Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
SI TRATTA DEL PRIMO CASO DI UN CAPOLUOGO DI PROVINCIA… ALLA BASE LE INCHIESTE DELLA DDA SULLA SOOCIETA’ MULTISERVIZI E SU UN CONSIGLIERE COMUNALE… COLLEGAMENTI CON LA COSCA TEGANO
Il Consiglio dei ministri ha deciso all’unanimità lo scioglimento del Consiglio comunale di Reggio Calabria.
Lo ha annunciato il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, durante una conferenza stampa a palazzo Chigi.
“Non è uno scioglimento per dissesto”, ha precisato, ma per “contiguità e non per infiltrazioni” mafiose.
Lo scioglimento, ha proseguito, è stato “un atto preventivo e non sanzionatorio, una decisione sofferta, documentata, studiata e approfondita”, fatta “a favore della città ”.
Il ministro ha sottolineato che “è la prima volta nella storia d’Italia che viene sciolto il consiglio comunale di un capoluogo di provincia“.
La Commissione d’accesso al Comune di Reggio Calabria, la cui relazione sta alla base dello scioglimento, è stata nominata il 20 gennaio scorso dall’allora prefetto di Reggio Luigi Varratta, e si è insediata il 24 gennaio.
Il 13 luglio ha concluso i suoi lavori e nelle settimane successive è stata inviata al Viminale una relazione dal nuovo prefetto Luigi Piscitelli.
La Commissione ha avuto mandato a “indagare” su due ambiti: le inchieste della Direzione distrettuale antimafia sulla società partecipata Multiservizi e su quella che ha portato all’arresto del consigliere comunale Giuseppe Plutino, per stabilire se potessero esserci stati condizionamenti dell’attuale amministrazione guidata da Demetrio Arena, eletto nel maggio del 2011.
Per i prossimi 18 mesi la città sarà amministrata da una commissione di tre membri.
“Speriamo che la città possa trovare la serenità e riprendere il suo cammino”, ha detto ancora il ministro, che ha portato in cdm la richiesta di scioglimento.
“Il governo è molto vicino a Reggio Calabria e farà di tutto per far risorgere questa città , dandole le risorse necessarie e importanti compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione”.
La Multiservizi è finita travolta dopo l’arresto, nel 2011, dell’allora direttore operativo Giuseppe Rechichi, accusato di associazione mafiosa e ritenuto il prestanome della cosca Tegano nella società .
A Rechichi, condannato nel luglio scorso a 16 anni di reclusione, il 31 luglio è stata poi notificata un’altra ordinanza di custodia cautelare nell’ambito di un’operazione che ha portato all’arresto di un ex consigliere comunale di centrodestra, Dominique Suraci, al quale avrebbe garantito un apporto elettorale proprio in virtù del suo ruolo all’interno della Multiservizi.
La società è stata sciolta dal Comune nel luglio scorso dopo che la Prefettura aveva negato la certificazione antimafia al socio privato, motivando la decisione con tentativi di infiltrazioni della criminalità organizzata.
Contro la decisione del governo si scaglia Jole Santelli, deputato calabrese del Pdl, che parla di “scelta politica punitiva e umiliante”:
“Dovranno essere molto serie, motivate e approfondite le motivazioni e le valutazioni che hanno portato il ministro Cancellieri ad una decisione simile”, afferma.
Una decisione “puramente discrezionale e quindi politica. La città non si difende nominando commissari”.
Tra i “big” nazionali, il segretario del Pd Pierluigi Bersani parla invece di una decisione che “deve farci riflettere sulla gravità dellla situazione nel nostro Paese” rispetto alle “infiltrazioni delle organizzazioni criminali”.
Per il leader di Sel Nichi Vendola, ex vicepresidente della Commissione antimafia, sottolinea “quanto la cattiva politica in contiguità con la ‘ndrangheta abbia soffocato il passato e soffochi il presente e il futuro di questa terra meravigliosa”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
IL CASO DELLA DIRIGENTE COMUNALE CHE AVREBBE CONCESSO INCARICHI PUBBLICI SENZA APPALTO ALLA SOCIETA’ DEL FIGLIO
Lo scandalo di «parentopoli» è scoppiato anche a Torino.
Nel giorno in cui avrebbe voluto festeggiare la sua nomina a presidente dell’Anci regionale, il primo cittadino Piero Fassino ha chiesto di intervenire in Sala rossa.
In molti, in consiglio, mettono le mani avanti: «Chi ha sbagliato faccia un passo indietro».
