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DA SARKO AL MARITO DI SEGOLENE, L’ULTIMA RICONVERSIONE DELLA SINISTRA ITALIANA

Aprile 22nd, 2012 Riccardo Fucile

E LA DESTRA TREMONTI-FERRARA S’E’ FATTA HOLLANDIANA

Sic transit gloria mundi, cinque anni fa Sarkò veniva acriticamente esaltato anche a sinistra in Italia, oggi accade che Giulio Tremonti e Giuliano Ferrara (su twitter) elogino Hollande.
E naturalmente la gauche italienne non può farsi mancare l’ultimo mito d’esportazione, dopo esserseli pappati tutti: Blair, Zapatero, persino, a suo tempo, Jospin, e ovviamente Obama.
Solo che il problema di questi miti è che, innanzitutto, nascono e muoiono ormai alla velocità  della luce.
Poi è oggettivamente difficile appassionarsi a Hollande, sarebbe come essersi entusiasmati in Inghilterra per Gordon Brown, la sinistra più grigia, burocratica e meno fascinating che ci fosse in giro, una vera, totale antitesi del blairismo.
E oltretutto, nella conversione (peraltro sommessa, stavolta) della sinistra riformista italiana da Sarkozy a Hollande c’è anche l’indice di una qualche, diciamo così, indecisione di linea.
Cinque anni fa il tandem (in questo caso) Veltroni-D’Alema cantava le virtù dell’ex delfino di Chirac, l’uomo della rupture, per una serie di ragioni che già  oggi appaiono consegnate all’oblio: pareva loro il paladino di un vero maggioritario, l’uomo deciso che sapeva fare governi aperti a personalità  esterne (Bernard Kouchner agli esteri), il coraggioso che al limite poteva andare oltre lo stantìo dilemma destra-sinistra.
Oggi una sinistra italiana in cerca come mai di bussole perdute vede nell’ex marito di Sègolène Royal l’alfiere di una contro-svolta più “di sinistra”, appunto: lotta contro le banche corresponsabili della crisi finanziaria, un grande, keynesiano programma di spesa pubblica per far ripartire l’economia e la crescita, un’idea di Europa che non sia puramente germanocentrica e merkeliana…
E insomma, così s’aggiunge caos al caos.
Le parole lo testimoniano.
Sarkò entusiasmava Veltroni e piaceva a D’Alema, nel 2007 il lìder Minimo (come lo disegnava “Tango”, il giornale satirico di Staino), constatando la sua rapidità  nel formare il governo, andava dicendo «magari avessimo noi la possibilità  di fare come Sarkozy, sarebbe una rivoluzione», nessuna trattativa estenuante con alleati da zero virgola.
E Veltroni scorgeva nel presidente della «rupture» un uomo-simbolo del bipolarismo: «La grande lezione di Sarkozy è questa; io spero di poter vivere un giorno in un Paese in cui il bipolarismo sia fatto in modo da permettere a persone di rilievo di far parte del governo a prescindere dagli schieramenti». Oggi Bersani s’affretta a far sapere che la vittoria di Hollande metterebbe in moto «delle spinte e incoraggerebbe il nostro progetto, aggregando altre forze nel senso della costruzione di un centrosinistra di governo».
Nichi Vendola, nientemeno, dà  un’intervista alla Stampa in cui si avventura nell’auspicio post-capitalista, «spero che il voto francese, premiando Hollande, inverta la tendenza segnando la via d’uscita dal liberismo».
E quel-che-resta-di-Rifondazione è indecisa se ricavare fiducia da Hollande o laudare il trionfo di Melenchon.
Ecco: come passa il tempo e la gloria mortale.
Per questo occorrerebbe una certa cautela, foss’anche solo nelle esternazioni.
Chi è stato jospiniano, zapatista e nel 2004 zapaterista, poi divenne blairiano, o sarkozista, e ora riemerge d’incanto hollandista; gente che era stata nel giro di pochi giorni cardosiana e poi lulista (sostenitrice persino di Lula!), ora torna a un’idea (meno esotica) di vecchia sinistra europea.
Aveva ragione per una volta D’Alema quando, in un discorso alla London School of Economics, a pochi giorni dal voto inglese che premiò Cameron, sostenne che bisognava «smettere di guardare all’estero, Blair, Obama, Zapatero. Alla fin fine tutti cadono».
Ma come sempre c’è ricaduto anche lui, e ora è qui a farci sapere che «in Europa sperano tutti nella vittoria di Hollande, anche i governi di centrodestra che non hanno il coraggio di dirlo».
Tutti, tranne forse chi vorrebbe un’originale, coerente sinistra italiana.

