Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile LA RELAZIONE DELLA FINANZA… L’INDAGINE PER APPURARE SE IL SENATORE SI SIA TRASFORMATO IN MEDIATORE CON I CLAN
Sono stati distribuiti su decine di conti i soldi che Silvio Berlusconi ha versato negli ultimi dieci anni a Marcello Dell’Utri.
Si tratta di almeno settanta depositi che gli specialisti del nucleo valutario della Guardia di Finanza stanno adesso analizzando per stabilire se queste operazioni possano nascondere anche il passaggio di denaro a prestanome di boss mafiosi.
E dunque verificare l’ipotesi dell’accusa secondo la quale il senatore non sarebbe l’unico terminale delle elargizioni dell’ex presidente del Consiglio, ma in alcuni casi possa essersi trasformato in una sorta di mediatore con le cosche dopo la morte di Vittorio Mangano e Gaetano Cinà .
Anche tenendo conto che soltanto una parte dei fondi sono stati girati alla moglie, ai figli e ad altri familiari del politico.
E non escludendo la possibilità che la scelta di trasferire undici milioni di euro a Santo Domingo servisse proprio a far perdere le tracce di una somma destinata pure ad altre persone.
La prima relazione consegnata dagli investigatori ai pubblici ministeri ricostruisce nel dettaglio le «entrate» ed evidenzia come le elargizioni di Berlusconi comprendano, oltre ai circa 40 milioni in contanti, anche circa 7 miliardi di lire in titoli ceduti tra 1989 e il 1995.
Un ulteriore tassello che lo stesso ex premier e sua figlia Marina sono stati chiamati a chiarire, anche se appare difficile che la prossima settimana si presenteranno per essere interrogati dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, titolari dell’inchiesta.
I bonifici in entrata
Secondo il rapporto della Finanza, il primo versamento risale al 1989: titoli per 700 milioni di lire.
L’anno dopo la cessione di obbligazioni ha un valore ben più alto, pari a due miliardi di lire. Altri 760 milioni arrivano nel 1991 e 302 nel 1993.
Nel 2005 la stessa modalità viene utilizzata per far transitare ulteriori obbligazioni in due tranche da un miliardo e mezzo di lire.
Nel 2000 si passa ai contanti. Berlusconi ordina due bonifici in favore di Dell’Utri da 3 milioni e mezzo di euro e da 2 milioni e 700 mila euro.
Nel 2003 ci sono due versamenti effettuati lo stesso giorno rispettivamente da 362 mila euro e da 755 mila euro che partono da un conto sul quale possono operare lo stesso Berlusconi e la figlia Marina.
Sono state le indagini condotte dalla Procura di Roma sulla cosiddetta «P3» a rivelare altri passaggi di soldi.
E il risultato di quelle verifiche è stato poi trasmesso ai colleghi siciliani.
Nel 2008 il senatore riceve dal leader del Popolo della libertà un milione e mezzo di euro.
Tre anni dopo c’è un’ulteriore impennata nelle elargizioni: prima un milione di euro bonificato nel febbraio 2011 e poi sette milioni di euro fatti arrivare sullo stesso deposito nel marzo 2011.
In entrambi i casi è l’Uif, l’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia, a segnalare le operazioni sospette.
E un «avviso» arriva anche qualche mese fa, quando Berlusconi versa 15 milioni di euro a saldo per l’acquisto della villa sul lago di Como valutata 21 milioni di euro.
Un affare che Dell’Utri perfeziona trasferendo circa undici milioni di euro nella Repubblica Dominicana.
E – questo dicono gli accertamenti già effettuati – recandosi personalmente oltreoceano.
Un viaggio che adesso finisce al centro delle indagini per scoprire se servisse a incontrare qualcuno che doveva poi ottenere una parte di quei soldi.
I movimenti in uscita
Secondo le prime verifiche, Dell’Utri riceve il denaro nella maggior parte dei casi e si adopera per trasferirlo al più presto dai suoi conti.
E lo fa seguendo modalità che nella stessa relazione della Guardia di Finanza vengono definite «sospette».
Nel 2010 dallo stesso conto corrente dove sono arrivati gli otto milioni di euro di Berlusconi «vengono effettuati 474 movimenti per un totale di un milione e 829 mila euro».
Uscite frazionate anche l’anno dopo con «190 movimentazioni per un totale di 10 milioni e 718 mila euro».
Chi sono i beneficiari di queste somme?
Una parte la ricevono i familiari, il resto arriva invece a persone e società sulle quali sono tuttora in corso le verifiche.
I controlli hanno già consentito di scoprire che «10 mila euro li riceve Chiara Dell’Utri, 60 mila Marco Dell’Utri e 80 mila Alberto Dell’Utri».
Si tratta però di una goccia nel mare.
Il problema riguarda il resto delle elargizioni, quel fiume di soldi che viene diviso in mille rivoli e che, come sottolinea uno degli investigatori, «si disperde in una maniera solitamente utilizzata per il riciclaggio di fondi illeciti».
Un sospetto alimentato dalla scelta del senatore di emettere tra il 2005 e il 2010 157 assegni, tutti di importi non superiori a 10 mila euro, per un totale che supera il milione e mezzo di euro e per la maggior parte dei quali non è stato possibile identificare il beneficiario.
Nella sua relazione la Finanza evidenzia «l’operatività particolarmente significativa» e la necessità di svolgere ulteriori controlli.
Il rifiuto dei testi
Su tutto questo dovranno fornire spiegazioni Berlusconi e la figlia, ma al momento appare improbabile che decidano di rispondere alla convocazione.
La data per l’interrogatorio era stata fissata al 16 luglio però l’avvocato Niccolò Ghedini ha fatto sapere che l’ex premier era impegnato in una riunione in materia di economia a villa Gernetto e che Marina Berlusconi si trovava all’estero.
Aveva chiesto di poter rinviare l’appuntamento precisando comunque che Berlusconi avrebbe accettato soltanto un incontro fissato a Roma.
La stessa strategia era stata utilizzata lo scorso anno quando il leader del Pdl era ancora capo del governo e fu chiamato a testimoniare dai magistrati napoletani che indagavano sul presunto ricatto di Gianpaolo Tarantini e Walter Lavitola.
