Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
CHIUDONO ANCHE 5.000 EDICOLE, MERCATO IN AGONIA… OGNI ANNO SI PERDONO 100 MILIONI DI EURO… SI VENDONO 4,7 MILIONI DI COPIE, COME NEL 1939
Le previsioni sono brutte per chiunque, anche per chi le racconta.
Crolla il prodotto interno lordo, crolla il mercato dei quotidiani e dei periodici: si polverizza, lentamente.
Otto anni fa, le vendite in edicola generavano introiti per 4,8 miliardi di euro, quest’anno riuscire a galleggiare sui 3 miliardi sarebbe un successo.
La tendenza preoccupa quelli che seguono le curve sui grafici che tratteggiano uno scenario drammatico: ogni dodici mesi si perdono circa cento milioni di euro, un ritmo che si ripete dal 2004 e sarà costante (almeno) nei prossimi tre anni.
Un recente studio fotografa la recessione di un intero settore: che comincia nelle redazioni, prosegue nelle tipografie e finisce nelle edicole.
Un effetto domino che rispedisce i giornali al passato di lastre piombate e telegrafi di periferia: si vendono 4,7 milioni di copie al giorno come nel ’39. Vanno male persino i collaterali (libri, dischetti, francobolli, modellini), ostinata moda e fonte di salvezza negli anni 80: quest’anno avranno un giro d’affari di 350 milioni di euro, sette anni fa superavano il miliardo.
La filiera perde pezzi e posti di lavoro: i distributori locali erano 168 nel 2004, scesi a 109 nel 2011; le edicole erano 35.500 nel 2004 e adesso ne mancano 5.000 all’appello.
Non c’è un segno positivo che possa risollevare il morale e, soprattutto, i bilanci aziendali.
La pubblicità si trasferisce in massa verso le tv, e ignora la carta: le maggiori 200 aziende italiane e straniere, che investono quasi 4 miliardi l’anno, spendono l’8,5 per cento per i quotidiani, il 10 per cento per i periodici, lo 0,67 per la free press, ma il 60 per cento è riservato alle televisioni.
Prima di lasciare la scrivania per una vacanza pagata a sua insaputa, l’avvocato Carlo Malinconico, sottosegretario per l’Editor ia, pensava di creare un cervellone elettronico per le 30.500 edicole superstiti: un sistema digitale per scoprire, in tempo reale, dove scarseggiano copie e dove abbondano.
La riforma poteva ridurre sprechi di carta e di trasporto e aiutare le aziende a migliorare il prodotto offerto e la presenza sul mercato.
Il governo suggeriva ai quotidiani che ricevono il contributo pubblico di abbandonare la carta stampata per traslocare su internet.
Il problema è il solito, però: anche in rete la pubblicità scarseggia, decine di siti d’informazione si dividono il 4,8 per cento di un mercato dominato dal televisore, cioè un paio di centinaia di milioni di euro l’anno.
Le società che editano quotidiani e periodici possono guadagnare in due modi: pubblicità o vendite.
La giostra pubblicitaria gira sempre nella stessa e identica direzione, e dunque favorisce le concessionarie di Mediaset (in particolare), Rai (in diminuzione), La7 (in crescita).
Il circuito di vendite è come un esercito a ranghi ridotti: meno distributori, meno edicole.
Un esercito debole farà fatica a vincere la battaglia per la sopravvivenza.
Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Costume, economia, Stampa | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
I MECCANISMI DI RAFFORZAMENTO PATRIMONIALE DEGLI ISTITUTI DI CREDITO GRAZIE AI PRESTITI DELLA BCE E ALLE ELARGIZIONI DI FRANCOFORTE… FONDI CHE DOVEVANO INVECE ANDARE A RAFFORZARE IL SETTORE DEI PRESTITI ALLE IMPRESE
Come verranno impiegati questi soldi? I banchieri ne parlano malvolentieri, ma non è un mistero che buona parte della liquidità servirà a sottoscrivere Bot e Btp.
Il governo, sempre a caccia di sottoscrittori del debito pubblico, non può che apprezzare questa scelta.
E, per di più, l’operazione fa bene anche al conto economico degli istituti, visto che la liquidità ottenuta all’1 per cento viene impiegata in titoli con rendimento ben superiore.
E non finisce qui: di recente le banche hanno trovato anche un altro modo molto redditizio per utilizzare la montagna di soldi piovuta in cassa grazie alla Bce.
Questa volta i prestiti di Francoforte servono a comprare, o meglio a ricomprare, le obbligazioni a suo tempo collocate dagli stessi istituti di credito .
Funziona così.
