Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
IL “CERCHIO MAGICO” INONDA LE CASELLE DEGLI ISCRITTI PADANI CON IL FAC SIMILE DI UNA LETTERA DOVE SI ESPRIME SOSTEGNO A BOSSI E CHE VA RESTITUITA FIRMATA… I MARONIANI INSORGONO MA POCHI GIORNI PRIMA AVEVANO FATTO LA STESSA COSA
Le ferite interne alla Lega, apparse pubblicamente nella manifestazioni di Milano, continuano a dilaniare il partito del Carroccio anche sottotraccia.
L’ultimo scontro si sta consumando infatti via posta elettronica attraverso una “conta” digitale degli schieramenti.
In questi giorni nelle caselle degli iscritti al Carroccio circola infatti una mail datata 18 gennaio – di cui l’agenzia di stampa Dire ha una copia – con allegato il fac simile di una lettera da inviare al segretario Umberto Bossi per fargli sentire la propria “vicinanza”, in “questo momento di duri attacchi”.
Ma sempre la Dire ha scoperto che i maroniani, nei giorni precedenti, avevano bombardato di mail il Senatur.
Mentre, nel clima agitato in casa Lega, si inserisce anche un incontro tra Bossi e Berlusconi.
Partiamo dall’iniziativa dei bossiani del cosiddetto “cerchio magico”.
La mail, da inviare all’indirizzo “sempreconbossi@gmail.com”, prevede uno spazio da compilare con la sezione di appartenenza, e comincia così:
“Caro Umberto, come tanti fratelli padani ho deciso di scriverti dopo mesi che su tutti i giornali assisto ad un incredibile teatrino di interventi fratricidi che nulla hanno a che vedere con la nostra battaglia per la libertà “.
Una “serie di articoli sui giornali dei poteri forti – prosegue la lettera – che denigrano il nostro impegno e che infangano, abbassandola ad una questione di poltrone e potere, la nostra lotta per l’indipendenza della Padania”.
E ancora: “Noi vogliamo essere padani a casa nostra, non nei consigli di amministrazione e sulle poltrone di potere. Hai detto che la Lega deve produrre libertà e non posti, noi vogliamo cambiare e non gestire”.
Perchè, si legge ancora, “il potere corrode e confonde, il potere romano da duemila anni divide e opprime la padania”.
Da qui l’appello al Senatur: “Solo tu hai avuto il coraggio di ribellarti quando tutti tacevano, solo tu con il tuo esempio di coraggio e rinunce hai saputo risvegliare il nostro popolo. In questo momento, quando il nemico è nell’angolo costretto dalla tua tattica a mostrarsi per la prima volta con il suo vero volto tutto unito nel governo Monti, non permettere che divisioni e gelosie facciano fallire ancora una volta il nostro sogno di libertà regalando a Roma la vittoria”.
nsomma: “i militanti, i dirigenti, i colonnelli, nessuno è in grado di unire i padani. Solo tu. Decidi tu, dicci tu cosa dobbiamo fare, guidaci come hai sempre fatto. Solo tu hai l’autorità per farlo. Noi ti seguiremo”.
Fin qui niente di strano: la mail sembra rientrare nella normale attività di propaganda interna di un partito.
Ma i leghisti più scafati sentono puzza di bruciato.
In coda alla mail si chiede infatti di rimandare “il prima possibile” il messaggio agli indirizzi “segretarioumbertobossi@gmail.com” e “dcantamessa@leganord.org”.
Chi è pratico di Carroccio sa che gli indirizzi “leganord.org” sono riservati esclusivamente ai membri della segreteria di via Bellerio.
E in particolare, quello a cui si chiede di rispedire la lettera, appartiene a Daniela Cantamessa, funzionaria della segreteria particolare di Umberto Bossi, su cui regna incontrastata la fedelissima Rosi Mauro
In pratica, quindi, è il ragionamento che si fa tra i “maroniani”, la mail non avrebbe altro scopo che indicare al Cerchio Magico, attraverso il feedback, su quante forze può contare.
Sempre la Dire, però, ha scoperto che nei giorni precedenti anche i maroniani avevano lanciato una massiccia campagna a colpi di mail.
“Come tanti fratelli padani ho deciso di scriverti- si legge nella lettera – dopo mesi che su tutti i giornali assisto ad un incredibile teatrino di interventi mirati a fare piazza pulita di chi tra i primi ti ha seguito nel ‘folle’ progetto di conseguire la libertà del nostro popolo. Liberati di coloro che sfruttano il tuo nome per creare divisioni tra i militanti, e infangano per biechi motivi di interessi personali, il nome di chi con te ha lanciato, scrivendoli sui muri, i primi ruggiti del popolo oppresso”.
Da segnalare infine l’incontro per cena, tra Bossi e Berlusconi, nella residenza milanese del Cavaliere.
Domenica il numero uno del Carroccio, dal palco della manifestazione di piazza Duomo, aveva lanciato l’ultimatum all’ex premier: o fa cadere il governo Monti o la giunta Formigoni sarà a rischio.
Ventiquattro ore dopo, il faccia a faccia per rassicurare il leader del Pdl che stava scherzando: chi lo dice poi ai leghisti lumbard che devono lasciare la poltrona?
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
SETTECENTO SENTENZE DI DEMOLIZIONE STANNO PER ESSERE OPERATIVE E LA POLITICA CORRE AI RIPARI
E’ l’inciucio del cemento. Abusivo. 
A Ischia si sperimenterà l’accordo Pd-Pdl. Debutterà alle prossime amministrative di primavera. Con uno scopo proclamato con fierezza e senza imbarazzo: difendere le case abusive dalle oltre 700 sentenze di demolizione che stanno per abbattersi (e mai verbo fu più indicato) sull’isola più devastata dall’edilizia illegale.
Il sindaco Pd, Giosi Ferrandino, e il capo dell’opposizione Pdl, Domenico De Siano, si sono stretti la mano e hanno comunicato, scavalcando Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi, che al voto correranno insieme in nome degli interessi bipartisan del loro elettorato, che chiede a gran voce lo stop alle ruspe e la sanatoria degli abusi di necessità — e chi stabilirà quali sono e quali, invece, sono speculazioni?
Siccome, ovviamente, mai i detentori legali dei simboli dei partiti autorizzeranno l’impropria alleanza — dalla segreteria regionale del Pd sono già partite le scomuniche — Ferrandino e De Siano la imboscheranno dietro il paravento di liste civiche.
Si prevede un plebiscito e l’esportazione del modello di governo anche negli altri cinque comuni dell’isola, due dei quali, Lacco Ameno e Casamicciola, vanno alle urne insieme a Ischia.