Anche in quel caso chiese un incontro nella capitale, ma dopo numerosi rinvii comunicò che non avrebbe accettato di rispondere alle domande dei pubblici ministeri.
Ora però non è più a Palazzo Chigi e il rischio è che venga disposto il suo accompagnamento coatto.
Qui a Palermo si attende che cosa accadrà mercoledì prossimo.
Quel giorno è fissato l’interrogatorio di Marina Berlusconi: la sua mossa servirà a far comprendere quale linea si è deciso di seguire.
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile L’ESPULSIONE DAL CARROCCIO E ORA IL NUOVO PARTITO… IN BRIANZA TRA I PADANI DELUSI E FAN DI BOSSI
È la piccola repubblica di Vugiòn. Non in Cina, ma in Brianza. 
Oggiono. Ottomila anime fra i monti di Lecco.
È qui che gli ex leghisti orfani di Bossi hanno impiantato la loro Pontida. Niente prati e niente palchi, il tempio dei ribelli contro Bobo Maroni è un bar.
Si chiama “Bodega Art Cafè”, l’ha aperto l’omonimo senatore Bodega Lorenzo, classe ’58, già sindaco di Lecco, Cavaliere della Repubblica e trombettista «con tanto di diploma», ci tiene a dire mentre intona il Va’ Pensiero: «Ma con Maroni alle tastiere non ci suonerei mai». Benvenuti nel quartier generale degli ex padani.
Si chiama “SGC — Siamo gente comune” e, come la gente comune, si riunisce al bar.
Il simbolo è un girasole, Bodega è il braccio, poi c’è la mente: Rosa Angela Mauro detta Rosi. Proprio lei. La Rosi di Bossi, la Rosi che per anni è stata il volto più noto, e temuto, del cerchio magico del Senatùr.
Rosi la strega, Rosi la badante. E Rosi l’espulsa, nell’infamia: «E perchè dovevo dimettermi? Con il consiglio federale della Lega pieno di indagati? Non ho nemmeno un avviso di garanzia, solo bugie», scandisce al nuovo popolo.
Delle lauree comprate in Svizzera e dei diamanti di Belsito non vuole sentir parlare.
E neppure Piero Moscagiuro, in arte Pier Mosca, caposcorta e musicista pure lui, finito nella bufera per un presunto flirt con la vicepresidente del Senato, che accompagna anche stavolta fin quassù. «Balle», fa lei.
«Quel giorno ho aperto i giornali e ho pensato: oddio, ditemi che è uno scherzo». Non lo era, ma poco importa. P
er i fan plaudenti di Rosi (qualche decina) conta un altro flirt: «L ‘Umberto è con noi?», si chiedono in molti.
Lei nicchia, accende una Marlboro e li guarda dritti in faccia: «Io fumo sigarette e non il Toscano, perchè non voglio essere confusa con lui», taglia corto.
Lui, l’Umberto, il convitato di pietra.
Il fantasma in canottiera che aleggia, piaccia o no, in testa a tutti.
Ufficialmente i due non si vedono da tempo, nè si telefonano più: «Basta. Chiuso. La vita va avanti», giura lei.
Dopo l’espulsione si erano parlati, questo sì. Qualche contatto c’era stato. Diretto o via donna Manuela, moglie di lui e amica di lei. «Ma ora basta. Non è vero che dove c’è Rosi c’è Umberto. E non era vero neanche prima. Non mi ascoltava. Magari l’avesse fatto, dio lo sa…».
I tempi cambiano, insomma, e se anche Bossi s’è pentito delle dimissioni («lo credo bene»), il cerchio magico è morto e sepolto.
«Fra trombati alla Reguzzoni e voltagabbana alla Calderoli», sussurrano i fan di Rosi.
Per lei conta quel nastro arancione tagliato fra spumante e pasta fredda.
Un cordone ombelicale ormai reciso: «Non rinneghiamo la Lega, ma si volta pagina», declina. Sarà , ma intanto il partitino conta due senatori e, nel caos romano, c’è chi parla di new entry. «Niente finanziamento pubblico», confermano a palazzo Madama.
Quello va tutto alla Lega.
Ma ai due ribelli andranno i rimborsi di segreteria. «Sono pochi euro, 2.090 al mese per ogni membro», si impunta Bodega. «E soprattutto non parlatele di soldi».
Non a Rosi: «Mi hanno dipinta come una ladra, io che ho versato 253 mila euro alla Lega, senza riavere indietro un euro, nemmeno per il Sinpa, il sindacato padano che è la mia vita». I padani di oggi, in verità , la tengono a distanza come la peste e a lei è rispuntato un certo orgoglio di meridionale.
«Sono del Salento e non lo rinnegherò mai, non sono ipocrita come i leghisti. Anzi, il nostro partito non ha confini geografici».
Si partirà dai comuni della Brianza, dunque, già alle amministrative. E poi chissà .
Piemonte. Forse Veneto. «E, perchè no, fuori dalla Padania: anche al Sud c’è gente comune».
In verità il movimento partiva con un nome più altisonante: “Gruppo d’azione per la rinascita”. Poi ci si è messo quel geniaccio di Alfredo Chiappori, vignettista e scrittore piuttosto famoso in queste vallate.
L ‘idea del nome è sua. E pensare che quando Bodega fu eletto al municipio di Lecco, lui era il suo più acerrimo nemico: «Disse che mi avrebbe spaccato la testa sul basamento della statua di Garibaldi, e c’era da credergli», sospira il senatore.
«Poi, dopo un po’, siamo diventati amici». Bel nome, sì, ma inutile nascondere che qui Bossi manca a tutti. E la nostalgia pare reciproca.
Umberto, qualche giorno fa, ha voluto lumi sul baretto del Bodega: «E ‘sto locale? L’ha aperto sul lago?», ha chiesto a un amico. «No capo, ma ci fanno la piadina alla brianzola. Prosciutto cotto e formaggio fuso».