In circolazione ci sono bond per miliardi delle maggiori banche che hanno quotazioni molto lontane dalla parità .
Poniamo, per esempio, 90. Se l’istituto li acquista, si assicura per 90 ciò che fra qualche anno avrebbe dovuto rimborsare a 100. Il guadagno è quindi pari al 10 per cento. In più, molto spesso, i titoli già sul mercato hanno caratteristiche tali che in un futuro prossimo non potranno più essere utilizzati per il calcolo dei ra t i o s patrimoniali di vigilanza.
Di conseguenza, se queste obbligazioni vengono ricomprate e cancellate, poi possono essere sostituite con altri bond che invece, a differenza delle altre, servono a migliorare i requisiti di patrimonio:
Tutto facile, facilissimo, soprattutto se le banche sono in grado di mettere in campo un arsenale con miliardi di euro da spendere.
Per primo è partito Unicredit, che ha chiuso con successo il suo maxi aumento di capitale da 7,5 miliardi.
L’istituto guidato da Federico Ghizzoni ha annunciato che comprerà 3 miliardi di proprie obbligazioni.
Nelle prossime settimane, se arriverà il via libera da Bankitalia, la stessa strada potrebbe essere seguita anche da altre banche come Ubi, Banco Popolare, Monte dei Paschi.
In palio ci sono profitti per centinaia di milioni.
Unicredit, per esempio, potrebbe riuscire a guadagnare poco meno di 500 milioni.
E in tempi di bilanci non proprio brillanti quei soldi fanno molto comodo.
E il denaro per ridare fiato alle aziende? A quello i banchieri ci penseranno più avanti.
Magari dopo il prossimo finanziamento targato Bce.
A meno che anche quella non sia “liquidità sostitutiva e non aggiuntiva”, per dirla con l’Abi.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: economia | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO CONVOCA TUTTI I 24 RESPONSABILI DEI DIPARTIMENTI…VOCI DI CAMBI ECCELLENTI AL MINISTERO DELL’ECONOMIA
La “dieta Monti” colpisce anche Palazzo Chigi, per anni rimasto al riparo dalle sforbiciate decise nelle manovre e rifugio dorato per centinaia di impiegati “comandati” da altre amministrazioni.
L’ordine del premier a tutti i 24 capi dipartimento di «diretta collaborazione» è stato infatti drastico: «Avete due mesi di tempo per tagliare il 50% dei consulenti esterni».
Un colpo di scure netto alle consulenze d’oro, che fino al 31 dicembre erano oltre cento, primo passo di quella «spending review» avviata nei giorni scorsi che dovrebbe prendere corpo in un’imminente direttiva del premier su quanto, come e dove spendere.
E dove invece, ovviamente, «tagliare».
Sono giorni di grande tensione negli uffici di piazza Colonna della Presidenza del Consiglio e non solo per la pletora di consulenti pagati a caro prezzo.
Proprio mentre preparava il decreto “Cresci-Italia” Monti ha infatti avviato un’altra operazione, di ripulitura dei propri uffici.
Senza darne pubblicità , ha convocato uno a uno tutti i capi dei dipartimenti e ha iniziato l’esame diretto dei dirigenti.
«Berlusconi – riferisce un funzionario del palazzo – nemmeno li conosceva, delegava tutto a Gianni Letta. Ora Monti vuole vedere in faccia chi lavora per lui».
Così, con discrezione, i 24 potenti capi dipartimento sono stati convocati nell’ufficio del premier e si sono trovati di fronte una commissione esaminatrice: oltre a Monti, il sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà e il segretario generale Manlio Strano. Le domande del professor Monti e dei suoi assistenti?
Molte, cominciando da quali progetti sono in cantiere a (soprattutto) quanto ciascun dirigente intende risparmiare rispetto al 2011 e come.
Con una pesante ipoteca.
In caso di bocciatura Monti, in base alla legge sullo spoil system, potrebbe infatti rimuovere il capo ufficio ritenuto «unfit», inadeguato a ricoprire quel ruolo.
Arrivando persino a chiudere e accorpare qualche dipartimento.
Ed è proprio questa la strada che, stando agli spifferi del palazzo, il premier sembra voler adottare.
Gli “esami” dei 24 capi dipartimento si concluderanno questa settimana, al ritorno di Monti da Bruxelles.
E intanto la presidenza del Consiglio nei giorni scorsi ha tenuto a precisare che il bilancio 2012 prevede una riduzione di circa 270 milioni rispetto al precedente.
Difficile comunque fare peggio della gestione Berlusconi.
