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MEGLIO NASCERE FORTUNATI (E RIXI)

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

“IL CANDIDATO SINDACO LEGHISTA DI GENOVA RIXI AFFITTA CASA A FINCANTIERI” TITOLAVA IERI IL SECOLO XIX SOTTO IL TITOLO “PATRIMONI, QUELLO CHE I CANDIDATI NON DICONO”… VEDIAMO QUALCHE ALTRA STRANEZZA DELL’IMMOBILE DI SALITA INFERIORE CATALDI DI PROPRIETA’ DEL CONSIGLIERE REGIONALE DELLA LEGA

Nei Paesi a democrazia avanzata è ritenuto pregiudizievole per un politico nascondere fatti o darne versioni parziali e inesatte.
Questo negli Stati Uniti e recentemente anche in Europa ha portato al ritiro da cariche di rilievo personaggi politici di primo piano.
Ovviamente questo non vale per i politici italiani che non ci pensano a dimettersi o lo fanno solo quando la polizia bussa alla porta.
Questo vale per i palazzi romani, ma anche per la periferia dell’impero.
Che il candidato sindaco di Genova della Lega avesse qualcosa da nascondere lo avevamo già  segnalato in tempi non sospetti, quando si proclamava modello ed esempio per i giovani genovesi costretti a fare i pendolari su Milano per poter sbarcare il lunario.
Lui che per cinque anni aveva lavorato come funzionario in Regione Lombardia ben sapeva cosa voleva dire fare sacrifici…
Peccato che poi sia stato costretto ad ammettere, a seguito della nostra inchiesta, che era stato per 5 anni dipendente non della Regione Lombardia, ma del Consiglio Regionale della Regione Lombardia (partita Iva distinta), ovvero fosse stato assunto in quota Lega come portaborse con contratto a termine e a chiamata diretta grazie alla sua vicinanza al Cerchio Magico e a Rosy Mauro.
Trattamento privilegiato quindi, con reddito di 38.000 euro annui, grazie al partito che lo aveva fatto assumere a tempo.
Avevamo altresì rilevato che essendo stato nello stesso periodo anche consigliere comunale a Genova e non avendo il dono dell’ubiquità , i molteplici impegni in Comune risultano poco conciliabili con una assidua frequentazione del Pirellone.
Si dà  il caso che ieri il “Secolo XIX” nel contesto di una inchiesta dal titolo “Patrimoni, quello che i candidati non dicono” sia andato a sfrugugliare nelle dichiarazioni   consegnate dagli stessi su invito del quotidiano e abbia sottotitolato “E Rixi affitta casa a Fincantieri”.
In pratica Rixi aveva dichiarato di possedere due immobili di proprietà , di cui uno di 100 mq in salita inferiore Cataldi 14, dato in affitto a 700 euro al mese più spese di amministrazione, omettendo, sicuramente per la fretta di sistemarsi i capelli, di dire che l’inquilino è Fincantieri Spa, proprio quella azienda pubblica di cui Belsito era vicepresidente.
Sicuramente una anomalia, visto che per il ruolo politico di consigliere regionale che ricopre, Rixi forse avrebbe fatto meglio ad evitare di avere un inquilino che può anche rappresentare la controparte in certe trattative pubbliche.
A quando risale il contratto di locazione? Rixi e il Secolo XIX non lo dicono, lo diciamo noi: trattasi di un contratto annuale stipulato il 20/09/2010 (serie 3, nr. 2636) e rinnovato il 15-10-2011 (serie 3 – nr. 8267).
Quindi da due anni Rixi ha affittato un appartamento ammobiliato a una azienda pubblica che si presume l’abbia messo a disposizione di trasfertisti.
Evidentemente Fincantieri quando deve trovare un alloggio non si rivolge a una agenzia immobiliare, ma telefona in via Bellerio chiedendo se qualche dirigente locale ha un appartamento da affittare.
E col passa parola sono arrivati a Rixi. Tramite chi non ci è dato sapere.
Dopo l’articolo del Secolo XIX, ricco di foto che dettagliano l’esterno dell’ìmmobille,   Rixi ha lamentato che diversi cittadini o cronisti avrebbero suonato al campanello dell’appartamento in questione in un clima da caccia alle streghe.
Sinceramente non comprendiamo, visto che l’inquilino è un trasfertista, come abbia fatto Rixi a sapere che hanno suonato alla porta, visto che si presume che il trasfertista in questione sia andato a lavorare e non possa quindi aver passato la mattinata a rispondere al citofono.
Ma dalla foto del Secolo XIX emerge che al portone del civico 14, all’interno 11 vi sono ben tre cognomi: Pramaggiore – Rixi – Cavalli :   e precisiamo che si tratta di pulsantiere incassate con nomi stampati da tempo.
Non di listelle adesive volanti.
Domanda spontanea: chi saranno mai tali Pramaggiore e Cavalli?
Andiamo a vedere chi ha preso in affitto l’appartamento negli anni precedenti: risulta registrato solo un contratto per il 2007 a favore di Paolo Pramaggiore classe 1956 operatore nella Sanità .
Bene, quanto pagava di affitto?
Nulla, contratto registrato in comodato d’uso gratuito.
Che strano: nel 2010 e 2011 si concede a Fincantieri la locazione dell’immobile a 700 euro + 250 di spese di amministrazione, ma nel 2007 l’inquilino non avrebbe pagato nulla.
Almeno a quanto dichiarato alla Agenzia delle Entrate da Rixi.
Il soggetto Cavalli indicato sulla pulsantiera invece non risulta mai essere stato contrattualizzato: forse qualche buontempone di passaggio che voleva vedere il proprio nome stampato avrà  ordinato una targhetta col proprio nome, oltre a quella di Pramaggiore e Rixi, e l’avrà  sostituito arbitrariamente?
O non sarà  stato uno di quei clandestini arrivati sul gommone a cui Rixi è particolarmente affezionato che potrebbe essersi introdotto nel suo appartamento di nascosto?
Fincantieri medita tutta una giornata e poi   in serata spara un comunicato scritto esilarante in cui non chiarisce a quale immobiliare si sarebbe rivolta per “pescare” proprio l’appartamento di Rixi, in compenso attacca “la campagna di stampa” contro l’azienda.
Come se chiedere spiegazioni su come si è arrivati a prendere in affitto un appartamento da un politico costituisse un reato di lesa maestà .
In attesa di nuovi sviluppi, sarebbe opportuno che Rixi rispondesse a un’altra domanda: ha mai avuto rapporti di lavoro con Enti Pubblici al di là  del contratto a termine come portaborse in Consiglio Regionale Lombardo?
In un momento in cui non è nervoso potrebbe anche rispondere.