Il caso è scoppiato la scorsa settimana, quando, su pressione del Movimento 5 stelle, un cd con tutti gli affidamenti diretti assegnati dall’amministrazione a società private dal 2006 al 2011 è finito nelle mani dei consiglieri comunali.
INCARICHI COMUNALI AL FIGLIO
L’imbarazzo del sindaco riguarda Anna Martina. Una signora di 61 anni che fa la direttrice delle relazioni internazionali del Comune, «senza mai aver vinto un concorso pubblico per questo», denuncia il Movimento 5 stelle.
E che per anni è stata capo del settore comunicazione strategia, turismo e promozione della città , oltre che di tutta la divisione cultura, sotto la guida dell’ex sindaco Sergio Chiamparino.
Anna Martina ha affidato quasi 50mila euro di lavori alla Punto Rec Studio.
Senza gare, sulla fiducia.
La società , però, è detenuta per quasi il 50 per cento dal figlio Marco Barberis.
Si tratta di sei decisioni prese dall’amministrazione comunale per la «scelta di materiali audiovisivi finalizzati alle attività culturali e di promozione della città ». Marco, che è figlio di Walter Barberis, curatore della mostra Fare gli italiani alle Ogr di Torino, uno degli eventi per cui la Martina ha lavorato per conto della città , ha goduto, in particolare, di alcune migliaia di euro durante le celebrazioni di Italia 150, nel 2011.
In quell’anno Marco Barberis si è sposato con una delle più strette collaboratrici della Martina, Silvia Bertetto.
Una ragazza che prima lavorava presso lo studio Mailander – una delle agenzie che compare più volte nel cd degli appalti, scelta in più di un’occasione dalla Martina per lavori di comunicazione — e che in seguito ha trovato lavoro a Turismo Torino, l’agenzia di promozione della Città .
Proprio a fianco della nuora. Non solo.
FESTIVAL DEL JAZZ
Un video che circola su Youtube mostra il volto sorridente del figlio della Martina durante il festival del Jazz del 2012, che si è svolto a Torino tra aprile e maggio. Intervistato, racconta di lavorare per conto del Comune per fare un «cd ricordo» della manifestazione.
Per quell’evento la Città spese quasi un milione di euro.
Dal 27 aprile al Primo maggio del 2012. Una spesa che costò al sindaco insulti e contestazioni che degenerarono in scontri con la polizia proprio durante il corteo della Festa dei lavoratori. «Fassino, pensi solo al Festival del Jazz e noi non abbiamo lavoro» gli gridavano gli operai in cassa integrazione.
Anche l’assessore a cultura e turismo, Maurizio Braccialarghe, è finito nella bufera. Dalla sua nomina in giunta l’opposizione gli contesta di non aver lasciato il suo posto di dirigente in Rai.
A diventare oggetto di scandalo nei scorsi giorni sono state due determine per un totale di 38.634 euro, che, sempre per promuovere il Festival del Jazz, vennero affidati alla società della Rai per degli spot di promozione radiofonici.
CD DEGLI SCANDALI
«Non avevamo scelta, la Sipra ha l’esclusiva per questo tipo di spot» si è giustificato l’assessore. Il cd degli scandali finora ha fatto venire alla luce casi relativi fino al 2011.
Perchè, spiega Chiara Appendino, consigliere comunale del Movimento 5 stelle, «il dettaglio degli affidamenti diretti del 2012 non ci è ancora stata dato». Ma alcuni episodi curiosi saltano già all’occhio.
C’è una determina del luglio 2012 con cui vengono dati 18.220 euro alla Orange per presentare delle slide show di Torino a Helsinki nel mese di settembre.
L’evento descritto si chiama Helsinki international design house exhibition: every day discoveries.
I grillini con un’interpellanza chiedono se questa spesa sia stata necessaria. E fanno notare come la Orange, una delle aziende «predilette» da Anna Martina, negli ultimi anni abbia ricevuto migliaia di euro per svariati eventi culturali.
Fassino ha promesso che sul caso di Anna Martina incaricherà il city manager Cesare Vaciago «di approfondire la materia, di accertare l’eventuale sussistenza di profili di responsabilità soggettiva e in tal caso, di indicare quali provvedimenti debba adottare l’amministrazione».
E che porterà all’esame della giunta un provvedimento per rivedere le regole sugli incarichi. Ma accusa il Movimento 5 stelle di infangare l’amministrazione.
«Non c’è nessun sistema Torino — ha dichiarato in Sala rossa — e certe dichiarazioni rilasciate in modo demagogico servono solo a infangare una città . Perchè qui non ci sono consiglieri che rubano, e ricordo che la dottoressa Martina in ogni caso ha contribuito al rilancio della città ».