Jacabo Jacoboni
(da “La Stampa“)

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I BAMBINI A CENA ALLA MENSA DEI POVERI

Aprile 22nd, 2012 Riccardo Fucile

LA COMUNITà€ DI SANT’EGIDIO: RADDOPPIATO IL NUMERO DEGLI ITALIANI CHE HANNO BISOGNO DI AIUTO

“Sono tornati i bambini”. Quando lo racconta, ad Augusto D’Angelo si incrina leggermente la voce. Perchè, per una volta, il ritorno dei bambini non è una buona notizia. Anzi.
È il segno che la crisi sta colpendo anche loro.
La Comunità  di Sant’Egidio fornisce circa un migliaio di pasti a sera.
Fino a qualche tempo fa il 90 per cento delle persone che riempivano la mensa era straniero. “Da qualche anno a questa parte -spiega D’Angelo, una delle anime di Sant’Egidio, docente universitario – la quota degli italiani è aumentata. Da essere un centinaio al giorno, oggi arrivano anche a 200. E fra loro, ci sono anche quattro o cinque bambini. Non sono tanti, ma sono il segnale che le famiglie non hanno neanche i soldi per assicurare loro un pasto al giorno, oltre quello che fanno a scuola”.
Negli ultimi decenni si è assistito a un lento scivolare nella povertà .
Secondo i dati 2011 della Caritas, oltre otto milioni e 200 mila italiani (il 13,8 per cento dell’intera popolazione) vive in condizione di povertà  relativa.
Oltre tre milioni e 100 mila sono i poveri assoluti (con punte elevatissime nel sud Italia). I numeri degli ultimi mesi ancora non ci sono, ma l’impennata si vede senza bisogno di statistiche.
“È una povertà  che coinvolge il ceto medio – prosegue da Sant’Egidio D’Angelo -, che comprende al suo interno dipendenti, ma anche commercianti e piccoli imprenditori. Lo capiamo nei centri di distribuzione dei pacchi alimentari”.
Ogni pacco contiene, a seconda di quello che lasciano i donatori, un chilo di pasta, un barattolo di salsa, scatolette, ciò che serve per andare avanti qualche giorno.
“Arrivano tante persone che prendono il pacco – ancora D’Angelo -, ma hanno bisogno soprattutto di parlare. Non che siano disinteressate al cibo, ma sono persone che fino a poco fa avevano un tenore di vita medio-alto e che ritengono di meritare di più di un chilo di pasta. Cercano una sponda, tentano di trovare alleati che li aiutino a resistere a una condizione di vita che non sentono propria”.
E così il disagio, oltre a essere economico, diventa anche psicologico.
Perchè oltre all’umiliazione di dover ricorrere a un aiuto, concreto come un pacco di pasta, c’è il timore di non poter più migliorare le condizioni della propria famiglia.
A Sant’Egidio chiedono un lavoro, una casa, tutto quello che spesso non riescono a trovare per le vie istituzionali.
Perchè i servizi sociali non hanno soluzioni individuali e i percorsi sono quelli standard: la lista per la casa, il collocamento, il sussidio.
Il problema principale di chi si rivolge alle associazioni o agli enti benefici è il lavoro (chi non l’ha mai trovato o chi l’ha perso).
Ma non solo: “La famiglia per anni è stata un grande ammortizzatore sociale – conclude D’Angelo -, oggi non riesce più a esserlo. Pensiamo a un padre separato, che ha dovuto lasciare all’ex moglie la casa coniugale e deve passare gli alimenti ai figli. Torna a vivere dalla madre, ma ha molti meno soldi a disposizione. Per cui deve contare sull’anziana e sulla sua pensione, che spesso non basta. O a chi si trova a dover affrontare una spesa improvvisa, magari per un accertamento medico, e non ha nè i soldi, nè una famiglia a cui chiederli”.
O, peggio ancora, a una madre che si mette in fila per il pasto serale, con lo sguardo abbassato per la vergogna.
Sono tornati i bambini.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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PRIMO PARTITO MONTI: UNA SUA LISTA PRENDEREBBE IL 30% DEI VOTI