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VIVERE CON 1.000 EURO AL MESE: ECCO COME AFFRONTA LA CRISI LA META’ DEI PENSIONATI ITALIANI

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

SONO 7,6 MILIONI GLI ITALIANI COSTRETTI A CONTARE I CENTESIMI ANCHE NEL FARE LA SPESA: RISPARMI ZERO… SI TAGLIA SU TUTTO: SPOSTAMENTI, TELEFONO, 34 EURO AL MESE PER VESTIRSI

Il 45,4% dei pensionati italiani arriva a stento a fine mese con un assegno inferiore ai mille euro.
Secondo i nuovi dati Istat-Inps diffusi ieri – ma riferiti al 2010 – quasi 8 milioni di italiani, per lo più anziani, sono costretti a tirare la cinghia, e di questi 2,4 milioni sono sotto i 500 euro mensili.
Una situazione preoccupante, destinata allo stallo per via delle misure di austerità .
La spesa italiana per le pensioni, intanto, sfiora i 260 miliardi, assorbita per il 71 per cento da assegni di vecchiaia e anzianità .
Una spesa che cresce dell’1,9 per cento rispetto al 2009, in attesa dei risparmi innescati dalla riforma Fornero, mentre la sua incidenza sul Pil cala (di poco) al 16,64 per cento.
Due ritirati su tre possono contare su una sola pensione e la metà  dei 16,7 milioni di pensionati ha tra i 65 e i 79 anni.
Ma 234 mila persone intascano più di 4 assegni e 584.500 sono under 40. QUASI la metà  dei pensionati italiani vive con meno di mille euro al mese.
Si tratta di 7,6 milioni di persone (per il 55% donne) costrette a spaccare il centesimo, a partire dalla sempre più magra spesa quotidiana.
E non di rado a fare da “cassa integrazione” per i figli espulsi dal mercato del lavoro. La fotografia, restituita da Istat e Inps, si riferisce al 2010.
Al riparo dunque dagli effetti della riforma Fornero e della rivalutazione negata agli assegni sopra i 1.400 euro (lordi), decisa dal Salva-Italia per quest’anno e il prossimo. Ma altrettanto allarmante.
Com si vive con 1000 euro al mese.
Casa, bollette, spesa. Tre voci che valgono l’80 per cento del bilancio mensile di un pensionato “milleurista”.
I rincari di luce, gas, acqua e rifiuti, ma anche del biglietto del bus in moltissime città  italianee della benzina, mettono a dura prova l’economia domestica di una famiglia monoreddito.
Nelle simulazioni eseguite da Federconsumatori, per stare nei confini dei mille euro, il pensionato deve sperare in un affitto agevolato (enti, case popolari), oppure in un mutuo residuo molto basso. Altrimenti si va sotto, in rosso.
L’Imu e l’incubo fine mese.
L’Imu ora complica il quadro e preoccupa molto i più anziani che non sanno quanto e come pagare. Mentre il capitolo salute è appeso alla speranza di limitare i controlli alla routine.
Risparmi: zero.
Si taglia su tutto: spostamenti, telefono, abiti, scarpe e sempre più anche sul cibo. «Una situazione drammatica, se i nostri pensionati sono costretti a sacrificarsi a tavola», commenta Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori.
Secondo un’altra simulazione curata dal Codacons, riservare almeno 20 euro al mese per i regali ai nipotini comporta tirare sulle spese per la casa (massimo 10 euro), gli acquisiti di riviste, libri e fiori (al più 24 euro), non cenare mai fuori casa, spendere solo 34 euro per vestiti e calzature e limitare a 70 euro gli esborsi per medicine e analisi.
IL quadro totalit�
Nel 2010 in Italia sono state erogate 23,8 milioni di prestazioni a 16,7 milioni di pensionati. E questo perchè un terzo riceve più di un assegno (di solito i titolari di pensioni sociali, invalidità  civili, indennità  varie).
n media un pensionato italiano percepisce 15.471 euro (lordi) all’anno.
Peggio le donne che, pur essendo più della metà  dei ritirati totali (53%), incassano il 70 per cento di quanto riservato agli uomini: 12.840 euro in media, contro 18.435.
La metà  dei pensionati vive al Nord (dove si concentrano molti beneficiari di assegni di vecchiaia), circa un terzo al Sud (dove invece prevalgono i titolari di invalidità  o pensioni sociali), un quinto al Centro.
Non solo anziani
Sette pensionati su dieci hanno più di 64 anni, ma un quarto è trai 40ei 64 annie il 3,5 per cento sotto i 40. Il 42 per cento degli uomini incassa più di 1.500 euro al mese contro un quinto appena delle donne (il resto, l’80 per cento, è sotto quella cifra, più della metà  è sotto i mille euro).
I pensionati “d’oro” sopra i 2 mila euro al mese sono 2,8 milioni.
Molti in un Paese che conta 71 pensionati ogni 100 occupati (erano 74 dieci anni fa).

Valentina Conte
(da “la Repubblica“)

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KARIM E GLI ALTRI, TUNISINI SCOMPARSI SULLA ROTTA DI LAMPEDUSA

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

UNA DONNA LOTTA PER SAPERE CHE FINE HANNO FATTO DECINE DI SUOI CONNAZIONALI, MOLTI DEI QUALI SBARCATI SICURAMENTE IN ITALIA

