geografica (la sua Brescia), alla fedeltà  personale e alle parentele “lontane”.
Attorno alla ministra più politica del governo Berlusconi c’è dunque un vero e proprio “clan di bresciani” a chiamata nominale, che dirige la stanza dei bottoni del ministero. E che paghiamo noi.
Dopo essersi stretta a sè Alberto Albertini come consigliere personale, reperto democristiano della Prima Repubblica, un nome che a Brescia fa storcere ancora il naso perchè passato attraverso molteplici grane giudiziarie, come l’inchiesta sull’Ospedale Civile (pm Paola De Martiis, nel ’94) in piena Tangentopoli (ma è acqua passata), la Gelmini ha puntato dritto su Vincenzo Nunziata, avvocatone dello Stato di antico lignaggio con un debole per gli arbitrati e gli incarichi extragiudiziali. Come quello sulla costruzione della Scuola Marescialli di Castello, a Firenze, che poi si è evoluta nell’inchiesta sul G8.
Nunziata è un recordman degli incarichi extragiudiziali, per i quali (tra il 2004 e il 2007) ha incassato 1 milione e 521 mila euro oltre a uno stipendio di 222 mila sommando una serie di altri incarichi tra cui quello — all’epoca — di capo di gabinetto del ministro Gentiloni alle Comunicazioni.
Nunziata e Albertini, però, non sono il problema.
Infatti le interrogazioni parlamentari sul “cerchio magico di Mariastella” sono fioccate per altri nomi.
L’ultima il 10 marzo 2011, dove un esterrefatto Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati del Pd, chiedeva conto della nomina di Massimo Ghilardi, 45 anni, avvenuta con chiamata diretta per “comprovate e qualificate esperienze professionali”, a dirigente non solo della direzione generale della Ricerca, ma anche come responsabile dell’ufficio competente in riforma, riordino, vigilanza e finanziamento degli enti di ricerca; incarichi che controllano circa 915 milioni di euro.
Ebbene, il signor Ghilardi, carabiniere di leva (fa sempre comodo) laureato in Scienze Motorie alla Cattolica di Brescia e anche in Sociologia Politica ad Urbino, iscritto all’Albo dei promotori finanziari, con la ricerca non c’azzecca proprio nulla, però avrebbe sbaragliato qualsiasi avversario in un ipotetico concorso pubblico: è il tesoriere di “Liberamente”, la corrente-Fondazione in ascesa nel Pdl e capitanata da Franco Frattini, dalla stessa Gelmini e Mario Valducci.
All’interrogazione su Ghilardi il ministero non ha mai dato risposta.
Perchè? Dice l’assistente di Massimo Zennaro, 38 anni, portavoce del ministro: “Il ministro risponderà  quando riterrà  opportuno farlo”.
Zennaro, laurea in Scienze Politiche, dentro Forza Italia era “esperto di comunicazione” prima accanto a Marcello Dell’Utri e poi a Tiziana Maiolo al Comune di Milano.
Manco a dirlo, è di Brescia.
E l’amicizia personale con Mariastella ha fatto sì che la medesima gli abbia messo la spada sulla spalla, nominandolo dirigente di prima fascia del ministero con incarico di Direttore generale “per lo studente, l’integrazione, la partecipazione e la Comunicazione”; il suo stipendio è passato da poco più di 40 mila euro lordi da portavoce a 134 mila netti da dirigente.
Più o meno quello che guadagna il “direttore generale della politica finanziaria e di bilancio” sempre dell’Istruzione, un altro del clan dei bresciani, del “cerchio magico di Mariastella”.
Si chiama Marco Ugo Filisetti, 55 anni, e anche nel suo curriculum c’è una laurea in Legge che nuota nel vuoto, fatti salvi una serie di incarichi come funzionario della Provincia di Bergamo di cui è diventato dirigente nel ’93.
La Gelmini lo ha chiamato a sè direttamente, ma stavolta il Parlamento, per voce di Antonio Misiani, tesoriere del Pd con radici bergamasche, ha chiesto conto al ministro della nomina (in un’interrogazione del luglio 2009) per ragioni “politiche”.
Infatti nel 2009, Filisetti è diventato sindaco del comune di Gorle (sempre Bergamo), ma essendo dirigente del ministero, quindi dipendente civile dello Stato, la sua nomina (ex testo unico sull’ordinamento degli Enti Locali) doveva considerarsi nulla. Insomma, Filisetti avrebbe dovuto optare per uno dei due incarichi.
L’ha fatto? Neanche per idea.
Però il sottosegretario all’Interno, Michelino Davico, ha spiegato che Filisetti può fare tutto ciò che vuole perchè l’incompatibilità  riguarda solo i direttori generali dei ministeri, mentre lui “ne svolge solo le mansioni”.
Al matrimonio di Mariastella con Giorgio Patelli, il 23 gennaio 2010, Filisetti è stato indicato come appartenente al ramo della famiglia dello sposo, in una declinazione neppure troppo lontana.
E queste, a ben guardare, son quelle cose che contano sempre.

Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)

argomento: Costume, Gelmini, governo, la casta, PdL, Politica | Commenta »

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