Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
CLAMOROSO SONDAGGIO DI PADANIA.ORG.: SOLO IL 4,4% DEGLI ELETTORI DELLA LEGA LO VEDONO ANCORA COME IL CAPO…LA CERTIFICAZIONE NON ARRIVA DA UN SITO UFFICIALE, MA IL MESSAGGIO E’ CHIARO: IL SENATUR HA STANCATO IL POPOLO LEGHISTA….IN TESTA MARONI, TOSI E MISTER X
Il campione è piccolo, il sito non è quello ufficiale e il metodo non è scientifico ma il messaggio è comunque chiaro: Umberto Bossi leader ha stancato il popolo della Lega.
La “certificazione” arriva da un sondaggio realizzato pubblicato sul sito internet Padania.org. Non si tratta, per quanto sia un giornale essenzialmente monotematico sulla Lega, di un sito ufficiale. Il vero sito del quotidiano leghista è un altro (lapadania.com) e prevede l’accesso solo tramite registrazione.
Sta di fatto che ai leghisti si rivolge Padania.org e a loro chiede lumi sulla leadership del partito.
Ne esce fuori un sondaggio da cui risulta che più di 95 leghisti su 100 vogliono aria nuova ai vertici: che sia un mister X o che sia Roberto Maroni la sostanza non cambia.
Per Bossi il sondaggio suona come un sinistro “fora dai ball”.
Il sito non proprio doc della Padania ha rivolto ai leghisti una semplice domanda: “Chi vorreste come nuovo leader della Lega?”.
A voler essere puntigliosi, in verità , già la presenza della parola “nuovo” nella domanda tradisce un certo malessere.
Rimane il fatto che, al momento del voto, l’opzione “Umberto Bossi” campeggia come prima di otto, in una lista che comprende, tra gli altri, personaggi come i ministri Roberto Maroni e Roberto Calderoli, il sindaco di Verona Flavio Tosi e un fantomatico “mister x”, chiamato semplicemente “uomo nuovo”.
I risultati del sondaggio, almeno fino al pomeriggio di sabato 16 luglio, non possono far piacere al Senatur.
Il leader più votato è infatti proprio quel Maroni (35% delle preferenze) con cui, dagli striscioni esposti a Pontida, non sembra correre esattamente buon sangue.
Dietro Maroni, con il 23% dei voti, segue il leader che non c’è, l’uomo nuovo non meglio identificato.
Al terzo posto il sindaco di Verona Flavio Tosi (19%) che stacca Luca Zaia fermo all’11%. Bossi arriva solo al sesto posto: a confermarlo leader è appena il 4,3% del campione, mentre il 2,7% dei votanti si limita a un laconico “non so”.
Chiudono la classifica dei possibili nuovi leader Roberto Castelli (2,2%) e Roberto Calderoli
(da “Blitz quotidiano”)
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
IL COSTRUTTORE PROIETTI CONFERMA: “L’A’FFITTO DELL’APPARTAMENTO DI TREMONTI PER DUE ANNI L’HO PAGATO IO”… NELLE COMMESSE PER GLI AEROPORTI TRA I REFERENTI DIVERSI POLITICI
Non ci sono soltanto il ministro Giulio Tremonti e il suo ex consigliere politico
Marco Milanese nei verbali dell’imprenditore Tommaso Di Lernia.
Il costruttore tuttora agli arresti domiciliari per illecito finanziamento proprio per aver pagato la barca a Milanese in cambio di appalti, ha accusato altri tre politici di centrodestra e uno dell’Udc di aver preso tangenti per l’assegnazione delle «commesse» di Enav e Selex, azienda del gruppo Finmeccanica.
Uno di loro è Aldo Brancher, per diciassette giorni ministro per il Federalismo dell’attuale governo e poi costretto a dimettersi perchè condannato a Milano, per ricettazione nell’affare Antonveneta.
Gli altri sono ancora segretati.
In questo sistema di «mazzette» ha coinvolto anche il titolare dei Trasporti Altero Matteoli, definendolo «il politico di riferimento delle imprese che operano su Venezia».
Rivelazioni ritenute attendibili dai magistrati che stanno adesso effettuando una serie di ulteriori riscontri.
Ma una conferma alle sue dichiarazioni sul pagamento della casa al centro di Roma occupata dal responsabile dell’Economia da parte del titolare della «Edil Ars» Angelo Proietti, sia pur con diverse modalità , è già arrivata dal diretto interessato: «È vero – ha detto – per due anni all’affitto di quell’appartamento ho provveduto io».
Racconta Di Lernia davanti al giudice e poi conferma al pubblico ministero Paolo Ielo: «Lorenzo Cola (consulente di Finmeccanica che lo aveva coinvolto nel giro degli appalti, anche lui ancora agli arresti domiciliari, ndr ) mi disse che Proietti era il soggetto che Milanese gli aveva descritto come “il tipo che mi dà 10.000 euro al mese per pagare l’affitto a Tremonti”».
Il 7 luglio scorso il ministro ha lasciato intendere di essere stato ospite, ma poi è stato Milanese ad affermare – nella memoria consegnata al Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio – che Tremonti gli dava 1.000 euro a settimana, così raggiungendo la metà dell’affitto fissato in 8.000 euro mensili.
Ben diverso è il racconto di Proietti al pubblico ministero di Napoli Vincenzo Piscitelli: «Fui io a far avere a Milanese un appartamento del Pio sodalizio dei Piceni e poi lui prese anche quello di via di Campo Marzio. Poichè doveva essere ristrutturato fissai il costo dei lavori in 200 mila euro e quella cifra riuscii a fargliela scalare dal canone. In realtà la ristrutturazione mi costò circa 50 mila euro, la feci a titolo gratuito».
