Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
MIGLIAIA DI BAMBINI NON SONO AMMESSI ALLE STRUTTURE PUBBLICHE PER MANCANZA DI POSTI
Trecentodue euro al mese per mantenere un bambino al nido comunale.
Sempre che ci si riesca, visto che un piccolo su quattro non riesce ad entrare per carenza di posti.
Considerando poi almeno 10 mesi di utilizzo del servizio, la spesa annua di una famiglia arriva a più di 3mila euro.
Tanto costa mediamente in Italia mandare i figli all’asilo nido comunale, fra difficoltà di accesso e disparità economiche tra aree del Paese difficili da giustificare.
E’ quanto emerge dall’indagine di Cittadinanzattiva che ha fotografato la situazione degli asili nido del nostro paese.
L’analisi ha considerato una famiglia tipo di tre persone (genitori e figlio 0-3 anni) con reddito lordo annuo di 44.200 euro e relativo Isee di 19.900 euro.
I dati sulle rette sono elaborati a partire da fonti ufficiali (anni scolastici 2010/11 e 2011/12) delle amministrazioni comunali interessate all’indagine (tutti i capoluoghi di provincia).
Oggetto della ricerca sono state le rette applicate al servizio di asilo nido comunale per la frequenza a tempo pieno (in media, 9 ore al giorno) e, dove non presente, a tempo ridotto (in media, 6 ore al giorno), per cinque giorni a settimana.
Le disparità fra aree territoriali.
In una provincia la spesa mensile media per il tempo pieno può avere costi anche tre volte superiori rispetto a un’altra, e doppi tra province di una stessa regione. Ad esempio, a Lecco la spesa per la retta mensile, di 547 euro, è 7 volte più cara rispetto a Catanzaro (70 euro), il triplo rispetto a Roma (146 euro) e più che doppia rispetto a Milano (232 euro).
Marcate differenze anche all’interno di una stessa regione: in Veneto, la retta più cara, in vigore a Belluno (525 euro mese per il tempo pieno) supera di 316 euro la più economica registrata a Venezia.
Analogamente nel Lazio la retta che si paga a Viterbo (396 euro) supera di 250 euro la più economica registrata a Roma.
E le differenze ci sono anche tra le realtà che hanno il tempo ridotto: al Sud, in Sicilia tra la retta di Caltanissetta (220 euro) e quella di Agrigento la differenza è di 130 euro.
Tariffe in crescita.
Nel 2011/12, ben 39 città hanno ritoccato all’insù le rette di frequenza, e 6 capoluoghi registrano incrementi a due cifre: Bologna (+29,7%), Vibo Valentia (+29%), Perugia (+21,8%), Genova (+15,2%), Livorno (+13,9%), Sassari (+10%).
In positivo, il dato nazionale della spesa media mensile è rimasto invariato rispetto all’anno passato.
Liste di attesa.
Dall’analisi di dati in possesso al Ministero degli Interni e relativi al 2010, emerge che il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.623 (+6% rispetto al 2009) con una disponibilità di 141.618 posti (+3% rispetto al 2009).
In media il 23,5% dei richiedenti rimane in lista d’attesa. Il poco edificante record va alla Calabria con il 39% di bimbi in lista di attesa, seguita da Campania (37%) e Sicilia (+36%).
Città più care tutte al Nord.
Calabria la regione più economica (114 euro), Lombardia e Valle d’Aosta le più costose con oltre 400 euro di spesa media.
Nella top ten delle 10 città più care, tra quelle che offrono il servizio a tempo pieno, si confermano, rispetto al 2010/11, Lecco, Belluno, Sondrio, Bergamo, Mantova, Cuneo, Lucca, Pisa e Udine.
Nella graduatoria delle 10 città meno care, prevalgono le realtà del Centro-Sud. In assoluto, la città più economica risulta Catanzaro, seguita da Vibo Valentia, Cagliari e Roma.
Copertura del servizio.
La differenza tra il Nord e il Sud del Paese non si limita solo ai costi, ma riguarda anche il numero di nidi sul territorio: sempre secondo gli ultimi dati del ministero dell’Interno, aggiornati al 2010, la regione che emerge per il più elevato numero di nidi è la Lombardia con 794 strutture pubbliche e poco più di 28.500 posti disponibili, seguita da Emilia Romagna (611 nidi e oltre 25.500 posti) e Toscana (437 nidi e oltre 15.000 posti), ultima il Molise con soli sei asili per 300 posti disponibili.