“Ho il diritto di sapere che fine ha fatto mio figlio. Ditemi se è vivo, dove si trova, come posso aiutarlo. E se è morto non abbiate pietà  di me: ditemi tutta la verità , anche la più terribile per un padre. Almeno io e sua madre potremo piangere e non farci distruggere dalla speranza”.
L’uomo che ci racconta la sua odissea del dolore ci pianta in asso nel mezzo di Piazza della Repubblica a Roma e si allontana per nascondere le lacrime che gli rompono la voce.
Suo figlio è un desaparecido del mare, uno dei 1822 disperati morti tra le onde del Canale di Sicilia nel solo 2011, anno delle primavere arabe e della grande fuga verso l’Europa.
Abbiamo visto le foto di suo figlio Karim Mbarki, una è un fotogramma tratto dal Tg5 e fissa il ragazzo seduto sul bordo di un gozzo tunisino di pochi metri dove sono stipati un centinaio di migranti.
“È lui, questo è Karim”. La barca sta attraccando a un molo, forse quello di Lampedusa, il ragazzo ha gli occhi spalancati su quel pizzo d’Europa.
Accanto a lui altri quattordici ragazzi di Tunisi, tutti del quartiere El Kabaria.
Quella è l’ultima immagine, da allora, 29 marzo 2011, di Karim non si hanno più notizie.
“Mi hanno detto — ci racconta il padre — che dopo lo sbarco lo portarono nel centro di Manduria, sulla terraferma, in Puglia, da allora solo silenzio”
Nackchi Amhed il 14 marzo 2011 decise di lasciare la Tunisia e di tentare la fortuna in Italia. Andò a Sfax, uno dei porti da dove partono le barche dei migranti.
“Con me c’era anche mio fratello, sulla mia barca eravamo già  in 47 e non c’era posto per lui. Implorai lo scafista di farlo salire su un’altra imbarcazione. In mare, di notte, la vedevo la sua barca, era davanti a me. Quando arrivammo a scorgere le prime luci di Lampedusa, i militari italiani ci dissero di dirigerci verso il porto. Ma la barca di mio fratello si fermò, cambiò direzione e puntò verso Mazara del Vallo. Erano le 11 di sera del 15 marzo 2011 e quel maledetto scafista decise di fare altre ore di mare per non farsi prendere dai poliziotti italiani. Era ricercato. Vedevo la barca di mio fratello allontanarsi, ero disperato, sapevo che da quel momento sarebbe stato solo. Non potevo più aiutarlo. È stata l’ultima volta che l’ho visto, solo dopo ho saputo che dalla barca chiamò nostra sorella col cellulare. Poi basta: quelle sono le ultime notizie che abbiamo di lui”.
Nackchi ci mostra le foto di suo fratello-fantasma. Il volto è quello di un ragazzo di 25 anni, allegro, pieno di una vita che voleva rendere migliore.
La famiglia di Ahmedben Hassine, 25 anni, si è sempre opposta al regime del dittatore Ben Alì e della sua voracissima tribù di familiari, notabili e cortigiani.
Hassine, ingegnere tessile, fin dai tempi dell’università  è un attivista politico. Viene arrestato e torturato dai miliziani di Ben Alì. “Gli hanno distrutto la vita”, racconta il fratello.
“Per questo anche noi familiari lo convincemmo a fuggire e a tentare di arrivare in Europa”. Il 9 novembre 2010 il giovane ingegnere tessile, insieme con altri cinque attivisti dell’opposizione della zona di Biserta, si imbarca su un fuoribordo di sei metri, il 13 arrivano sulla costa di Lampedusa, qui vengono identificati e poi trasferiti a Porto Empedocle.
“Una nostra amica italiana — continua il fratello — è andata a cercarlo, la polizia italiana non le ha dato notizie. In compenso l’hanno fermata e identificata. Io sono stato arrestato dalla polizia tunisina. Sono certo che mio fratello è vivo, ma nessuna autorità  è in grado di darci notizie precise. Le ultime cose che sappiamo di lui sono di mesi fa, quando ci hanno detto che era stato portato nel carcere di Caltanissetta. Da allora è il buio più completo”.
Storie di disperazione che Rebeh Kraiem, tunisina di Kerouan immigrata in Italia, ha messo insieme in un dossier e che sono al centro della sua battaglia.
“Le famiglie di questi ragazzi sono disperate — ci dice — e hanno il diritto di sapere. Lo scorso 19 aprile nel quartiere di El Kabaria una mamma si è data fuoco per protesta perchè da mesi chiede notizie sulla sorte del figlio partito suunabarcaperLampedusa”. Re-beh ha raccolto foto e storie dei desaparecido, dopo mesi di sit-in sotto l’ambasciata tunisina e i consolati di Palermo e Roma ha avuto le impronte digitali degli scomparsi.
“Tutti quelli che erano su una barca con 47 persone e su un’altra che ne portava 67. Vogliamo che le autorità  italiane si sveglino e ci diano risposte perchè non è possibile che in un Paese civile come l’Italia si possa sparire così”.
Quando chiediamo a Rebeh se l’ambasciata tunisina la sta aiutando, ci risponde con una smorfia: “Ci hanno respinto. Le vostre facce non ci piacciono, questo ci hanno detto”.
I familiari dei desaparecido non sono soli, ieri l’Arci ha presentato una denuncia contro ignoti per la scomparsa di 270 migranti, sottolineando la mancanza di risposte delle autorità  tunisine e di quelle italiane.
Intanto Rebeh srotola il suo striscione di protesta in Piazza della Repubblica.
A terra espone le foto degli scomparsi. Ahmed, Karim, Abel… spariti nel mare di un’Europa indifferente.

Enrico Fierro
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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SI SPEZZA L’ASSE TRA DI PIETRO E GRILLO: “VUOLE SFASCIARE TUTTO”, “SONO SBIGOTTITO”

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

L’EX PM ATTACCA IL MOVIMENTO 5 STELLE: “NOI FACCIAMO PROPOSTE CONCRETE CHE VANNO OLTRE LA MERA PROTESTA”