Tenendo conto che il canone annuale è di complessivi 96 mila euro, se Proietti dice il vero per due anni quell’appartamento non è costato a Milanese e a Tremonti neanche un centesimo.
Da verificare è anche il racconto di Di Lernia sul «ricatto» di Cola a Tremonti.
«Gli disse che se non confermava Guarguaglini alla presidenza di Finmeccanica, avrebbe svelato le sue porcate e quelle dei suoi consiglieri», dichiara nel primo interrogatorio alla presenza del suo difensore Natale Perri.
Successivamente aggiunge un dettaglio che può servire da riscontro: «So per certo che alla lite ha assistito un testimone. Cola può indicarvi il suo nome».
Così Di Lernia ricostruisce invece il «sistema» di corruzione: «Ogni impresa ha un politico di riferimento che paga attraverso i vertici di Enav e Selex, oppure direttamente. Io ho pagato direttamente Brancher e il parlamentare dell’Udc attraverso una triangolazione estera: ho portato i soldi a Cipro, poi li ho trasferiti a San Marino e infine li ho prelevati in contanti e distribuiti a Roma. Brancher li voleva fatturati alla sua fondazione “L’Officine della Libertà “, gli altri versamenti erano invece “in nero”. In totale ho versato circa un milione in due anni. So che anche Cola ha pagato due politici, in totale in dieci anni sono stati versati circa tre milioni e mezzo di euro di tangenti per l’assegnazione degli appalti di Enav e di Selex. C’è un politico di riferimento a Milano, uno a Palermo per le “commesse” che riguardano gli aeroporti di Linate e quello “Falcone e Borsellino”. So che a Venezia, per i lavori dell’aeroporto il politico di riferimento era Matteoli».
È lungo anche l’elenco dei manager ai quali Di Lernia racconta di aver versato soldi e regali. Molti di loro, già citati nei precedenti verbali, hanno smentito di aver ottenuto denaro o altre utilità , ma nei nuovi verbali l’imprenditore ha aggiunto ulteriori dettagli.
«Anche perchè – specifica l’avvocato Perri – può fornire riscontro a quanto sta dichiarando». Afferma Di Lernia: «Il presidente dell’Enav Luigi Martini, soprannominato “il calciatore” perchè giocava nella Lazio, è il manager di riferimento della destra. L’amministratore delegato Guido Pugliesi è invece tramite con l’Udc. Io gli ho regalato tre Rolex, uno del valore di 22mila euro. In totale ho comprato dieci Rolex e li ho distribuiti. In questo sistema è inserita anche l’amministratore di Selex Marina Grossi, moglie del presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini».
Sul versamento di denaro Di Lernia ha fornito poi altri particolari, ma le verifiche sono tuttora in corso
Conclusi sono invece i controlli sull’operazione immobiliare che ha coinvolto Ilario Floresta, consigliere di amministrazione di Enav, ex parlamentare di Forza Italia e sottosegretario al Bilancio nel primo governo guidato da Silvio Berlusconi.
Il sistema usato per fargli avere 250 mila euro è stato quello delle finte vendite immobiliari: attraverso il commercialista Marco Iannilli è stato firmato un preliminare per la vendita di un appartamento in Egitto.
Il contratto non è stato perfezionato e Floresta ha tenuto i soldi della caparra.
Di Lernia è però andato oltre: «Quando Iannilli è stato arrestato, Floresta ha preteso che fossi io a versargli i soldi. Ero già pressato da numerose richieste e così gli ho dato circa 15.000 euro per farlo stare buono».
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera“)
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
APPROVATA IN MATTINATA L’ULTIMA LEGGE AD PERSONAM PER IL PREMIER, MA I SUOI TECNICI SI INCASINANO E COMMETTONO ERRORI PACCHIANI DI DIRITTO: TUTTO DA RIFARE, CHE FIGURACCIA
Pongono la (48esima) fiducia a sorpresa, temendo di non riuscire a portarsi a casa prima della chiusura del Senato, l’ultima legge a favore del Cavaliere, il processo lungo.
Ma nella fretta spasmodica di mettersi in tasca il risultato, sbagliano clamorosamente a riscrivere l’emendamento cuore dell’articolato (Mugnai) commettendo marchiani errori di diritto che costringeranno poi la maggioranza, una volta alla Camera, a rimetterci le mani. E, a ricominciare tutto daccapo.
Una figuraccia enorme, che vanifica ogni sforzo degli uomini di Berlusconi di costruire un articolato tale da permettere agli avvocati del Cavaliere di allungare a dismisura le liste dei testimoni per raggiungere serenamente la prescrizione di tutti i suoi principali processi.
Quindi tra poco voteranno un’inutile fiducia, posta anche per timore di non riuscire davvero a controllare le mosse della Lega, e poi se ne andranno tutti in vacanza.
Con un pugno di mosche in mano.
È stato il senatore dell’Idv, l’avvocato Luigi Li Gotti, a mettere in aula la maggioranza spalle al muro, raccontando ai pochissimi presenti rimasti ad ascoltare un dibattito totalmente inutile dopo la presentazione della fiducia da parte del governo (in aula erano in 13) in quale errore fosse incorsa la compagine degli avvocati berlusconiani di stanza a Palazzo Madama; in pratica, confondendo i numeri di alcuni articoli del codice di procedura penale, quelli legati al reato di strage e quelli sul sequestro di persona con le successive aggravanti, i berluscones in commissione Giustizia hanno escluso dai benefici penitenziari coloro che hanno commesso una strage “se è morto il sequestrato”.