A livello nazionale, a più di trent’anni dalla legge 1044/1971 che istituì gli asili nido comunali, se ne contano 3.623 (a fronte dei 3.800 asili pubblici previsti già per il 1976), un numero insufficiente benchè in crescita rispetto ai 3.184 registrati nel 2007. Il servizio di asilo nido pubblico è presente solo nel 18% dei comuni italiani; nel loro insieme il 60% è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al Centro e solo il restante 13% al Sud.
Italia vs Europa.
Facendo un confronto tra i posti disponibili e la potenziale utenza, in media in Italia la copertura del servizio è del 6,5% (percentuale che sale all’13,3% se consideriamo solo i capoluoghi di provincia) con un massimo del 15,2% in Emilia Romagna ed un minimo dell’1% scarso in Calabria e Campania.
Questo dato conferma non solo quanto l’Italia sia lontana dall’obiettivo comunitario che fissa al 33% la copertura del servizio, ma anche dal resto dei Paesi europei: Danimarca, Svezia e Islanda si contraddistinguono per il più alto tasso di diffusione dei servizi per la prima infanzia (con una copertura del 50% dei bambini di età inferiore ai tre anni), seguiti da Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Belgio, Regno Unito e Portogallo (con valori tra il 50% e il 25%).
Percentuali comprese tra 25 e 10% si registrano in Lituania, Spagna, Irlanda, Austria, Ungheria e Germania.
“Dall’indagine effettuata è evidente che ancora oggi manca nel nostro Paese un sistema di servizi per l’infanzia equamente diffuso ed accessibile su tutto il territorio – spiega Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva – e adeguate agevolazioni fiscali a sostegno dei nuclei familiari con bambini piccoli.
D’altro canto la riduzione delle risorse a disposizione degli enti locali e la rigidità del patto di stabilità contribuiscono a tagliare sempre di più le risorse destinate alla spesa sociale”
Monica Rubino
(da “La Repubblica“)
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Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
RESTA DIFFICILE TRASFERIRE GLI STATALI IN ALTRI UFFICI O FARGLI CAMBIARE SETTORE
Per chi governa è da sempre la sfida più difficile: far cambiare di scrivania un dipendente pubblico.
Gli ultimissimi dati parlano chiaro.
Secondo l’Aran, Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni, nel 2010 la «mobilità » tra settori del pubblico impiego ha coinvolto appena lo 0,1% del personale; quella «intracomparto», cioè tra uffici dello stesso settore, l’1%.
Per farla breve: nel 2010 solo in un caso su mille c’è stato lo spostamento di un dipendente da un ente all’altro, solo in un caso su cento l’amministrazione ha ordinato il cambio di ufficio.
«C’è una sostanziale impermeabilità dei dipendenti fra i vari comparti», commenta l’Aran. E figurarsi ora che il governo Monti vorrebbe spostare di sede migliaia di dipendenti delle prefetture, dei piccoli tribunali, degli uffici periferici dello Stato. Viste le premesse, si annuncia una sfida titanica.
Gli esperti dell’Aran sono sconfortati. «E’ difficile non vedere il completamento professionale che si potrebbe ottenere se a una esperienza lavorativa in una amministrazione locale seguisse, ad esempio, quella in una amministrazione centrale e viceversa».
Belle parole.
La realtà è diametralmente opposta.
Il dipendente pubblico ci tiene moltissimo alla sua routine.
In tutto il 2010, la mobilità intracomparto ha riguardato 33.944 lavoratori (l’1%) mentre quella extra comparto ha registrato solo 1.840 persone in entrata e 2.273 in uscita (circa lo 0,1%).
A dare vivacità – si fa per dire – a questa mobilità ha peraltro contribuito in grandissima parte la corsa alla Presidenza del Consiglio con 192 entrate e 5 uscite. Grazie anche – nota maliziosamente l’Aran – alle retribuzioni più alte della media: oltre 53.000 euro annui contro i 34.000 della media.
Un po’ più usata è la mobilità temporanea (comandi e distacchi), sempre con la presidenza del Consiglio dei ministri al top delle richieste, (1.645 comandati o distaccati a fronte di appena 75 usciti).
Ma questa è una mobilità che fa avvicinare ai gangli del potere e quindi bene accetta.
Questi i numeri della sostanziale immobilità dei dipendenti pubblici, dunque.