Dato che, secondo le tabelle Istat contenute nell’annuario statistico, i dipendenti della presidenza tra il 2009 e il 2010 hanno percepito il maggior rialzo di stipendio, vedendo aumentare le loro retribuzioni del 15,2%.
Ma Palazzo Chigi non è l’unico centro di potere che sta per essere rivoluzionato.
Rumori si avvertono anche all’Economia, dove sembra che stia per finire l’era dell’onnipotente Vincenzo Fortunato, il cardinal Richeliu di Tremonti, l’uomo contro cui si sono scontrati (invano) decine di ministri di spesa.
Al tempo si diceva che «Tremonti regna ma è Fortunato che governa».
Il fatto è che il viceministro Vittorio Grilli, astro nascente del governo (si parla di una sua imminente nomina a ministro dopo l’interim di Monti) sembra sia ormai ai ferri corti con il capo gabinetto.
E, tra i due, a soccombere sarà proprio Fortunato, che dal 2001 siede inamovibile sulla stessa poltrona.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
argomento: economia, la casta, Monti | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
SENZA L’ACCORDO CON LA “MEZZA CALZETTA” BERLUSCONI, IL CARROCCIO PERDEREBBE LE POLTRONE IN CITTA’ CHIAVE COME MONZA, COMO E SESTO CALENDE
Lega e Popolo delle libertà divisi alle elezioni amministrative?
I numeri dicono che la corsa solitaria non conviene a nessuno dei due. Così sono sempre di più gli osservatori che puntano sull’accordo in extremis.
In queste settimane Umberto Bossi sta facendo la voce grossa contro l’ex alleato Silvio “mezza calzetta” Berlusconi, minacciando addirittura il Pdl di far cadere la giunta lombarda qualora l’uomo di Arcore non si decida a staccare la spina al governo Monti.
Parole urlate dal palco della grande manifestazione leghista del 22 gennaio e ribadite in ogni occasione utile dai colonnelli in missione sul territorio.
Il tutto mentre Roberto Maroni non perde occasione per esprimere l’auspicio di una corsa separata dagli ex alleati in tutte le città che andranno al voto a maggio, anche a costo di perdere: “Perchè quello che conta è riaffermare l’identità leghista e diventare il partito egemone del nord, senza più compromessi”.
Mentre la Lega sbraita, raccogliendo la crescita nei sondaggi e l’entusiasmo della base (che non ha mai visto con favore l’alleanza con i berluscones), l’ex premier si frega le mani ostentando sicurezza.
I bene informati riferiscono infatti che Berlusconi è sicuro che alla fine il rapporto con l’amico Bossi verrà recuperato e l’accordo per le amministrative sarà raggiunto, se non dappertutto, quasi ovunque.
L’unica vera incognita resta Verona, dove il sindaco Flavio Tosi, forte di un consenso altissimo, sta puntando i piedi spingendo per presentarsi alle urne sotto il simbolo della Lega e quello dalla sua lista civica.
Una situazione che sta innervosendo, oltre al Popolo delle Libertà , anche il segretario nazionale veneto del Carroccio, Giampaolo Gobbo (ma, come recitava uno striscione alla manifestazione milanese: “Il Veneto no xe Gobbo, il veneto xe Tosi”).
Eccezione scaligera a parte, l’asse del nord sembra destinato (per forza o per amore) a essere rinsaldato, pena la consegna delle amministrazioni “padane” nelle mani del centro sinistra.
Un fatto con cui Lega e Pdl dovranno fare i conti in tutto il nord Italia.
In Veneto si vota anche a Belluno, dove Pdl e Lega non hanno altra scelta se non quella di chiudere un accordo se vogliono restare alla guida dell’amministrazione cittadina e di quella provinciale.
Si vota anche a Monza, dove si sente forte l’influenza di Silvio Berlusconi, che sta monitorando le vicende politiche locali tramite il suo uomo di fiducia Francesco Mangano (appositamente nominato coordinatore).
Il tutto mentre la Lega sembra intenzionata a puntare sulla candidatura del sindaco uscente Marco Mariani, nonostante gli scetticismi interni e l’eredità pesante del fallimento dei ministeri del nord di Villa Reale.
A Sesto San Giovanni, roccaforte rossa, la corsa in tandem sembra obbligatoria per abbattere la Stalingrado d’Italia.
Dubbi e tentennamenti tra correnti, stanno ritardando l’accordo, così anche a Como. Tra le realtà minori merita attenzione Cassano Magnago (Varese), città natale del Senatùr, amministrazione da 20 mila abitanti, dove il Pdl è già pronto e la Lega non ha un candidato presentabile.
Anche qui l’alleanza sembra inevitabile.
