Gennaio 1st, 2013 Riccardo Fucile
IL FINE ANNO NEL BUNKER… LA VERA BATTAGLIA E’ QUELLA PER CONQUISTARE LE MENTI E I CUORI DELLA GENTE
Quando l’altoparlante dà avvio alla litania «rocket attack» solo i giornalisti pensano ad una burla.
I soldati del III° reggimento alpini ululano sarcastici alla volta della tenda che copre la mensa.
Poi, ordinatamente, si dirigono verso i bunker disseminati per la base.
I tavoli su cui mangiavano le squadre che di lì a poco sarebbero uscite per una operazione notturna rimangono ingombri di piatti fumanti.
Nello spazio centrale che avrebbe dovuto ospitare il buffet di fine anno rimangono sospese solo le bandiere delle nazioni presenti in base: Stati Uniti, Italia, Afghanistan. Nella fuga qualcuno ha afferrato uno spicchio di torta, o una lattina di coca cola. Sono le 19 del 31 dicembre 2012 nell’avamposto italiano di Shindand, provincia di Herat, Afghanistan.
LA CONQUISTA DEI CUORI –
Solo poche ore prima il capo della Shura del distretto, Abdul Amid Nur diceva: «Per conquistare la comunità è necessario continuare a lavorare in questa direzione. Ci vogliono scuole, strade, infrastrutture».
Anche l’omonimo governatore della provincia concorda sull’essenziale: «Per qualsiasi necessità dobbiamo far riferimento al nuovo esercito afghano, o alle forze di coalizione».
In mattinata un massiccio convoglio dell’esercito italiano ha varcato la fila di monti che separa la città di Shindand dalla Zeerko Valley, pianoro desertico nel quale l’insorgenza talebana e i trafficanti d’oppio hanno da tempo stabilito una delle maggiori enclavi dell’insorgenza.
Un pozzo costruito con fondi italiani è l’occasione della visita.
Darà acqua potabile alle oltre 500 persone che gravitano intorno al villaggio di Sanowghan. Mentre le autorità tagliano il nastro e i bambini smagriti si azzuffano per qualche biscotto una fila di uomini seduti osserva diffidente fra la polvere e le pozze di ghiaccio.
Un’immagine che riaffiora nell’oscurità del bunker, dove ora qualcuno si lamenta per il fumo delle sigarette, che scorre sul soffitto per spargersi nel terso cielo afghano. Fa freddo.
Qui le temperature durante la notte raggiungono i 15 gradi sotto zero.
Una figura nell’ombra distende le gambe sulla panca della parete opposta, quasi annoiato.
Poi prende a destreggiarsi fra i tasti di un videogioco portatile. Per il III° Reggimento questo è il quinto attacco della missione, cominciata a metà settembre. Mai nessun ferito.
MESSAGGIO
La «transizione» è anche questo, uno stillicidio di razzi e ordigni improvvisati.
Un messaggio per chi parte, la coalizione ISAF, e chi resta, il giovane e fragile esercito afghano.
Un ufficiale di collegamento del governo americano fa sfilare sullo smart phone la sua memoria di guerra. In un filmato del 2005 la base di Kabul è sotto attacco.
Gli americani passeggiano fra le pallottole come se nulla fosse. È la sesta volta che si chiude in un bunker. L’altoparlante proclama «alarm over» dopo un’ora e mezza. Il razzo è arrivato da una zona a circa 3 chilometri di distanza, schiantandosi nel settore nord della base.
Non ci sono feriti nè danni alle strutture.
Le forze di intervento rapido sono uscite per valutare sul terreno l’accaduto.
Sopra la base si alza in volo uno sciame di elicotteri. La mensa si ripopola. Arriva limpido il gracchiare di un karaoke stonato. Suona come una replica scaramantica.
Poi è il momento della lotteria. Si vincono barre di cioccolato, pacchi di dolciumi, piccole casse di ananas in barattolo.
A mezzanotte si balla su melodie leggere e un po’ fuori moda.
I superiori richiamano all’ordine i festeggianti. La mensa riacquista l’ordine di sempre.
Se non fosse per i 52 caduti italiani in Afghanistan quello di Shindand sarebbe quasi un deserto dei tartari.
Luca Foschi
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 1st, 2013 Riccardo Fucile
RAIUNO FA IL 62% DI SHARE… MENTANA: “SEGNO DELLA CRISI PIU’ DEI DATI ISTAT
Quasi diciotto milioni: tanti sono gli italiani che la sera del 31 dicembre guardavano
la televisione.