Un «vaffa» anche a Di Pietro.
Beppe Grillo lo mette sul blog, perchè si è sentito insultato dall’amico: «Le parole di Tonino mi lasciano sbigottito. Spero sia stato un lapsus. Da lui, proprio da lui non me l’aspettavo».
E online si scatena un putiferio di grillini, che apprezzano la reazione di Beppe e al leader di Idv mandano a dire cose del tipo: «… finchè eri tu che appoggiavi me, eri una bravissima persona, ma ora che mi fai concorrenza…».
E anche di più pesanti.
Lo scontro si scatena dopo un’intervista di Di Pietro: Grillo, dice, «è uno che mira a sfasciare e basta, mentre io critico ma voglio costruire un’alternativa, lanciare un modello riformista e legalitario».
Dopo, è un crescendo: le frasi dure sul blog di Grillo (accanto al cappio all’euro, moneta da cui «dobbiamo uscire, non possiamo permettercelo»); la replica di Di Pietro («L’amico Grillo è fuori luogo, non gli hanno riportato bene le mie frasi però noi di Idv andiamo oltre la protesta e facciamo proposte concrete»).
Eppure i due erano tanto amici.
Il “no Cav day” di piazza Navona nel 2008 li aveva visti insieme, anche se Grillo aveva fatto il suo show in collegamento telefonico,e Di Pietro poi aveva preso le distanze dagli insulti a Napolitano.
Grillo ora è contro tutti. E tutti sono contro Grillo.
Il suo “Movimento 5 Stelle” cresce continuamente nei sondaggi. Lui alza ancora il tiro contro Napolitano: «È un presidente anticostituzionale». (Di Pietro fa sapere che anche Idv aumenta i consensi, avendo sfiorato il 9,5%).
Il 25 aprile il comico aveva detto tra l’altro che i partigiani, di fronte a tanto deserto, avrebbero forse imbracciato di nuovo le armi. Bersani s’indigna.
«Grillo non si permetta di insultare Napolitano – avverte il segretario democratico – e non si azzardi a dire cosa farebbero i partigiani, che saprebbero cosa dire dell’Uomo Qualunque».
Il capo dello Stato l’altroieri aveva fatto un riferimento al «demagogo di turno», citando proprio “l’Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini.
Di Pietro infine esorta Grillo: «Voglio metterci l’uno contro l’altro, non cadere nel trabocchetto».
Si sente, il comico, sicuro delle sue mosse.
Nel comizio serale nella “rossa” Budrio, nel bolognese, contrattacca al suo solito modo: «Ci stanno accusando di essere populisti e demagoghi, ma non riesconoa venirne fuori.I partiti si stanno suicidando da soli».
Aggiunge che il “Movimento 5 stelle” «non vuole sostituirsi ai partiti: quando fanno i sondaggi e chiedono alla gente chi voterebbero tra centrodestra e centrosinistra, il 99% delle persone li manda affanculo… noi siamo il primo movimento di cittadini d’Europa».
Il vento dell’antipolitica soffia e spinge le vele grilline.
È una forza d’urto contro cui i partiti si attrezzano: anche la corsia celere sul dimezzamento dei finanziamenti ai partiti, voluta da Bersani e su cui c’è un intesa con il Pdl, è un antidoto.

Giovanna Casadio
(da “La Repubblica“)

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“QUESTA LEGA FA RIMPIANGERE LA VECCHIA DC”: PAROLA DEI SERENISSIMI

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

PARLANO I “PATRIOTI DEL VENETO LIBERO” CHE 15 ANNI FA FURONO GLI AUTORI DEL BLITZ IN PIAZZA SAN MARCO CON UN VECCHIO BLINDATO: “BOSSI CI ATTACCO’ PERCHE’ LA NOSTRA IDEA LO IMPAURIVA”