Aprile 22nd, 2012 Riccardo Fucile

UNA RICERCA DELLA LUISS INDICA CHE MONTI TOGLIEREBBE IL 10% AL PD E IL 7% AL PDL, SUPERANDO ENTRAMBI IN CASO DI ELEZIONI….PESA L’INCOGNITA DEGLI ASTENUTI CHE POTREBBERO TOCCARE IL 40%     E DEGLI INDECISI, ATTUALMENTE AL 20%

Contenitori di nuova foggia, grandi alleanze, partiti della nazione, movimenti di popolo, antipolitica in cerca di una via democratica di consenso.
Nelle ultime settimane si moltiplicano annunci e riunioni per scomporre, ricomporre e rifondare vecchi e nuovi scatoloni, in vista di elezioni politiche neanche fissate.
Il punto, ci informa un sondaggio della Cise Luiss del professor Roberto D’Alimonte (riportato ieri dal Sole 24 Ore), è che nella transizione tra la fine del governo Berlusconi e la messa in opera dei tecnici, sono finiti a spasso la bellezza di 16 milioni di voti.
Sedici milioni di elettori sono “in cerca di partito”.
E non è che proprio lo stiano cercando: aspettano che l’offerta politica si adegui al passaggio brusco d’orizzonte che si è verificato con la crisi di governo e quella economica che l’ha accompagnata.
Cifre come queste non si vedevano dalla fine della Prima Repubblica, dal dopo Tangentopoli, da quando quei voti in uscita dai grandi serbatoi dei partiti di governo (fondamentalmente Dc e Psi), finirono per premiare l’offerta nuova di Lega Nord e Forza Italia, a scapito di chi restò in piedi (il Pds).
Se si votasse oggi, afferma il sondaggio, il 35% degli elettori non andrebbe proprio alle urne, e un altro 7,1% sarebbe indeciso se farlo o meno.
Quelli che già  sanno chi votare sono appena il 38,1% (erano il 58,3% appena un anno fa), contro un 19,8 % di “indecisi” — ma solo sul partito sul quale barrare la preferenza.
In sostanza il 60% degli aventi diritto, vale a dire sei elettori su dieci, non sa chi votare. L’emorragia di consensi riguarda principalmente i partiti del centrodestra.
Nelle intenzioni di voto il Pdl ha preso lo scivolo: 29,7% nell’aprile 2011, 23,3% a novembre, 22,5% oggi.
Anche la Lega, che mettendosi all’opposizione del governo Monti era passata dal 9,8% di aprile 2011 al 12,2% di novembre, è precipitata con gli eventi giudiziari degli ultimi giorni al 7,4%.
Sono questi i voti che maggiormente viaggiano verso il bacino dell’astensionismo.
Di contro, con un Pd stabile al 30,2%, crescono l’Idv (al 9,5% contro il 7,1% di novembre 2011 e il 6,9% dell’aprile precedente), l’Udc (8,5%), Sel (7,8%) e il Movimento Cinque Stelle, che dall’ 1,3% di aprile 2011 era passato a novembre al 4,6% e ora viaggia sul 5,5%.
Stiamo però parlando sempre dei dati espressi in quel 38,1% che ha detto di aver scelto cosa votare.
Dietro di loro si muove una maggioranza confusa e consistente, il vero bottino di future campagne elettorali.
Certo non aiuta la lontananza dalle urne (si voterà  a ottobre o nel 2013, e con quale sistema elettorale?) e il momento di crisi dei vecchi simboli della rappresentanza politica.
La confusione è talmente alta sotto al cielo che seppure Mario Monti goda a oggi di un consenso non propriamente elevato (solo il 43,79% mantiene sul premier un giudizio positivo), un’ipotetica “Lista Monti” senza una collocazione politica definita, sarebbe il primo partito e leverebbe consenso principalmente alle due aggregazioni maggiori.
Una lista guidata da Monti, arriverebbe al 29,6%, lasciando al Pd il 19,6% e al Pdl il 15,2 %. D’altronde, però, il 56,46% degli intervistati non vedrebbe di buon occhio la sua discesa in campo.
Sul segno politico da attribuire all’esecutivo dei tecnici, del resto, gli elettori mostrano pochi dubbi: è un governo di centro per il 28,93 % degli intervistati.
È un governo di centro-destra per il 27, 82%.
È un governo di destra per il 20,83 %.
Solo l’8,38% ritiene che i tecnici siano di sinistra.
Il 14,05 % che sia di centro-sinistra.
Ai partiti oggi rappresentati in parlamento, per non scomparire davanti a un’offerta politica che l’elettorato può giudicare “nuova”, non resta che attrezzarsi per portare al voto almeno i propri delusi e indecisi (in questo senso oggi è in controtendenza il Pd che pesca voti tra i delusi che non andarono a votarlo nel 2008).