Insomma, un papocchio giuridico, una svista che si tramuta in un mostro giuridico e inficia tutta la legge.
Il relatore del processo lungo, Roberto Centaro del Pdl, ha provato fino all’ultimo a convincere le opposizioni a far finta di nulla, consentendogli di mettere mano all’errore, ma il no è stato netto, anche perchè il regolamento non lo consente e i funzionari di Palazzo Madama si sono opposti con vigore.
Morale; una fiducia sprecata e un buco nell’acqua per il Cavaliere che non potrà vedersi approvata la sua legge entro ottobre, come avrebbe voluto, in modo da mandare a gambe per aria i processi Mills, Mediaset e Mediatrade.
Ma quello di ieri, se possibile, è stata l’ennesima prova di una maggioranza totalmente allo sbando, minata al suo interno e gravata da un’unica, vera urgenza oltre a quella di omaggiare ancora Berlusconi con una legge ad personam; andare in vacanza il prima possibile.
Con Renato Schifani, presidente del Senato, vero regista di una grottesca commedia degli equivoci che ha fatto andare su tutte le furie il Pd e ha lasciato perplessa anche la Lega.
In un primo momento, infatti, si è offerto di fare da garante del dibattito, evitando di contingentare i tempi, ma minacciando comunque di farlo se le opposizioni avessero tentato manovre ostruzionistiche.
Poi, in sua assenza, il governo è arrivato a porre la fiducia, consentendo a Rosi Mauro, la pasionaria leghista che presiedeva l’aula, di chiudere di botto il dibattito che solo più tardi si è riavviato, ma con “solo delle anime morte, non più di una quindicina di senatori che non avevano alcuna voglia di stare lì”.
È stato in questa atmosfera surreale, da “ottundimento dei sensi” che Felice Casson, ha sparato alzo zero contro la maggioranza: “Vorrei dare un consiglio agli avvocati di Berlusconi — ha detto l’ex pm di Venezia — anche se non ne avrebbero bisogno; di portarsi nei processi a Milano tutte le escort della città , quindi centinaia e centinaia di persone: possono star sicuri che con la nuova norma di legge il giudice non potrà assolutamente dirgli di no. Sia in Internet sia sulle pagine gialle se ne possono trovare centinaia e centinaia”.
Anche dell’Amn, che aveva parlato di normativa capace di “avere effetti devastanti, fino a rischiare la paralisi di tutti i procedimenti pendenti” ma a Montecitorio, a settembre, la strada del processo lungo si annuncia tutta in salita; Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera ha già detto che per lei è un provvedimento “inaccettabile”.
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
IL MINISTRO TEMEVA DI ESSERE VITTIMA DI UNA GUERRA TRA BANDE DENTRO LA GUARDIA DI FINANZA: “IN CASERMA NON ERO TRANQUILLO: ERO CONTROLLATO E PEDINATO…COLPITO IL SISTEMA DI POTERE BERLUSCONIANO
“Lo riconosco. Ho fatto una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte
le responsabilità . Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l’offerta di Milanese…”.
Finalmente, dopo lunghi giorni di imbarazzi e di silenzi, ecco la versione di Giulio Tremonti, al culmine di un assedio che lo vede all’angolo da un mese, e che rischia di farlo cadere da un giorno all’altro.
Non una banale giustificazione “tecnica”. Ma una brutale ricostruzione politica che, se autentica, tocca il cuore del sistema di potere berlusconiano.
Il “partito degli onesti” è un grumo di malaffari pubblici e di rancori privati.
Un ministro dell’Economia, che ha appena imposto agli italiani una stangata da 48 miliardi di euro, si può pagare l’affitto di casa in nero?
In quale altra democrazia occidentale sarebbe pensabile un simile cortocircuito etico e politico? Impensabile, insostenibile.
E infatti Tremonti è nell’occhio del ciclone.
Non solo le rivelazioni che si inseguono ogni giorno, dalle carte dell’inchiesta sulla P4 e sull’Enav.
Non solo le opposizioni che chiedono conto, rimpallando sul centrodestra una “questione morale” che si vorrebbe invece intestata al solo centrosinistra.
Ma anche il “fuoco amico” del Pdl, con Berlusconi che non risparmia i veleni, i suoi “volenterosi carnefici” che si prodigano a mescolarli e i giornali di famiglia che non smettono di inocularli nel circuito politico-mediatico.
Da settimane sulla graticola, Tremonti tenta ora di passare al contrattacco.
Di cose da chiarire ce ne sono tante.
Basta rileggere le ordinanze dei giudici e dei pm.
Tra il ministro e il deputato del Pdl “c’è uno stretto e attuale rapporto fiduciario che prescinde dal ruolo istituzionale rivestito da Milanese”: lo scrive il pm di Napoli Vincenzo Piscitelli.
“Assolutamente poco chiari i rapporti finanziari tra Tremonti e Milanese”: lo scrive il gip di Napoli, Amelia Primavera.
E dunque: perchè il ministro decise di andare ad abitare nella casa per la quale Milanese versava al Pio Sodalizio un canone d’affitto di 8.500 euro al mese?
E perchè Tremonti, su questo canone mensile, ha pagato una quota di 4 mila euro, in contanti?
“La cosa più giusta è quella che ha detto Bossi – osserva adesso il ministro, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre – ho fatto una stupidata, e di questo mi assumo la responsabilità di fronte agli italiani”.
È stata dunque una “leggerezza”, aver accettato la proposta di un suo collaboratore: usare il suo appartamento per le trasferte nella Capitale.