Una strada di pioppi nel buio, oltre le magnifiche mura guelfe di Montagnana. Lontano, le luci dei Colli Euganei e, più oltre, il grande nulla della Bassa padovana e del Polesine verso la foce dei fiumi del Nord, là  dove Brenta, Adige e Po creano un immenso spazio franco che non è acqua nè terra nè Veneto nè Emilia.
E forse nemmeno Italia. In fondo a quella strada, una villetta con giardino con accanto un garage. Dentro, un’ombra dal forte odore di ferro e vernice, simile a quella di un trattore, ma più compatta.
E’ il “blindato serenissimo” che quindici anni fa, il 9 maggio, sbarcò davanti alle Procuratie per assaltare il campanile di San Marco e innalzarvi la bandiera col leone di Venezia.
È tornato a casa, nel nido dove nacque, il “tanko” del kommando che quella notte mandò in tilt l’intero sistema di sicurezza dello stato unitario, facendo volare nel mondo la rivendicazione di un Veneto autonomo.
E’ di nuovo lì, con le sue dodici tonnellate e la targa “VT MB”, veneto tanko Marcantonio Bragadin; lì dove venne costruito segretamente in un capanno in mezzo alla pianura, lontano da occhi indiscreti.
Sono passati gli anni, tutti i tredici imputati hanno scontato le condanne inflitte per direttissima, molti di loro si sono divisi, il venetismo stesso sembra andare in frantumi nel patatrac della frana leghista, ma il nucleo degli irriducibili è rimasto, fedele alla sua idea, attorno a quel simbolo e quella bandiera.
Rieccoli, nel buio della piana veneta, Flavio Contin e suo nipote Christian, rispettivamente il “vecio” e il “bocia” del gruppo.
Riecco Gigi Faccia, il duro, la mente del kommando, l’ideologo del Veneto autonomo. Con loro, attorno a una bottiglia di bianco euganeo detto Serprino, anche Ettore Beggiato, segretario dell’Unione Nordest in consiglio regionale, che quindici anni fa suonò la campana della solidarietà  per i “parioti” in galera, raccogliendo in pochi mesi duecento milioni di lire dalle mani del popolo veneto.
Rieccoci a ragionare con loro di quei giorni straordinarie anche del futuro dell’idea, sotto una riproduzione della famosa tela sulla battaglia di Lepanto esposta nel duomo di Montagnana.
Ce l’hanno con Roma, ovviamente, che ha riscritto la storia gloriosa della repubblica veneta, degradandola a “repubblichetta dedica al vizio e a eterni carnevali”. Ma gli ultimi Serenissimi ce l’hanno soprattutto con la Lega che, con la fanfaluca della Padaniae della secessione, ha distolto il popolo dalla battaglia – assai più praticabile – per l’autonomia del Veneto.
Non dimenticano che gli uomini di Bossi squalificarono il commando come “brigata mona” e il Senatur bollò l’assalto come operazione “dei servizi segreti e della mafia” mirata a impedire la nascita della Padania.
Non dimenticano, e non nascondono la soddisfazione nel vedere in queste settimane il crollo dei lumbard e di un sistema di occupazione del potere che “fa rimpiangere la vecchia Dc”.
“Purtroppo il senso di quell’operazione l’hanno capito primai nostri nemici chei veneti” spara il vecchio Contin, elettricista di 69 anni, scapolo dalla parlantina incontenibile.
“Lo stato centralista ha fiutato subito il senso dell’assalto, ha intuito che la bandiera di San Marco era più pericolosa del blindato, perchè metteva in discussione l’assetto del Paese”. Ma anche Bossi seppe annusare l’aria. Capì che l’azione metteva in forse la sua leadership nella Lega.
“Per questo – spiega – ci attaccò. Aveva la fobia della bandiera veneta. Sapeva che la forza della nostra idea era superiore a quella padana, perchè radicata in una storia reale, fatta di buon governo, di giustizia e forza economica”.
Ma torniamo a quei giorni febbrili del maggio 1997.
“La polizia ci controllava da un mese e mezzo – racconta Gigi Faccia – da quando avevamo cominciato a mandare messaggi di rivendicazione sulla frequenze Rai, interferendo sui programmi. Si aspettava qualcosa, senza avere idea esattamente di cosa. L’effetto sorpresa era saltato da tempo, ma noi sapevamo che l’allerta delle forze dell’ordine era tutta sull’11 maggio, data del duecentenario della caduta della Repubblica veneta per mano napoleonica, e così decidemmo di spiazzarli anticipando l’assalto al giorno 9. E loro, quando si trovarono di fronte al nostro blindato, andarono in panico. Furono presi così di sorpresa che pensarono che una parte dell’esercito si era ammutinato”.
Il vecchio Contin cerca in un monte di ritagli di giornale e volantini sull’assalto e il processo.
“Guardi qua: i media ci hanno chiamati ubriaconi, poveracci, scemi. Ma la gente nella campagne aveva capito il senso del nostro gesto. Era una rivendicazione di identità . Era il nostro modo di dire che, se togli la storia alla gente, crei spaesati. Vede, noi di campagna abbiamo il senso del territorio e dell’appartenenza. Questa società  dove tutto è meticcio ci inquieta, perchè fa saltare i valori. Sappiamo che senza radici si diventa orfani, anche coni genitori”.
Faccia ribadisce: “Se invece di violentare la storia l’Italia fosse nata federale accettando le sue diversità , saremmo diventati una Svizzera al cubo e avremmo evitato l’obbrobrio di oggi”.
Tira vento, i pioppi si agitano nel buio, sembrano dire che anche l’industriosa terra serenissima ha paura. La crisi ha seminato diffidenza, generato ondate di suicidi fra i padroncini e spinto i giovani verso la rabbia o l’assenteismo.
La famiglia, fondamento dell’iperflessibile modello veneto, è anch’essa in crisi, scardinata dalla sub-cultura dell’effimero.
Potenzialmente, la situazione è ancora più incendiaria che ai tempi dell’assalto al campanile perchè oggi c’è in più la prospettiva di una saldatura fra i nuclei duri dell’identità  e la rabbia dei centro sociali.
Già  dopo la Grande Guerra il capo del governo Luzzatto scrisse che esisteva il “pericolo di un’Irlanda veneta” perchè i territori “più sobri nel chiedere” potevano trasformarsi in “ribelli della disperazione”.
E oggi? Cosa penserebbe la gente comune di una nuova ondata di rivendicazioni autonomiste nel segno di San Marco?
Per Beggiato oggi la solidarietà  che circondò l’assalto e il processo pare difficilmente replicabile. “Quando feci la colletta per i Serenissimi – ricorda – venne una vecchietta che mi mise in mano metà  della sua pensione. Mi vengono i brividi a pensarci. Difficile che cose simili avvengano in questa società  frantumata”.
In ogni caso, tutto vogliono gli irriducibili del maggio ’97, tranne che il loro blindato, grimaldello-simbolo di un nuovo patto fra le Italie, diventi folclore di paese, oggetto di curiosità  da baraccone. Per questo non lo mostrano volentieri e preferiscono farlo dormire in fondo a un disadorno capannone, come una reliquia nella sua cripta.
Nemmeno di Luca Zaia hanno fiducia, i Serenissimi.
Zaia, il superpresidente padano del Veneto, che ammira Napoleone Bonaparte, affossatore della Repubblica di San Marco, e si genuflette ancora davanti a Bossi chiamandolo “capo”.
No, la Lega no, perchè col suo “inciucio” con Berlusconi non ha concluso nullae ha squalificato persino la parola “federalismo”, troppo urlata e quindi svuotata di significato.
Oggi, in questa terra bruciata dalla malapolitica, davanti al crollo di un sistema, non se la sentono di portare avanti nient’altro che la storia, il richiamo alle radici.
“Dobbiamo riscoprire i grandi valori di quella che fu la nostra repubblica”, proclama il duro Gigi Faccia. “Altro non resta”.
Ed enumera, a pugni chiusi, i capisaldi della Serenissima.
Giustizia rapida, umana ed efficiente, cura del territorio, proibizione dei monopoli, punizione severa delle sofisticazioni alimentari, tutela severissima dei brevetti. Cose che oggi sarebbero più necessarie di ieri.
Ma soprattutto, conclude, la repubblica veneta aveva inculcato “il senso dello Stato e della cosa pubblica”, oggi scomparsi dall’orizzonte mentale. Magari non era tutto oro ciò che brillava, ma crederci fa bene. E fa bene ripensare a quei giorni “grandi”, quando c’era qualcosa di forte in cui credere.
“Lavorando notte e giorno ogni fine settimana ci passava la rabbia per la politica”, ghigna il “vecio” Contin.
Un magnifico gioco, col segreto da tenere, le riunioni in posti sempre diversi, le trasmissioni clandestine, la certezza della condanna, il patto di non scoprire i complici (che poi non fu mantenuto).
E poi quel blindato, fatto in anni di lavoro, che quella notte a Venezia fece più effetto di una piazza piena e volò con la sua immagine fino agli antipodi.
“Fu una grande operazione mediatica anche per la città , e la dimostrazione fu che il sindaco Cacciari ci chiese 200 milioni di danni, ma poi fece mettere il tanko nel sito turistico di Venezia.
Non è ipocrisia questa?”.