Tutta roba interdetta ai “barbari sognanti”, fedelissimi di Maroni, perchè il Bodega bar ha una sola regola: porte sbarrate a chi ha tradito Umberto.
E così, all’inaugurazione, i maroniani si sono piazzati sulla statale con tanto di tazebao. «Traditori!», intonavano.
«Che coraggio», sbottava Sonia, la compagna di Bodega, da dietro il bancone. «Fino all’altro giorno tutti sull’attenti quando passava il capo e adesso in ginocchio da Maroni. Uno schifo». Per lei la questione Lega è matematica, due più due: «Se Bossi mi dice di andare a piedi sul Po, io ci vado. Se me lo chiede Maroni sto a casa. È come votare Casini».
E come lei la pensano gli avventori del Bodega bar. Il popolo di Rosi.
Poveri in canna e ricchi in Lamborghini gialla («Era il dentista, e dopo la festa è arrivata subito la Finanza»), miti signore e birraioli rissosi.
Anche se per ora a pagare il conto della guerra qui in Brianza, è stato Armando Valli. C
lasse ’51, bossiano dall’85, senatore. Fedina pulita, ma qualche multa gli scappa: «Siamo un po’ terroni, qui sul lago, non si mette mai la cintura. Rischi i vigili, ma se finisci con la macchina nell’acqua, almeno salti fuori», si giustifica.
Ogni anno Bossi si presenta a Lecceno, a casa sua, a discutere di Lega. E lo farà anche quest’anno. Non lo chiama Armando, lui per tutti è il “Mandell”.
E se ne accorse alle provinciali, eletto per un soffio. «Strano», pensò.
Poi, le birre celtiche dell’isola comacina chiarirono il mistero: «Mandell, non ho trovato il tuo nome sulla scheda», gli ripetevano i leghisti. «Il nostro è un paese di contrabbandieri, qui abbiamo zero nomi e un soprannome».
Da quel giorno lo infilò dappertutto. Mandell sui manifesti, sui volantini e perfino sul sito del Senato. I voti si moltiplicarono, fino a quella maledetta inaugurazione del bar del Bodega.
S’è presentato là ed è stato immortalato al fianco di Rosi l’innominabile.
In poche ore la foto ha fatto il giro della Lega, fino ai commissari piazzati da Maroni nelle valli di Lecco. «Mandell traditore», ripetevano. E lui zitto.
In attesa del verbo di Bossi.
E se gli slogan di Rosi Mauro puzzano un po’ di muffa, litanie di una Lega dei tempi andati fra territorio, popoli e legalità , c’è chi spera ancora nel miracolo.
Il ritorno del capo, l’unico — ripetono — che può dare del filo da torcere a Maroni. Quel Bossi un po’ abbacchiato, che molti qui sperano varchi la soglia del bar di Vugiòn.
Tanto che, mentre Berlusconi annuncia il rientro, qui si favoleggia di misteriose telefonate fra Rosi e Umberto.
E fra Umberto e il Cavaliere.
Prova ne sarebbe un’ospite d’eccezione all’ormai famosa inaugurazione del Bodega Art Cafè: la rossa Michela Brambilla, l’ex ministro animalista vicinissima a Silvio.
Falso allarme, ribattono i “barbari sognanti” di Maroni. Tutta scena.
La rossa del Pdl da queste parti circola dal 1998. Da quando al sindaco Bodega scoppiò il bubbone del canile comunale. «Avevamo un sacco di cani, un casino, e lei si prese in carico le bestie. Ha una marcia in più… Devo spiegarvi io che rogna è per un sindaco il canile?». Meno male che Michela c’è.
Tommaso Cerno
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile NON FACCIAMO SISTEMA E I FONDI NON CI SCELGONO… TROPPI VINCOLI DA BUROCRAZIA, GIUSTIZIA CIVILE E INFRASTRUTTURE: NELLA UE CI PREFERISCONO FRANCIA E GERMANIA… L’ESEMPIO DELLA VENDITA DELLA MAISON VALENTINO
Sos fondi sovrani. Mario Monti e Vittorio Grilli sono a caccia di investitori stranieri “di lungo periodo”, azionisti stabili del nostro sistema Paese.
Il loro arrivo potrebbe compensare la fuoriuscita di capitali speculativi.
Quei capitali che abbandonano i nostri Btp per rovesciarsi sui Bund tedeschi, e sono perfino disposti a pagare (interesse negativo) pur di rifugiarsi nella “cassetta di sicurezza” del Tesoro di Berlino.
“Cento, mille Valentino!” sembra il nuovo slogan del governo italiano: fa sognare l’operazione da 700 milioni con cui il Qatar ha assunto il controllo della celebre casa di moda.
Monti si è spinto sulle montagne dell’Idaho, pur di corteggiare i big del capitalismo hi-tech, sperando che vogliano investire in casa nostra.
Ma quali sono le possibilità concrete di attirare questi capitali produttivi?
E chi sono i Signori dell’investimento estero corteggiati da tutti i governi?
Il club dei fondi sovrani vede nei primi 10 posti asiatici e arabi.
Unica eccezione la Norvegia.
Domina la Cina che tra la State Administration of Foreign Exchange (Safe) e la China Investment Corporation (Cic) amministra oltre mille miliardi di dollari, a cui si aggiungono 300 miliardi di Hong Kong.
Seguono gli Emirati arabi uniti che da Abu Dhabi gestiscono 627 miliardi. Poi la Norvegia 593 miliardi, l’Arabia saudita 533, Singapore 400, il Kuwait 296, il Qatar 100 miliardi.
Australia e Brasile figurano tra gli inseguitori. La loro liquidità cresce a vista d’occhio, in parallelo con l’attivo commerciale della Cina o i surplus petroliferi dei paesi arabi.
Da un anno all’altro gli investimenti dei fondi sovrani nel mondo intero sono cresciuti del 42%. Spesso sono interessati a diventare azionisti stabili (vedi il caso Valentino), non a fare operazioni mordi-e-fuggi.
Attenzione però a non farsi illusioni: ci siamo già cascati.
Quasi un anno fa, nel settembre 2011, sembrò che i cinesi della Cic fossero attirati dall’Italia, sia per comprare Btp che partecipazioni nelle nostre aziende.