Perchè qui la lobby del mattone selvaggio è potente e aggressiva.
Organizza iniziative, convegni, cortei, barricate in difesa degli abusi.
Nel gennaio di due anni fa ci fu una rivolta di piazza nel disperato tentativo di proteggere l’abitazione di un ischitano dalle ruspe, giunte su mandato della Procura di Napoli a eseguire il ripristino dello stato dei luoghi in base a una sentenza di condanna passata in giudicato.
Ce ne sono tantissimi a Ischia in queste condizioni e serpeggia la paura che la prossima demolizione potrebbe toccare a uno di loro.
I numeri del fenomeno sono da paura.
Ben 12.017 domande di condono del 1985 in tutta l’isola, più ulteriori 8237 del condono del 1994.
Le circa 3200 pratiche del condono 2003, lasciamole perdere.
Perchè la giunta regionale di Antonio Bassolino le neutralizzò con una leggina ad hoc, attirandosi le maledizioni eterne degli ischitani.
Qui il cemento è colato a fiumi: i vani sono quintuplicati dal 1951 in poi.
Ma moltissimi, quasi 30.000, restano vuoti per gran parte dell’anno, vengono occupati solo in estate dal popolo dei vacanzieri della seconda casa.
Il risultato è che da un lato la situazione urbanistica è talmente saturata da rendere impossibile nuove edificazioni legali, dall’altro i residenti continuano ad avere fame di case.
Così il clima sociale è infuocato e guai a chi propugna le ragioni delle demolizioni.
Ne sa qualcosa Aldo De Chiara, capo del pool Ambiente e Urbanistica della Procura di Napoli, il magistrato che insieme alla Procura Generale coordina le operazioni di abbattimento. Proprio un anno fa, il 18 gennaio 2011, apparvero sulle auto parcheggiate di fronte all’abitazione di Antonio Caldoro, il papà del presidente Pdl della Regione Campania Stefano Caldoro, scritte minacciose con le bombolette spray: ‘Caldoro e De Chiara a morte infami’. Sull’episodio indaga la Procura di Roma.
Chiaro il movente: intimidire il politico di un partito il cui governo promise un decreto ‘salva-ruspe’ e poi dovette rimangiarselo, e il procuratore che sta applicando le leggi.
E che da mesi conduce nel massimo riserbo un’inchiesta sugli interessi personali e familiari degli amministratori pubblici ischitani che ispirerebbero l’azione politico-amministrativa in difesa degli abusi. P
eraltro le cifre degli illeciti edilizi sono così elevate che è quasi impossibile non avere un parente o un sodale implicato in una pratica di condono o in una sentenza di demolizione.
In un filone delle indagini ormai di dominio pubblico, il sindaco di Forio d’Ischia Francesco Regine è stato rinviato a giudizio per omissione d’atti d’ufficio in concorso con un tecnico del Comune, con l’accusa di aver provato a proteggere e sanare un abuso edilizio riconducibile a un consigliere comunale.
Il 1 febbraio ci sarà l’udienza del processo davanti al Tribunale di Napoli.
Sempre a Forio d’Ischia, a ottobre, il consiglio comunale ha respinto a scrutinio segreto la manovra di bilancio che doveva servire a finanziare diverse pratiche di abbattimento.
Una delibera sulla quale la Procura vuole vederci chiaro.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
LE AZIENDE ITALIANE IN CRISI SONO STATE OGGETTO DELL’INTERESSE DEI GRANDI GRUPPI STRANIERI, IN PRIMIS FRANCESI E CINESI… IL CONTROVALORE E’ CRESCIUTO DELL’80% E VALE LA META’ DELLA FINANZIARIA DEL GOVERNO
L’ultima in ordine di tempo è la Ferretti group, passata alla società cinese Shandong Heavy Industry Group — Weichai.
Solo il tempo di festeggiare il Capodanno (occidentale) del 2012 e il Dragone ha messo il sigillo su un gioiello dell’industria italiana, maggior produttore mondiale di yacht di lusso.
Ferretti era incappata nei guai per l’eccesso di debiti accumulati in successivi passaggi di mano di fondi di private equity, e i cinesi hanno vinto la partita grazie all’accollo dell’indebitamento con un esborso complessivo di 374 milioni di euro — di cui 178 milioni in investimenti e 196 milioni per il finanziamento del debito del gruppo — per il 75% della società italiana.
Il compratore è una società statale, dotata quindi di fondi pressochè illimitati, ma assolutamente estranea al mondo degli yacht.
Non è un problema, l’importante è accaparrarsi le tecnologie e il “saper fare” artigianale degli italiani, farli propri e svilupparli successivamente in madre patria, dove i milionari sono molti e gli yacht di lusso un giocattolo sempre più ambito.
Compratori attenti, i cinesi.
Venditori distratti del loro patrimonio manifatturiero gli italiani.
La nostra manifattura è la seconda in Europa per importanza, dietro solo a quella tedesca e a prezzi di realizzo causa crisi e (apparente) disinteresse degli imprenditori italiano.
I dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg non lasciano dubbi.
Nel 2011 le imprese straniere hanno fatto man bassa delle aziende italiane.
Sono in tutto 108 acquisizioni tra grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi di euro.
Per fare un paragone, stiamo parlando della metà della manovra finanziaria lorda con cui il governo Monti ha messo in sicurezza i conti statali a fine 2011.
Tanti, tanti soldi per un periodo di crisi, contando che sono scomparsi i cosiddetti “megadeal” tipici dei periodi di espansione economica, grandi acquisizioni con numeri talvolta superiori al Prodotto interno lordo di interi stati africani o centroamericani.
Nel 2010 le operazioni “estero su Italia” come si chiamano nel gergo della finanza, erano state 83, con una crescita quindi del 30 per cento e addirittura del 76 per cento se si considerano i controvalori investiti, che nel 2010 sono stati 10 miliardi.
Vale la pena di notare che le imprese italiane si accontentano di affari minori.
Le operazioni “Italia su Italia” e “Italia su estero” sono state rispettivamente 157 e 64, ma la somma del loro controvalore totale è pari a 10 miliardi di euro. L’80 per cento meno degli stranieri.
Napoleone Bonaparte aveva avuto buon occhio per i capolavori dell’arte italiana.
Una volta varcate le Alpi era stato attentissimo nel selezionare quadri e sculture di assoluto valore artistico per impreziosire i propri musei.
Due secoli abbondanti dopo, mutatis mutandis, la Francia repubblicana è tornata in forze sul territorio italiano a fare incetta di altri “gioielli” della nostra epoca.