Tremonti rimanda al suo comunicato del 7 luglio, quando provò a troncare sul nascere l’ennesimo “ballo del mattone” che fa vacillare il Pdl, dallo scandalo Scajola in poi. “La mia unica abitazione è a Pavia. Mai avuto casa a Roma. Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l’offerta dell’onorevole Milanese. Da stasera, per ovvi motivi di opportunità , cambierò sistemazione”.
Questo diceva Tremonti, un mese fa. Ora ha cambiato sistemazione, appunto.
Ma resta sulla sua coscienza la consapevolezza di aver commesso, appunto, “una stupidata”.
Comunque grave. Gravissima per un ministro.
Nonostante questo, Tremonti non accetta di passare per un disonesto o un evasore fiscale.
“Chi parla di evasione fiscale è in malafede. Questa accusa non la posso accettare. Sono in grado di dimostrare in modo tecnicamente e legalmente indiscutibile l’assoluta regolarità del mio comportamento, e del mio contributo alle spese di quell’affitto”.
Non lo toccano le nuove carte uscite dall’inchiesta Enav, nè la ricostruzione dell’imprenditore Tommaso Di Lernia, secondo il quale l’affitto della casa non lo pagava Milanese, ma un altro imprenditore, Angelo Proietti, che in cambio otteneva sub-appalti.
“È una storia di cui non so nulla – commenta il ministro – non conosco quell’imprenditore indagato, non so nulla del contesto nel quale ha raccontato quei fatti”.
Ma la novità clamorosa, che emerge dallo sfogo di Tremonti sull’intera vicenda, non riguarda tanto le spiegazioni “formali” sulla quota d’affitto versata a Milanese, quanto piuttosto le ragioni “sostanziali” che lo spinsero ad accettare il “trasloco”.
Tra le righe, il ministro accenna qualcosa, proprio nel primo comunicato del 7 luglio. “Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l’offerta dell’onorevole Milanese…”.
Questo è il punto cruciale.
Per molti anni, e per l’intera legislatura 2001-2006 in cui è ministro, Tremonti dorme “in albergo o in caserma”.
Ma a un certo punto, dal febbraio 2009, decide di “accettare l’offerta dell’onorevole Milanese”. Cosa lo spinge a farlo?
Non il risparmio. Anzi, l’appartamento di Via Campo Marzio gli costa, mentre l’albergo lo paga il ministero, e la caserma la paga la Guardia di Finanza.
E allora? Perchè Tremonti decide di traslocare?
“La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato…”.
Eccolo, il “movente” che il ministro alla fine rende pubblico, dopo oltre un mese di tiro al bersaglio contro di lui.
Ecco la “bomba”, che Tremonti fa esplodere nel nucleo di uno scandalo che non è suo (o almeno non solo suo) ma semmai dell’intero sistema di potere berlusconiano. L’aveva fatto capire lui stesso, il 17 giugno scorso, nel colloquio con il pm Piscitelli che lo aveva ascoltato come testimone.
In quell’occasione Piscitelli fa sentire al ministro un’intercettazione telefonica (registrata nell’inchiesta sulla P4 di Bisignani) tra Berlusconi e il Capo di Stato Maggiore Michele Adinolfi.
Ed è allora che – come si legge nell’ordinanza – “il ministro riferisce dell’esistenza di “cordate” nella Guardia di Finanza, che si sono costituite in vista della nomina del prossimo Comandante Generale, precisa come alcuni rappresentanti di quel Corpo siano in stretto contatto con il presidente del Consiglio”.
Dunque, nella guerra per bande dentro la GdF, Tremonti sa da tempo di essere nel mirino di una “banda”.
In particolare, di quella che riferisce direttamente al premier.
Lo dice lui stesso a Berlusconi, in un colloquio di cui parla proprio il generale Adinolfi, a sua volta interrogato da Piscitelli il 21 giugno (quattro giorni dopo il ministro).
“Berlusconi – racconta il generale – mi mandò a chiamare, dicendomi che Tremonti gli aveva fatto una “strana battuta” allusiva, paventando che tramassi ai danni del ministro. Chiamò Tremonti davanti a me e lo rassicurò”.
Evidentemente quelle rassicurazioni non servono a nulla.
“Vittima” di questa guerra per bande fin dal 2009, quando cominciano i primi dissapori interni alla maggioranza e il Cavaliere comincia a sospettare degli “inciuci” tremontiani con la Lega e delle sue mire successorie dentro il Pdl, il ministro dell’Economia non si sente “tranquillo”.
Al contrario, si sente “spiato”.
E ora lo dice, apertamente: “In tutta franchezza, non me la sentivo più di tornare in caserma. Per questo, a un certo punto, ho accettato l’offerta di Milanese. L’ospitalità di un amico, presso un’abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura”.
Una scusa estrema, e tardiva, di un uomo disperato? Difficile giudicare.
Ma questa è la ricostruzione di Tremonti.
Se è vera, siamo al nocciolo duro del “metodo di governo” berlusconiano, che incrocia le P3 e le P4, la Struttura Delta e la “macchina del fango”, gli apparati dello Stato e il malaffare economico.
“Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo”, ha detto il ministro al Cavaliere, in un drammatico faccia a faccia dei primi di giugno, quando gli apparati del premier lo lavoravano ai fianchi, per convincerlo a dimettersi.
Forse siamo ancora dentro quel film.
Se è così, è più brutto e più serio della pur imperdonabile “stupidata” di Tremonti.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
LA CASA IN NERO A ROMA, SOLO ORA DICE DI “ESSERSI DIMESSO DA INQUILINO”… MA PERCHE’ PAGAVA 4.000 EURO IN CONTANTI? AMMESSO CHE LI PAGASSE
La maledizione del ministro dell’Economia e delle banconote in contanti.