Ci fu all’epoca una grande eccitazione, protagonista l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: proprio colui che aveva indicato nella Cina “la causa di tutti i nostri mali”.
Tremonti accolse a braccia aperte il presidente della Cic, Lou Jiwei. Il suo braccio destro, Grilli, si recò a Pechino per corteggiare l’altro fondo sovrano, Safe.
I più esperti di “sovranologia” ci ammonirono già allora: non scambiate le manifestazioni d’interesse per un voto di fiducia verso l’Italia. Avevano ragione.
Le speranze si sono rivelate eccessive. Gli investimenti cinesi o arabi in casa nostra restano un rigagnolo rispetto ai flussi che si dirigono altrove.
Per un caso Valentino che fa notizia in Italia, in Francia il Qatar ha fatto ben di più: è entrato nel capitale delle società di servizi urbani e utilities Suez Environment, Veolia, Vivendi. Sempre il Qatar è primo azionista del gruppo Lagardère (media e tecnologie militari).
E’ in trattativa con Starwood per comprare una catena di hotel di lusso francesi. In altri paesi europei il Qatar è azionista di Volkswagen, Harrod’s, Credit Suisse, Shell.
Perchè l’Italia resta una Cenerentola, rispetto alle nazioni europee?
La ragione è svelata in uno studio del Sovereign Investment Lab della Bocconi, un’autorità in materia che viene citata dal Financial Times.
«I fondi sovrani – si legge nel rapporto – privilegiano i grandi gruppi, e quelli che hanno una presenza significativa sui mercati emergenti di Asia e America latina».
Ecco spiegate le nostre delusioni.
Paghiamo le fragilità strutturali del capitalismo italiano: abbiamo pochissime grandi aziende; e abbiamo accumulato ritardi nell’espanderci sui mercati emergenti.
Non a caso una delle poche aziende che attirano i fondi sovrani è la Snam, corteggiata da Abu Dhabi e Qatar grazie alla sua presenza internazionale; così come la Fincantieri per la sua notorietà nel mercato degli yacht.
Il bilancio è deprimente: anche se il 36% delle società quotate alla Borsa di Milano ha un fondo sovrano tra gli azionisti, per ora sono briciole, l’investimento totale arriva appena al 2% della capitalizzazione di Borsa italiana.
Se le nostre aziende sono in maggioranza nane e provinciali, non altrettanto può dirsi del Tesoro: abbiamo il quarto debito pubblico del pianeta.
A febbraio ci fu una fugace attenzione dell’Asia verso i nostri Btp, mostrarono un interesse inedito la terza banca giapponese, il primo gruppo finanziario coreano, la prima compagnia assicurativa di Taiwan, attratti da rendimenti cinque volte superiori a quelli asiatici.
Ma il fascino dei Btp è durato poco. Perchè?
Ogni volta che lo spread torna a salire, quegli investitori istituzionali subiscono perdite pesanti in conto capitale.
A differenza del singolo risparmiatore, che può tenersi i Btp fino a scadenza incassando le cedole, i grossi investitori devono segnare sui propri bilanci ogni variazione nel valore corrente dei Btp.
E quando il rendimento di mercato sale, rispetto ai vecchi Btp, questi ultimi perdono valore.
Restano le multinazionali.
Benchè i fondi sovrani siano il fenomeno più recente, il maggior volume di investimenti esteri diretti viene ancora dalle grandi imprese globali.
Sono quelle che Monti è andato a corteggiare a Sun Valley: Apple, Google.
Più i colossi tradizionali, da Nestlè a Coca-Cola a Sony.
L’Italia non appare neppure tra le prime 20 destinazioni dei loro investimenti.
Ci superano non solo gli Stati Uniti e i Brics, non solo Germania e Francia, ma perfino il Belgio.
no studio della Columbia University ci ammonisce: manca a Roma un approccio sistemico, olistico, che intervenga su tutti i fattori di appetibilità dell’Italia inclusa la politica delle infrastrutture, la burocrazia, la giustizia civile.
Federico Rampini
(da “La Repubblica”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile PARLA IL MAGISTRATO AL CENTRO DELLE POLEMICHE… CON UNA CONSTATAZIONE AMARA: “ALL’ESTERO SI E’ PIU’ APPREZZATI”
Il ricordo di Falcone e Borsellino. Il nuovo incarico all’Onu. Il governo
tecnico e la lotta alla criminalità .
Antonio Ingroia, in questi giorni al centro delle polemiche sulle intercettazioni nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha incontrato i ragazzi di Pdci e Prc che a Otranto hanno organizzato la loro festa-campeggio.
Per parlare di lotta alla mafia, naturalmente. E anche di politica.
Insieme a Orazio Licandro, ex deputato siciliano del Pdci e componente della commissione Antimafia.
Ingroia ha ricordato il proprio passato nel centro Peppino Impastato, da giovane studente “impegnato” e poi gli esordi da magistrato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Mentre Licandro ha raccontato le peripezie dell’ultimo incontro col magistrato: “Qualche settimana fa ci incontrammo mezz’ora a Roma davanti a Montecitorio. La piazza era blindata, si approvava la riforma Fornero. Appena rientrai nella camera d’albergo proprio lì davanti scoprii che mi avevano rubato il pc e le chiavette, che strano…”.
Procuratore, la scelta di accettare l’offerta Onu per un anno di lavoro in Guatemala è una scelta legata alle polemiche sulla trattativa Stato-mafia? Perchè solo poco tempo fa aveva negato la notizia di un suo eventuale e momentaneo abbandono della procura di Palermo.
“Da diversi mesi curo rapporti di lavoro con il centro America. La proposta mi era stata fatta qualche mese fa, ma avevo chiesto tempo per concludere le indagini sulla trattativa tra Stato e mafia. L’antimafia si può e si deve sviluppare sempre più a livello globale e un incarico del genere può aiutarmi a sviluppare maggiori competenze e a coordinare meglio le indagini tra diversi paesi. Non nego ci sia una componente personale in questa scelta, nel senso che cambiare ogni tanto fa bene ed è stimolante. E sono cosciente che forse lasciare l’Italia per un po’ possa allentare la pressione su Palermo, vista la campagna di stampa che ci ha investito soprattutto negli ultimi tempi e che rischia di mettere in cattiva luce le indagini finora svolte dal mio ufficio. Poi devo fare una constatazione amara: all’estero si è più apprezzati”.