Nessun uso della forza, solo strategia e soldi. I cugini transalpini sono stati gli assoluti protagonisti sul mercato delle acquisizioni nel 2011, confermando l’attenzione per il tessuto economico italiano dove nel periodo 2007-2011 sono i secondi assoluti per deal dietro solo alla superpotenza americana.
Cinque delle 10 maggiori acquisizioni di gruppi italiani portano infatti il marchio dei bleus, a cominciare dalla maison del gioiello Bulgari finita a marzo al colosso mondiale del lusso Lvmh di Bernard Arnault per 4,15 miliardi di euro circa. La famiglia Bulgari è entrata nel cda francese ma nessun gruppo del lusso italiano ha rilanciato.
Appena il tempo di digerire la perdita di questo importante marchio nostrano ed è stata la volta di Parmalat, secondo gruppo agroalimentare italiano finito ai francesi di Lactalis per 3,7 miliardi di euro.
Uno smacco in piena regola per un’azienda che veniva da una fase di ristrutturazione finanziaria complicata post crac Tanzi.
La beffa è ancora maggiore se si pensa che il gruppo di Collecchio era un piccolo forziere con 1,4 miliardi di euro di liquidità derivante dalle azioni revocatorie e risarcitorie contro le banche.
Non solo: come ogni azienda agroalimentare è anche il terminale di una filiera spesso complessa che ha origine nel mondo agricolo, settore fragile.
Anche in questo caso nessuna resistenza degna di nota.
L’ex ministro Giulio Tremonti, spaventato dal possibile contraccolpo sull’opinione pubblica aveva annunciato norme antiscalata sul modello proprio di quelle francesi, ma poi partorì poco o niente e l’acquisizione andò in porto con il benestare di IntesaSanpaolo (ex azionista forte di Parmalat) guidata dell’attuale ministro Passera. Così come è andato in porto l’acquisto di Edison da parte della società statale transalpina Edf, che a fine anno ha messo le mani sul secondo player commerciale di luce e gas in Italia.
L’intervento di Passera, in versione ministro, ha lasciato in mani italiane la controllata Edipower, attiva nella generazione.
Il lato grottesco dell’operazione è che gas ed energia elettrica privatizzati e aperti al mercato sono finiti a una società statale, con gli utili che ingrasseranno l’Eliseo.
Sempre nel lusso sono passati a società francese la società abruzzese Brioni, quella degli smoking di James Bond e di tantissime celebrità mondiali, acquisita dalla Pinault Printemps Redoute (Ppr) interessata alla forza lavoro zeppo di sarti di alto profilo artigianale dello stabilimento di Penne, e Moncler, dov’è entrata con il 45 per cento la finanziaria Eurazeo.
Italiani bravi a creare marchi e aziende, incapaci di creare anche nei settori tradizionali del made in Italy campioni di livello internazionale.
E tra gli ultimi colpi di mercato anche il vino, con la casa vinicola Gancia finita all’imprenditore tartaro Roustam Tariko, attivo nella vodka e banchiere.
Prima di lui la Ruffino era finita agli americani di Constellation Brands. Insomma, siamo i primi o secondi produttori di vino al mondo e non abbiamo un’azienda di livello internazionale. Continuano i paradossi.
Che la razzia delle imprese italiane stia diventando un problema sembra se ne siano accorti anche nel governo che potrebbe studiare una nuova norma antiscalate per difendere le società italiane da attacchi esterni e diminuirne così la contendibilità .
Non è chiaro ancora cosa ne verrà fuori, ma quelle che sono ben visibili sono le prede. A cominciare dal disastrato sistema bancario italiano, alla ricerca disperata di liquidità e con valori di borsa bassissimi in questo momento.
Basti pensare che che a fine mese, con la chiusura dell’aumento di capitale Unicredit, si capirà qual è il nuovo azionariato e potrebbero esserci sorprese asiatiche o mediorientali, sotto forma di fondi sovrani. Il solo sistema cinese ha pronti per l’Europa 300 miliardi di euro da investire, e attende di allocarli al meglio.
Altre prede possibili sono Alitalia, dov’è presente AirFrance Klm come azionista che potrebbe voler crescere di peso nelle more di un risanamento dei “capitani coraggiosi” che però è messo sempre più a rischio dai conti della stessa società francese; i treni di Ansaldo Breda messi ufficiosamente in vendita da Finmeccanica e con la francese Alsom possibile interessata insieme ai canadesi di Bombardier; la maison Valentino cui sarebbero interessati gli spagnoli di Puig.
Un caso a parte potrebbero essere le Assicurazioni Generali, gioiello della finanza italiana che Mediobanca, dove il francese Bollore è ancora salito leggermente di quota, non avrebbe la forza di difendere da un attacco portato in grande stile.
Potrebbero tornare i progetti di privatizzazione delle aziende energetiche Eni ed Enel? E’ un’ipotesi molto remota, ma nessuno in questo momento si azzarda a negare nulla. Di certo, dicono da Kpmg, “uno dei pericoli delle vendite a gruppi esteri che spesso viene sottovalutato è che il pian piano i centri gestionali si spostano dalla società acquista alla casa madre, inaridendo quel che è il tessuto professionale interno.
Nel lungo periodo è una perdita di professionalità che intacca la possibilità di sviluppo e crescita futura”.
Come dire: prima inglobati e poi svuotati.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
LE NUOVE REGOLE PER MISURARE IL MERITO: IL VOTO DI LAUREA DOVREBBE SPARIRE COME ELEMENTO DI PUNTEGGIO… IPOTESI DI VALUTAZIONE DEI DIPLOMI DEI SINGOLI ATENEI
Venerdì prossimo, in Consiglio dei ministri, confronto sul tema della laurea: il suo valore legale, il
peso che ha nei concorsi pubblici.
Sullo sfondo, la proposta di un diverso criterio di accreditamento dei singoli atenei: ovvero il peso specifico che potrà avere il prestigio accademico di un’università (quindi anche i suoi criteri selettivi) rispetto ad altre.
Stando alle indiscrezioni, nelle cartelle del governo sarebbe pronto per la discussione un provvedimento con molte novità .
Primo: nei concorsi pubblici, soprattutto per i quadri dirigenziali, dovrebbe cadere il vincolo del tipo di laurea. Basterà un titolo per partecipare.
Ci saranno le doverose eccezioni «tecniche» (nel caso in cui occorra una competenza specifica, per esempio, da ingegnere).
Però conteranno maggiormente la capacità e la professionalità dimostrata dal candidato durante il concorso.