Elisa Sola
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
IL PERIODO CHE DEVE PASSARE TRA UN CONTRATTO A TERMINE E UN ALTRO E’ L’OGGETTO DEL CONTENDERE
Potrebbe cambiare una delle norme chiave della riforma del mercato del lavoro, quella che allunga il periodo che deve passare tra un contratto a termine e l’altro.
La legge 92 Fornero prevede infatti che, di regola, debbano trascorrere almeno 60 giorni fra un contratto temporaneo e l’altro se il primo è durato meno di sei mesi, e almeno 90 giorni se invece la durata è stata superiore a sei mesi.
Prima della riforma gli intervalli che il datore di lavoro doveva rispettare erano molto più brevi: 10 e 20 giorni.
Parlando a un convegno a Modena è stato lo stesso ministro del Lavoro a dire che, in particolare, il limite dei tre mesi «sta creando qualche problema: me ne rendo conto, sto ricevendo molte lettere e quindi studieremo qualche altra soluzione».
L’allungamento dell’intervallo tra un contratto temporaneo e l’altro era stato presentato dal governo come uno strumento utile a combattere l’abuso di questo tipo di rapporti di lavoro e quindi il precariato.
Ma da subito i contrari avevano sottolineato il rischio che la norma avrebbe limitato le occasioni di lavoro e favorito il nero.
È così cominciato un braccio di ferro tra Fornero e le imprese.
Il ministro ha annunciato un monitoraggio sulla riforma in collaborazione con le imprese e, rispondendo indirettamente al presidente della Confindustria Giorgio Squinzi che più volte ha chiesto di rivedere profondamente la legge 92, ha affermato che «la disponibilità a discutere punto per punto è massima».
Ma la riforma «non si smantella», ha avvertito.
L’offensiva contro la legge è comunque forte, unendo le imprese e il Pdl, che ieri con l’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, è tornato a sostenere che la riforma «sta producendo una minore propensione ad assumere o a confermare rapporti di lavoro a termine».
Con ieri, intanto, siamo entrati in una settimana decisiva per l’accordo sulla produttività chiesto dal governo alle parti sociali.
Squinzi continua a essere ottimista: «È un momento storico per l’intesa. Mi auguro che prevalga il buon senso».
E chiede al governo di fare la sua parte, aumentando la detassazione del salario aziendale e intervenendo sulla pubblica amministrazione, «palla al piede dell’Italia».
Anche il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, crede nell’accordo: «Ci sono margini».
Frena invece la leader della Cgi, Susanna Camusso: «Parlare di tavolo sulla produttività è una parola grossa».
Qual è il vero ostacolo per i sindacati lo spiega con chiarezza il numero uno della Uil, Luigi Angeletti: «È escluso che si possano abbassare i salari in maniera surrettizia o esplicita».
E uno degli sherpa della trattativa confessa: «Il problema è che ci chiedono di rinunciare a quote di salario nel contratto nazionale che poi dovremmo recuperare a livello aziendale o territoriale, ma è quel “dovremmo” che non funziona».
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
VERSO L’ACCORDO SULLE PREFERENZE… SI TRATTA ANCORA SUL PREMIO DI MAGGIORANZA ALLA COALIZIONE
Incontri, colloqui, trattative. Pd e Pdl cercano di stringere i tempi sulla legge elettorale. In modo da arrivare domani con qualcosa di concreto alla nuova, ennesima, riunione della commissione Affari costituzionale del Senato.
E magari giovedì votare finalmente un testo largamente “condiviso”. Come vuole Giorgio Napolitano che da giorni preme sui partiti, soprattutto Pd e Pdl, affinchè si decidano a mandare in soffitta il tanto detestato Porcellum.
Così Violante, Zanda e Migliavacca, da un lato, e Verdini e Quagliariello, dal-l’altro, continuano a discutere dietro le quinte.
Anche oggi dovrebbe esserci un altro colloquio fra Verdini e Migliavacca.
L’accordo dovrebbe chiudersi su un sistema proporzionale corretto con un premio di maggioranza.
Dove il Pd cederebbe sui collegi e aprirebbe alle preferenze.
Dal canto suo il Pdl farebbe il sacrificio di acconciarsi al premio di maggioranza alla coalizione, e non al partito.
Le trattative girano intorno all’entità del premio.
Il Pd vorrebbe il 15 per cento, il Pdl parte da una cifra molto più bassa. Intorno all’8 per cento.
La mediazione possibile sarebbe quella del 12 per cento che per i complessi meccanismi di ripartizione dei seggi finirebbe per assegnare alla coalizione vincente il 10 per cento del posti.