Due giorni fa Pierferdinando Casini ha detto che non si farebbe giudicare da lei. Si sente delegittimato da queste valutazioni?
“Mi sono sentito offeso, questo sì. Anche se sono abituato ormai. Casini ripete a pappagallo le frasi dei Cicchitto e dei Gasparri e in passato ha detto anche di peggio sulle nostre indagini. Tra l’altro non sa di cosa parla, perchè sono un pm e non un giudice. Siamo a un livello di imbarbarimento altissimo: in altre democrazie i politici non si permettono di esprimere giudizi di questo genere su chi fa solo il proprio lavoro cercando la verità su vicende oscure della nostra storia”.
Gian Carlo Caselli ha parlato di una guerra in atto contro la procura di Palermo. Ha spiegato che attaccano lei per puntare al lavoro di tutto il pool. L’iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il ricorso alla Consulta sulle intercettazioni indirette che lo riguardano e che voi avete fatto, rientra in questa guerra?
“No, Napolitano ha agito secondo le prerogative che gli spettano. Allo stesso tempo sono convinto di aver agito secondo le norme. Qualche commentatore ha spiegato che c’erano delle ragione di opportunità che dovevamo considerare, ma nel nostro lavoro non può esistere un criterio discrezionale su ciò che è opportuno o meno, così facendo entreremmo in un campo pericoloso: il principio di uguaglianza davanti alla legge comporta il fatto che un magistrato agisca secondo la legge, senza fare altre valutazioni e senza favorire nessuno. Sono rammaricato per lo scontro istituzionale. Però le parole di Napolitano sulla trattativa Stato-mafia e sulla necessità di scoprire la verità mi hanno fatto molto piacere e le sottoscrivo in pieno”.
Ma c’è qualche possibilità che queste intercettazioni diventino mai di dominio pubblico? Cioè che finiscano sui giornali?
“Mi dispiace deluderla (sorride) ma no, sono irrilevanti e verranno distrutte”.
Berlusconi ha annunciato la sua candidatura a presidente del Consiglio, per la sesta volta. L’ex premier ripete spesso che il lavoro svolto dal suo governo contro la mafia non ha eguali. È così?
“Per prima cosa dobbiamo ricordare che la mafia non è in ginocchio come si vorrebbe far credere. Anzi. L’epicentro della criminalità organizzata adesso è la Lombardia e gli intrecci col mondo economico sono quanto mai forti e intricati. Rilevo comunque che durante gli anni del centrodestra la legislazione antimafia è stata smantellata passo dopo passo. Ci sono stati dei risultati dal punto di vista repressivo, ma il merito è stato delle forze dell’ordine: non si capisce perchè l’arresto di un latitante debba essere un trofeo da esporre per un governo. Vorrei aggiungere: doppio merito per le forze dell’ordine, perchè in questi anni le risorse sono state tagliate a più riprese. Certe uscite sono assai propagandistiche”.
Da quando si è instaurato il governo tecnico si sono fatti dei passi avanti nella lotta alla mafia?
“Sì. Si è rasserenato il clima, si è rinunciato alle controriforme più ostili verso la magistratura. E anche la riforma delle circoscrizioni giuridiche mi pare un ottimo provvedimento. Poi non mi aspetto certamente grandi rivoluzioni, questo governo è pur sempre sostenuto da chi c’era prima. Per il futuro, il grande lavoro da fare è accorciare i tempi del processo e allungare la prescrizione, visto che finora per non essere giudicati si punta sempre a far saltare i procedimenti”.
E per quanto riguarda le intercettazioni?
“Se ne può certamente parlare, soprattutto per quanto riguarda la privacy, cioè l’uscita sui giornali di trascrizioni che c’entrano poco con le indagini. A patto che il dialogo sia costruttivo e che non si cavalchino strumentalmente casi come quello legato al presidente della Repubblica”.
Giovedì si commemorava la strage di via D’Amelio. La sorella di Maria Falcone ha pronunciato queste parole: “Ingroia non sa cosa si prova ad essere Falcone. Ingroia deve capire che ha alle spalle tutta una società che lo appoggia. Mio fratello non l’aveva”. Cosa ne pensa di queste parole?
“È vero che Falcone subì un isolamento peggiore, in generale. Però le difficoltà che incontriamo nei rapporti con le istituzioni politiche sono simili a quelle che trovò Falcone. Ed è vero che l’antimafia oggi sia molto più forte di allora, ma non bisogna scordare la presenza forte e diffuso dell’altra Italia, quella delle convivenze, connivenze e contiguità con il mondo criminale”.
Prima il congresso, poi qui con i giovani. Quando Fantozzi fece questa domanda al capo supremo della ditta tremò la terra: ma non sarà mica che lei è comunista?
“La formula “mi avvalgo della facoltà di non rispondere” si può utilizzare? Sento di avere il diritto e il dovere di intervenire anche pubblicamente in difesa della Costituzione. Chi lo fa in Italia viene automaticamente bollato come “comunista”. Io mi reputo semplicemente consapevole. Se poi pensare con la propria testa significa dirsi comunista, allora sì, in questo senso sono comunista”.
(Licandro è lì, alla domanda sul come vedrebbe un futuro in politica del magistrato scherza: “Ma qui o in Guatemala?”. Poi risponde seriamente: “Di sicuro una persona come Ingroia la voterei volentieri, ma è una scelta che eventualmente farà lui. Se poi in futuro facesse questo passo e magari nel partito che dico io ne sarei molto felice”).
Matteo Pucciarelli
(da “La Stampa”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile LA RICHIESTA VIENE IMPLICITAMENTE DAI MERCATI E L’IPOTESI POTREBBE DIVENTARE L’UNICA VIA D’USCITA DALLA CRISI
Nessuna manovra, nessun provvedimento straordinario, nessuno scudo anti-spread, nessun soccorso dalla Bce.