In sostanza, per diventare dirigente di una Asl poco importerà se ho una laurea in Giurisprudenza o in Lettere, sarà decisivo il mio risultato personale nel concorso. Secondo: revisione del criterio legato al voto di laurea, che dovrebbe sparire come elemento di punteggio.
Terzo: diverso accreditamento, cioè «apprezzamento», delle singole università , che smetteranno di essere di fatto tutte uguali.
Se ne è già discusso venerdì scorso: al dibattito informale hanno partecipato, oltre al presidente Mario Monti e al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, anche i ministri Anna Maria Cancellieri (Interni), Paola Severino (Giustizia), Filippo Patroni Griffi (Pubblica amministrazione) suscitando anche l’interesse di Lorenzo Ornaghi (Beni culturali, rettore della Università Cattolica di Milano).
Nel prossimo Consiglio dei ministri, con ogni probabilità , si arriverà a una sintesi. Creando un elemento di forte novità e discontinuità rispetto al passato.
In Confindustria, per esempio, si fa sapere che «non si può non essere d’accordo» con una mossa che «va sicuramente nella direzione di una vera liberalizzazione».
Ma si sottolinea anche come si debba proteggere il «consumatore di formazione» (lo studente, la sua famiglia) circa la qualità del prodotto che si sceglie.
Ovvero aiutare quel «consumatore» a capire quale sia l’ateneo giusto. O se, addirittura, certi atenei siano da evitare.
Naturalmente nel settore privato la laurea in sè ha un peso specifico diverso rispetto al settore pubblico.
La Confindustria da sempre guarda con favore alla prospettiva di un maggior rigore nella selezione degli atenei e a una autentica concorrenza tra i migliori.
E ripone molta fiducia nel lavoro dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del Sistema universitario e della ricerca presieduta da Stefano Fantoni.
Dice Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: «Nel settore privato non cambierà molto. E’ del tutto ovvio che un capo del personale di una qualsiasi azienda assume valutando i pro e i contro delle caratteristiche dei candidati, indipendentemente dalla laurea e dal suo stesso punteggio. Detto questo, se davvero il Consiglio dei ministri varasse un provvedimento del genere, si stabilirebbe un principio sacrosanto anche per la pubblica amministrazione. Cioè la possibilità di accedere per le competenze acquisite dalla singola persona e non solo in base al famoso “pezzo di carta”. Mi sembra molto giusta la prospettiva di rimuovere, per esempio, il blocco del tipo laurea per accedere alle professioni della pubblica amministrazione».
Gavosto sottolinea poi un altro aspetto, che riguarda più direttamente le «fabbriche del sapere» (le università ) e quindi i famosi «consumatori di formazione» (gli studenti che si affacciano sul mondo del lavoro).
Dice Gavosto: «Non tutti gli atenei sono uguali. Lo sappiamo benissimo. Di conseguenza non tutti i voti conseguiti sono uguali. E bisognerà saperne tenere conto, nelle nuove norme. Ma sarebbe tempo che gli atenei si specializzassero puntando sulle discipline nelle quali sono più forti. Farò un esempio: Teramo offre una facoltà di Veterinaria sicuramente tra le migliori in Italia se non in Europa. Sarebbe bene che si concentrasse in quella materia, lasciando perdere in prospettiva i corsi più deboli. E ciò dovrebbe valere per tutte le università del nostro Paese»
Invece Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell’apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell’education nel nostro Paese), punta l’indice contro l’abitudine tutta italiana di affidarsi burocraticamente e schematicamente alla «certezza» dei numeri, cioè dei punteggi: «L’ossessione dell’oggettività uguale equità si trasforma in un inno alla deresponsabilizzazione di chi è chiamato a scegliere, a selezionare».
Cosa vuole dire, con questo ragionamento, Oliva? «Molto semplice. Il punteggio diventa l’unico elemento amministrativo-burocratico di certezza. Mentre è del tutto evidente che il valore delle singole lauree dipende soprattutto dalla qualità e dalla serietà dell’ateneo che le ha rilasciate. Insomma, la vera svolta si avrà quando, nella scelta dei migliori, anche nella pubblica amministrazione ci sarà una adeguata responsabilizzazione dei selezionatori. Magari dopo una discussione collettiva, arrivando a una sintesi».
Paolo Conti
(da “Il Corriere della Sera“)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
APPENA 20 EURO PER LA CAPITALE FRANCESE, 71 PER LA SPAGNA MA PRENOTAZIONI CON LARGO ANTICIPO
Parigi val bene un’offerta.
Parafrasando Enrico IV, ne sanno qualcosa Trenitalia e la Societè Nationale des Chemins de Fer che, dopo 12 anni di convivenza nella joint venture Artesia, lo scorso 11 dicembre hanno separato i rispettivi destini e ora viaggiano su binari differenti.
Ma con un medesimo obiettivo: conquistare a colpi di promozioni il mercato passeggeri tra il Nord Italia e la Ville Lumière, una delle direttrici dove ancora è possibile contenere la concorrenza del trasporto aereo che negli ultimi anni, grazie ai voli low cost, ha fatto incetta di viaggiatori.
E mentre gli italiani, in partnership con la società privata francese Veolia Transev, puntano sui viaggi notturni affidati ai treni Thello, con le offerte «Smart» a partire da 35 euro per le cuccette a 6 posti e da 55 euro per quelle a quattro, la società ferroviaria transalpina che per prima ha scommesso sull’alta velocità in Europa – i Tgv festeggiano i trent’anni di esercizio – gioca la carta delle percorrenze diurne, proponendo piani tariffari dai 25 euro dell’opzione «Mini», diventata per due settimane (fino al 29 gennaio) il prezzo unico per tutti i biglietti.
La competizione tra gli ex partner si gioca sui dettagli.
Trenitalia prova a fare il pieno sull’asse lombardo-veneto, partendo da Venezia e raccogliendo passeggeri a Vicenza, Verona, Brescia e Milano, per poi puntare a Parigi, via Losanna, con un’unica tappa intermedia in territorio francese a Digione; la Sncf, che in Italia partecipa anche al capitale della Ntv di Montezemolo, resta fedele alla linea «classica» Milano-Torino-Lione-Parigi, con fermate a Oulx, Bardonecchia, Modane e Chambery.
E punta sulla continuità territoriale strizzando l’occhio in particolare ai piemontesi, a cui offre il collegamento andata e ritorno in giornata tra Torino e Lione e gli stop nelle stazioni sciistiche della Val di Susa.
Il tragitto fra Milano e Parigi viene coperto in 7 ore e 15 minuti, contro le 9 ore e 51 dell’Euronight di Trenitalia.