Il restante 90 per cento dovrebbe essere assegnato così: il 50 per cento con liste bloccate e il 40 con liste con candidati e preferenze.
Ma queste percentuali sono materia di contesa.
E dunque potrebbero variare durante le trattative.
Il canovaccio dell’accordo è questo.
Con il Pd che in aula voterebbe no alle preferenze, ma alla fine direbbe sì alla legge nel suo complesso. Questa è la possibile intesa.
Nonostante le dichiarazioni di principio dei leader dei partiti. Ancora ieri Angelino Alfano ha ribadito che il Pdl lavora per le preferenze e il premio di maggioranza al primo partito.
Il segretario respinge l’accusa che le preferenze siano legate al malcostume e alle ruberie dei politici. Come nel caso Fiorito, eletto con questo sistema. «Chi è ladro – avverte Alfano- lo è con qualsiasi sistema elettorale». Inoltre per il leader pidiellino, «la nuova legge elettorale deve premiare il partito con un premio ragionevole che non provochi un “dopaggio!” del sistema elettorale».
Dichiarazioni che sanno di tattica.
Altri, ostili al ritorno alle preferenze e alla Prima Repubblica, osservano invece che l’accordo Pd-Pdl potrà passare al Senato.
Con la benedizione del Quirinale.
Ma alla Camera, incontrerà molte difficoltà parlamentari. Infatti sono previsti molti voto segreti. E Carlo Vizzini, presidente della Affari costituzionali del Senato, fa notare che «su 630 deputati solo una quarantina hanno esperienza di elezioni con le preferenze».
Dunque per loro il nuovo sistema sarà un vero e proprio salto nel buio.
Difficile da digerire e affrontare.
A fronte della possibilità di conquistare una “nomina” mantenendo in vita il Porcellum.
Salvo Buzzanca
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
DOPO I PARTITI, LE ISTITUZIONI… IN CRISI PERSINO IL RAPPORTO CON I COMUNI
Le Regioni sono nell’occhio del ciclone.
Il susseguirsi di scandali e di sprechi incomprensibili in questa o in quella Regione ha profondamente turbato i cittadini.
E comportato un sensibile incremento del trend di diminuzione di fiducia nelle istituzioni.
Oggi, la quota di italiani che riesce a giudicare positivamente i partiti politici è ridotta al 4 per cento: meno di quanti, in qualche modo, operano attivamente all’interno dei partiti stessi. Molti degli stessi militanti disistimano le forze politiche in cui operano.
Ma, come si è detto, la disaffezione ha finito con il toccare anche le istituzioni.
La maggioranza (53 per cento) degli elettori manifesta sfiducia persino nei confronti del Comune in cui vive, l’istituzione locale un tempo più amata.
Ancora minore è il consenso espresso per le Province (38 per cento).
E, com’è comprensibile alla luce degli ultimi avvenimenti, risulta ulteriormente inferiore quello dichiarato per le Regioni: due italiani su tre (64 per cento) affermano di non apprezzare più queste ultime.
Il distacco è ancora più accentuato tra i giovanissimi (71 per cento di sfiducia) e tra i residenti nelle Regioni meridionali (70 per cento di sfiducia), a conferma del tradizionale minore attaccamento alle istituzioni rilevabile in queste aree.
Nell’insieme, dunque, gli italiani non si fidano più delle istituzioni locali e delle Regioni in particolare: un sentimento che mina progressivamente il consenso sociale verso gli organismi rappresentativi.
Ciò porta alcuni a proporre di abolire le Regioni oltre alle Province.
Sull’eliminazione di queste ultime, si sa, vi è un largo consenso e auspicio tra gli elettori.
Quasi due italiani su tre (63 per cento) ne auspicano l’eliminazione, anche se una quota consistente (38 per cento) propone di limitare questo provvedimento solo ai contesti di minore dimensione (ma, come è noto, il consenso per l’abolizione delle Province si attenua fortemente nel momento in cui viene presa in considerazione la Provincia in cui si risiede).
Tuttavia, dopo l’estendersi degli scandali che hanno riguardato le Regioni, molti (44 per cento), come si è detto, propongono di abolire anche queste ultime.
Si tratta, beninteso, di un’idea che è difficile prendere in considerazione: anche se per la maggior parte degli osservatori i poteri attribuiti oggi alle Regioni (anche per effetto della riforma del titolo V) sono eccessivi e vanno forse ridotti, una loro completa abolizione appare quantomeno problematica.
Resta il fatto che, sull’onda degli avvenimenti delle ultime settimane, tanti vogliano liberarsene buttando anche ciò che c’è di buono.