Paolo Rumiz
(da “La Repubblica“)

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FIRME FALSE: INDAGATO IL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI MILANO PODESTA’ (PDL)

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

CONTESTATO IL REATO DI FALSO IDEOLOGICO: SAREBBE STATO IL PROMOTORE DEL TAROCCAMENTO DELLE FIRME NECESSARIE ALLA PRESENTAZIONE DELLE LISTE ALLE AMMINISTRATIVE DEL   2010
Nuovi guai per il Popolo delle Libertà  in Lombardia. Guido Podestà , attuale presidente della Provincia di Milano, è indagato per il pasticcio della presentazione delle liste elettorali del partito alle amministrativo del 2010.
Ad annunciare di aver ricevuto questa mattina un avviso di garanzia e di chiusura delle indagini è stato lo lo stesso Podestà ,   che all’epoca era il coordinatore regionale, con una nota sul suo sito, precisando che quanto agli atti “non ha nulla a che fare con l’attività  istituzionale e di amministrazione della Provincia”.
Gli inquirenti considerano Podestà  il “promotore” del reato: ovvero falso ideologico continuato e pluriaggravato.
Quello delle firme false è il secondo capitolo della vicenda su cui stava indagando la Procura di Milano sulle liste per le elezioni amministrative del 28 e 29 marzo 2010. Nel fascicolo erano già  indagati, a vario titolo, quindici rappresentanti del PdL, per lo più consiglieri provinciali e comunali, che avevano certificato l’autenticità  delle firme consegnatigli da Clotide Strada, vice responsabile del settore elettorale del PdL in Lombardia, nonchè collaboratrice della consigliera regionale lombarda Nicole Minetti.
In questo stralcio è finito il nome di Podestà  che secondo l’accusa che avrebbero quindi ordinato l’operazione di falsificazione delle firme.
Non perchè il partito non fosse in grado di raccogliere le firme, avendo un bacino di elettori amplissimo in Lombardia, ma solo per sciatteria e forse per la necessità  di aggiungere nello listino bloccato nomi dell’ultima ora.
La chiusura indagini della prima parte dell’indagine del procuratore aggiunto Alfredo Robledo porta la data del 17 ottobre e l’ipotesi   accusatoria è che che siano state falsificate molte firme e precisamente 608 per le elezioni regionali, per cui era candidato alla poltrona di governatore Roberto Formigoni, e 308 per le provinciali, per cui era candidato proprio Podestà .
Le firme erano necessarie per la presentare la lista regionale “Per la Lombardia ” e quella provinciale “Il popolo della Libertà  — Berlusconi per Formigoni”.
La maggior parte dei presunti sottoscrittori, che sono stati ascoltati dagli investigatori dell’Arma dei Carabinieri, non hanno riconosciuto le loro firme oppure hanno dichiarato di averle apposte, ma per altre liste elettorali.
A dicembre infine il procuratore aggiunto Alfredo Robledo aveva interrogato alcuni degli indagati, ma quei verbali erano stati segretati. In uno di questi ci sono le dichiarazioni che hanno messo nei guai anche Podestà , in particolare proprio quelle di Clotilde Strada, responsabile della campagna raccolta firme.

Giovanna Trinchella
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL LEGHISTA PINI SOTTO INCHIESTA A FORLI’: “RIMPATRIO’ 400.000 EURO DA SAN MARINO”

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

IL LEADER MARONIANO DEL CARROCCIO IN ROMAGNA DOVRA’ RISPONDERE AI MAGISTRATI DI EVASIONE FISCALE E APPROPRIAZIONE INDEBITA AGGRAVATA

E’ un convinto maroniano, sostenitore come l’ex ministro dell’Interno della necessità  di “pulizia, pulizia, pulizia” e si era scagliato anche contro l’ex capogruppo alla Camera della Lega Nord, Marco Reguzzoni, che doveva “giustificare come cavolo sono stati spesi 90mila euro in un anno con la carta di credito del gruppo parlamentare”).
Gianluca Pini, deputato romagnolo e leader regionale del Carroccio, è ora finito sotto inchiesta per appropriazione indebita e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposta.
La prossima settimana sarà  interrogato a Forlì dal capo della Procura Fabio Di Vizio e dal sostituto Sergio Sottani.
Pini, secondo l’accusa, ha usato lo “scudo fiscale” per far rientrare in Italia dalla Repubblica di San Marino 400mila euro precedentemente sottratti al fisco.
Peraltro fu tra i parlamentari che in Parlamento votarono a favore dello “scudo fiscale”, a suo tempo.
L’inchiesta della Procura forlivese è partita dal mirino dell’Uif-Bankitalia e potrebbe essere legata alle manovre societarie per le quali l’Agenzia delle Entrate lo ha denunciato.
Secondo quanto emerso finora i soldi rimpatriati provenivano dalla banca sammarinese Ibs.
I 400 mila euro sono stati subito reinvestiti in obbligazione dei una banca emiliana. Il sospetto degli inquirenti è che si tratti di un patrimonio sottratto alla Nikenny Corporation, società  di cui Pini è azionista di riferimento con il 40% del capitale.
La Nikenny, in liquidazione, ha iscrizioni a ruolo per oltre 2 milioni di euro per omessi versamenti di Ires, Irap e Iva.
L’import di caffè dalla Malesia, settore dell’azienda, è stato trasferito a una nuova azienda in mano all’onorevole (la Golden Choice Europe).
Insomma l’onorevole leghista avrebbe ideato «un’architettura operativa — secondo l’Agenzia delle Entrate — per depauperare Nikenny», esposta per 2 milioni con l’Erario, «e trasferire l’operatività  a Golden Choice, priva di esposizione debitoria e fiscale».
L’ipotesi, in definitiva, è di una cessione d’azienda (o di ramo d’azienda) dissimulata e dunque Pini sarà  corresponsabile del debito con il fisco.
Da qui l’invio del rapporto che ipotizza la «sottrazione fraudolenta”.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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BELSITO AI GIUDICI: “BOSSI SAPEVA TUTTO”

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

L’EX TESORIERE PARLA DI INVESTIMENTI…LA LEGA LO QUERELA PER IL DOSSIER SU MARONI…DA BOLOGNA NUOVE ACCUSE SULLA FALSIFICAZIONE DELLE SPESE ELETTORALI