Tempi in entrambi i casi lontanissimi da quelli dell’aereo, transfer e tempi di check in e ritiro bagagli compresi.
Non c’è solo Parigi tra le destinazioni europee per le quali Trenitalia propone biglietti a prezzi ribassati.
La tariffa «Smart» si applica anche ai convogli per la Svizzera (da 19 euro), agli Elipsos tra Milano e Barcellona (da 71), agli Euronight per Monaco di Baviera e agli Allegro per l’Austria (tutti a partire da 29 euro).
Ma proprio sulla direttrice brennero-bavarese le Fs devono fare i conti con un temibile concorrente, la società pubblica tedesca Db che in collaborazione con le à–bb austriache lancia non solo la sfida della tariffa internazionale «Europa Spezial» (a partire da 39 euro, valida anche per il Francoforte-Bruxelles, mentre il Francoforte-Parigi è dato a 29 euro), ma anche quella delle tratte interne al territorio italiano, con biglietti da 9 euro per i collegamenti Verona-Bolzano, Verona-Bologna e Venezia-Bolzano: prezzo da regionale, servizi da eurocity.
Nel promuovere la tariffa Db non rinuncia ad uno slogan che suona come uno sberleffo alle nostre Ferrovie: «Viaggiare anche in Italia con lo stesso confort cui siamo abituati in Austria o in Germania».
Ma come già avviene per i voli, le offerte promozionali vanno ben cercate e, soprattutto, trovate.
E provando a fare oggi una prenotazione online per un’ipotetica partenza il secondo sabato di febbraio, il biglietto super scontato fa fatica a saltare fuori.
Superata la deadline del 29 gennaio, trovare il biglietto a 25 euro sul Tgv per Parigi diventa una mission impossible e per la data da noi scelta non si scende sotto i 55 euro.
Che passano a 64 o 77 euro con il Thello (che chissà perchè diventano 96 se la stessa prenotazione viene tentata dal sito di Trenitalia).
Anche provando a variare le date, le promesse delle pubblicità non trovano conferme: accaparrarsi il ticket sottocosto è una lotteria.
Non così con l’aereo: per l’11 febbraio Ryanair propone effettivamente un biglietto Milano-Parigi ai 9,99 euro indicati nella rèclame e senza sovrapprezzi per tasse o check in, anche se a questa cifra andrebbero aggiunti i costi dei transfer da e per le città (perchè in realtà Milano è Orio al Serio e Parigi è Beauvais), vale a dire 8-10 euro a tratta con i bus convenzionati, e altri 15 euro per un eventuale bagaglio in stiva. Sul «fronte tedesco», invece, non c’è stato verso di acciuffare una tariffa «Smart» di Trenitalia per la Germania o per l’Austria: il Verona-Monaco lo abbiamo trovato a 73 euro con l’Euronight e a 71,40 con l’Eurocity tricolore.
C’era invece l’offerta Db a 39 euro.
Alessandro Sala
(da “Il Corriere della Sera“)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
IN EMILIA ROMAGNA SONO GIA’ UNA VENTINA: COMMERCIALISTI, NOTAI, AVVOCATI, IMPRENDITORI HANNO FONDATO IL MOVIMENTO CHE SI RIFA’ A SARAH PALIN: “SAREMO UN GRUPPO DI PRESSIONE”
Meno tasse, meno centralismo, meno spesa pubblica. 
Il programma non è quello della Lega Nord, nè tanto meno quello del Movimento 5 Stelle.
A tappezzare Lombardia, Piemonte, Veneto e l’Emilia di cartelloni che sostengono, non senza ironia, “Non rubare: lo Stato odia la concorrenza” sono i Tea Party in salsa italiana. Un movimento inedito nel panorama politico del continente che prende ispirazione dal più noto (e ambiguo) movimento Tea Party statunitense, quello dell’ex candidata alla vicepresidenza Usa Sarah Palin e dell’ultraconservatore e commentatore della Fox Glenn Beck tanto per intenderci, che dalle scorse presidenziali tengono sotto pressione con populismo e infelice estremismo il partito Repubblicano.
Ma quello nato a Prato nel 2010 non sembra voler avere niente a che fare con il suo omologo a stelle e strisce, anzi: nessuna agenda sull’aborto nè istruzioni su come deve comportarsi il perfetto cattolico.
Solo un motto, “Meno tasse e più libero mercato”.
Da due anni, quindi, i Tea partier italiani si sono organizzati, hanno registrato un marchio- Tea Party Italia- e si sono messi a battere tutte le regioni del produttivo nord in cerca di consensi.
E, manco a dirlo, li hanno trovati.
Commercialisti, notai, avvocati, imprenditori, liberi professionisti. Ma anche, a loro dire, pensionati e studenti che, di tasse, non ne vogliono sentire più parlare.
Nella sola Emilia Romagna, in meno di un anno, hanno messo insieme una cosa come 20 sostenitori per provincia, da Piacenza a Rimini, e si dicono pronti a girare di Municipio in Municipio per far passare la loro linea.
“Ma ben attenti- avverte tra un paziente e l’altro la coordinatrice regionale, Cinzia Camorali, di professione medico odontoiatra- non siamo un movimento politico”. E già , i liberali, liberisti e conservatori Tea partier non vogliono buttarla “in politichese” ma agire come “gruppo di pressione” sui politici, consiglieri comunali, parlamentari, sindaci e influenzarne- per quanto in loro potere- l’ordine del giorno su un’agenda che ha “meno tasse” come primo e unico punto.
“L’obiettivo- come precisa il coordinatore nazionale, David Mazzarelli- è quello di fare approvare in ogni consiglio comunale la nostra mozione contro l’Imu, tassa iniqua che punisce indiscriminatamente i cittadini italiani”.
Secondo Mazzarelli, infatti, la mozione potrebbe vincolare le amministrazioni locali ad abbassare l’aliquota Imu sulla prima casa dallo 0,4 allo 0,2% visto che è proprio a discrezione dei Comuni il ribasso o il rialzo (fino allo 0,6%) della nuova tassa sugli immobili.
E i consigli comunali in procinto di promuovere questa mozione sono già diciassette, 10 in Lombardia e 7 nella “rossa” Toscana.
Il movimento sta quindi attraversando l’Italia cercando di aprire coordinamenti in ogni regione (prossimi obiettivi, Puglia e Marche) visto che ormai “il nord è coperto” e in cantiere si sono già messi diversi appuntamenti con le realtà locali- a partire da Parma- per promuovere e propagare il verbo “no tax”.