Sarà per interesse, sarà per brindare all’ora giusta, fatto sta che tanti connazionali hanno festeggiato l’ultimo dell’anno a casa.
Ed è un record: negli ultimi 15 anni non era mai successo che tante persone trascorressero la serata dell’ultimo dell’anno davanti alla tv.
MENTANA
Un segno della crisi? La risposta è affermativa secondo Enrico Mentana, direttore del Tg La7, che twitta: «Non dovrei dirlo io, ma che il 31 dicembre in tv abbia avuto il massimo ascolto degli ultimi 15 anni racconta la crisi più di un dato Istat».
Il riferimento è proprio ai quasi 18 milioni di telespettatori (dato Auditel) che hanno seguito tutta la fascia del prime time dell’intera offerta televisiva nazionale: un record.
I NUMERI
Grande successo per il programma di Raiuno “L’anno che verrà ” diretto da Carlo Conti, che a mezzanotte ha totalizzato 11 milioni 262mila telespettatori, pari al 62.37% di share.
Buona anche la media: 6 milioni 475mila telespettatori (37.35%) nella prima parte e 4 milioni 233mila (41.86%) nella seconda.
Il messaggio di fine anno del presidente Napolitano ha sfiorato i 10 milioni di spettatori.
TUTTI A CASA
Un dato, quello del Capodanno della crisi, confermato anche da un’analisi di Coldiretti-Swg, secondo cui oltre sette italiani su dieci (il 71%) hanno trascorso a casa la sera del 31, divisi tra chi ha preferito organizzare una festa nella propria abitazione (40%) e chi è stato invitato da amici o parenti (31%).
Gli italiani hanno speso per la tavola quasi 2 miliardi di euro, il 3% in meno rispetto allo scorso anno.
Sono stati stappati 80 milioni di bottiglie di spumante, per una spesa complessiva di 600 milioni di euro e sono stati consumati 6 milioni di chili di cotechini e zamponi, con un aumento dell’8 per cento rispetto all’anno scorso, serviti assieme a 10 milioni di chili di lenticchie.
Addirittura cento milioni – spiega la Coldiretti – i chili di panettoni e pandori consumati nelle feste di fine anno.
MADE IN ITALY
Secondo la Cia-Confederazione italiana agricoltori, la crisi ha portato cambiamenti anche sulla tavola: al bando le mode “esterofile” come caviale e foie gras, si riaffermano i piatti della tradizione, dal cotechino alla polenta, dai carciofi allo spumante.
Gli italiani hanno festeggiato l’arrivo del nuovo anno con un menu “made in Italy”, con prodotti locali.
La spesa destinata al cenone è stata tra i 20 e 25 euro a persona.
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Gennaio 1st, 2013 Riccardo Fucile
POCHI AUTOBUS, TRENI A SINGHIOZZO, SANITA’ IN CRISI
Provate a essere napoletani per un giorno.
Non turisti di passaggio tra i pastori di San Gregorio Armeno, la pizza ai Tribunali, il lungomare liberato (dalle auto) e la Cappella del Principe di San Severo con la meraviglia del Cristo velato.
Proprio napoletani napoletani.
Di quelli che la mattina si svegliano, escono per andare a lavorare e vorrebbero andarci con i mezzi pubblici, se hanno un problema di salute vorrebbero usufruire del Servizio sanitario nazionale non solo in ospedale ma anche nei centri convenzionati, se prendono l’auto – per la quale pagano l’assicurazione più alta d’Italia – vorrebbero poter avere un’idea di quanto tempo impiegheranno per arrivare a destinazione, e se si scatena un temporale (in inverno capita) vorrebbero poter aprire l’ombrello o azionare i tergicristalli e basta, non ritrovarsi al centro di un’emergenza da protezione civile.
D’accordo, se siete napoletani avete già pagato un prezzo altissimo per resistere quando la città era invasa dalla spazzatura, e certo non è piacevole – in particolare per quelli che ci abitano, ma anche per tutti gli altri – sapere che in un quartiere ci sono due bande che si ammazzano come fossero a Bogotà , e chi ci capita in mezzo peggio per lui.
Ma se proverete a essere napoletani per un giorno scoprirete che rifiuti e camorra sono due piaghe – una forse superata o forse no, l’altra sicuramente no – ma non le uniche. Oggi Napoli è una città dove aleggia un’ombra di Grecia imminente che fa paura. Dove ci sono intere categorie di lavoratori impiegati nel trasporto pubblico che a dicembre non hanno preso stipendi nè tredicesime, dove le manifestazioni dei disoccupati sono quotidiane e ogni giorno in piazza si vede uno striscione nuovo, e dove servizi essenziali, come proprio i trasporti ma anche l’assistenza sanitaria non sono mai stati così negati.