Pure a fronte di una legge esistente da 11 anni che dà la possibilità di ricollocare il personale in esubero (e in caso di esito negativo di questi tentativi, può sfociare nella messa in mobilità fino all’eventuale cessazione del rapporto di lavoro).
Ora, però, il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi ha annunciato che questo tipo di mobilità potrà essere utilizzata nell’applicazione della spending review anche se come «ultimo strumento».
Ed è semplice fare qualche numero: l’accorpamento di una trentina di province dovrebbe comportare la mobilità di circa tremila dipendenti.
Verranno coinvolti sia i dipendenti delle Province accorpate, sia quelli del ministero dell’Interno, sia chi lavora in altri uffici ministeriali.
Bisognerà attendere la metà di gennaio 2013 per saperne di più, quando sarà pronto il documento della Presidenza del Consiglio finalizzato a rideterminare quali e come saranno «gli enti territoriali del governo sul territorio».
La riorganizzazione coinvolgerà Province, ma anche Prefetture, Questure, Motorizzazioni civili, Capitanerie di porto, sovrintendenze dei Beni culturali, i provveditorati alle opere pubbliche, gli uffici scolastici e i presidi provinciali del controllo sul territorio.
Una trentina di enti in tutto.
Il provvedimento di ridisegno della geografia giudiziaria, a sua volta, comporta la chiusura di circa mille sedi giudiziarie, piccole o piccolissime, con accentramento del personale nelle sedi maggiori.
Il ministero della Giustizia stimava di trasferire 2454 tra magistrati ordinari e onorari e 7603 unità del personale amministrativo.
Il solo annuncio di questi spostamenti sta scatenando proteste furibonde e innumerevoli ricorsi.
Non è dunque un caso se un ministro, protetto dall’anonimato, ammetta che per sbloccare le trattative con i sindacati «occorreranno un po’ di risorse», riconoscendo che una «mobilità a costo zero», con le attuali garanzie sindacali, «è pressochè impossibile».
Francesco Grignetti
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Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
ECCESSO DI MALTEMPO O DI ALLARME? … GLI ESPERTI: “PIOVE DI PIU’ E IN MODO PIU’ VIOLENTO”
Sessanta avvisi di avverse condizioni meteo in media in un anno lanciati dal servizio dell’aeronautica militare.
Ventidue tramessi dalla Protezione civile solo dall’inizio di settembre.
Per non parlare della quasi costante allerta 2 in cui ha vissuto nelle ultime settimane la Liguria.
In alcuni casi al bollettino rosso è seguito un nubifragio, una frana, in altri non è successo nulla o quasi: eccesso di maltempo o di allarme?
Piove di più rispetto a dieci, venti anni fa o è la nostra percezione che è cambiata nell’affrontare l’eventuale emergenza?
E ancora: dopo la sentenza sulla mancata previsione del terremoto dell’Aquila si preferisce dare un’allerta in più che una in meno?
I dati raccolti dalla rete delle stazioni di lineameteo.it dicono che anche domenica in 16 località sono caduti più di 80 mm di pioggia in 12 ore, con punte di 136 nel Trevigiano: ne bastano 30 in un’ora per provocare un nubifragio in città .
Il colonnello Luigi De Leonibus, responsabile del servizio meteo dell’areonautica militare, spiega: «È presto per parlare di una marcata tendenza alla tropicalizzazione, serve almeno mezzo secolo di osservazioni per dirlo. Sicuramente si registra un aumento delle precipitazioni temporalesche».
Il metereologo e climatologo Mario Giuliacci ci dice anche di quanto: «Rispetto al passato piove di più (perturbazioni più frequenti) e in modo più violento (rovesci più forti): a novembre in media dovrebbero cadere 80 mm di pioggia, in quarant’anni solo per undici volte è stata superata la soglia dei 100: per ben sette negli anni 2000».
La colpa? «Del Mediterraneo sempre più caldo: quando le perturbazioni atlantiche lo sorvolano assorbono calore e umidità , spinte dallo scirocco verso Nord lungo il Tirreno e l’Adriatico trovano poi le Alpi e salendo di quota si scaricano in violenti temporali».
Spiega Massimiliano Fazzini, docente di Rischio Climatico all’università di Ferrara: «Ormai l’eccezionalità sta diventando la normalità , ma questa non può essere vissuta come tale dal nostro territorio fragile. Nè troppa pioggia quindi nè troppi allarmi (forse qualcuno a livello regionale)».