“Presidente, quante persone conosce che girano per strada con 5.000 euro in contanti nel portafoglio?”.
Era il 26 maggio 2010 ci trovavamo nella sala stampa di Palazzo Chigi.
Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, uno vicino all’altro come due icone, sentendo la domanda, si erano dati di gomito. Adesso mi guardavano quasi divertiti.
Il Cavaliere sembrava ancora quello dei tempi d’oro, con il sorriso sfavillante e impune che si allargava sul viso: “Posso chiederle quanti soldi ha in tasca lei?”.
Era una domanda retorica, ovviamente, ma avevo risposto lo stesso: “Credo cinquanta euro…”.
Berlusconi allora aveva fatto la sua battuta: “Ecco, io zero! Eh, eh eh, eh…”. Pausa: “Mi affido alla carità pubblica!”.
Anche Marco Milanese, abbiamo appreso in queste ore, si affidava alla carità , forse privata.
Quella del suo ministro: per pagare la modesta pigione di 8.000 euro al mese per la bella casa di via Campo Marzio, dice, Tremonti gli dava 4.000 euro, chissà perchè tutti in contanti.
Tutto si pagava cash, senza ricevuta. Ieri il ministro ha scherzato: “Annuncio che mi dimetto da inquilino…”, aggiungendo che spiegherà meglio oggi (sul Corriere della Sera).
Attendiamo al varco, curiosi e fiduciosi.
Eppure quella discussione sui 50 euro del 2010, aveva molto a che vedere con quello che avremmo scoperto poi: con la tracciabilità — per dire — non avremmo avuto il rogito fantasma di Claudio Scajola, con la tracciabilità non avremmo le provviste in nero, le barche pagate con valigetta per arrotondare i conti, i Rolex, eccetera, eccetera, eccetera.
Non avremmo nemmeno, oggi, il dubbio su chi ha davvero pagato la casa con soffitti affrescati dove dormiva il ministro: se l’imprenditore che dice di sapere che un benefattore stanziava 10 mila euro, se l’onorevole Milanese con soldi presi chissà dove, oppure se i due collaboratori amici, il deputato e il ministro, dividendosi la cifra “cash”.
La domanda di quel giorno riguardava uno dei provvedimenti controversi di questo governo.
Rimuovere il vincolo della tracciabilità con cui Vincenzo Visco aveva imposto che si dovesse pagare con assegno, carta di credito o versamento bancario ogni prestazione sopra i 100 euro, con una draconiana misura anti-evasione.
Col senno di poi, pensando alla risposta che i due diedero allora, l’ironia della sorte vuole che Tremonti si trovi in un guaio, oggi, proprio per quel provvedimento che aveva difeso con tanta spavalderia.
Berlusconi e Tremonti, quel giorno si erano vantati di quella misura come un antidoto “allo stato di polizia”.
Quando Berlusconi aveva finito di parlare, il ministro dell’Economia aveva preso la parola, rivolgendosi curiosamente, anche lui, al mio portafoglio con un sorriso sornione dei suoi: “Senta, posso intervenire…? Lei quanti soldi ha detto che aveva, in tasca? Mi sembrava che la sua nonchalance fosse anche legata all’uso disinvolto… Sto scherzando!”.
Poi subito dopo, aveva aggiunto: “Con le norme di Visco, in questo momento se tu fossi andato a comprare un paio di scarpe avresti dovuto fare l’assegno… Poi le dirò cosa si deve fare davvero, non questo, per la lotta all’evasione”.
Tremonti quindi aveva dissertato sulla peculiarità dell’Italia: “In altri paesi, se tu tiri fuori le banconote chiamano l’Fbi! Perchè lì i mezzi di pagamento — aveva spiegato — sono solo plastica, sono solo tessere… E allora c’è anche il fisco. Ma pensare di modificare il costume di un paese che ha usi diversi… Al fisco americano gli va molto bene perchè la gente usa la plastica! Pensare che imponendo il divieto fiscale sopra i 100 euro — aveva sentenziato il ministro — implica l’idea dello stato di polizia tributaria”.
E ancora: “Se l’uso di un paese è una certa somma è giusto che anche il fisco faccia i controlli su quella base”.
Era stato meraviglioso Tremonti nel coronare il suo ragionamento: “In un paese in cui non è normale usare la plastica, imporre a un anziano che va a comprarsi le scarpe l’uso dell’assegno…”.
Avevo provato a interromperlo: “Quanti ne conosce di anziani che girano con le banconote da 100 e si comprano le scarpe?”.
Tremonti a quel punto si era spazientito: “Se vogliamo litigare ci mettiamo a litigare fuori! Però io ho cercato di dire che, con la legge che sarebbe vigente se non ci fosse stato il governo Berlusconi, sarebbe vigente in questo momento il divieto dell’uso di 100 euro per i pagamenti. Uno che pensa che sopra i 100 euro diventa un mezzo di pagamento indebito — aveva concluso Tremonti — credo che abbia una visione poliziesca e francamente indebita”.
La visione poliziesca e indebita è quella che ci vorrebbe anche oggi.
Tutte le P3 e le P4, tutti i piccoli grandi taccheggiatori della Seconda Repubblica hanno giocato a rubamazzo.
Non sono stati gli anziani che compravano i mocassini a finirci in mezzo.
Ma, per un divino contrappasso, il ministro che oggi fatica a spiegare da dove uscivano fuori gli 8.000 euro della pigione.
E che se fosse innocente, e se governasse Visco, oggi potrebbe esibire un assegno per dissolvere i sospetti.
