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AMMINISTRATIVE, FUTURO E LIBERTA’ ADOTTA IL CODICE ANTIMAFIA: “RINVIATI A GIUDIZIO NON CANDIDABILI”

Marzo 21st, 2012 Riccardo Fucile

ESCLUSI DALLE LISTE CHI E’ COINVOLTO IN PROCEDIMENTI GIUDIZIARI RELATIVI A REATI LEGATI ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA, DALL’ESTORSIONE AL RICICLAGGIO

Benedetto Della Vedova lo definisce “un appello allo spirito civico e legalitario di tutti i partiti”, Antonino Lo Presti ne annuncia l’adozione per tutti i candidati di cui è capolista per Fli a Palermo, per Fabio Granata si tratta della “dimostrazione che la politica sa fare due passi in avanti, dandosi delle regole e rispettandole”.
E’ il Codice etico per le candidature alle elezioni amministrative che la commissione Antimafia approvò, all’unanimità , due anni fa in vista delle elezioni regionali, e che Futuro e libertà  ha deciso di adottare formalmente.
In sostanza, l’autoregolamentazione dispone che non sia candidato chiunque, a seguito di un rinvio a giudizio, risulti coinvolto in procedimenti giudiziari relativi a reati legati all’attività  tipica della criminalità  organizzata, dall’estorsione al riciclaggio, dal traffico illecito di rifiuti ai delitti le cui caratteristiche rientrino nelle attività  a carattere mafioso.
Granata, nel corso della conferenza stampa a Montecitorio, ricorda che alle ultime elezioni regionali sono risultati eletti in altri partiti 48 persone che in base al Codice non avrebbero nemmeno dovuto essere candidate.
“Per motivi di costituzionalità  — aggiunge — legati alla presunzione di non colpevolezza fino a giudizio definitivo, questa proposta non può avere valore legislativo ma ne ha uno fortemente politico. Però, i partiti, e comunque intanto lo facciamo noi, dicono da subito che non si può aspettare la Cassazione e che non succede nulla se chi ha un problema di questa natura resta fuori dalla vita pubblica per un giro.
E Granata ha annunciato, inoltre, che “Fli rilancerà  su questo fronte anche nella prospettiva delle elezioni politiche: sia nel caso che la legge elettorale cambi, sia nel caso il ‘porcellum’ resti in vigore”, perchè “il Codice è una garanzia per tutti i cittadini sul piano del contrasto alla criminalità ”

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FORMIGONI VERGOGNA! LA REGIONE LOMBARDIA ESCLUDE I FAMILIARI DAL RICORDO DI GIORGIO AMBROSOLI

Marzo 21st, 2012 Riccardo Fucile

IL FIGLIO IN UNA INTERVISTA AVEVA CRITICATO IL PIRELLONE PER LE ULTIME VICENDE GIUDIZIARIE… CELEBRANO UN “EROE BORGHESE” UCCISO DALLA MAFIA E CACCIANO I CONGIUNTI

Oggi il Pirellone ricorderà  Giorgio Ambrosoli, ‘eroe borghese’, il liquidatore del Banco Ambrosiano ucciso dalla mafia su ordine di Michele Sindona nel 1979.
Ma al ricordo non sarà  presente il figlio, Umberto, che pure era stato contattato qualche settimana fa e aveva dato la sua adesione.
Il motivo: le frasi dette da Ambrosoli sulle vicende giudiziarie che coinvolgono molti esponenti della Regione in una intervista a Repubblica, due settimane fa.
Una richiesta a Formigoni di azzerare la giunta che non sarebbe piaciuta ai vertici del Pirellone, tanto da decidere per l’incredibile esclusione del figlio di Ambrosoli (e di ogni altro membro della famiglia) dalla cerimonia della Giornata dell’impegno contro le mafie e in ricordo delle vittime che si terrà  nell’auditorium Gaber.
Come anticipa il sito Affaritaliani, gli studenti milanesi verranno accolti da rappresentanti delle istituzioni (non dovrebbe esserci l’indagato Davide Boni) e poi ci sarà  la proiezione del film di Michele Placido su Ambrosoli, con una introduzione dell’ex magistrato Giuliano Turone.
Non vuole polemizzare per la scelta, Umberto Ambrosoli, ma dice: «Chi andrà  alla cerimonia avrà  la possibilità  di vedere quante declinazioni possibili esistono del senso di responsabilità ».