Perchè, aggiunge De Leonibus, «il numero di avvisi dipende dall’impatto che fenomeni gravi possono avere sul territorio».
L’allerta per un’area molto urbanizzata sarà così sempre più forte. «Se è vero così che i sessanta avvisi in un anno sono circa sempre gli stessi la modalità con cui vengono fatti e percepiti è cambiata: il fattore antropico è fondamentale. Non solo: la sensibilità del territorio e della comunità alle informazioni meteo, sempre più accurate, è aumentata».
Paola Pagliara, responsabile del centro previsionale rischio idrogeologico della Protezione civile, paragona il nostro territorio a un malato cronico e pone al centro del cambiamento la variabile emotiva: «È vero, le precipitazioni sono più violente e anche il livello d’allerta è più alto.
Ma questo perchè è aumentata la percezione del rischio sull’onda dell’emotività delle recenti alluvioni».
La memoria però è corta: «E fino a oggi l’emotività non è bastata a sensibilizzare chi gestisce il territorio anche se, dopo ogni tragedia, a qualcosa è servita».
Prendiamo l’alluvione di Sarno, maggio 1998, 160 vittime: «Dopo quell’evento s’è voluto monitorare tutti i pezzi d’Italia a rischio idrogeologico. A dieci anni la mappa è completa e ci dice che l’80% dei comuni è a rischio».
E l’alluvione di Messina, ottobre 2009, 35 morti: «Anche dopo quella tragedia è stato messo a punto un piano per la messa in sicurezza delle aree a rischio e stanziato un miliardo. Una goccia rispetto ai 40 miliardi necessari».
Soprattutto perchè quelle risorse in alcuni casi non sono arrivate. «Ma pur sempre qualcosa: con una media di tre-quattro eventi eccezionali ogni anno, la situazione del nostro territorio è sempre più vulnerabile. E ogni allerta non tiene conto solo delle previsioni ma anche delle ferite strutturali ancora aperte. Questo fa scattare un livello di allarme superiore».
Insomma: «Il sistema di allerta tenta di supplire al rischio presente sul territorio. Anche se si procedesse al ritmo di un miliardo l’anno, ce ne vorrebbero 40 per mettere in sicurezza tutto».
Un sistema più sensibile dopo la sentenza dell’Aquila? «Non si può escludere che questo determini una maggiore prudenza tra chi lavora nel settore dell’incertezza, è ragionevole»
Del resto anche la percezione del rischio di inondazioni e frane è aumentato.
Spiega Fausto Guzzetti, direttore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr: «Una ricerca commissionata alla Doxa sulla percezione dei rischi naturali ci dice che un cittadino su tre si sente abbastanza-molto esposto al rischio di alluvioni (soprattutto in Liguria, Campania, Piemonte e Toscana) e uno su cinque a quello di frane (in testa Valle d’Aosta, Calabria, Liguria e Campania)».
E quindi: «Piove in modo più intenso ma siamo anche più sensibili, perchè al di là del fenomeno naturale in sè (monitorato in modo sempre più accurato) il territorio è il nostro tallone d’Achille: sistemarlo ora però ha un costo insostenibile».
Alessandra Mangiarotti
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE: “FACCIAMO LAVORARE I MIGLIORI RAGAZZI DEI PAESI EUROPEI PIU IN DIFFICOLTA'”
Il presidente del Consiglio di sorveglianza della Volkswagen, Ferdinand Piech, annuncia un programma di assunzioni di giovani ingegneri italiani.
In un’intervista al domenicale “Bild am Sonntag” (BamS) il padre-padrone del colosso di Wolfsburg annuncia di voler estendere anche all’Italia il programma di assunzioni già varato in Spagna e Portogallo, con il quale intende offrire prospettive di lavoro ai giovani laureati disoccupati.
«Sono molto preoccupato per l’elevata disoccupazione giovanile in alcuni Paesi dell’Ue, è qui che dobbiamo agire uniti», spiega Piech, aggiungendo che «nel suo piccolo la Volkswagen offre già il suo contributo. Offriamo a giovani spagnoli e portoghesi l’opportunità di mettere radici professionalmente».
«Il nostro programma “StartUp” è concepito per ingegneri uomini e donne che dopo la laurea vogliono compiere un’esperienza internazionale», afferma Piech, precisando che «al termine dei due anni di questo programma è possibile l’assunzione definitiva. Questa opportunità vogliamo offrirla adesso anche ai giovani italiani».