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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CI ASPETTANO TRE ANNI DI TASSE A RAFFICA: PAGHEREMO 87 MILIARDI IN PIU’

Aprile 22nd, 2012 Riccardo Fucile

ADESSO PESANO BENZINA E SIGARETTE, IN AUTUNNO IVA E IMMOBILI… STIMA CGIA: FINORA LE FAMIGLIE HANNO PAGATO SOLO 600 EURO SU UN CONTO DI 8.200… IL FONDO DEI PROVENTI DELLA LOTTA ALL’EVASIONE E’ STATA CANCELLATA

Tasse, tasse e ancora tasse.
In soli cinque mesi, il governo ha prenotato oltre 87 miliardi di maggiori imposte da riscuotere da qui al 2014.
Tra casa, benzina, addizionali regionali e comunali, bollo auto, rifiuti, Iva, sigarette, mancata rivalutazione delle pensioni, ma anche aumenti di pedaggi autostradali, canone Rai, bollette di luce e gas, la “cura” Monti contro la febbre da spread rischia di ammazzare il paziente Italia, prima ancora di guarirne i disastrati conti pubblici.
Soprattutto perchè i balzelli agiscono con ferocia sui redditi medio-bassi, mentre la patrimoniale di fatto non esiste o è molto timida (casa esclusa).
PRESSIONE FISCALE AL TOP
La pressione fiscale quest’anno toccherà  il tetto storico del 45,1%, quasi tre punti sopra il livello del 2011, l’annus horribilis delle quattro manovre di fila, da luglio a dicembre (le tre di Tremonti-Berlusconi e il Salva-Italia).
Ma nel 2013 salirà  ancora al 45,4% del Pil – conferma il Documento di economia e finanza presentato dal governo il 18 aprile – per discendere solo nel 2014, di un soffio appena (45,3%).
Percentuali che tuttavia non raccontano fino in fondo le sofferenze di famiglie e imprese, chiamate a pagare anche il mostro oscuro che erode equità  al sistema: l’evasione da 120 miliardi all’anno.
E oltretutto private della speranza dell’ormai famoso Fondo-taglia tasse (con il recupero del gettito evaso), due volte annunciato e due volte cancellato.
OGNI FAMIGLIA PAGHERA’ 8.200 EURO
Se il baratro Grecia è stato schivato, se il prossimo anno il pareggio di bilancio sarà  centrato (l’Fmi ne dubita e lo sposta di 5-6 anni, ma il governo lo conferma), il merito va anche alla pazienza degli italiani.
Il Centro ricerche degli artigiani di Mestre calcola che – tra Salva-Italia, riforma del mercato del lavoro e aumento dell’Iva in autunno – il conto per il 2012 è di circa 20 miliardi.
Sale a 32,5 il prossimo anno e a 34,8 nel 2014. Totale: 87,3 miliardi.
«Rischiamo di rimanere soffocati», è il commento di Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia.
È vero che il governo Monti è stato costretto a intervenire per salvare il Paese dal fallimento, ma è altrettanto vero che si è agito solo ed esclusivamente sul fronte delle entrate».
Basta guadare al Salva-Italia, spiega la Cgia: 81,3% di imposte e 18,7% di tagli alla spesa. «Un sacrificio immane», prosegue Bortolussi. Se includiamo anche le manovre dell’estate scorsa, nota ancora la Cgia, il «peso fiscale medio in capo a ciascuna famiglia italiana, sarà  pari a circa 8.200 euro» in tre anni. Ovvero 2.700 euro l’anno.
AUTUNNO CALDO
Ad oggi «le famiglie italiane non hanno ancora subito nessun serio contraccolpo economico, avendo già  pagato in media poco più di 500-600 euro», spiega Bortolussi.
«Praticamente solo il 7% della cifra totale che dovranno sborsare in questo triennio. La mazzata arriverà  verso la fine dell’anno».
Se non si provvede altrimenti (con la spending review), dal primo ottobre le due aliquote Iva del 10 e 21% saliranno di due punti (e dello 0,5% dal primo gennaio 2014), con effetti disastrosi sui consumi e sui redditi.
A dicembre, poi, c’è il salatissimo conguaglio Imu, l’imposta sugli immobili che vale 21,4 miliardi totali nel 2012 sarà  più alta della vecchia Ici (le rendite salgono del 60%).
Ed ora i sindaci potranno raddoppiarla, se vogliono, per finanziare le opere pubbliche con l’Imu-bis.