Luca Telese blog
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
IPOTESI DI ABUSO D’UFFICIO: I COSTI DI RISTRUTTURAZIONE DELL’EDIFICIO SALITI DA 3 A 18 MILIONI
C’è un pastrocchio tutto italiano nella storia della ricostruzione della Questura
dell’Aquila.
Un pastrocchio scritto nelle carte della Procura della Repubblica che ieri ha notificato gli avvisi di garanzia a dirigenti pubblici – tra cui l’ex provveditore alle Opere pubbliche di Lazio, Abruzzo e Sardegna, Giovanni Guglielmi.
Una storia di appalti affidati senza gara – che lievitano del 450% – e poi finiscono nelle mani di aziende legate alla politica.
I lavori per il palazzo della Polizia gravemente lesionato dal terremoto, almeno all’inizio, dovevano costare 3 milioni di euro.
Come da preventivo della società Inteco spa – la stessa che aveva ricevuto, con procedura d’urgenza, anche l’affidamento del puntellamento della struttura appena dopo il sisma.
Senza gara, ma con affidamento diretto da parte dello Stato, vista “l’urgenza” della ricostruzione post-sisma.
Poi però la Inteco ha presentato via via un conto diverso. I numeri sono lievitati clamorosamente, fino ad arrivare a un preventivo di spesa di 18 milioni di euro.
A bloccare la super lievitazione del prezzo è intervenuta la Corte dei Conti – sezione Controllo lavori pubblici – che ha segnalato l’anomalia della procedura, invitato il provveditorato a revocare l’affidamento diretto e a procedere con gara d’appalto.
La Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti ha rilevato che l’incremento dei costi denota una modifica sostanziale dell’oggetto contrattuale, con una procedura in deroga “omissiva di qualsiasi competizione concorrenziale”.
Mettendo in evidenza che i nuovi lavori senza pubblicazione del bando e gara non sono “connotati da elementi emergenziali”, visto che si tratta della ricostruzione in toto di un’opera pubblica, il nuovo contratto appariva come “un’originale modalità di individuazione del contraente”.
Non solo, i giudici contabili hanno poi inviato le carte anche alla Procura della Repubblica. Il pm Stefano Gallo ha aperto un’indagine coadiuvato dagli uomini della Guardia di Finanza dell’Aquila.
E ieri – a conclusione delle indagini – sono arrivati gli avvisi di garanzia. Nove in tutto. L’accusa, per tutti, è di abuso d’ufficio.
Gli indagati sono Giuliano Genitti, Lorenzo De Feo, ingegneri, Carlo Clementi, dirigente pubblico, attualmente in servizio nel capoluogo; Giovanni Guglielmi, ex provveditore; con loro, quattro esponenti interni ed esterni del comitato tecnico amministrativo, tutti provenienti da Roma; infine, il rappresentante legale della ditta Inteco Spa, che aveva ricevuto inizialmente l’affidamento diretto dei lavori, poi ritirato.
E la questura?
La gara pubblica che si è – regolarmente – svolta alcuni mesi fa è stata vinta dalla società Nicando srl (amministrata da Giuseppina Patriciello, sorella dell’europarlamentare del Pdl Aldo Patriciello).
Gara vinta con un ribasso del 47%. Base d’asta quasi dieci milioni, offerta della Nicando di 4 milioni e 600 mila euro circa. Quindi da 3 milioni – poi arrivati a 18 – ora ricostruire la Questura dell’Aquila costerà quasi 5 milioni.
Se tutto procederà per il verso giusto i lavori saranno terminati entro un anno.
Ma la famiglia Patriciello – ora affidataria dei lavori – con le costruzioni ha già un procedimento penale in corso per “cemento scadente”.
Il 24 febbraio del 2011 Aldo Patriciello, Europarlamentare del Pdl, è stato rinviato a giudizio dal gup di Isernia con l’accusa di falso ideologico, truffa e frode in pubbliche forniture.
Secondo gli inquirenti molisani, Patriciello assieme al fratello Gaetano nel 2004 avrebbe fornito all’impresa Aldani di Bologna (titolare dell’appalto per la costruzione del primo lotto dell’autostrada San Vittore-Termoli) calcestruzzo scadente da utilizzare per la costruzione dei pilastri di un viadotto.
L’inchiesta venne ribattezzata “Piedi d’Argilla”.
Giuseppe Caporale
(da “La Repubblica“)
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
QUEL CHE TREMONTI NON HA DETTO
I pagamenti in nero sono il male oscuro dell’economia nazionale.
Quanti italiani possono affermare di non avere mai ceduto alla tentazione, magari per spese modeste e cose di poco conto?
Quanti possono lanciare la prima pietra senza peccare d’ipocrisia?
Ma la colpa è molto più grave se attribuita a persone che hanno l’obbligo istituzionale di esigere correttezza fiscale, di fissare le regole e di punire coloro che non le osservano.
Temo che il caso del ministro dell’Economia, se i sospetti delle scorse ore sui pagamenti effettuati per l’affitto del suo appartamento romano avessero qualche fondamento, apparterrebbe a questa categoria.
Giulio Tremonti è stato in questi anni il custode dei conti pubblici, il cane mastino della finanza nazionale.
Ha esercitato le sue funzioni con un rigore e una tenacia che hanno suscitato l’approvazione di Bruxelles e contribuito alla credibilità dell’Italia nelle maggiori istituzioni internazionali.
Alcuni colleghi di governo lo accusano di averlo fatto con criteri automatici (i «tagli lineari») che non tengono alcun conto delle differenze che certamente esistono fra i diversi contribuenti e i diversi organi pubblici colpiti dalla stretta fiscale.