L’Italia di Mario Monti si appresta ad affrontare senza difese la settimana che potrebbe vedere il fallimento della Spagna.
A Palazzo Chigi ostentano sicurezza, in queste ore, si procede con il business as usual.
La frase di Monti sul “contagio che è in atto”, ci tengono a precisare, era riferita alla dinamica complessiva della crisi, non agli eventi di questi giorni.
Tanta calma non è dovuta a una sottovalutazione del momento — basta vedere con che frequenza la dirigente del Tesoro responsabile del debito pubblico, Maria Cannata, deve rassicurare sul fatto che abbiamo ancora credito — ma a una strategia precisa.
Forse l’unica possibile in questo momento: lasciare intendere ai mercati che Monti è disposto a farsi carico del governo e a garantire l’attuazione delle riforme anche dopo il 2013.
Lo ha fatto capire nel modo più esplicito possibile venerdì quando ha spiegato che lo spread a 500 non rispecchia i fondamentali dell’economia italiana, ma il costo extra del nostro debito è dovuto in parte al rischio del crac dell’euro e in parte all’“incertezza del quadro politico, avvicinandosi il termine di un’esperienza nota mentre il futuro è ignoto”.
Questa analisi non è solo di Monti, ma anche dei mercati, basta leggere la nota con cui Moody ‘s ha declassato l’Italia: “L’outlook negativo riflette la nostra visione che il rischio di applicare le riforme resta sostanziale […] Il clima politico, particolarmente all’avvicinarsi delle elezioni di primavera è una fonte ulteriore di rischi all’applicazione delle riforme”.
Una cosietà indipendente, specializzata nel misurare i rischi-Paese come la londinese Spiro Sovreign Strategy, scrive in un report: “Anche se Mister Berlusconi decidesse di non correre per la premiership, c’è comunque un ‘fattore-Berlusconi’ che può pesare sull’atteggiamento verso l’Italia nell’avvicinarsi delle elezioni”.
E ancora: “Le cose si faranno da ora sempre più politicizzate”.
Il Corriere della Sera, con un retroscena di Francesco Verderami, ha ipotizzato ieri che il modo in cui Monti potrebbe mettere fine al “rischio politico” temuto dai mercati è andando alle elezioni anticipate subito.
Palazzo Chigi ha smentito: nessuno scenario di questo tipo. Anzi.
Proprio il tracollo accelerato della Spagna dimostra che andare al voto serve a poco, il passaggio dai socialisti di Josè Luis Rodriguez Zapatero ai popolari di Mariano Rajoy ha semplicemente accelerato la crisi.
C’è poco da fare, i programmi elettorali in questa fase li scrivono i mercati, non i politici che possono promettere quello che vogliono, ma poi hanno un copione già scritto.
Rajoy deve fare una riforma del settore bancario scritta dalla Commissione europea e sta applicando tagli imposti da Bruxelles e Berlino.
Se nei prossimi giorni chiederà aiuto — e sembra inevitabile — poi a Madrid arriverà la troika (Ue, Bce, Fondo monetario) e la capitolazione sarà completa.
La Spagna come una enorme Grecia. Portare in Italia lo schema spagnolo, quindi, non pare una soluzione.
Il messaggio che Monti sta mandando ai mercati, evitando di essere troppo esplicito per non irritare i partiti, è l’opposto: i conti vanno bene, le riforme funzionano ma vanno applicate, sul rischio euro-peo più di tanto non si può fare, se il problema è soltanto il rischio politico, voi avete visto qual è la soluzione.
Un governo affidato a Monti.
Ma davvero il premier potrebbe fermare la crisi dello spread dicendo già ora di essere pronto, qualora il “rischio politico” lo richieda, a fare ancora il premier?
“Il tema non si è posto, per ora, il professore ha sempre detto di voler portare a termine il suo compito”, rispondono i collaboratori del premier. E visto che il compito è salvare l’Italia dal default (o meglio, evitare l’arrivo della troika), per assolverlo potrebbe essere necessario un supplemento.
“Passo dopo passo si sta arrivando lì, Monti non farà campagna elettorale con un partito o uno schieramento. Ma prima o poi dirà che è ancora a disposizione, se serve al Paese”, sostiene Sandro Gozi, parlamentare (montiano) del Pd che ben conosce le dinamiche europee per aver lavorato a lungo a Bruxelles.
Certo, i partiti (Udc a parte), non possono essere felici di questo scenario.
Ma proprio le vicende spagnole indicano loro le alternative possibili: un governo politico che si sottomette al tallone della troika o un nuovo governo di Monti.
Ma per superare questa nuova, terribile, estate dello spread potrebbe rivelarsi necessario chiarire l’investitura potenziale al professore già nelle prossime settimane.
Rendendo così le elezioni un semplice passaggio burocratico.
Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile L’ANALISI DI BILL EMMOT, EX DIRETTORE DELL’ECONOMIST: GLI INVESTITORI E IL FATTORE RISCHIO
Noi qui nell’emisfero settentrionale stiamo per iniziare le nostre
vacanze estive in uno stato d’animo cupo, in parte perchè alla nostra malinconia si sono unite alcune delle economie emergenti del Sud del mondo.
Ma la parola più importante da tenere a mente, quella che sta davvero determinando gli atteggiamenti dei mercati finanziari e anche delle gestioni aziendali, non è tristezza.
È rischio.
Se si dovessero guardare solo le previsioni economiche appena riviste, pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana, si vedrebbe solo buio.
L’Fmi ha tagliato la sua stima di crescita economica globale nel 2012 al 3,5%, grazie al rallentamento della crescita in Cina, India e Brasile, ma anche grazie alla recessione dell’euro-zona.
Il Fmi quest’anno prevede un calo del Pil della zona euro dello 0,3%, che scende a un preoccupante 1,9% in Italia e 1,5% in Spagna.
Questi dati seguono la crescita mondiale del 5,3% nel 2010 e del 3,9% nel 2011, così è chiaro che la tendenza è tristemente al ribasso.