A Genova i problemi sono tutti interni al Pdl, qui l’ex liberale Enrico Musso ha annunciato la corsa in solitaria e il resto del partito sta cercando di orientarsi.
Il Carroccio intanto reclama la candidatura di un proprio uomo (a questo proposto circolano i nomi di Edoardo Rixi, Francesca Bruzzone e Alessio Piana).
Se a Genova Pdl e Lega dovessero rompere ne risentirebbero inevitabilmente le giunte delle altre città liguri guidate dall’asse (Imperia, Savona, Albenga e Diano Marina). Sulla Liguria incombe inoltre anche la presenza di Claudio Scajola, uomo forte del Pdl, che potrebbe rientrare in gioco facendo l’asso piglia tutto (magari stringendo accordi con Casini e Fini).
In Piemonte si vota ad Alessandria e Cuneo, anche qui non c’è ancora nulla di definito
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Berlusconi, Bossi, LegaNord, PdL | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
NON SONO I CENTRI DEL COMPLOTTO GLOBALE, MA LàŒ SI PREPARANO I GRANDI CAMBIAMENTI… E NON SEMPRE CON SUCCESSO
1996. Il giornalista Daniel Estulin racconta di aver incontrato La Fonte in un albergo di Toronto. Quando si salutano, Daniel fa per prendere l’ascensore.
Attento!”, lo ferma La Fonte. Le porte si erano aperte, ma la cabina non era al piano, Estulin si sarebbe sfracellato decine di piani più sotto. Guasto tecnico?
No, un messaggio: guai a indagare sul club Bilderberg, giura Estulin.
Se volete capire cosa succede dentro il Bilderberg, o negli altri incontri a porte chiuse più famosi, dalla Commissione Trilaterale all’Aspen al Forum di Davos, in Svizzera, libri come Il club Bilderberg – La storia segreta dei padroni del mondo di Daniel Estulin (Arianna Editrice) non vi servono a molto.
Ma se vi piacciono le teorie del complotto, allora la lettura vi darà qualche soddisfazione. Ammettiamolo: Estulin e gli altri animatori di migliaia di siti e forum on line non sono mai riusciti a scoprire cosa si dicano i grandi della Terra nei loro conciliaboli riservati.
Ma hanno molte ipotesi, tutte rigorosamente prive di riscontri: dividere il Canada, o anche fonderlo con gli Usa, far trionfare il capitalismo, ma anche, perchè no, distruggerlo speculando, inventare l’euro o abbatterlo.
Il lavoro di questi “giornalisti d’inchiesta” non è mai andato molto oltre la lista dei partecipanti e qualche foto col teleobiettivo.
Ma da quando Mario Monti, frequentatore sia del Bilderberg che della Trilaterale, è al governo, queste teorie hanno trovato nuova vita.
“Sono grandi network globali, servono soprattutto a conoscere persone altrimenti poco accessibili. Si creano culture che possono avere sul lungo e medio periodo un impatto molto forte, ma non si tratta del governo mondiale”, spiega Mattia Diletti, un politologo della Sapienza specializzato nello studio dei think tank.
Ci sono diverse cerchie di segretezza: Davos è il più accessibile, il Bilderberg il più riservato, “alimentare il mito del proprio potere è un modo per rassicurare i membri di appartenere a club esclusivi”, dice Diletti.
Davos, anzi il “World Economic Forum”, è un’invenzione di Klaus Schwab, un ingegnere svizzero che ha studiato ad Harvard.
Nel 1971 torna in Svizzera e da allora organizza un summit invernale che ha due livelli: quello delle tavole rotonde, trasmesse in streaming sul sito, e gli incontri informali.
“Quello che conta è ciò che succede nei corridoi e il vertice si è evoluto negli anni in modo da favorire questi colloqui”, scrive in Superclass (Mondadori) David Rothkopf, ex managing director della società di consulenza strategia di Henry Kissinger, assiduo frequentatore di tutti i summit riservati.
A Davos, nel 1995, Shimon Peres e Yasser Arafat poterono parlare di Gaza al riparo da occhi indiscreti, nel 2003 il ministro inglese Jack Straw potè incontrare a tu per tu il leader iraniano Mohammad Khatami.
E sempre a Davos, come ricostruisce Rothkopf, fu preparata la vittoria di Boris Yeltsin nella Russia postsovietica.
Il bene prezioso, insomma, è proprio la riservatezza di questi summit.
E quello che meglio la garantisce è senza dubbio il club Bilderberg, nato in piena Guerra fredda nel 1954 per iniziativa del principe olandese Bernhard van Lippe-Biesterfeld, è diretto dal 1998 dall’ex commissario europeo à‰tienne Davignon.