Ma chiunque abbia la benchè minima familiarità con le abitudini politiche nazionali sa che cosa accade quando un progetto di legge finanziaria diventa materia di negoziati estenuanti e di ritocchi progressivi.
Può darsi che Tremonti abbia messo nell’operazione alcuni tratti del suo «cattivo carattere» e una certa dose di narcisismo intellettuale.
Ma nessun osservatore in buona fede può dimenticare quali sarebbero in questo momento le condizioni della finanza italiana sui mercati internazionali se la sua volontà non avesse prevalso.
Il suo stile, tuttavia, gli ha creato nemici a cui non spiacerà sostenere, nei prossimi giorni, che anche il cerbero dei conti pubblici ha il suo tallone d’Achille.
Il caso del ministro che paga in nero per un appartamento forse addirittura al centro di un’imbrogliata vicenda di favori e appalti rischia di diventare l’arma preferita dei suoi avversari.
Qualcuno potrebbe persino sostenere che Tremonti è il nostro Murdoch.
Se il magnate della stampa anglo-americana pretende di censurare i governi dall’alto della sua cattedra, ma compra le notizie corrompendo la polizia e intercettando le telefonate della gente, che cosa dire di un ministro dell’Economia e delle Finanze che pretende di tassare i suoi connazionali, ma accorda a se stesso un trattamento di favore?
Tremonti dovrebbe rompere la spirale dei sospetti e parlare con franchezza ai suoi connazionali.
Non deve permettere che questa infelice vicenda diventi l’ennesimo scandalo della vita pubblica nazionale e contribuisca ad accrescere la sfiducia del Paese per la sua classe politica.
Ci dica che cosa è realmente accaduto e, se ha commesso un errore di giudizio o un peccato di distrazione, non tema di scusarsi pubblicamente.
Lo faccia per se stesso e nell’interesse di un Paese che, soprattutto in questo momento, ha bisogno di un ministro dell’Economia serio e credibile.
Sergio Romano
(da “Il Corriere della Sera“)
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
L’UOMO FORTE DEL PDL NELLA PROVINCIA DI MONZA, CONSIGLIERE REGIONALE, ACCUSATO DI CORRUZIONE, CONCUSSIONE E PECULATO… INSIEME A ROSARIO PERRI, COSTRETTO A DIMETTERSI DALLA GIUNTA DOPO L’OPERAZIONE CONTRO LA ‘NDRANGHETA DELL’ANNO SCORSO
Un’altra inchiesta per corruzione in Lombardia. 
E questa volta a finire nel mirino è un pezzo da novanta del Pdl a livello regionale, l’ex assessore all’ambiente Massimo Ponzoni, fiduciario del governatore Roberto Formigoni in Brianza, attuale consigliere al Pirellone e già coinvolto in diverse vicende giudiziarie.
La Procura della Repubblica di Monza, la stessa che coordina l’inchiesta sul dirigente del Pd Filippo Penati, lo accusa di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, concussione e peculato.
L’indagine verte sulle vicende urbanistiche dei comuni di Desio e Giussano e su alcuni lavori affidati all’ente regionale Irealp (Istituto di ricerca per l’ecologia e l’economia applicate alle aree alpine).
Gli altri indagati, anticipa il quotidiano locale Il Cittadino, sono il vicepresidente del consiglio provinciale di Monza e Brianza Antonino Brambilla, l’ex assessore provinciale Rosario Perri, l’ex sindaco di Giussano Franco Riva.
Perri, altro uomo forte del Pdl nella zona, si era dovuto dimettere dall’assessorato dopo che il suo nome era finito agli atti della grande inchiesta Crimine-Infinito sulla ndrangheta trapiantata in Lombardia.
Sarebbero coinvolti anche due imprenditori e due funzionari della Regione Lombardia.
La notizia è trapelata perchè il pm Giordano Baggio ha ottenuto un decreto di proroga delle indagini, che sarebbero iniziate il 27 dicembre scorso, dal gip Maria Rosa Correra.
Secondo l’accusa, Brambilla e Perri intervenivano in modo illecito sul piano di governo del territorio di Desio, in veste rispettivamente di assessore comunale all’urbanistica e di potente capo dell’ufficio tecnico.
Lo stesso faceva Riva a Giussano. Ponzoni, in cambio, grazie al suo peso nel Pdl distribuiva incarichi politici e amministrativi di prestigio.
Nel fascicolo sono confluite altre inchieste che riguardano Ponzoni, a cominciare da quella che lo vede accusato di corruzione per una presunta somma di denaro ottenuta dall’imprenditore Filippo Duzioni, proprio in relazione a una variante del Pgt di Desio, quando era in carica la giunta Pdl-Lega costretta alle dimissioni dopo l’inchiesta Crimine-Infinito, per favorire la costruzione di un centro commerciale.
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Luglio 29th, 2011 Riccardo Fucile
IL COSTRUTTORE PASINI: “DI CATERINA RACCOGLIEVA TANGENTI PER LUI”….I VERBALI DELL’INTERROGATORIO
«Quello di cui sono assolutamente certo – scandisce ai pm il costruttore Giuseppe Pasini – è che ho pagato 4 miliardi di lire in due tranche a Di Caterina all’estero perchè così mi era stato chiesto da Penati in relazione all’approvazione del piano regolatore dell’area Falck di Sesto».
Pur coperti da una pioggia di omissis, ecco gli interrogatori di Pasini e dell’imprenditore del trasporto urbano Piero Di Caterina, dai quali è nata tutta l’inchiesta sull’ex sindaco ds di Sesto San Giovanni e dimessosi vicepresidente pd del consiglio regionale lombardo Filippo Penati.