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IL VELO STRAPPATO: I DIRITTI DEI LAVORATORI SI TRASFORMANO IN MONETA

Marzo 21st, 2012 Riccardo Fucile

NELLA RIFORMA DELL’ART. 18 C’E’ LA FINE   DELLA CONCERTAZIONE… A UNA ESTENSIONE “DIMENSIONALE” DELLA TUTELA CORRISPONDE UNA LIMITAZIONE DI QUELLA “FUNZIONALE”

“Niente birra e panini al numero 10 di Downing Street”, era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi.
Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava.
Trent’anni dopo, nell’Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane.
Ma il risultato pratico è lo stesso.
Se i “corpi intermedi” della società  condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque.
Lo strappo si è dunque compiuto.
Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil.
Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze.
È ancora una volta l’articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese.
Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c’è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti.
C’è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica.
C’è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.
Nel passo compiuto dal governo c’è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l’ultimo tabù.
L’articolo 18, cioè l’obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà  solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà  per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti.
Ma a questa estensione “dimensionale” della tutela corrisponde una limitazione di quella “funzionale”.
Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà  al giudice decidere se applicare la reintegra o l’indennizzo.
E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà  solo l’indennizzo.
Proprio quest’ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.
Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice.
La preoccupazione della Camusso, ancorchè non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt’altro che infondata.
In questo nuovo schema l’articolo 18, di fatto, non viene “manutenuto”, ma manomesso.
I diritti si trasformano in moneta.
Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l’anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo.
Non nell’Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà  a regime solo nel 2017.
In queste condizioni, la “via bassa” della produttività  e della competitività  scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà  regolata con i licenziamenti per motivi economici, al “prezzo” di un indennizzo che costerà  poco più di un qualunque pre-pensionamento.
Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell’industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già  ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi.
È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c’è nella riforma del governo, dall’introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato.
E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l’articolo 18 con la necessità  di far cadere un impedimento “vero o presunto” agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una “presunzione”.
Se c’è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l’articolo 18 sia “un alibi” per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri.
E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.
Ma nel passo compiuto dal governo c’è anche una svolta di metodo.
Monti lo spiega con una chiarezza esemplare.
Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il “potere di veto” non è più consentito a nessuno.
Quando racconta di aver cercato fino all’ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani “non ci sarà  alcuna firma” delle parti sociali su un documento del governo.
Quando ammette che il dialogo con le parti sociali “è importantissimo”, ma avverte che non può tradursi in una “cultura consociativa” che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività .
La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier.
È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà  a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.
È un principio incontestabile.
La sovranità  del potere legislativo non è in discussione.
Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica.
Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase.
La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell’intesa?
Il dubbio è legittimo: l’impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per “dare una lezione” alla Cgil è forte, e non da oggi.
Come è forte l’impressione che all’esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo “scalpo” del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di “guerra”.
La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L’accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l’enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà  pure attraversato dalla faglia “socialdemocratica”, ma che resta pur sempre l'”azionista di riferimento” del governo Monti.
Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)

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RIFORMA DEL LAVORO E ART. 18: COSA CAMBIA

Marzo 21st, 2012 Riccardo Fucile

INDENNITA’ DAI 15 AI 27 MESI SUI LICENZIAMENTI DISCIPLINARI… REINTEGRO POSSIBILE PER I CASI RITENUTI DISCRIMINATORI

Modello tedesco per l’articolo 18. Alla fine il governo è andato per la sua strada sul nodo più caldo della trattativa e le conseguenze sono ancora tutte da scoprire.
Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ieri sera è stato perentorio: «Per il governo la questione sull’articolo 18 è chiusa».
Lo schema scelto sui licenziamenti innova per quanto riguarda quelli disciplinari ed economici, lascia invariata la disciplina dei discriminatori.
Le novità  riguardano tutti i lavoratori, anche quelli attualmente assunti, con decorso dal momento in cui entrerà  in vigore la legge.
Riepilogando, sui licenziamenti ci saranno tre fattispecie diverse.
La prima è quella dei licenziamenti per motivi discriminatori: in qualsiasi tipo di azienda, sotto o sopra i 15 dipendenti, i licenziamenti determinati da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività  sindacali già  oggi è nullo, indipendentemente dalla motivazione.
In ogni caso c’è il reintegro del lavoratore sul posto di lavoro.
Questa fattispecie non è stata modificata.
Oggi poi, un lavoratore può essere licenziato anche per motivi disciplinari o economici. In questi casi alle imprese che occupano alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori si applica l’articolo 18 della legge 300/1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori, marginalmente modificata dalla legge 108 /1990, che assicura la tutela della stabilità  del posto di lavoro
Il giudice allorquando ritenga che il licenziamento non è assistito da giusta causa o giustificato motivo, deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza la possibilità  di un’alternativa di tipo risarcitorio ovvero senza alcuna possibilità  di monetizzare la stabilità  del rapporto.
Non solo.
Oltre alla reintegrazione, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità  di retribuzione).
In sostanza il datore di lavoro potrebbe non reintegrare effettivamente il lavoratore ingiustamente licenziato nel posto di lavoro, ma dovrebbe continuare a pagargli ininterrottamente un’indennità  pari alle retribuzioni correnti.
Solo il lavoratore può liberare il datore di lavoro dalla prosecuzione di tale obbligo risarcitorio chiedendo (in base alla legge 108 /1990) un’indennità  pari a 15 mensilità .
La sentenza di reintegrazione comporta anche l’obbligo di pagare le contribuzioni previdenziali e assistenziali sulla retribuzione globale dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione.
Se il lavoratore, invece, non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, o entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, non richiede il pagamento dell’indennità  sostitutiva del reintegro, il rapporto si intende risolto alla scadenza dei termini sopra indicati e i contributi sono dovuti fino a quella data.
Fin qui i licenziamenti individuali.
E’ noto che le imprese che occupano più di 15 lavoratori possono anche licenziare per riduzione o trasformazione di attività .
Se il provvedimento riguarda da 5 lavoratori in su, si applica un’altra normativa, quella dei licenziamenti collettivi «per riduzione di personale», regolata dalla legge 223/1991, che dalla riforma non viene toccata.
Tornando ai licenziamenti individuali, la novità  introdotta dal governo Monti prevede che, in caso di licenziamenti disciplinari, per il lavoratore che vada dal giudice, il reintegro è previsto solo se il motivo è inesistente perchè il fatto non è stato commesso o se il motivo non è riconducibile al novero delle ipotesi punibili ai sensi dei contratti collettivi nazionali.
In tutti gli altri casi di inesistenza dei motivi addotti dal datore di lavoro, il giudice dispone soltanto un indennizzo da 15 a 27 mensilità  e mai il reintegro.
L’altra novità  riguarda i licenziamenti per motivi economici.
Una volta finiti in tribunale, il giudice non potrà  vagliare le motivazioni economiche alla base del provvedimento e non avrà  la possibilità  di reintegrare il lavoratore ma potrà  soltanto stabilire un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità .
Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero ha poi spiegato che ci saranno anche altre novità  per «accorciare la durata del processo», la cui attuale, eccessiva lunghezza viene considerata penalizzante dalle aziende.