I collegamenti tra la città e la provincia sono ormai poco più che un ricordo.
I treni di Cumana e Circumflegrea non possono più garantire una tabella oraria perchè le agitazioni dei lavoratori senza stipendio sono improvvise e ripetute.
Gli autobus che svolgono lo stesso servizio tra città e paesi limitrofi faticano a uscire dai depositi perchè non ci sono i soldi per i rifornimenti di gasolio o per riparare i mezzi che si guastano.
Tutto è iniziato con il fallimento dell’Eavbus, la società che gestiva il trasporto regionale.
Da lì la situazione è precipitata, nonostante in Regione si stia lavorando per cercare di trovare una soluzione.
Ma soldi non ce ne sono, e le banche, con i debiti insoluti che la società si è portata dietro nel fallimento, certo non intervengono.
Non va meglio nelle cose che riguardano il Comune. Che pure soldi in cassa non ne ha.
E allora se all’improvviso sabato sera si spengono tutte le luci del centro, compresi lungomare e cosiddette vie dello shopping, sarà pur vero che si è trattato di un guasto tecnico, come fanno sapere da Palazzo San Giacomo, ma il dubbio che ci sia dell’altro rimane, visto che la società che garantisce l’illuminazione, la francese Citelum, avanza 40 milioni di euro e il 6 novembre scorso fece sapere che certo ormai Napoli cominciava a rischiare di restare al buio, e il periodo più critico sarebbe stato proprio quello di fine anno.
Un fine anno, tra l’altro, sotto tono, perchè, sempre per mancanza di fondi, non è stata organizzata la tradizionale festa in piazza del Plebiscito.
I napoletani se ne faranno una ragione, magari, però, avrebbero voluto che almeno l’annunciata riparazione delle strade devastate da buche e rattoppi peggiori delle buche fosse andata avanti. Invece è partita e si è fermata.
E allora che resta?
Sicuramente il diritto alla salute, direte voi che forse a questo punto non avrete più tanta voglia di provare a essere napoletani per un giorno. In realtà anche l’assistenza sanitaria non è più uguale per tutti.
Perchè i centri medici e diagnostici non effettuano più prestazioni in convenzione con il Ssn.
Hanno accumulato crediti con la Regione talmente alti che ora prescrizioni di Asl e medici di base non ne accettano più.
Chi ha bisogno di un esame deve pagarlo, altrimenti può provare a prenotarsi in ospedale.
E se volete provare a essere napoletani e prenotarvi per un esame in ospedale, non vi basterà più esserlo per un giorno, e nemmeno per una settimana o un mese.
Diciamo da sei mesi a un anno.
Fulvio Bufi
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 1st, 2013 Riccardo Fucile
GIA’ AVVIATA LA “SCREMATURA” DEI CURRICULUM…CON CRITERI IDENTICI A QUELLI DEL PD
Era scontato che Enrico Bondi non avrebbe avuto vita facile nell’incarico di
«selezionatore» dei candidati da imbarcare sulla zattera di Mario Monti.
Meno scontato, mentre già stando passando al setaccio i curriculum che si ammucchiano speditamente sul suo tavolo, che il primo siluro verso di lui partisse da Pier Luigi Bersani.
Non fosse altro per una circostanza alquanto singolare: i paletti che l’ex commissario del governo tecnico per la spending review dovrà utilizzare per ammettere gli aspiranti onorevoli alle liste apparentate con Monti sono pressochè gli stessi del Partito democratico. In qualche caso sono addirittura copiati.
Parliamo, per esempio, di quella regola tanto discussa, che all’interno del Pd è stata motivata con le esigenze di rinnovamento.
Ovvero, l’esclusione dalle liste elettorali per chi è già stato alla Camera o al Senato quindici anni, corrispondenti a tre mandati completi.
Una regola dolorosa per molti professionisti della politica, che sia nel caso del Pd come in quello delle liste montiane contempla però una scappatoia: quella delle deroghe per particolari personalità .
Al rispetto del limite dei tre mandati completi, va da sè, si dovrà aggiungere una fedina penale immacolata e l’assenza di scheletri nell’armadio e di conflitti d’interessi, come per esempio la titolarità di concessioni pubbliche.
E sarà pure richiesto l’impegno alla assoluta pubblicità patrimoniale, attualmente solo facoltativa: i parlamentari hanno oggi l’obbligo di presentare la dichiarazione dei redditi ma non di renderla nota via internet.