Più che un interrogatorio, un vero e proprio monologo.
Con Francesco Belsito, il plurindagato ex tesoriere del Carroccio, che ha spiegato – venerdì scorso, nella caserma del Nucleo di polizia tributaria di via Filzi -, ai pm di Milano, Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano, la sua versione sullo scandalo dei fondi elettorali della Lega, in parte spariti, in parte investiti all’estero con meccanismi poco chiari.
Ma, soprattutto, con un atteggiamento molto preciso sul coinvolgimento dei vertici di via Bellerio sulle sue “uscite”.
E senza che i pm lo incalzassero, l’ex tesoriere indagato a Milano per truffa e appropriazione indebita, ha anche spiegato come ogni investimento “fosse a conoscenza del segretario Umberto Bossi”.
Minime, secondo questa versione, le sue responsabilità .
Addirittura nessun illecito per gli acquisti dei diamanti, operazione che secondo le parole dello stesso ex tesoriere lumbard, non sarebbe stata effettuata utilizzando i suoi conti bancari.
Una tesi che, però, non avrebbe convinto a pieno i tre magistrati impegnati nell’inchiesta milanese, che da giorni stanno tentando di rimettere a posto tutte le tessere del complicato rompicapo nella gestione dei fondi della Lega nord.
Sui magistrati di Milano interviene Bossi: “Stanno coprendo qualcuno. Noi siamo sotto attacco perchè sfidiamo lo Stato. Ma non si illuda chi pensa che la lega scomparirà “.
L’accusa più pesante che coinvolge Belsito è quella di riciclaggio.
Ieri, dal primo pomeriggio fino a sera, in una caserma della Dia di Milano, con al fianco i suoi avvocati, Alessandro Vaccari e Paolo Scovazzi, l’ex tesoriere ha dovuto rispondere alle domande del pm di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo.
Spiegando, soprattutto, le motivazioni che lo hanno spinto a mettere nelle mani di un uomo in odore di ‘ndrangheta, il denaro del suo ex partito.
Ma i guai sembrano solo appena iniziati.
Infatti, sempre ieri, la Lega ha dichiarato apertamente guerra a chi, fino a poche settimane fa, ha gestito i milioni di finanziamenti pubblici (solo 18 quelli ottenuti ad agosto).
In questo caso, la denuncia è partita per il presunto dossier che Belsito avrebbe confezionato nei confronti di Roberto Maroni, ma fino a oggi mai emerso nell’inchiesta.
Intanto, si è presentato in procura Alberto Veronesi, ex leghista di Bologna che aveva denunciato già  due anni fa alla procura della sua città  i meccanismi messi in atto “per falsificare spese elettorali e rendiconti”.
Nell’esposto di una decina di pagine con 14 allegati di documentazione, consegnato ieri a Milano alla Guardia di Finanza, Veronesi punta il dito contro Nadia Dagrada, segretaria amministrativa della Lega Nord.
Era lei, si legge nel documento, ad “apporre delle “correzioni” al prospetto spese, indicando modalità  di spese che apparivano anomale o irregolari, financo specificando come alcune di esse dovessero essere effettuate in contanti senza lasciare traccia”. Veronesi parla dell'”escamotage del versamento sul conto corrente del partito di Reggio Emilia che avrebbe provveduto a pagare le spese elettorali, mentre le fatture venivano poi intestate alla Lega Nord di Milano”.
Per Veronesi sarebbero la prova di un sistema di “false redazioni di rendiconti”.
“Già  nel 2010 – scrive – questi rilievi erano certamente a conoscenza degli organi di controllo della Lega Nord, perchè inviati per raccomandata al Consiglio federale composto tra gli altri dagli allora ministri Bossi, Calderoli, Maroni e dagli allora sottosegretari Giorgetti e Belsito e Alessandri”.

Sandro De Riccardis e Emilio Randacio
(da “La Repubblica“)

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TUTTE LE SPESE FOLLI DELLE REGIONI: MAGGIORI USCITE DEL 75% IN DIECI ANNI IN NOME DELL’AUTONOMIA