Pasini, nel 2007 candidato del centrodestra a Sesto, nel 2000 era il costruttore che stava per acquistare dai Falck l’area delle ex acciaierie.
«Io – ricorda ai pm – sono andato a chiedere a Penati se, nel caso avessi comprato l’area Falck, era possibile arrivare a una licenza. Penati mi disse che avrei dovuto dare qualcosa al partito ovvero a qualcuno. A tal fine ho incontrato Penati in Comune nel 2000», il quale «mi disse che l’operazione mi sarebbe costata 20 miliardi di lire in tranche di 4 miliardi l’una. Mi disse anche che a prendere accordi con me sarebbe venuto Di Caterina» che, «all’epoca molto amico dell’amministrazione e in particolare di Penati, aveva il compito di portare a casa dei quattrini».
Per chi? «Penati non mi disse che i soldi servivano per qualche personaggio politico più in alto, ma ho immaginato che questo potesse essere perchè tutti erano interessati all’operazione».
Sul pagamento dei 4 miliardi, Pasini spiega di aver fatto a se stesso (conto «Pinocchio») un bonifico in Lussemburgo su Banca Intesa: «Ho ritirato in contanti 2 miliardi che la banca mi aveva già preparato in una valigetta».
Soldi dati a Di Caterina, «non ricordo se venne e ritirò personalmente o se su indicazione versai su un conto a lui riconducibile».
Sei mesi dopo Pasini dice di aver pagato gli altri 2 miliardi, «veicolati sulla Svizzera perchè ho un ricordo di un viaggio fatto in macchina con mio figlio Luca per andare a Chiasso o a Lugano».
Poi «ci sono state altre occasioni in cui, su richiesta di Penati, ho consegnato somme in contanti in Italia a Giordano Vimercati (in seguito capo di gabinetto di Penati presidente della Provincia di Milano), approssimativamente equivalenti a 500.000 euro tra fine anni 90 e inizi del 2000, dazione che potrebbe riferirsi all’area Marelli». Per la quale, a suo dire, c’era già stata una tangente: «Penati mi disse che era “indispensabile” fare una uscita verso via Adriano, la qual cosa avrebbe necessariamente comportato l’acquisto da parte mia del terreno di proprietà di Di Caterina», che «in cambio volle la cessione di un mio terreno più una somma»: con il risultato che «all’esito di questa trattativa ho pagato a Di Caterina circa 1 miliardo e 250 milioni di lire. Capii chiaramente che il prezzo non era trattabile. All’epoca capii che Di Caterina avrebbe dato una parte della somma a Penati e tale circostanza mi è stata confermata da Di Caterina in successivi incontri nei quali mi ha riferito di avere consegnato importi di denaro a Penati. Sostanzialmente Di Caterina in quegli anni faceva da “collettore” soprattutto per Penati con il quale aveva un rapporto molto stretto. Quando indico Di Caterina come collettore di tangenti, mi riferisco al fatto che era la persona più vicina ai componenti il consiglio comunale», e «quindi chi voleva avvicinare questi politici contattava Di Caterina».
E Di Caterina che dice?
«Tra me e Penati c’era un rapporto confidenziale per cui era più naturale chiedere il denaro a me. Ho portato – dice ai pm – copie di buste nelle quali avevo riposto contanti provenienti dalla mia attività di trasporto estero su estero, sulle quali sono annotati i pagamenti per contanti fatti a Penati e Vimercati», oltre «ad altri soggetti ma sempre su loro richiesta».
La somma, «da fine 1997 al 2002 e qualcosa nel 2003», è «pari a lire 2 milioni 235.000 euro».
La particolarità è però che Di Caterina spiega di aver avuto in parte, e di attendere in altra parte, alcune restituzioni di quei versamenti secondo compensazioni su più tavoli d’affari: «Quando ho prestato i soldi a Penati eravamo già in trattative per il piano Marelli e io ero sicuro che le somme che gli anticipavo mi sarebbero state restituite dalle tangenti che Pasini doveva pagare a Penati e che erano di importi rilevanti. Ero sicuro in quanto era scontato che Pasini avrebbe pagato una tangente a Penati per l’operazione, e del resto la cosa mi fu anche detta più volte dallo stesso Penati e da Vimercati, e cioè che i soldi sarebbero rientrati».
Complicato, ma redditizio per Di Caterina: «Io avevo notevoli vantaggi da questa operazione in quanto Penati e Vimercati mi proteggevano da Atm, mi hanno fatto entrare nel consorzio Trasporti, e mi hanno consentito di partecipare a operazioni per me lucrose».
Su un conto che apre il 29 febbraio 2001 in Lussemburgo, Di Caterina conferma che «da Pasini ho ricevuto due versamenti il 22 marzo 2001 per un totale attualizzato di 1 milione e 104mila euro che ho scudato nel 2003: tale importo corrisponde alla somma che Penati doveva restituirmi per dazioni di denaro fatte a lui fino al 1997».
I pm cercano di capire: «Ma quando lei ha versato il denaro a Penati, l’ha fatto nella convinzione che si trattava di prestiti, o di pagamenti in cambio di favori che comunque le sarebbero ritornati in affari, e di cui adesso chiede la restituzione non essendo andate nei termini sperati alcune operazioni?»
Di Caterina risponde: «Si è trattato di pagamenti in cambio di favori nel modo in cui lei li ha descritti nella domanda, e quindi ora io attendo la restituzione».
Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella
(da “Il Corriere dela Sera“)
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