Valentina Conte
(da “la Repubblica”)

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Il PIANO DEL GOVERNO PER TAGLIARE LA SPESA: DIFESA, ESTERI E INTERNI FRENANO

Aprile 22nd, 2012 Riccardo Fucile

L’OBIETTIVO E’ RIDURRE LE USCITE DELLO STATO DI 20-25 MILIARDI DI EURO: ACQUISTI ACCENTRATI, MENO ENTI INUTILI, RISPARMI SULLA SANITA’ E RAZIONALIZZAZIONE DEGLI IMMOBILI

Manca una manciata di giorni alla presentazione della prima relazione sulla spending review , la revisione della spesa pubblica cui il governo Monti attribuisce nel Def (Documento economico e finanziario) «un ruolo fondamentale» per la riduzione dell’indebitamento.
Ma quell’operazione di contenimento e riqualificazione della spesa, che il premier si propone di offrire quale segnale di forte cambiamento, fatica a venire alla luce.
Nel confronto serrato di un paio d’ore che il premier ha avuto venerdì scorso con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, incaricato del risanamento, sarebbero emersi problemi di non poco conto, certuni legati alle fortissime resistenze opposte da alcuni ministeri, meno propensi a rivedere il costo dei loro apparati.
Tra le righe dei documenti illustrati da Giarda, sarebbe venuta a galla anche un’altra verità  complessa, che attiene ai tagli varati nei passati tre anni e che dovrebbero produrre i loro effetti nel 2012 e 2013.
Interventi che hanno riguardato il blocco degli stipendi pubblici e quello parziale delle assunzioni, la riduzione della spesa sanitaria, il taglio degli acquisti di beni e servizi e anche la cancellazione o la forte riduzione di programmi di finanziamento di enti e soggetti esterni alla Pubblica amministrazione.
Tagli che, dal 2009 al 2013, attestano la spesa annuale a un livello costante: 727 miliardi di euro al netto degli interessi, un livello che lo stesso Giarda ha definito «senza precedenti nella storia della Repubblica».
Tali previsioni però, risultando in alcuni casi troppo ottimistiche, costringerebbero il governo a utilizzare la revisione della spesa per compensare i tagli previsti ma attuati solo in parte, per evitare nuovi scostamenti tra i saldi di bilancio effettivi e i saldi programmatici.
«La spending review è un’operazione complicata alla quale sto lavorando pressochè da solo e quasi a titolo personale» ha spiegato qualche giorno fa Giarda in un’intervista, tradendo preoccupazione e qualche insofferenza.
Che nascerebbe anche dalla difficoltà  di approccio con alcuni ministri, restii a mettere mano alle forbici, come richiesto.
Al momento hanno inviato propri dati e analisi i dicasteri della Giustizia, degli Interni, dell’Istruzione, della Difesa e degli Esteri.
Questi ultimi, ad esempio, avrebbero opposto un netto rifiuto a operare una riduzione dei costi, argomentando che la contrazione delle risorse attuata fin qui è ormai giunta al limite.
Al punto che gli stanziamenti previsti per la stipula di accordi sono diminuiti tanto da determinare spesso l’impossibilità  di ratificare molti accordi internazionali, anche quando richiedono importi minimi.
Ma, come emerge dal «Rapporto sullo stato di attuazione della riforma della contabilità », il nucleo di analisi e valutazione della spesa del ministero guidato da Giulio Terzi di Sant’Agata, rileva che, a fronte di questa riduzione drastica di fondi, non si coglie il necessario sforzo di razionalizzazione delle spese inutili.