Questo atteggiamento è relativamente più frequente tra chi è più lontano dalla politica: se ne occupa poco o per nulla ed è tentato dall’astensione.
Tra chi esprime questa posizione, la maggior parte (28 per cento) ritiene però che il provvedimento dovrebbe riguardare in particolare le Regioni più piccole, considerando il fatto che è difficile pensare di applicare la stessa normativa ad entità territoriali di dimensione così diversa tra loro.
Gli avvenimenti delle ultime settimane non hanno però prodotto solo disaffezione e sfiducia crescente verso le istituzioni locali: non pochi cittadini si sono risolti, alla luce di quanto è successo, a cambiare la loro opzione di voto o a prendere in considerazione l’astensione.
In particolare, ben il 14 per cento afferma di avere mutato, a seguito degli scandali, la propria scelta elettorale.
E una percentuale altrettanto ampia – ancora una volta, più accentuata tra quanti manifestano un minore interesse per la politica – dichiara di voler passare alla diserzione dalle urne.
Se si tiene conto che un altro 27 per cento di cittadini afferma di «avere comunque deciso di non andare a votare già da prima», si giunge complessivamente a più del 40 per cento di italiani che prende seriamente in considerazione la possibilità di non presentarsi alle urne alle prossime elezioni.
È ragionevole pensare che, alla fine, buona parte di costoro si recherà comunque a votare.
Ma la diffusione dell’intenzione dichiarata ad astenersi costituisce di per sè un altro segnale dell’estendersi della disaffezione verso la politica e le stesse istituzioni: un fenomeno di cui non si può non tenere conto, pena il dissolversi dei fondamenti su cui si regge il consenso sociale.
Renato Mannheimer
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
IL SEGRETARIO GETTA L’AMO ALL’UDC: “SI SACRIFICA PER UNIRE IL CENTRODESTRA”. I PRO-MONTI ESULTANO, I FEDELISSIMI SI AGITANO E IL CAVALIERE TACE… FRATTINI FAVOREVOLE, LA SANTANCHE’ INSORGE: “NON E’ ALFANO CHE DECIDE”
Svolta clamorosa e concordata? Daniela Santanchè non crede che Angelino Alfano sia il ventriloquo di Silvio Berlusconi.
Prima di entrare negli studi di Porta a Porta, legge un dispaccio d’agenzia e dice: “Dov’è la notizia? Chi parla con Berlusconi sa che questa non è una cosa nuova. E poi non è Alfano a decidere sulla candidatura del Cavaliere”.
Galeotta la presentazione a Roma dell’ultimo libro di Ferdinando Adornato (oggi deputato dell’Udc), il segretario senza quid del Pdl annuncia: “Berlusconi è pronto a non candidarsi per unire i moderati e il centrodestra”.
Alafano parla davanti a Pier Ferdinando Casini dell’Udc (ed Enrico Letta del Pd).
È la reiterazione, stavolta più solenne, della solita offerta ai centristi, estensibile fino a Luca Cordero di Montezemolo: un’ammucchiata neodemocristiana per fermare Bersani più Vendola.
Casini incassa con prudenza, se non scetticismo: “Sono pronto alle sfide ma non agli inganni. Vediamo se è vero quello che dice Alfano, non è la prima volta che assistiamo agli stop and go del Pdl”.
Ma le parole del redivivo Alfano suonano innanzitutto come una risposta (una dichiarazione di guerra?) al bombardamento in corso sul Pdl da Palazzo Grazioli, residenza romana del Cavaliere.
Dopo le minacce di azzeramento e di rottamazione della nomenklatura, ecco la soluzione finale che ribalta la scena: ad andare via, secondo il segretario, sarà Berlusconi, non i colonnelli assediati.
Non a caso, ad applaudire subito l’annuncio sono i colonnelli medesimi e i sostenitori dello spirito della Grande Coalizione: Fabrizio Cicchitto, Franco Frattini, Maurizio Lupi, Mario Mauro, Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno (“Non si ricandida? È una buona notizia”).
Alfano vuole salvare il Pdl e riunirlo con l’Udc sotto l’ombrello dei popolari europei. Vecchia storia, che va avanti almeno dal febbraio 2011, prima dello spread estivo e dell’arrivo di Monti a Palazzo Chigi, nell’autunno dello stesso anno.
Il segretario dice anche: “Il Pdl non lascerà il campo”. È la linea esattamente contraria alle indiscrezioni di questi giorni riportate dal Giornale di Sallusti.