Negli anni le riunioni del Bilderberg sono state individuate come le incubatrici del golpe del 1974 in Portogallo, dell’ascesa di Bill Clinton e Tony Blair, o di speculazioni valutarie.
Esagerazioni? Di certo le informazioni che si scambiano in questi consessi hanno un valore notevole, altrimenti non si spiegherebbe perchè gli uomini più potenti del mondo dedichino tanto del loro prezioso tempo a questi raduni.
Grazie a Wikileaks sappiamo qualcosa di come funzionano le riunioni del Bilderberg.
Il sito di Julian Assange ha pubblicato i verbali di alcune riunioni, del 1955, del 1963 e del 1980.
Nei verbali non è mai indicato chi parla, ma il dibattito parte sempre dalla presentazione di un paper che poi viene commentato.
I temi sono quelli che si possono immaginare, dalla sicurezza nucleare agli accordi di libero scambio, all’evoluzione delle relazioni internazionali.
La Commissione Trilaterale è più trasparente, sul sito c’è l’elenco dei componenti di questa struttura voluta da David Rockefeller nel 1973 per coordinare i tre vertici del mondo non sovietico, America, Europa e Giappone.
Più le cose si fanno confuse, a partire dagli anni Ottanta, più importanti diventano questi organismi di confronto (e coordinamento).
Al vertice c’è sempre un triumvirato, oggi la casella europea è vuota dopo che Mario Monti si è autosospeso, per gli americani c’è il teorico del soft power, il politologo Joseph Nye e il giapponese Yotaro Kobayashi, numero uno del colosso Fuji Xerox.
La Trilateral è l’organismo meno connotato dal punto di vista del business e più da quello culturale.
Anche qui c’è una certa riservatezza sugli svolgimenti degli incontri, ma i testi di cui si discute sono pubblici.
Come il famoso lavoro del 1975 “The crisis of democracy” firmato da Michel Crozier, Joji Watanuki e Samuel Huntington, il politologo famoso per la teoria dello “scontro di civilità ”. Queste le conclusioni: “Quello che è in crisi oggi non è il consenso sulle regole del gioco, ma il senso dello scopo che si dovrebbe raggiungere partecipando al gioco”.
à‰ la “democrazia anomica”, dove la competizione per il potere “diventa più un’arena per l’affermazione di interessi in conflitto che un processo per il raggiungimento di un proposito comune”.
Se la Trilaterale voleva cambiare il mondo, non sembra esserci riuscita molto.
Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: economia | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA G.D.F. DI MILANO: “GLI EVASORI SI SCOPRONO PER STRADA, LE VERIFICHE A TAVOLINO NON BASTANO”
Il colonnello Massimo Manucci è il comandante dei Baschi verdi della Guardia di finanza di Milano, Gruppo pronto impiego, cioè controlli sul territorio.
Come quelli dell’Agenzia delle entrate che tanto hanno fatto infuriare i proprietari di auto di lusso a Cortina.
Scene plateali non necessarie, è stata la critica più ripetuta.
Non si potevano fare controlli dall’ufficio? Perchè fermare per strada un Suv, una Maserati, una Ferrari, una Lamborghini.
«Per esempio perchè se ci limitiamo ai controlli dall’ufficio non incappiamo negli evasori totali. Che dati incrocio se sono sconosciuti al Fisco?» semplifica il colonnello Manucci. Non è cosa poi tanto rara, sembra, imbattersi in qualcuno al volante di una Porsche Cayenne che però risulta avere zero reddito come i 7.500 nullatenenti scoperti nel 2011.
Le auto di lusso, quali che siano, sono da sempre «un indicatore di ricchezza che merita attenzione» per dirla con le parole del comandante.
Nel 2011 nel nostro Paese sono state immatricolate 110.855 auto da almeno 2.800 cc di cilindrata.
Impossibile incrociare i dati di tutte con quelli fiscali dei proprietari ma i controlli annuali, nel 2011 come negli anni precedenti, rivelano sempre la stessa situazione: stando alle dichiarazioni dei redditi meno della metà dei proprietari se le potrebbe permettere. Indice, anche questo, di una costante schiera di furbetti che evidentemente non è in regola con quel che dichiara al Fisco.
I trucchi? I prestanome, tanto per dirne uno.
«Immaginiamo un caso concreto» propone il comandante Manucci. «Lei compra una Lamborghini e la intesta a un suo amico perchè non vuole che il Fisco sappia di questa sua proprietà . Noi non ne sappiamo nulla ma un giorno facciamo una verifica fiscale sul suo amico che magari risulta povero ma con quell’auto lussuosa».