Per fare un esempio, non si riesce ancora a evitare che i documenti contabili dalle sedi estere vengano inviati in forma materiale, onde per cui le spese relative continuano a aumentare. Anche il ministero degli Interni, guidato da Annamaria Cancellieri, sarebbe apparso restio a ritoccare la propria struttura, ad esempio, riducendo il numero delle Prefetture o razionalizzando le spese per le carceri.
Quanto al ministero della Difesa, il generale Giampaolo di Paola, sarebbe rimasto freddo rispetto alle richieste di comprimere alcune spese di apparato, come quelle di sorveglianza del territorio che in alcuni casi apparirebbero come una duplicazione del servizio svolto da altri corpi, o quelle delle caserme.
Tutte rigidità  che irriterebbero Monti e che qualcuno tra i ministri arriva a definire «corporative», spiegandole con l’eccessiva identificazione di alcuni colleghi con il dicastero che guidano e alle cui dipendenze, in alcuni casi, hanno precedentemente operato.
Ma il vero problema della spending review , a parere di Monti e anche di altri ministri che mordono il freno, come quello dello Sviluppo economico, Corrado Passera, sarebbe più complessivo e riguarderebbe i traguardi da porsi con l’operazione, che dovrebbero essere molto più ambiziosi di quelli indicati da Giarda, e produrre qualcosa come 20-25 miliardi di risparmi strutturali.
Si tratterebbe di un totale cambio di filosofia che comporterebbe, ad esempio, il mettere mano alla sovrapposizione dei sistemi informatici diversi tra Ministeri, Regioni e Comuni, che servono solo a moltiplicare gli appalti e le relative spese.
C’è anche l’incredibile costo degli affitti, dell’ordine di 10-12 miliardi, che si potrebbe tagliare se solo si andassero a occupare i tanti immobili pubblici attualmente sfitti, o se si accorpassero le sedi di alcune amministrazioni.
C’è chi sostiene che un’operazione simile potrebbe fruttare risparmi nell’ordine di 3 ma anche 5 miliardi.
E poi ci sarebbero altri 4-5 miliardi recuperabili se, invece che puntare esclusivamente alla soppressione delle Province, ormai diventata una battaglia di bandiera, si mettesse mano alla miriade di soggetti di spesa come le Comunità  montane, le Autorità  di bacino, i Consorzi vari che, oltre a incidere sui conti pubblici, si inseriscono nei procedimenti amministrativi, producendone l’infinito allungamento.
Ancora, c’è il capitolo intonso delle spese della Sanità , dove bisognerebbe agire attraverso accordi-quadro in modo da uniformare i costi sul territorio di tutti i beni che vengono acquisiti: da quelli meno costosi, come una siringa, a quelli più complessi, come gli apparecchi medici.
In tutto questo non vi è chi non comprenda che un ruolo dovrebbe giocarlo prima di tutto il ministero dell’Economia, attraverso il contenimento della spesa per acquisti di beni e servizi che nel 2011 ha ammontato a 136 miliardi, rimanendo sostanzialmente in linea con i costi del 2010, solo grazie agli effetti di contenimenti varati nell’ultimo biennio.
Ma l’obiettivo cui Monti punta è molto più consistente: si tratterebbe di allargare il raggio di azione della Consip, centralizzando il più possibile gli acquisti e riducendo gli sprechi.
Un obiettivo considerato possibile se la struttura del Tesoro intendesse metterlo davvero a fuoco.

Antonella Baccaro
(da “La Repubblica”)

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