Gli Stati Uniti sembrano relativamente in salute con previsioni di crescita del 2% per quest’anno, due volte di più della Germania (e dieci volte di più dello stagnante 0,2% della Gran Bretagna).
Ma anche con questi numeri la crescita è troppo lenta per avere molto impatto sulla disoccupazione tanto più che la popolazione degli Stati Uniti e la sua forza lavoro sono in crescita.
Eppure questo genere di numeri mi riporta indietro nel tempo.
Durante il mio incarico come direttore di The Economist, ricordo la pubblicazione di una copertina, penso fosse nel settembre 2002, che descriveva l’economia mondiale come «in stasi», con questo volevo dire che era come una nave a vela che non si muoveva perchè c’era assenza di vento.
Ciò si basava sulle previsioni di crescita del Fmi per il 2002 — ancora più basse per il 2003. Allora cosa successe?
In realtà il mondo, tra il 2002 e il 2007, ha avuto i cinque anni di crescita economica più veloce degli ultimi 40 e passa anni.
Sarebbe bello pensare che possa accadere di nuovo, e che salti fuori che noi tutti siamo stati troppo pessimisti.
Non è impossibile: le economie emergenti sono probabilmente solo in un rallentamento temporaneo, causato dal loro sforzi per ridurre l’inflazione dei prezzi e gli Stati Uniti hanno una notevole capacità di reinventarsi, come ora stanno facendo con il boom del petrolio e del gas.
Ma siamo realisti: non è probabile.
E la ragione principale non risiede in Cina o negli Stati Uniti.
Si trova nel rischio, o piuttosto nei sentimenti che le aziende e gli investitori hanno ora circa il rischio. Anche se la guerra in Afghanistan era iniziata nel 2001 e nel 2003 stava per iniziare in Iraq, in realtà le imprese, in quei giorni non percepivano grossi rischi nella loro attività , nei loro mercati, nei loro investimenti. Mentre ora sì.
Ovviamente, gli investitori e i manager sono sempre preoccupati del rischio.
Questo è il loro lavoro. Ma la differenza, ora, è che percepiscono che la gamma dei rischi è molto più ampia, la gamma di possibili eventi drammatici è più vasta rispetto al 2002.
La rivolta araba, con la guerra civile in corso in Siria, è un esempio, soprattutto se si associa alla tensione sul programma nucleare iraniano: questo rende il prezzo dell’energia ancor più imprevedibile del solito.
Il risultato è che l’utile e ben accolta caduta dei prezzi del petrolio che si è verificata negli ultimi mesi si è parzialmente invertita.
Le preoccupazioni per l’economia cinese e la sua stabilità politica dopo lo scandalo e le accuse di omicidio contro Bo Xilai, ex sindaco della Chicago cinese, Chongqing, rientrano in una categoria simile.
E sono, a mio avviso, esagerate: la capacità del governo di sostenere la crescita attraverso la politica monetaria e fiscale rimane forte.
Ma in un momento di generale nervosismo sul rischio sembra che alcune aziende non investano perchè in allarme per il futuro della Cina.
Anche così, la più grande fonte di preoccupazione è molto più vicina a casa.
È l’Europa. Il problema non è semplicemente il fatto che i debiti governativi sono enormi, che la crescita è inesistente e che vi è un fondamentale disaccordo tra i Paesi debitori e quelli creditori su come dovrebbe essere gestito l’euro.
Certo, queste cose sono importanti.
Ma il vero problema è che la gamma dei possibili esiti sembra così ampia. Come può una società pianificare i propri investimenti tenendo conto della possibilità dell’uscita greca dall’euro?
Che percentuale di probabilità dovrebbe dare alla possibilità che altri Paesi possano lasciare l’euro, o che la moneta possa crollare del tutto?
Che cosa dovrebbero pensare le imprese delle prossime elezioni italiane, con Beppe Grillo e Silvio Berlusconi che, entrambi, riflettono ad alta voce sul fatto che l’Italia debba abbandonare l’euro?
La risposta intellettuale, o analitica, è che le probabilità dell’uscita greca sono alte ma la probabilità che lascino altri Paesi o quella di un collasso completo sono molto basse.
La possibilità che l’l’Italia lasci l’euro e vada in default è inesistente: ogni banca italiana crollerebbe immediatamente.
Ciò che si sente spesso dire in Paesi al di fuori dell’area dell’euro, in particolare in America, e cioè la scissione della valuta in due, con due diverse valute comuni, una per il Nord e l’altra per il Sud dell’Europa è, a mio avviso, praticamente inconcepibile.
Tuttavia, in questo momento la nostra difficoltà è che le risposte intellettuali e analitiche non sono sufficienti. I consigli d’amministrazione e le istituzioni finanziarie devono prendere decisioni.
Quello che stanno facendo sempre di più, in risposta a questa incertezza sull’euro, e sull’Italia, è di non investire affatto.
Si sono seduti sul loro denaro, o lo mettono, in condizioni di scarsa resa, in luoghi apparentemente sicuri, come i Bund tedeschi.
Questo processo sta diventando una profezia che si auto-avvera. La liquidità sta scivolando lontano dalle economie della zona euro e, per motivi diversi ma correlati, anche dall’economia britannica.
Gli investitori in Grecia non stanno facendo quello che farebbero normalmente dopo una crisi finanziaria, ovvero correre a caccia di buoni affari.
Pensano che in futuro i prezzi potrebbero scendere ulteriormente e che la Grecia avrà una nuova crisi.
Se c’è una cosa che i governi, soprattutto quelli europei, hanno bisogno di pensare durante le vacanze è come ridurre queste percezioni di rischio.
Come si possono convincere le aziende e gli investitori che la gamma degli esiti possibili non è così ampia come temono?
C’è disponibilità di cassa in abbondanza.
Solo, non viene spesa.