E ad essere attratti dai Tea Party Italia non è solo gente comune: Pdl, Lega e Terzo polo sembrano stuzzicate dall’idea di flirtare con il movimento di Prato a partire dalla prossima tornata elettorale.
“Ma noi non presenteremo un simbolo alle elezioni- ammette Mazzarelli- solo persone che si faranno portatrici delle nostre istanze”.
Specchio del malcontento da sovratassazione o radicalismo di protesta?
In entrambi i casi i Tea Party Italia mietono consensi là dove il centrodestra ha fallito la propria battaglia liberale.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
LE TRATTATIVE CON LE PARTI SOCIALI… OBIETTIVO RILANCIO DEL PIL CERCANDO NUOVE REGOLE
Giovani, occupazione, crescita, redditi. A Palazzo Chigi parte un confronto che per importanza e intensità di attese è come quello del 1993 quando al governo c’erano ancora dei tecnici, quella volta guidati da Carlo Azeglio Ciampi.
Ma la missione è molto diversa: allora si trattava di contenere il costo del lavoro, adesso di rilanciare il Pil con nuove regole sul mercato del lavoro.
Più flessibilità ma anche salari più ricchi per sostenere i consumi.
Tutti, governo, imprenditori e sindacati fanno sapere di essere pronti al confronto, purchè sia vero, costruttivo, depoliticizzato e aperto al dialogo.
Sul tavolo, come ha spiegato il premier Mario Monti, ci sarà innanzitutto «la semplificazione, con la riduzione delle segmentazioni» e con un’attenzione particolare ai giovani e «al miglioramento qualitativo del loro ingresso nel mondo del lavoro».
Si partirà quindi con ogni probabilità dalla diminuzione del numero dei contratti per l’ingresso nel mercato del lavoro, dall’aumento della produttività media e dei salari reali, dalla ripresa dell’occupazione e dalla riorganizzazione degli ammortizzatori sociali.
Nessun tabù – è stato lo stesso Monti a ribadirlo – sull’articolo 18 anche se la questione, già esclusa dai sindacati, non dovrebbe essere oggetto del primo round di trattativa.
La Confindustria, con le parole del presidente Emma Marcegaglia, in questi giorni si è appellata più volte al senso di responsabilità di tutti e si augura un dialogo costruttivo con il sindacato.
Per il segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, occorre un «confronto vero». Ma lasciando cadere la discussione sull’articolo 18 «considerato dai sindacati nella categoria dei diritti e non dei problemi». Per la Cgil non c’è dunque nessuna ragione per intervenire su questo tema.
Solo tempo indeterminato, ma le tutele sono graduali
La riforma del mercato del lavoro proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi si caratterizza per essere a costo zero, perchè è rivolta a tutti (non solo ai giovani) e perchè prevede sin da subito un contratto a tempo indeterminato anche se per i primi tre anni viene sospesa quella parte dell’articolo 18 che prevede il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa.
Il meccanismo di base di questa proposta, presentata in Senato un anno fa e firmata anche da Franco Marini e Paolo Nerozzi, prevede che nei primi tre anni le tutele crescano gradualmente con la durata dell’impiego fino a rendere oneroso il licenziamento: alla fine del triennio l’imprenditore che decide di liberarsi del dipendente gli deve riconoscere 6 mensilità .
Se lo conferma, automaticamente si estendono tutti i diritti previsti dall’articolo 18. Questo contratto, che vale solo per i nuovi assunti, diventa «unico» ma non prevede l’abolizione di altri contratti.
Solo, li rende meno convenienti.
Per esempio quelli a tempo determinato (stagionali esclusi) si trasformano automaticamente nell’«unico» se la paga annua è inferiore a 25 mila euro lordi che salgono a 30 mila nel caso dei parasubordinati con monocommissione (esclusi praticanti negli studi dei professionisti).
Nel disegno di legge è contemplato anche un salario orario minimo garantito, che un’apposita commissione dovrà individuare.
Volutamente nella proposta Boeri-Garibaldi non ci sono riferimenti alla riforma degli ammortizzatori sociali con l’indennità di disoccupazione per tutti.
La decisione si spiega con la filosofia di base con la quale è stata progettata la proposta: quella del «costo zero».
Le risorse sono quelle che sono e, come si legge nel loro libro Riforme a costo zero , «le agevolazioni fiscali nel mondo del lavoro hanno sempre creato distorsioni del mercato».
Il «modello danese», elastiche l’entrata e l’uscita
Il modello del giuslavorista Pietro Ichino, proposto in un disegno di legge presentato al Senato nel 2009, si basa sul concetto di «flexicurity».
I lavoratori, tutti non solo i giovani, accettano un contratto di lavoro a tempo indeterminato ma reso più flessibile con una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale.
Al termine di un periodo di prova di sei mesi, il lavoratore viene assunto ma perde la protezione totale dell’attuale articolo 18: solo nel caso di licenziamenti per motivi economici od organizzativi (non quelli indiscriminati) il lavoratore incassa un’indennità che può arrivare fino a un massimo di 18 mesi di stipendio. Contestualmente viene creata una assicurazione complementare contro la disoccupazione (oltre agli attuali strumenti) che porta l’assegno del senza lavoro a un livello paragonabile a quelli scandinavi.
La durata è pari al rapporto intercorso con l’impresa con un limite massimo di tre anni e una copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione decrescente nei successivi due anni fino al 70%.
La condizione per mantenere questo sussidio è che il lavoratore non si rifiuti di accettare le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione.
Le imprese si accolleranno il costo dell’assicurazione e dei servizi collegati, affidati a enti bilaterali costituiti di comune accordo con i sindacati, il cui costo medio complessivo Ichino lo stima in circa 0,5% del monte salari.
Il principio di base è che più rapida è la ricollocazione del lavoratori più basso è il costo del sostegno a carico delle imprese.
La proposta Ichino è stata finora apprezzata dall’ex leader del Pd, Walter Veltroni, e dall’ex responsabile economia Enrico Morando ma respinta da Bersani e Fassina.
La proposta di legge è stata firmata anche da esponenti del Pdl e ha trovato condivisioni in Confindustria.
Apprendistato
Uno strumento «misto» contro la disoccupazione
L’apprendistato sembra al momento lo strumento più idoneo per affrontare senza tanti stravolgimenti normativi il problema della disoccupazione giovanile.
Sul suo rafforzamento e maggiore estensione per renderlo davvero fruibile a tutte le categorie di lavoratori c’è il sostanziale accordo dei sindacati e anche della Confindustria.