Aprile 27th, 2012 Riccardo Fucile

PRIVILEGI, SPRECHI E BILANCI COLABRODO DA NORD A SUD

«Ben 454 mila euro per la Zelkova!». Letta la notizia, i siciliani hanno pensato: «Deve essere una slava del giro delle Olgettine».
Macchè: è una pianta rara che la Regione vuol tutelare iniziando con l’assumere («appurata l’esiguità  di personale in organico»: sic) un consulente da 150 mila euro.
Fulgido esempio di come le Regioni, in nome dell’autonomia, siano spesso sorde agli appelli a stringere la cinghia.
Scrive Raffaele Lombardo sul suo blog che quella varata giorni fa «è una finanziaria di straordinario rigore». Sarà … Ma certo gli stessi giornali isolani denunciano da settimane come l’andazzo sia sempre lo stesso.
Ed ecco la decisione di salvare il Cefop (uno dei carrozzoni della «formazione professionale» che da decenni ingoiano da 250 a 400 milioni l’anno dando lavoro a circa ottomila formatori pari al 46% del totale nazionale) seguendo il modello Alitalia con la creazione d’una «bad company» su cui caricare i debiti pari a 82 milioni per dare vita a una nuova società  «vergine » da sfamare subito con altri 29 milioni e mezzo.
Ecco la scelta di chiedere al governo di usare 269 milioni di fondi Fas (destinati alle aree sottosviluppate) per tappare una parte della voragine sanitaria.
Ecco l’idea di accendere un nuovo mutuo da 500 milioni.
Ecco la delibera che autorizza i Comuni, nel caso siano in grado di farsene carico (aria fritta elettorale: le casse comunali sono vuote) ad assumere 22 mila precari in deroga ai divieti nazionali.
E via così.
Fino alle storie più stupefacenti, come quella di Zorro, il vecchio cavallo donato dal governatore a Villa delle Ginestre, dove curano i pazienti con lesioni spinali, perchè sia usato per l’ippoterapia e messo a pensione a 2.335 euro al mese (il doppio di quanto costa il trattamento di un purosangue compresa la fisioterapia in piscina…) senza che ancora sia stata comprata, per i malati, manco la sella.
Passi lo Stretto risalendo verso nord e leggi sul Corriere di Calabria che Pietro Giamborino, dopo una sola legislatura da consigliere regionale, è appena andato in pensione a 55 anni (rinunciando al 5% del vitalizio), dopo che milioni di italiani hanno visto allontanarsi il giorno dell’agognato ritiro dal lavoro fino a 67 anni.
O che per le «spese di rappresentanza» del presidente dell’assemblea regionale Francesco Talarico sono stati stanziati per il 2012 la bellezza di 185 mila euro.
Più del doppio di quanto costò ai tedeschi nel 2006, sotto quella voce, il presidente della Repubblica Horst Kà¶hler.
Risali ancora verso nord e scopri che la maggioranza di destra che governa la Campania si è appena liberata dell’ingombro di dover trovare i soldi prima di fare una legge.
C’erano voluti 9 anni per mettere dei vincoli seri.
Nel 2002, ai tempi del primo Bassolino, era stata fatta una norma che imponeva di verificare, prima di ogni atto, la copertura finanziaria. Ma non era mai diventata operativa.
Finalmente, nel marzo 2011, era stata votata l’istituzione presso la giunta regionale di un ufficio delegato a controllare la copertura finanziaria delle proposte arrivate in Consiglio.
L’unico argine possibile ai deliri clientelari ed elettoralistici.
Giorni fa, a dispetto della crisi e dei moniti del governo, ecco la retromarcia: grazie al voto di 24 consiglieri, le proposte di legge regionale non dovranno più avere il «visto di conformità » della struttura dedicata a fare le verifiche finanziarie.
Per avviare l’iter di una legge, magari spendacciona, basterà  una «relazione tecnica » degli «uffici della giunta regionale competenti in materia di finanze e bilancio». Tutta un’altra faccenda.
Gli autori del blitz? Gli stessi sostenitori, come dicevamo, del governatore Stefano Caldoro che proprio su quel filtro abolito contava per arginare gli incontenibili rivoli di spesa. Caldoro, preoccupato per i conti, è passato al contrattacco con la proposta di introdurre anche nello statuto regionale il principio del pareggio di bilancio appena entrato nella Costituzione.
Ce la farà ? Mah… Assomiglia tanto a una lotta contro i mulini a vento.
«Autonomia!», insorgono in coro i governatori tutte le volte che lo Stato centrale prova a sfiorare le loro prerogative.
E sulla Consulta piovono valanghe di cause, quasi sempre coronate da successo. Ricorsi contro il limite di cilindrata delle auto blu.
Contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Contro i pedaggi sulle strade dell’Anas. Contro l’Imu.
Per non dire delle sollevazioni contro i tagli ai Consigli regionali: sono addirittura undici le Regioni che hanno contestato davanti alla Corte Costituzionale l’articolo 14 della manovra dello scorso agosto, l’ultima firmata da Giulio Tremonti, che imporrebbe alle loro assemblee, dalle prossime elezioni, una cura dimagrante di 343 poltrone. Undici.
Motivazione? «È assolutamente necessario contrastare l’ondata di provvedimenti indirizzati contro le nostre prerogative», ha spiegato il governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci.
Il guaio è che, rivendicando stizzite questa autonomia («tocca semmai a noi tagliare le Province, tocca semmai a noi tagliare le indennità , tocca semmai a noi tagliare le poltrone…») tutte e venti le Regioni si sono trasformate in zone franche, dove la spesa pubblica va alla deriva.
La prova? Fra 2000 e 2009, mentre il Pil pro capite restava fermo per poi addirittura arretrare di cinque punti, le uscite delle Regioni italiane sono lievitate da 119 a 209 miliardi di euro.
Ormai rappresentano più di un quarto di tutta la nostra spesa pubblica.
La crescita, dice la Cgia di Mestre, è stata del 75,1%: un aumento in termini reali, contata l’inflazione, del 53%.
Oltre il doppio del pur astronomico incremento reale (25%) registrato nello stesso periodo dalla spesa pubblica complessiva, passata al netto degli interessi sul debito da 581 a 727 miliardi.
Parliamo di 89,7 miliardi «in più» ogni anno, di cui appena la metà , ovvero 45,9 miliardi, addebitabili a quella sanità  che rappresenta la voce più problematica dei bilanci regionali. In testa tra gli enti che più hanno accelerato c’è l’Umbria, dove le spese sono salite del 143%, seguono l’Emilia-Romagna (+125%), la Sicilia (+125,7%), la Basilicata (115,2%), il Piemonte (+91,8%) e la Toscana (+84,6%).
Fosse aumentata così anche la nostra ricchezza, saremmo a posto. Il diritto (giusto) all’autonomia può giustificare certi bilanci colabrodo?
È accettabile che la spesa sanitaria, dal 1978 di competenza regionale, presenti qua e là  differenze abissali? O che ogni lombardo sborsi per il personale regionale 21 euro l’anno contro i 70 della Campania, i 173 del Molise o i 353 della Sicilia tanto che se tutte le Regioni si allineassero ai livelli lombardi risparmieremmo 785 milioni l’anno?
Possiamo ancora permetterci le cosiddette «leggi mancia» che ad esempio hanno visto il Lazio spendere con 250 delibere a pioggia (tutte finite, dice l’Espresso, nel mirino della Corte dei Conti) qualcosa come 8,6 milioni di euro per iniziative che andavano dalla Rievocazione storica della battaglia di Lepanto a Sermoneta alla Sagra del carciofo di Sezze?
Per non dire dei progetti faraonici, delle società  miste nate a volte solo per distribuir poltrone, delle megalomanie.
Venti Regioni, ventuno sedi di rappresentanza a Bruxelles: solo quella del Veneto è costata 3,6 milioni di euro. Venti Regioni, 157 piccole «ambasciate» all’estero, dagli Stati Uniti alla Tunisia. Venti Regioni, centinaia di sedi e immobili sparsi per tutta Italia.
Spese inenarrabili.
Un caso? Denunciano quelli di Sel che oltre alle sedi istituzionali la Regione Lazio dispone di 13 fabbricati a uso residenziale e 367appartamenti. Malgrado ciò, spende ogni anno 20 milioni per affittare altri immobili. E ha deciso di dare il via a lavori di ampliamento della sede della Pisana, con la costruzione di due nuove palazzine. Costo previsto: dieci milioni.
Una spesa indispensabile? Ed era indispensabile, di questi tempi, investire 16,3 milioni di euro come ha fatto il Consiglio regionale del Piemonte per rilevare e ristrutturare la ex sede torinese del Banco di Sicilia?
O stanziare 87 milioni per la nuova sede del Consiglio regionale della Puglia, appaltata nello scorso mese di agosto?
O spenderne addirittura 570 per la nuova sede della Regione Lombardia, una reggia con tanto di eliporto e di foresteria per il governatore costata 127 mila euro di soli arredamenti?

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere della Sera”)

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