Da un lato l’oligarchia di partito, dove si fa strada un nascente antiberlusconismo azzurro, dall’altro i movimentisti o i rivoluzionari che sognano la morte del Pdl.
Non solo la Santanchè. Ecco la Biancofiore: “Che Berlusconi non si candiderà con il Pdl lo hanno capito tutti gli italiani e lo sapevano anche i protagonisti della politica. Altra cosa è, come sperano alcuni ambienti terrorizzati dal suo potenziale successo, che Berlusconi si ritiri a Cuba e lasci la politica. L’annuncio di Alfano dunque non è un annuncio”.
In realtà , il problema è la torsione (forzatura?) che Alfano dà ai tentennamenti di Berlusconi delle ultime settimane.
L’unica certezza è questa: il Cavaliere non ha più voglia e penserebbe al ritiro.
E il piano di riunire i moderati risale alle passate offerte a Luca di Montezemolo di guidare il centrodestra.
Offerte però rifiutate dal presidente della Ferrari.
Adesso il progetto viene rilanciato da Alfano e Casini vuol capire fino a che punto si tratti di un bluff.
Del resto B., in questi mesi, è stato a fasi alterne in procinto di fare il padre nobile del Pdl o il candidato premier.
Ieri Berlusconi è tornato a Milano dalla Russia, dove ha partecipati ai sontuosi festeggiamenti per i sessant’anni dell’amico Vladimir Putin.
Primo interrogativo: porterà avanti l’offensiva contro il Pdl?
L’insofferenza verso i colonnelli del suo partito è continuata fino al momento della partenza.
Testimoni raccontano una scena dopo l’ennesima riunione con la nomenklatura. Usciti dalla stanza gli ex An Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, B. ha aperto le finestre: “C’è un cattivo odore di fascismo”.
Poi c’è Cicchitto, vero conducator degli antiberlusconiani del Pdl.
Questo il titolo, in parte rettificato, di una sua intervista alla Stampa: “Berlusconi i voti non li prendi solo tu, bombardare il quartier generale non aiuta il centrodestra”.
Nel partito è ormai in corso una feroce guerra tra bande e clan, con annesse minacce di scissioni.
Paradossalmente, il ritiro di Berlusconi potrebbe più unire che dividere, anche all’interno. Segno dei tempi.
B. arriverà a Roma solo domani.
Oggi vedrà ad Arcore la famiglia e i vertici del Biscione.
Gli interessi delle sue aziende e i guai giudiziari (a cominciare da Ruby) sono sempre in cima all’agenda.
E non è un mistero che una trattativa sul Monti-bis contempli un salvacondotto completo sulla “roba” e sui processi.
Per quanto riguarda, poi, l’eventuale sesta discesa in campo, Berlusconi si riserverà di decidere solo quando alcune incognite saranno sciolte: le elezioni regionali in Sicilia, il vincitore delle primarie del Pd, la sentenza su Ruby.
Nel frattempo, i sondaggi della fidata Ghisleri continuano a dare conto del grande crollo del Pdl, precipitato tra il 17 e il 18 per cento.
Una catastrofe.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
ACCERCHIATO TRA RUBY, TARANTINI E DELL’UTRI L’EX PREMIER CERCA UNA USCITA GARANTITA
«Giochiamoci quest’ultima carta». Incassare il salvacondotto che possa chiudere le sue partite giudiziarie e le sue angosce.
Compiere il passo indietro più volte ventilato, consegnare il suo pacchetto di voti pur di ottenere una qualche forma di «amnistia».
Ma questa volta con patti chiari, con accordi non formali ma «certi».
Un patto tra gentiluomini, tra i «moderati» che darebbero vita al «Ppe italiano» senza Silvio Berlusconi.
Col Cavaliere destinato a restare sullo sfondo e a quel punto poco o nulla interessato ai dettagli, a chi guiderà la coalizione, se il corteggiatissimo Luca Cordero di Montezemolo, col quale è tornato a parlare a più riprese in queste settimane, o lo stesso Pier Ferdinando Casini, che pure ha risposto «no grazie» anche all’ultima avance.
L’ex presidente del Consiglio che atterra a Milano da Mosca e si chiude ad Arcore è un uomo assillato dal tempo che scorre rapido.
E dalle porte che si chiudono sul suo futuro politico e personale. Su un partito avviato verso l’esplosione e il tracollo elettorale.
È il fantasma dei processi, a inseguirlo, in primo luogo.
Non solo la tenaglia Ruby che – a dispetto delle rassicurazioni dei suoi legali – sta per chiudersi già entro l’anno o al più a gennaio. Ma ci sono anche i procedimenti avviati dalla Puglia sull’affaire Tarantino e quello napoletano sul filone Lavitola, a impensierire non poco.