Se però la stilettata del segretario democratico può essere senza dubbio rubricata sotto la voce «azioni di disturbo» che in una campagna elettorale strana come quella appena iniziata saranno di sicuro all’ordine del giorno, i problemi più grossi per Bondi si annunciano proprio all’interno della coalizione messa in campo per sostenere Monti.
Un segnale?
Non può essere trascurato il messaggio che il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini gli ha recapitato ieri: «i nostri candidati li scelgo io».
Affermazione perfino ovvia, se non facesse trasparire l’esistenza di un problema niente affatto trascurabile, che riguarda soprattutto partiti come il suo, il più vecchio e «radicato» delle formazioni che appoggiano il premier.
Posto che Casini non avrà difficoltà a far valere la deroga per se stesso, nonostante sia seduto in Parlamento ininterrottamente dal 1983 (quando la Roma di Paulo Roberto Falcao vinceva lo scudetto, l’esercito americano invadeva Grenada e il tennista Bjorn Borg annunciava il ritiro dalle competizioni), le spine nel suo partito sono ben più numerose.
Riguardano, per esempio, le possibili candidature di alcuni consiglieri regionali targati Udc considerate nel giro montiano a dir poco inopportune.
Ma c’è anche la questione che potrebbe investire lo stesso segretario del partito, Lorenzo Cesa, protagonista di una disavventura giudiziaria ai tempi di Tangentopoli, con condanna in primo grado poi annullata in appello, finita successivamente in prescrizione.
Una condizione del tutto compatibile con le regole stabilite dal recentissimo decreto sulle incandidabilità che vieta la partecipazione alle elezioni soltanto a chi ha ricevuto una condanna definitiva superiore a due anni per reati come corruzione e concussione: e non è il caso di Cesa. Ma che nello schieramento montiano ha comunque fatto storcere il naso a molti: pronti a farne un caso, al pari di quello di Rocco Buttiglione, parlamentare per quattro legislature.
E che ci sarà da discutere, Casini l’ha fatto capire chiaramente: «Cesa e Buttiglione sono segretario e presidente del mio partito, bisognerà chiedere a loro se candidano me»
Secondo il copione già sperimentato nel Partito democratico, pure qui le deroghe saranno dunque un bel problema.
Idem le forzature che dovessero riguardare anche figure eccellenti.
Perchè se le candidature delle liste che alla Camera si presentano separate verranno scelte dai vertici dei rispettivi partiti o movimenti politici, come ha tenuto a sottolineare Casini, Bondi dovrà comunque valutarle, e rappresenta comunque uno spauracchio ben difficilmente sormontabile.
Ed è probabilmente questo il suo compito principale.
Chi rischierà di non poter mettere sul proprio simbolo il nome di Monti se l’ex rettore della Bocconi dovesse rifiutare la firma di apparentamento a causa di qualche candidatura indigeribile?
Anche se in politica, com’è noto, ci sono digestivi che fanno miracoli.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 1st, 2013 Riccardo Fucile
IN CINQUE ANNI PERSI 1,4 MILIONI DI POSTI DI LAVORO… PRESSIONE FISCALE FINO A OLTRE IL 51%
Guadagniamo meno che nel 2000. Le retribuzioni nette di fatto sono scese, a prezzi correnti, sotto quelle di dodici anni fa: in media nel 2012 il salario netto annuo era di 20.786 euro contro i 20.877 del 2000.
Rispetto all’inflazione, nello stesso periodo, la perdita cumulata di potere d’acquisto è stata in media di 5.338 euro.
Se a questa somma si aggiunge la mancata restituzione del fiscal drag, cioè delle maggiori imposte pagate per effetto dell’aumento nominale dei redditi (che fa scattare aliquote Irpef maggiori senza che sia aumentato il potere d’acquisto), i salari hanno perso mediamente 8.154 euro in dodici anni.
E per il 2013 si può prevedere un’ulteriore perdita.
Tutto questo non farà che confermare la posizione di coda occupata dall’Italia nelle classifiche Ocse (organizzazione dei Paesi industrializzati) sui salari, dopo Regno Unito, Germania, Francia e perfino Spagna.
Sono questi i principali dati contenuti nel nuovo Rapporto sulle retribuzioni a cura dell’Isrf-Lab della Fisac-Cgil, curato da Agostino Megale come quello del 2010 (allora targato Ires).
Il rapporto, questa volta, approfondisce l’impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle dinamiche retributive.
Un impatto pesante.