Anche perchè affronta in modo semplice la questione dell’articolo 18, prevedendone una sostanziale sospensione nei primi tre anni di lavoro-formazione-prova. L’apprendistato nella sua formula originaria è nato nel ’55 e ha avuto sei successivi adeguamenti normativi, l’ultimo nel dicembre 2007.
Si rivolge ai giovani tra i 16 e i 29 anni di età . Il rapporto di lavoro concepito con questo strumento dalle parti sociali è di «tipo misto», visto che si prevede l’onere per il datore di lavoro di una effettiva formazione professionale, sia mediante il trasferimento di competenze tecnico-scientifiche sia mediante l’affiancamento pratico per l’apprendimento di abilità operative.
L’assunzione di apprendisti richiede la stipula di un contratto di lavoro in forma scritta con allegato il Piano formativo individuale, mentre il numero degli apprendisti assunti non può superare quello dei lavoratori dipendenti qualificati effettivi.
Attualmente i contratti collettivi determinano la durata del rapporto di apprendistato, comunque per legge non inferiore a due anni e non superiore a sei
Nello schema dei sindacati, per costruire su questo impianto normativo quello più adatto ad affrontare il tema della disoccupazione giovanile, occorre rendere più appetibile lo strumento introducendo dei forti bonus fiscali e contributivi.
Come la proposta Ichino, anche l’apprendistato ha dunque un costo e, per le imprese, una certa controindicazione perchè riconosce ai sindacati un forte potere nello stabilire la durata del periodo di formazione.
Roberto Bagnoli
(da “Il Corriere della Sera“)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
IL LEADER FATICA A TENERE IL PARTITO E C’E’ CHI AMMETTE: “NON E’ PIU’ QUELLO DI UN TEMPO”…IL SUO POPOLO NON RISPONDE PIU’ AI SUOI APPELLI E ANCHE LA NOMENKLATURA LITIGA AL SUO COSPETTO
Di fischio in fischio, dissacrazione dopo dissacrazione, fra cataratte, incidenti domestici, congiure,
cambiamenti d’umore e malinconie, Bossi è sempre meno Bossi: l’idolo s’incrina, l’icona scolora la sua tinta dorata e come in un dramma elisabettiano l’osservazione spassionata del potere trova in tutto questo la conferma di una verità inesorabile.
Che il carisma non è mai dato per sempre e quando comincia a fuggire, chi lo perde “sente il suo titolo cascargli addosso, come il vestito di un gigante sul nano che l’ha rubato”.
E dunque: «Non ho più la Lega, non ho più la Lega, mi viene voglia di mollare tutto» l’avevano sentito ripetere qualche giorno fa a via Bellerio dietro le porte di una riunione convocata dopo che il diktat anti-Maroni, poi repentinamente contraddetto, aveva messo in moto la più prevedibile levata di scudi contro il Senatùr.
Ora le immagini del palco di Milano, con quell’affollamento di malcelata discordia, dicono che la Lega ce l’ha ancora, ma certo Bossi non riesce a tenerla assieme.
O almeno: il suo popolo non risponde più ai suoi appelli.
Non solo la nomenklatura si guarda bene dal manifestare segni di ravvedimento, rifiuta di mettere in scena plateali rappacificazioni, abbracci, strette di mano, ma dalla piazza lo interrompono nel mezzo del rito: chi invoca il nome di Maroni, chi lo osteggia, chi comunque fischia all’indirizzo del vecchio capo che nei momenti d’imbarazzo, da consumato comiziante quale è rimasto nonostante tutto, chiama il “Padania libera!”, o minaccia Formigoni, o si abbandona alle consuete volgarità : ma per quanto potrà andare avanti in questo modo?
Oltretutto, dopo il tempestoso congresso a porte chiuse di Varese, è la seconda volta in tre mesi che Bossi deve subire dei fischi.
In quell’occasione, dopo la baraonda nella sala Arc de triomphe dell’Ata hotel, c’è chi lo vide con gli occhi lucidi.
Nell’estate era dovuto andare via nottetempo dall’albergo Ferrovia, in Cadore, sempre per il rischio di contestazioni.
E allora viene da chiedersi se questi momenti di pur umanissima emotività non abbiano il potere di oscurare il ricordo di quello che il leader è stato per tanti anni e ha rappresentato per una moltitudine di fedeli; se la fatica, gli sbadigli compulsivi, l’andatura incerta, la maschera di sofferenza, la voce spesso incomprensibile non siano da mettersi in relazione con il turpiloquio, le pernacchie, i gestacci
Ma il sospetto più grave e sempre più plausibile è che proprio le condizioni di Bossi abbiano accelerato e fatto esplodere la sorda guerra di successione che da tempo covava dentro la Lega e che nessuna autorità personale e residuale ormai potrà spegnere.
L’altro giorno si è permesso di dirlo con inusitata chiarezza perfino l’eurodeputato Speroni: “Bossi non ha più l’autorità di un tempo”.
Da questo punto di vista l’emergere di un’entità insieme sanitaria e cortigiana come il Cerchio magico, così come l’ansia della moglie del Capo, il destino del Trota, la defenestrazione di Reguzzoni, la probabile chiusura della Padania, i fondi d’investimento in Tanzania, il vomito polemico di Maroni, cui è prolungato il divieto di parola, e l’ambiguo barcamenarsi di quelli che l’ortodosso e purista Gilberto Oneto ha ribattezzato “i Robertidi” (Calderoli, Castelli e Cota), ecco, tutto questo, insieme agli imminenti congressi e alle frequenti telefonate da Arcore contribuisce a rendere lo scontro sempre meno ideale e al tempo stesso sempre più cupamente incentrato sul potere.
E tuttavia, riguardando l’ennesimo e crudele video di questo leone malandato che un tempo sferzava le platee e oggi parla al vento e raccoglie fischi, si coglie per un volta qualcosa di autenticamente drammatico nella sua incredulità , qualcosa che riscatta l’andazzo folkloristico e l’intonazione eroicomica che da sempre aleggiavano sopra le manifestazioni della Lega.
Perchè “il sole del potere è splendido, ma spesso tramonta a mezzogiorno nel pubblico disprezzo”, come dire a suon di rumorose contestazioni.
Così, nel logoramento dell’autonomia fisica e nel crepuscolo del comando politico va in scena un dramma tutto personale e perfino shakespeariano — si perdoni qui l’azzardo interpretativo — per cui c’è un po’ di Macbeth, con mogli che si danno un gran da fare, un po’ di Re Lear, con sovrani stanchi e figli inadatti, e poi c’è un po’ del Giulio Cesare, con la faccenda ineluttabile del parricidio da parte chi, all’apice del successo e dell’energia, capisce che è arrivato il suo momento, e gli eventi lo portano a fare fuori colui che gli ha dato fiducia, ma ha anche abusato della sua grandezza
Poi sì, certo che è sconveniente misurare le miserie di questo tempo con le poetiche riflessioni del Bardo.