Per non dire – racconta chi nel Pdl tiene d’occhio politica e toghe – il dirottamento sulla Boccassini, nella tana di Milano – del procedimento sul «ricatto» che avrebbe operato Dell’Utri.
«Un accerchiamento» lo definisce, e non da ora, Berlusconi.
Ma a piegare le ultime resistenze e a spingerlo a usare quella che ha sempre considerato l’«arma finale» sono stati anche gli assilli dell’imprenditore che vede il suo gruppo perdere fette importanti di mercato, valore delle azioni, prospettive di sviluppo per l’impero Mediaset.
Le condizioni che il Cavaliere si prepara a porre ai suoi interlocutori in un altro mercato, quello della politica, sono dunque duplici. In fin dei conti, sono le medesime condizioni che erano state poste a novembre, alla vigilia della nascita del governo Monti.
Anche allora i luogotenenti del premier dimissionario hanno provato a piantare dei paletti di garanzia, risoltisi in nulla.
Se non in un via libera sui ministeri ritenuti più «delicati». Berlusconi era un leader all’angolo, costretto dalle cancellerie di mezza Europa a compiere il passo indietro.
Adesso pensa di poter dettare lui le condizioni. E di entrare a pieno titolo in partita.
E’ per questo che, raccontano, questa volta è disposto a giocare sul tavolo verde il jolly. Rinuncia non solo alla corsa alla premiership ma anche al seggio in Parlamento.
«Non a caso l’uscita di Alfano è stata vaga, ambigua su questo punto» fa notare un dirigente di via dell’Umiltà . Ma per farlo – va da sè – «le garanzie sotto il profilo giudiziario dovrebbero essere blindate» nell’ottica di chi ci sta lavorando.
Come sia possibile strapparle, nell’attuale quadro costituzionale, resta tutto da verificare.
Certo è che per tutto il giorno sull’asse Mosca-Roma i contatti sono stati costanti, continui. Angelino Alfano non ha lanciato la pietra nello stagno a occhi chiusi, non avrebbe potuto permetterselo.
Raccontano dalla sede Pdl che l’ultima telefonata col «capo» è avvenuta fino a pochi istanti prima del decollo di Berlusconi dalla capitale russa dopo i festeggiamenti di Putin.
«Giochiamoci quest’ultima carta, proviamo a mettere all’angolo Pier davanti alle telecamere» è stato il messaggio in vista dell’appuntamento pubblico che da li a poco avrebbe atteso Angelino e il segretario Udc.
Per nulla tentato, il leader centrista: «Ne abbiamo viste troppe» commentava Casini dopo aver lasciato la presentazione del libro di Adornato e prima di raggiungere gli studi di Ottoemezzo, dove ha ribadito il concetto.
Per nulla interessato, adesso: «Figuariamoci se dopo anni di deserto accettiamo, per poi sentire Silvio tornare da Mosca e ripensarci e cedere al pressing dei suoi per non mollare».
Invece “Silvio” pensa proprio all’«ultima carta», prima che il partito finisca in mille pezzi.
Del Pdl morente se ne occuperà solo adistanza.
Oggi resterà a Villa San Martino per incontrare i suoi familiari.
Domani a Palazzo Grazioli, per riunire i vertici Fininvest, come accade sempre nei momenti cruciali.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
IL CONSIGLIO DI STATO DA’ RAGIONE AGLI EX AN RIMASTI NEL PDL… PER ORA I SOLDI DEL DEFUNTO PARTITO RESTANO A LORO, FLI RIMANE A BOCCA ASCIUTTA
Doccia fredda per gli ex An di Futuro e Libertà .
Il Consiglio di Stato, ribaltando quanto deciso lo scorso 24 luglio dal Tar del Lazio, ha dato il via libera all’iscrizione nell’albo delle persone giuridiche della Prefettura di Roma della Fondazione An, in cui è destinato a confluire il patrimonio dell’ex partito di Gianfranco Fini: circa 55 milioni in depositi bancari, la società editrice del Secolo d’Italia e immobili in tutta il Paese per un valore stimato tra i 300 e i 400 milioni.
Per effetto della decisione la gestione dei beni torna, almeno per ora, nella esclusiva disponibilità degli ex An passati nel Pdl, che hanno il totale controllo del cda della Fondazione.
Ai finiani di Fli, che reclamano a loro volta una fetta consistente dell’eredità , chiedendo la liquidazione dei beni di An, non resta adesso che la strada del giudizio civile.