Innanzitutto sull’occupazione. In termini di giornate lavorative a tempo pieno, le unità di lavoro (Ula) sono diminuite di oltre 1,4 milioni rispetto al picco registrato tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008.
Insomma anche se il numero delle persone occupate è sceso «solo» di mezzo milione, da 23,4 a 22,9 milioni, il numero di ore lavorate e le corrispondenti Ula, che poi rilevano ai fini dell’andamento del prodotto interno lordo, sono scese molto di più.
Un Pil che, non a caso, è in recessione e lo resterà anche nel 2013.
Il governo Monti, dice la Cgil, ha certamente fatto bene sul piano del recupero del prestigio internazionale dell’Italia e della riduzione dello spread, il differenziale con i tassi di interesse sui titoli di Stato tedeschi, che è sceso da un picco di 575 punti, toccato nel novembre 2011, ai 320 punti di venerdì scorso, facendo scendere la spesa per interessi sul debito pubblico italiano.
Ma su tutti gli altri parametri, aggiunge Megale, dal Pil ai salari, dall’occupazione alla produzione, il bilancio è negativo.
I lavoratori perdono potere d’acquisto.
Sommando l’inflazione del triennio 2010-2012 si ottiene un aumento dei prezzi dell’8%, le retribuzioni di fatto invece, al netto di tasse e contributi, salgono solo del 4,5%.
Questo significa, dice il rapporto, che i salari hanno perso in media 70 euro al mese rispetto ai prezzi, ai quali se ne aggiungeranno altri 35 nel 2013.
Alla fine la perdita cumulata annua sarà di 1.300 euro.
Le retribuzioni nette sono basse anche per colpa di una eccessiva pressione fiscale. Nel 2010 era pari al 42,1% per le famiglie e del 46,9% per i single, rispettivamente 12,3 punti e 10,2 punti in più rispetto alla media dei Paesi Ocse.
Per effetto delle manovre 2011 e 2012, la pressione fiscale salirà nel 2014 al 46,8% per le famiglie e addirittura al 51,3% per i single.
Il maggior prelievo sul lavoro in Italia rispetto alla media Ocse si traduce in un minor salario netto di 1.380 euro l’anno, calcola l’Isrf-Cgil.
Secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, la riforma del modello contrattuale del 2009, che la Cgil non ha condiviso, ha contribuito a peggiorare la situazione, tanto è vero che la perdita di potere d’acquisto è stata netta negli ultimi due anni (-1,2 e -2,1 punti).
Colpa dell’Ipca, cioè l’inflazione attesa al netto della componente energetica importata, parametro guida per l’adeguamento delle retribuzioni.
Un indice ora superato dall’ultimo accordo sulla contrattazione, anche questo non firmato dalla Cgil.
I salari non solo sono rimasti bassi, ma sono anche aumentate le sperequazioni.
Nel 2010 un amministratore delegato, si legge nel rapporto, ha percepito in media 110 volte la somma intascata da un lavoratore dipendente.
Ma anche tra i lavoratori dipendenti le differenze esistono.
L’Isfr calcola che rispetto a un lavoratore standard una donna ha uno stipendio più basso del 12%, il dipendente di una piccola impresa (fino a 20 addetti) del 18%, uno del Sud del 19%, un immigrato del 25%, un lavoratore a termine del 26%, un giovane del 27% e un collaboratore del 33%.
È evidente però che i salari sono bassi anche perchè la produttività è scarsa.
Il rapporto conferma che l’Italia è agli ultimi posti nelle classifiche internazionali.
Il valore aggiunto reale prodotto per addetto è rimasto più o meno fermo dal 1995 a oggi mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia è aumentato di circa il 25%. Ma ciò è dovuto, secondo il rapporto, soprattutto al fatto che in questi Paesi la dimensione media d’impresa è maggiore.
È questa che fa la differenza, non le ore lavorate per addetto che nel 2011, secondo l’Ocse, sono state in Italia di più rispetto a quelle lavorate dagli inglesi, francesi e tedeschi, anche se in questi Paesi sono molti di più coloro che lavorano.
Solo che dove ci sono imprese più grandi si fanno più investimenti in innovazione e ricerca e la produttività sale e così anche i salari.
«Se avessimo aziende con in media 13 dipendenti come in Germania anzichè 3,5 come da noi – afferma Megale – la produttività in Italia aumenterebbe del 40%. Ma nulla è stato fatto per promuovere la crescita dimensionale delle imprese. Bisogna ripartire da qui e dalla riduzione del carico fiscale sulle retribuzioni, per rilanciare da subito la domanda».
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera“)
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