Ma la tragedia del potere, in fondo, sta esposta lì magnificamente, così come a volte pare addirittura di scovarla, anche con qualche soddisfazione, negli impicci tardo-padani.
E quindi tutto torna, tutto presenta il conto, tutto si paga nel gran teatro della politica, dove il biglietto per assistere è gratis, e la lezione che vi si apprende in genere non conosce pietà .
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 23rd, 2012 Riccardo Fucile
IL LEADER FATICA ORMAI A TENERE IL PARTITO E C’E’ CHI AMMETTE: “NON E’ PIU’ QUELLO DI UN TEMPO”…IL SUO POPOLO NON RISPONDE PIU’ AI SUOI APPELLI E ANCHE LA NOMENKLATURA LITIGA AL SUO COSPETTO
Di fischio in fischio, dissacrazione dopo dissacrazione, fra cataratte, incidenti domestici, congiure,
cambiamenti d’umore e malinconie, Bossi è sempre meno Bossi: l’idolo s’incrina, l’icona scolora la sua tinta dorata e come in un dramma elisabettiano l’osservazione spassionata del potere trova in tutto questo la conferma di una verità inesorabile.
Che il carisma non è mai dato per sempre e quando comincia a fuggire, chi lo perde “sente il suo titolo cascargli addosso, come il vestito di un gigante sul nano che l’ha rubato”.
E dunque: «Non ho più la Lega, non ho più la Lega, mi viene voglia di mollare tutto» l’avevano sentito ripetere qualche giorno fa a via Bellerio dietro le porte di una riunione convocata dopo che il diktat anti-Maroni, poi repentinamente contraddetto, aveva messo in moto la più prevedibile levata di scudi contro il Senatùr.
Ora le immagini del palco di Milano, con quell’affollamento di malcelata discordia, dicono che la Lega ce l’ha ancora, ma certo Bossi non riesce a tenerla assieme.
O almeno: il suo popolo non risponde più ai suoi appelli.
Non solo la nomenklatura si guarda bene dal manifestare segni di ravvedimento, rifiuta di mettere in scena plateali rappacificazioni, abbracci, strette di mano, ma dalla piazza lo interrompono nel mezzo del rito: chi invoca il nome di Maroni, chi lo osteggia, chi comunque fischia all’indirizzo del vecchio capo che nei momenti d’imbarazzo, da consumato comiziante quale è rimasto nonostante tutto, chiama il “Padania libera!”, o minaccia Formigoni, o si abbandona alle consuete volgarità : ma per quanto potrà andare avanti in questo modo?
Oltretutto, dopo il tempestoso congresso a porte chiuse di Varese, è la seconda volta in tre mesi che Bossi deve subire dei fischi.
In quell’occasione, dopo la baraonda nella sala Arc de triomphe dell’Ata hotel, c’è chi lo vide con gli occhi lucidi.
Nell’estate era dovuto andare via nottetempo dall’albergo Ferrovia, in Cadore, sempre per il rischio di contestazioni.
E allora viene da chiedersi se questi momenti di pur umanissima emotività non abbiano il potere di oscurare il ricordo di quello che il leader è stato per tanti anni e ha rappresentato per una moltitudine di fedeli; se la fatica, gli sbadigli compulsivi, l’andatura incerta, la maschera di sofferenza, la voce spesso incomprensibile non siano da mettersi in relazione con il turpiloquio, le pernacchie, i gestacci
Ma il sospetto più grave e sempre più plausibile è che proprio le condizioni di Bossi abbiano accelerato e fatto esplodere la sorda guerra di successione che da tempo covava dentro la Lega e che nessuna autorità personale e residuale ormai potrà spegnere.
L’altro giorno si è permesso di dirlo con inusitata chiarezza perfino l’eurodeputato Speroni: “Bossi non ha più l’autorità di un tempo”.
Da questo punto di vista l’emergere di un’entità insieme sanitaria e cortigiana come il Cerchio magico, così come l’ansia della moglie del Capo, il destino del Trota, la defenestrazione di Reguzzoni, la probabile chiusura della Padania, i fondi d’investimento in Tanzania, il vomito polemico di Maroni, cui è prolungato il divieto di parola, e l’ambiguo barcamenarsi di quelli che l’ortodosso e purista Gilberto Oneto ha ribattezzato “i Robertidi” (Calderoli, Castelli e Cota), ecco, tutto questo, insieme agli imminenti congressi e alle frequenti telefonate da Arcore contribuisce a rendere lo scontro sempre meno ideale e al tempo stesso sempre più cupamente incentrato sul potere.
E tuttavia, riguardando l’ennesimo e crudele video di questo leone malandato che un tempo sferzava le platee e oggi parla al vento e raccoglie fischi, si coglie per un volta qualcosa di autenticamente drammatico nella sua incredulità , qualcosa che riscatta l’andazzo folkloristico e l’intonazione eroicomica che da sempre aleggiavano sopra le manifestazioni della Lega.
Perchè “il sole del potere è splendido, ma spesso tramonta a mezzogiorno nel pubblico disprezzo”, come dire a suon di rumorose contestazioni.
Così, nel logoramento dell’autonomia fisica e nel crepuscolo del comando politico va in scena un dramma tutto personale e perfino shakespeariano — si perdoni qui l’azzardo interpretativo — per cui c’è un po’ di Macbeth, con mogli che si danno un gran da fare, un po’ di Re Lear, con sovrani stanchi e figli inadatti, e poi c’è un po’ del Giulio Cesare, con la faccenda ineluttabile del parricidio da parte chi, all’apice del successo e dell’energia, capisce che è arrivato il suo momento, e gli eventi lo portano a fare fuori colui che gli ha dato fiducia, ma ha anche abusato della sua grandezza
Poi sì, certo che è sconveniente misurare le miserie di questo tempo con le poetiche riflessioni del Bardo.
Ma la tragedia del potere, in fondo, sta esposta lì magnificamente, così come a volte pare addirittura di scovarla, anche con qualche soddisfazione, negli impicci tardo-padani.
E quindi tutto torna, tutto presenta il conto, tutto si paga nel gran teatro della politica, dove il biglietto per assistere è gratis, e la lezione che vi si apprende in genere non conosce pietà .-_
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica“)
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