Il debole di Piech per l’Italia è confermato dalla rivelazione di avere in garage una Ferrari ed una moto Ducati, azienda che il suo gruppo ha rilevato nei mesi scorsi.
«Nel mio garage c’è una Ferrari, ma appartiene a mia moglie. La prima vettura di Maranello, con un piccolo motore medio V8, l’ha avuta per la ricorrenza dei nostri 15 anni di matrimonio».
Quando gli viene chiesto se il suo motore preferito sia quello della Bugatti, vettura che guida abitualmente, Piech risponde affermativamente, precisando che «ha un suono molto simile a quello della Ducati. Un anno fa ho comprato la moto più potente da 200 CV, se si vuole un cabrio di gamma alta molto a buon mercato».
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
ALLA FINE DELL’ANNO LA PARTE VARIABILE DELLO STIPENDIO DI CHI LAVORA NELLE BIG BANK USA CRESCERA’ DEL 10%
Mentre il mondo reale sta ancora facendo i conti con gli effetti di una crisi nata nelle sale operative della finanza, i banchieri di Wall Street tornano a incassare bonus in crescita.
Secondo i calcoli della Johnson Associates, una società di consulenza specializzata in piani retributivi, infatti, a fine 2012 la parte variabile dello stipendio di chi lavora nelle big bank americane crescerà del 10 per cento.
La ricerca è stata effettuata prendendo in considerazione i dati forniti da dieci società di asset management, otto grandi banche e oltre una dozzina di istituzioni finanziarie. L’aumento delle retribuzioni segue un modesto miglioramento dell’attività bancaria. “Anche nel campo delle retribuzioni stiamo assistendo a una ripresa lenta, proprio come sta accadendo nell’economia — spiega Alan Johnson, managing director della Johnson Associates — Nel 2011 i bonus avevano subito un taglio del 30%”.
E anche negli anni precedenti si era assistito a una riduzione, anche se non così ampia come l’anno scorso.
Nonostante l’aumento dei bonus di quest’anno le banche non sembrano aver abbandonato le loro politiche di austerity.
Molte di loro continuano a varare piani di ristrutturazione; l’ultima in ordine di tempo è stata la svizzera Ubs che ha annunciato 10mila licenziamenti, pari al 15% del suo organico.
I tagli colpiranno soprattutto la divisione dell’investment banking. E non è un caso che lo studio della Johnson Associates riveli che i banchieri d’investimento, un tempo i più pagati, non avranno alcun aumento dei bonus.
Anzi probabilmente subiranno un ulteriore taglio del 10%.
Andrà decisamente meglio ai trader del reddito fisso (+10-20%), che erano stati però i più penalizzati nel 2011.
Nell’asset management e nelle banche commerciali i bonus dovrebbero invece rimanere stabili.
Mentre nel campo degli hedge fund e del private equity la crescita dei bonus sarà nell’ordine del 5%. I top manager, infine, dovranno “accontentarsi” di percepire la stessa cifra dell’anno scorso.
Per il numero uno di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, questo significa uno stipendio da 12 milioni di dollari.
“Se paragonate agli stipendi della gente comune, queste cifre sono enormi — conclude Alan Johnson — ma se confrontate con quanto percepivano i banchieri nel 2006 e nel 2007 sono molto basse; Blankfein, per esempio, nel 2007 ha percepito 68,5 miliardi”.
Nonostante la crisi del settore finanziario non sia ancora del tutto superata, le cifre in ballo restano comunque molto alte.
Dall’inizio dell’anno Goldman Sachs, Morgan Stanley, JPMorgan Chase, Bank of America e Citigroup hanno accantonato 92,49 miliardi di dollari per retribuire a fine anno i propri dipendenti, una cifra in leggero calo rispetto ai 92,81 miliardi dello stesso periodo del 2011.
Giorgio Faunieri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 13th, 2012 Riccardo Fucile
“E’ UNA GUERRA, GIUSTO ESSERE DURI”…CORRUZIONE ED EVASIONE I NEMICI DA SCONFIGGERE …IL PREMIER OTTIMISTA SUI CONTI PUBBLICI
“Le misure e gli interventi contro la corruzione fanno pensare a una guerra, e in realta lo è. Non possiamo avere una società civile senza un abbattimento dell’evasione fiscale. Lo stesso vale per la lotta alla corruzione”.