Bill Emmott
(da “La Stampa”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile LA DENUNCIA DEL MAGISTRATO ALLA COMMEMORAZIONE DI BORSELLINO: “STRINGE IL CUORE A VEDERE TALORA TRA LE PRIME FILE, NEI POSTI RISERVATI ALL’UNIVERSITA’, PERSONAGGI LA CUI CONDOTTA DI VITA SEMBRA LA NEGAZIONE DEI VALORI DI GIUSTIZIA E LEGALITA’ PER I QUALI TU TI SEI FATTO UCCIDERE”
L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.
Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perchè più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità , anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite — per usare le tue parole — emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà .
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perchè pronunciate da loro, parole come Stato, legalità , giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perchè questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perchè parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perchè agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinchè lo Stato diventi più credibile, perchè noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perchè quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perchè eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.
Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perchè grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perchè la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perchè non è fuggito, perchè ha accettato questa tremenda situazione, perchè mai si è turbato, perchè è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città , verso questa terra che lo ha generato”.
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perchè ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perchè private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità .
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava — come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime — che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perchè non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità .
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità , è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perchè sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perchè hanno capito che non ci fermeremo, perchè sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità . Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile IL PREMIER A MOSCA CITA DE GASPERI E SFERZA I PARTITI
«Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime
generazioni»: il premier Mario Monti, citando una famosa frase di Alcide De Gasperi, ha risposto così in una intervista all’agenzia Itar-Tass diffusa dalla tv Russia 24, quando gli è stato chiesto se la politica prevale sull’economia. «Politica ed economia devono procedere insieme», ha osservato Monti, invitando a non guardare nessuna delle due con un’ottica a breve termine.
«È una sindrome non positiva» ha aggiunto.
LA COLLABORAZIONE
Per il professore, tra Ue e Russia, soprattutto in questi tempi di crisi, ci deve essere «collaborazione e non competizione.
Continuiamo a coltivare la visione di un grande spazio di libera circolazione delle idee, delle persone (da anni lavoriamo per la liberalizzazione del regime dei visti), dei capitali e delle merci fra l’Unione Europea e la Russia».
Un’idea che chiaramente condivide anche il Cremlino: «lo stesso Presidente Putin nel suo recente intervento alla Conferenza degli Ambasciatori della Federazione Russa ha rilanciato l’idea di uno spazio economico comune dall’Atlantico al Pacifico», ha detto Monti in un’intervista ad alcuni media russi.
Oltre a porre come obiettivo «una più intensa cooperazione politica nella gestione delle situazioni di crisi, e della ricerca delle soluzioni più efficaci per garantire la stabilità internazionale e sul Continente. Abbiamo quindi di fronte a noi grandi opportunità di lavorare insieme», ha concluso il capo di governo italiano.
LA VISITA
Il premier è atterrato a Mosca, all’aeroporto di Vnukovo per la sua prima visita in Russia come capo del governo italiano.
Ad attenderlo l’ambasciatore italiano Antonio Zanardi Landi. Previsto l’incontro con il patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill, nel monastero Danilovski, poi cena in ambasciata con il gotha degli imprenditori italiani operanti in Russia.
Lunedì mattina Monti è programmato il faccia a faccia con il collega Medvedev a Mosca e nel pomeriggio il presidente Putin a Soci
(da “Il Corriere della Sera”)
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Luglio 22nd, 2012 Riccardo Fucile DOPO LE DICHIARAZIONI DI ALEMANNO, IL QUOTIDIANO DI BELPIETRO AVEVA PARLATO DI RINUNCIA DEL CAVALIERE A CORRERE DA PREMIER… MA ARRIVA SUBITO LA SMENTITA: “SARO’ IO IL CANDIDATO”
Non avrà la portata di un dubbio amletico, ma il ritorno in campo di Silvio Berlusconi resta uno dei tormentoni politici dell’estate.
Palazzo Grazioli ha diffuso un comunicato stampa in cui smentisce il ritiro della sua candidatura.
Una mossa formale, in risposta a quanto scritto (“Non si candida più”) dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro: ”Il titolo e il contenuto di un articolo sul presidente Berlusconi apparsi stamani su Libero non corrispondono al vero”.
In realtà gli articoli dedicati al tema riprendono le dichiarazioni fatte ieri dal sindaco di Roma Gianni Alemanno.
Ricevuto qualche giorno fa dal Cavaliere, aveva manifestato forti dubbi sul suo ritorno in campo da protagonista; intervistato alla trasmissione televisiva ‘Omnibus’ (La7) aveva detto: ”Tranquillizzo i mercati e la sinistra: non ci sarà il sesto tentativo di Berlusconi“.
Proprio l’andamento dello spread è un punto cruciale per l’ex premier (sulla sua pagina facebook capeggia il cartello ‘Lo spread non si ferma! Ma non era colpa di Berlusconi?) dimessosi sotto le pressioni del continuo innalzamento del differenziale Btp-Bund.
Un valore che non si è abbassato in modo significativo, come auspicava lo stesso Monti.
Per questo solo pochi giorni fa, fonti parlamentari riferivano che Berlusconi fosse tentato di staccare la spina al governo tecnico.
Secondo il vice presidente di Fli, Italo Bocchino, saranno i mercati a bloccare la ricandidatura del Cavaliere: ”Non Alemanno, nè Frattini, e neppure il processo Ruby. Sarà il libero mercato tanto caro al Berlusconi del ’94, saranno gli investitori internazionali a rendere impossibile il ritorno sulla scena del capo del Pdl. Berlusconi — aggiunge — spaventa i mercati, che con lui in campo si fiderebbero ancor meno dell’Italia: Il Cavaliere lo sa, comprende bene che una campagna elettorale sarebbe per lui (e per l’Italia) devastante e quindi alla fine non si candiderà ”.
All’interno del Pdl è forte la corrente degli ex An contrari al sesto governo Berlusconi.
A differenza di Angelino Alfano, che considera le primarie “inutili”, ci sono poi una trentina di parlamentari del Pdl che presenteranno a Roma un documento in cui si chiede di mantenere questo impegno.
Secondo l’ex ministro Gianfranco Rotondi: ”Berlusconi è il presidente votato dagli italiani e ha il diritto di chiedere il giudizio dei cittadini. La sua candidatura è stata posta dall’on. Alfano che è il leader del Pdl”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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