Nella nuova ordinanza il Consiglio di Stato stabilisce infatti al riguardo che è già in corso una causa al Tribunale di Roma, dove i finiani hanno impugnato la delibera del Congresso nazionale di An del 2 marzo 2009 che dispose lo scioglimento e la messa in liquidazione dell’associazione An e la costituzione della omonima Fondazione entro l 2011 con il conferimento in essa di tutti i beni.
A rivolgersi alla giustizia amministrativa erano stati il vicepresidente di Futuro e Libertà , Italo Bocchino, Rita Marino, segretaria particolare di Fini ai tempi di An e i deputati Enzo Raisi e Antonio Buonfiglio.
I ricorrenti chiedevano di sospendere il provvedimento con cui la Prefettura di Roma, lo scorso aprile, ha riconosciuto la Fondazione An.
La mossa di Fli aveva un obiettivo preciso: togliere i beni conferiti alla Fondazione, di fatto gestita dagli ex colonnelli di An oggi nel Pdl Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Altero Matteoli e Gianni Alemanno, per farli tornare nell’associazione Alleanza Nazionale.
A quel punto anche la formazione di Gianfranco Fini avrebbe potuto dire la sua sul patrimonio ex An.
A luglio il Tar aveva dato ragione ai finiani, riconoscendo che la procedura di costituzione della fondazione era viziata e sospendendo il provvedimento della Prefettura.
Verdetto ribaltato adesso dai giudici di Palazzo Spada, secondo i quali «non appare sussistente alcun serio ed attuale danno che discenda di per sè ed in via diretta dal provvedimento impugnato anzitutto perchè il riconoscimento della Fondazione è avvenuto allo stato degli atti e senza pregiudizio del controllo prefettizio sull’eventuale mala gestio futura di essa», e in secondo luogo perchè il decreto prefettizio è stato emanato proprio «al dichiarato fine d’evitare ogni dispersione o depauperamento del patrimonio della Fondazione».
Le rivendicazioni sul patrimonio dell’associazione An avanzate da Bocchino e dagli altri esponenti di Fli, prosegue il collegio presieduto da Pier Giorgio Lignani, potranno essere fatte valere davanti al giudice civile.
«Ogni controversia circa la validità o l’efficacia dell’atto costitutivo di una fondazione», scrive il Consiglio di stato nell’ordinanza, «rientra, anche dopo che sia intervenuto il decreto prefettizio d’iscrizione nel registro delle ersone giuridiche, nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria rdinaria atteso che il negozio di fondazione integra un atto di autonomia privata, che non partecipa della natura di tal provvedimento, ma è regolato in relazione alla sua validità ed efficacia dalle norme privatistiche e genera rapporti di diritto privato e posizioni di diritto soggettivo».
I giudici ricordano, infine, che «la Fondazione s’è comunque accollata tutti gli oneri della liquidazione dell’associazione An» e che i rappresentanti di Fli e gli altri ricorrenti «potranno agevolmente rivalersi sul residuo patrimonio diverso dal fondo di dotazione iniziale della Fondazione (fissato a 10 milioni di euro, ndr), oltr che negli ovvi limiti dell’ammissione al passivo».
Domenico Lusi
(da “L’Espresso“)
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Ottobre 9th, 2012 Riccardo Fucile
SALVO IL 90% DEI PARLAMENTARI
E’ stata superata la norma dello Statuto che stabiliva un limite sui mandati dei deputati e dei senatori.
Nel regolamento dei democratici si dice infatti che, salvo deroghe, chi ha fatto tre mandati non è ricandidabile.
Ma quelle due parole, “tre mandati” potevano avere una duplice interpretazione: tre legislature, oppure quindici anni in Parlamento.
Il dubbio interpretativo — come scrive Repubblica — è stato sciolto nell’assemblea dello scorso mese di luglio in cui è stato approvato un ordine del giorno della presidenza in cui si parla di 15 anni in Parlamento.
Tradotto significa che il novanta per cento dei deputati e dei senatori democrativi ora è candidabuile.
Dei 309 parlamentari solo 28 resterebbero fuori, ma questo numero potrebbe essere ulteriormente ridotto grazie a una deroga che “può essere concessa per statuto su richiesta esclusiva degli interessati per un numero di casi non superiore al dieci per cento degli eletti del Pd: insomma, 31 parlamentari potrebbero usufruire della deroga. In questo modo nessuno sarà costretto a rinunciare allo scranno in Parlamento.
Se non ci fosse stata la modifica perfino Pierluigi Bersani avrebbe rischiato di restare fuori.
In pratica un assist per la propaganda di Renzi che chiede invece di rottamare la vecchia classe dirigente.
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