Quindi? «Lui ci dice che l’auto è il regalo della sua amante e nulla lo obbliga a dirci il nome. Che possiamo fare? Al massimo un accertamento bancario ma dubito che ci aiuterebbero a capire…».
Altro trucco da furbetti: intestare il Suv o la Ferrari di turno a società estere che hanno sede nei famosi paradisi fiscali e per le quali è praticamente impossibile controllare il reale volume d’affari perchè magari sono sedi fittizie o perchè seguono triangolazioni societarie ricostruibili soltanto con approfondite e lunghissime inchieste giudiziarie.
«Ma proprio partendo dal caso di Cortina si può dire che nemmeno gli evasori sono sempre così complicati» valuta il colonnello dei Baschi verdi.
Spesso chi evade «nasconde una verità semplice, terra terra – considera -. I risultati degli accertamenti di Cortina insegnano che non sempre evasione significa avere una società si comodo all’estero. Che ci sono società stabili, in Italia, il cui volume d’affari è decisamente più basso del costo della Ferrari che guida il titolare dell’azienda, o addirittura è nullo. E questo vuol dire che in quell’azienda e in quel titolare è mancata la cultura di base di un buon contribuente. Vuol dire le solite cose».
Quali solite cose?
«Quelle tipo “guarda che se non fatturo paghi meno”».
Giusi Fasano
(da “Il Corriere della Sera”)
argomento: Costume, economia | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
MASSIMO FINI: “L’IMPRESA DIPENDE DAI CREDITI DELLE BANCHE. IL MERCANTE MEDIEVALE INVESTIVA DENARO PROPRIO, NON CHIEDEVA PRESTITI”
Nella società attuale l’impresa è centrale.
Perchè qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema.
Ecco perchè in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.
L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti.
E qui c’è già una stortura.
Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti.
E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire).
Ma, per la verità , il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.
Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese.
Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era.
Perchè, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo.
Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati.
La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).
Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale.
Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perchè ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame.
Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).
Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma.
Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce.
All’inizio è oro o argento o bronzo.
Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale.
Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto.
Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.
Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perchè fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza.
E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.
Massimo Fini blog
argomento: Costume, economia | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
IN SCADENZA LA CARICA DI PROCURATORE ANTIMAFIA DI PIERO GRASSO… NELLA CAPITALE DOVREBBE FINIRE PIGNATONE, OGGI CAPO DELLA PROCURA DI REGGIO CALABRIA
Due procure importanti, quella di Roma e quella di Napoli, nelle prossime settimane avranno nuovi capi, nominati dal Consiglio superiore della magistratura.
E presto dovrebbe esserci un cambio, voluto dal ministro della Giustizia, Paola Severino, alla direzione del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), guidato da Franco Ionta.
In autunno, invece, se si voterà nell’aprile 2013 dovrebbe aprirsi la partita alla successione di Piero Grasso a capo della Procura nazionale antimafia.
Le indiscrezioni tra Palermo e Roma dicono, infatti, che entrerà in politica. D’altronde, lui stesso in un’intervista al Giornale di Sicilia del 5 gennaio l’ha fatto capire: “Non guardo a un’eventuale esperienza politica sotto forma di schieramento con un partito, cosa che è estranea al mio ruolo, alla mia funzione e alla mia cultura. Penserei piuttosto a quella che ho definito una lista civica nazionale”.
In effetti, ha rifiutato l’offerta di una parte del Pd di candidarsi a sindaco di Palermo.
La nomina più sicura, a oggi, è quella del procuratore di Roma: al Csm c’è una convergenza su Giuseppe Pignatone, attuale capo della Procura di Reggio Calabria.
Ci sono pareri favorevoli e trasversali sul magistrato che da 4 anni guida una procura difficilissima come quella di Reggio Calabria.
Con l’arrivo da Palermo di Pignatone e del procuratore aggiunto, Michele Prestipino, sono decollate indagini contro la ‘ndrangheta e le sue collusioni anche in stretta collaborazione con la Procura di Milano.
Il posto di procuratore capo di Roma l’avrebbe tanto voluto l’attuale reggente, il procuratore aggiunto, Giancarlo Capaldo.
Di chance ne aveva molte, ma un pranzo quanto meno inopportuno l’ha fatto cadere in disgrazia.
Nel dicembre 2010 è stato ospite a casa dell’avvocato Luigi Fischetti, legale del figlio, con a tavola l’allora ministro Giulio Tremonti e il suo braccio destro, il deputato del Pdl, Marco Milanese, indagato a Napoli e in quel periodo già “attenzionato” dalla Procura di Roma che lo avrebbe messo sotto inchiesta nelle settimane successive.