Antonella Baccaro
(da “la Stampa“)

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TORINO: ALBERTO MUSY, CAPOGRUPPO DEL TERZO POLO IN COMUNE FERITO A COLPI DI PISTOLA IN UN AGGUATO SOTTO CASA, E’ GRAVE

Marzo 21st, 2012 Riccardo Fucile

E’ SUCCESSO POCHE ORE FA NEL CENTRO DI TORINO…L’UOMO DELLA SOCIETA’ CIVILE CHE STAVA PER ENTRARE NELLA GIUNTA FASSINO

Alberto Musy, 44 anni, avvocato e docente, capogruppo del Terzo Polo in consiglio comunale, è stato ferito stamattina in un agguato sotto casa.
Il consigliere, che abita in centro, in via Barbaroux 35, è sceso per la consegna di un pacco e quando ha aperto la porta un uomo gli ha fatto fuoco.
Soccorso dai familiari e dai vicini di casa, è ora ricoverato alle Molinette, in rianimazione.
Le condizioni di Musy – si apprende da fonti ospedaliere – sono gravi.
Il consigliere comunale è stato sedato e intubato nel reparto di Rianimazione.
Secondo una prima ricostruzione della Polizia, contro Musy, che esercita la professione di avvocato, è stato sparato più di un colpo di pistola da una persona che poi è fuggita.
L’aggressione è avvenuta all’interno del cortile del palazzo dove Musy abita, in via Barbaroux, nel centro del capoluogo piemontese.
Il sindaco di Torino, Piero Fassino, non appena appresa la notizia dell’aggressione a Musy, si è recato alle Molinette.
Alberto Musy è capogruppo Udc- Alleanza per la città  in Consiglio comunale.
Negli ultimi tempi si rincorrevano le voci di un suo ingresso nella maggioranza, forse addirittura nella giunta di Fassino con un ruolo di primo piano.
S’è parlato di una delega di peso: una via, quella dell’alleanza con il suo gruppo, attraverso la quale il sindaco Fassino si proporrebbe di uscire dall’empasse degli attriti col gruppo di Sinistra e Libertà .
In questi mesi, ha presentato uno studio per introdurre il road pricing a Torino ed è tra gli autori del nuovo regolamento comunale sulle nomine.
Alle elezioni, Musy ha sfidato Piero Fassino alla poltrona di sindaco sostenuto da Fli Udc e Api.
Avvocato, ha 44 anni, è docente di diritto privato comparato. Con la sua designazione, tenuta a bettesimo sotto la Mole da Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli, si era formalizzata una candidatura della   cosiddetta “società  civile”, essendo il suo primo impegno diretto in politica dopo una militanza giovanile nel Partito liberale.
Professore di Diritto comparato all’Università  del Piemonte orientale, ha esperienze di lavoro e d’insegnamento all’estero (Montreal, New York, Tel Aviv).
E’ l’erede di una dinastia nota a Torino, grazie alla ditta che produce gioielli dal 1706, anche per Casa Savoia.
Il suo slogan elettorale era «L’alternativa, finalmente». Tra i suoi obiettivi: eliminare la Ztl .

argomento: Comune, criminalità, Politica, Udc | Commenta »

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