Dal forum organizzato a Milano dal Financial Times, Mario Monti ripercorre le tappe salienti di un anno di governo e rivendica le misure “per combattere l’evasione fiscale, come il redditometro, il tetto ai pagamenti in contanti”.
E a proposito della lotta alla corruzione, il presidente del Consiglio dà atto della “determinazione e abilità del ministro della Giustizia, grazie alle quali abbiamo introdotto misure che per la prima volta combatteranno la corruzione secondo standard giudicati soddisfacenti da vari enti europei”.
Il nodo del debito pubblico.
Quanto al debito pubblico italiano, pari al 120 per cento del Pil, il premier ha spiegato che “è cresciuto meno rispetto alla media europea durante la crisi”.
Le riforme varate nell’ultimo anno “hanno migliorato le prospettive di crescita, ma non ancora i dati”.
Del resto, il nostro Paese un anno fa versava in condizioni economiche al limite del default: “Se un anno fa l’Italia fosse affondata avrebbe trascinato con sè anche l’euro”. Per Monti “la crescita può tornare non appena sarà risolta la crisi della zona euro. L’Italia non ha grandi squilibri a parte il rapporto fra debito e Pil”.
E prevede che “il debito italiano comincerà a declinare dal 2014”, anche grazie a un programma di privatizzazione e di vendite di immobili.
“Siamo solo all’inizio del lavoro – ha aggiunto il capo del governo – ma spero che possiamo dire un anno dopo avere iniziato che ora l’Italia ha fatto molto per creare meccanismi di stabilizzazione a livello europeo, di cui non ha ancora chiesto di poter usurfruire. Nella strada che stiamo facendo potrebbero esserci delle sorprese”.
Costi della politica.
Monti ha riconosciuto che “la società italiana ha mostrato un’importante abilità a capire e a fare grandi sacrifici per il suo futuro. Finora non ci sono state in Italia grandi manifestazioni di scontento che abbiamo visto invece in altri Paesi di recente”. Ma la richiesta della piazza di ridurre anche i costi della politica è forte e non può essere elusa: “Abbiamo ridotto i costi della pubblica amministrazione e della politica”. A questo proposito, il capo del governo ha citato la riduzione del numero delle Province: “Tra le città che non sono più capoluogo c’è anche Varese, il mio luogo d’origine”.
Ovviamente “per i cittadini niente è abbastanza. Hanno ragione, anche se dobbiamo essere molto duri non dobbiamo diventare populisti”.
Pensioni e patrimoniale.
Tra le misure messe in atto per tagliare la spesa pubblica, Monti cita la riforma delle pensioni dello scorso anno che “porta risparmi altissimi” all’Italia, per 7,6 miliardi di euro nel 2014, “che diventeranno 22 miliardi nel 2020”.
Il sistema pensionistico è stato “stabilizzato” rendendolo “interamente dipendente dai contributi” con l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile, “e presto a 67”, e indicizzando le pensioni alla durata media della vita.
Quanto alla possibilità di introdurre una tassa patrimoniale, il premier ha risposto positivamente: “Il governo sta studiando una patrimoniale “generalizzata” ma “non sarà introdotta nottetempo, ci sono passi che stiamo verificando e non dovrà incentivare la fuga dei capitali”.
Di nuovo premier? No.
Il professore, poi, ha riconfermato il suo rifiuto ad accettare una nuova candidatura alla guida del governo del paese.
A una domanda nel corso del summi del vice direttore del Financial Times se vorrebbe o se gli piacerebbe rimanere premier, risponde con un secco “No”.
Grillo e gli euroscettici.
A chi gli chiedeva se Grillo e il suo movimento rappresentassero una reazione populista contro l’euro, Monti ha replicato: “Non so se questo sia il suo obiettivo ma quel che dice sembra raccogliere consensi e questo è parte della democrazia”.
Tuttavia il comico genovese, precisa il capo dell’esecutivo, non è l’unico ad attaccare le politiche economiche dell’Ue: “Questo signore ha in molti casi parlato contro le misure stringenti che l’Europa impone. Ma altre parti politiche italiane hanno fatto lo stesso”.
E sarebbero stati proprio gli “euroscettici” che siedono in Parlamento a mettere in a rischio il governo: “In alcuni giorni abbiamo avuto difficoltà , sono stato anche accusato di essere un servo sottomesso della cancelliera Merkel”.
Una crisi di governo, ha messo in guardia, “avrebbe significato abbandonare il Fiscal compact, aumentare il deficit e il debito”.
(da “la Repubblica”)
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