Per quel banchetto la Prima commissione del Csm ha aperto un fascicolo.
Il nuovo procuratore di Roma, che dovrebbe insediarsi al massimo tra un mese e mezzo, dovrà dare prova di resistenza alle pressioni che nell’ufficio soprannominato “il porto delle nebbie” sono sempre state fortissime. Sono in corso indagini delicatissime sulla corruzione.
Dalla mega inchiesta con tanti rivoli di Finmeccanica, a Sogei, Enav, un filone della P4, un filone di Mediatrade, Rai cinema e Rai spa.
Anche il prossimo procuratore di Napoli si ritrova un ufficio al centro di inchieste importanti e che hanno provocato polemiche a non finire.
Non solo quelle sulla camorra, sul clan dei casalesi in particolare, che vede indagato, tra gli altri, il deputato del Pdl, Nicola Cosentino, ma anche l’inchiesta su Valter Lavitola e la corruzione internazionale.
La partita per la direzione di Napoli è ancora aperta.
Sono 16 i candidati alla successione di Giandomenico Lepore, procuratore partenopeo fino al 15 dicembre scorso.
Fra loro hanno fatto domanda al Csm quattro procuratori aggiunti di Napoli: Francesco Greco, Rosario Cantelmo, Federico Cafiero de Raho e Sandro Pennasilico. C’è anche il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello.
Ci sono poi diversi procuratori che vorrebbero guidare l’ufficio napoletano.
Fra loro, Paolo Mancuso, procuratore di Nola.
A Napoli, fra l’altro, ha coordinato le inchieste che portarono alla collaborazione dei boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso; Corrado Lembo, procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Giovanni Colangelo, procuratore di Potenza e Francesco De Leo, procuratore di Livorno.
In questo momento i favoriti sembrano essere Colangelo, Mancuso e De Leo.
La nomina imminente, però, sembra essere quella del capo del Dap.
La poltrona di Franco Ionta, ex procuratore aggiunto di Roma e fino a poche settimane fa anche commissario straordinario per il piano carceri, traballa.
Nominato dal governo precedente, Ionta è criticato dall’alto e dal basso. Secondo quanto risulta a Il Fatto Quotidiano, quando ancora Berlusconi era premier, c’è stata una sollecitazione scritta del Quirinale perchè venisse affrontato il problema carceri, ma Ionta, pare che non abbia neppure risposto.
E giovedì scorso il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha parlato di “scarsi risultati” del piano carceri.
Diversi dirigenti dell’ufficio di Ionta e una larga fetta della polizia penitenziaria lamentano l’assenza di una politica carceraria.
Il ministro Severino ha tempo fino a metà febbraio per confermarlo o revocarlo.
Le voci di via Arenula danno il capo del Dap in uscita anche se l’operazione non è facile, essendo Ionta un protetto di Gianni Letta.
Ma già circolano nomi su chi potrebbe prendere il suo posto: Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, Paolo Mancuso, che concorre, come detto, alla Procura di Napoli e che è già stato vicedirettore del Dap, Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, una vita spesa per avere un sistema penitenziario civile.
Anche Maisto è stato un magistrato distaccato al Dap.
Nei corridoi del ministero della Giustizia girano, inoltre, i nomi di Giovanni Tamburino, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma e Angelica Di Giovanni, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli.
Antonella Mascali
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Energia, Giustizia | Commenta »
Gennaio 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA CASTA E LE SPESE DELLE ISTITUZIONI: A CONFRONTO I COSTI DI MONTECITORIO CON QUELLI DELLE CAMERE BASSE DEGLI ALTRI PAESI EUROPEI… A PESARE E’ LA STRUTTURA PIU’ DEGLI ONOREVOLI
Il dato in sè è impressionante e contiene uno dei paradossi del nostro Paese: i cinque grandi parlamenti nazionali d’Europa, Germania, Francia, Inghilterra, Italia e Spagna, costano 3,18 miliardi di euro l’anno, ma il Parlamento italiano spende più della somma degli altri quattro messi insieme.
E la sorpresa sta nel fatto che la colpa non è tanto degli stipendi della Casta, bensì dei costi di una struttura molto più dispendiosa.
La storia parte da lontano, se è vero, come raccontano i più anziani, che nel 1946, subito dopo il fascismo, si ritenne che fosse opportuno tenere il Parlamento sempre «aperto e agibile, un presidio democratico», con quel che ne conseguiva in termini di turni dei commessi e di apparati di sicurezza.
Oggi non è più così, da anni si chiudono i battenti alle 22 e una delle polemiche sotterranee investe proprio il dispendio di risorse.
Per una struttura che, di norma e salvo casi rari, potrebbe tranquillamente fermarsi due ore prima, evitando di far rimanere funzionari e documentaristi in servizio permanente effettivo pagandogli pure gli straordinari.
Ma il problema non è la quantità della forza lavoro, tanto meno la qualità , vista l’alta professionalità riconosciuta a tutte le maestranze di ogni ordine e grado, dai funzionari di prima fascia fino ai barbieri.
In Italia e Regno Unito, il numero di dipendenti per i due parlamenti è simile (1.620 contro 1.868) ma a fare la differenza è il costo pro capite.
Per dirla con Francesco Grillo della London School of Economics, che insieme ad Oscar Pasquali ha curato un’inchiesta per il think-tank Vision, gli altri parlamenti nel corso degli anni «hanno preferito assumere molti meno commessi e stenografi e viceversa molti più giovani assistenti che affiancano i parlamentari nel loro lavoro».
Dall’analisi comparata delle cinque più importanti «camere basse» d’Europa (Montecitorio, Bundestag, Assemblèe Nationale, House of Commons e Congreso de Los Deputados) emerge che «non è il costo dei deputati italiani a determinare questa situazione».
Perchè la spesa per le retribuzioni dei parlamentari in carica e in quiescenza è pari a poco più di un quinto del totale del bilancio 2011 di 1,66 miliardi di euro: dove il costo per il personale in servizio e in quiescenza è del 42,8%, contro il 23,8% destinato ai parlamentari.
E quindi, una delle conclusioni dell’inchiesta di Vision è che la norma inserita nella finanziaria di luglio che stabilì di equiparare il costo dei parlamentari alla media europea avrebbe dovuto prescrivere casomai di equiparare il costo del parlamento nazionale alla media degli altri.
Ad ogni cittadino italiano, il Parlamento costa tre volte di più che in Francia (27,15 euro rispetto a 8,11 euro), quasi sette volte più che in Inghilterra (4,18 euro) e dieci volte più che in Spagna (2,14 euro pro capite).
E non è tanto il numero dei parlamentari ad incidere (in Italia poco superiore alle medie europee) ma il costo del Parlamento per deputato.
«Più del 40% delle risorse del nostro palazzo sono assorbite dal personale della Camera. Stenografi o commessi – si legge nel documento – che individualmente arrivano, al massimo dell’anzianità , ad avere stipendi superiori ad alcune delle più alte cariche dello Stato».
Ed è vero che i nostri parlamentari, a differenza dei tedeschi, devono pagare i propri collaboratori a valere su uno specifico rimborso a forfait, che proprio oggi verrà dimezzato con una delibera dell’ufficio di presidenza di Montecitorio.
«Tuttavia, mentre il parlamento tedesco (o quello europeo) paga direttamente assistenti parlamentari di qualifica elevata, il parlamento italiano paga, in misura maggiore, un numero assai più alto di commessi».
E qui scatta l’accusa del rapporto Vision: «Se è vero che non sono i parlamentari ad intascare la differenza di costo rispetto agli altri parlamenti europei, rimane una domanda ineludibile: come è possibile che i deputati italiani in cinquanta anni hanno consentito che crescesse e si consolidasse il sistema retributivo più assurdo di un paese che pure ha conosciuto privilegi di tutti i tipi?».
Passando dall’analisi alla proposta, tra le ipotesi su come riuscire a collegare costi della politica e qualità dell’attività legislativa e di governo, eccone una suggestiva: dare valore all’astensione, con una riduzione lineare dell’ammontare dei rimborsi elettorali collegata all’incremento oltre una certa soglia della quota di rinunce al diritto di voto, per stimolare i partiti «a migliorare la propria credibilità ».
Uno dei membri del Progetto Vision, Sandro Gozi, per anni di stanza a Bruxelles con Prodi e oggi deputato del Pd, sostiene che «oggi sono i giovani a pagare gli errori del passato perchè noi delle nuove generazioni preferiremmo avere due collaboratori in più pagati dalla Camera per preparare i dossier e fare meglio il nostro lavoro». L’accusa è che si sia lasciato lievitare un sistema «non più efficiente di quello di altri parlamenti, lasciando in una zona grigia il pagamento dei collaboratori: che adesso verrà pure rendicontato al 50% per lasciare il resto ai partiti. È ridicolo. Se avessimo avuto una struttura con costi meno elevati e il cosiddetto portaborse pagato dalla Camera, non avremmo avuto l’esplosione dell’antipolitica».
Carlo Bertini
(da “La Stampa“)
argomento: la casta, Parlamento, Politica | Commenta »