Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
LE INIZIATIVE DEI PARLAMENTARI SI INFRANGONO SUL MURO GRILLO-CASALEGGIO
Un po’ rock star, un po’ esercito della salvezza autoproclamatasi ciambella di salvataggio per un Paese che rischia la deriva – i deputati del MoVimento 5 Stelle arrivano all’hotel Parco dei Pini, una casa per ferie dei padri Maristi nella zona sud di Roma, all’ora di pranzo.
Riunione plenaria.
Sul vialetto un militante ha appeso uno striscione con tre scimmiette con occhi, orecchie e bocca ben aperti. «Vedo, sento, parlo».
Questi siamo noi. Fiato sul collo.
Un gigantesco faro acceso sui comportamenti collettivi. Un’idea più facile da applicare che da sopportare.
I cittadini del cambiamento si presentano alla spicciolata. Qualcuno in auto. Molti su un pullman che si ferma di fronte alla porta a vetri.
«Incontro operativo», spiega subito il portavoce Vito Crimi.
Non c’è la calca di domenica scorsa ad attenderli. Nessuna scena d’isteria. Quasi tutto sotto controllo.
Una signora in ciabatte e vestaglia grida: «Beppeeeeeee trovami un lavoro».
Il papa ligure non c’è. Lei urla lo stesso. È l’unica.
Anche i marziani lentamente diventeranno normali. Ma non è ancora il giorno.
Il senso di diversità resta evidente. Molti sono silenziosi. Sfuggenti. Diffidenti. Selva di telecamere. Il solito giochino di «io riprendo te, tu riprendi me».
Anche i messaggi di Crimi sono zigzaganti.
Il portavoce al Senato dei Cinque Stelle ha un viso largo, l’aspetto di un uomo amichevole e pacioso. Un gattone. Che evita di farsi mettere all’angolo.
«Siamo qui per capire quali incarichi attribuire a ciascuno». Niente dibattito sulle alleanze, giura. «Chi ci ha scelto sa che non ne faremo». Bye bye Pd.
Precisa. «Un governo c’è. Comunque ci sarà . È il Parlamento che deve tornare al centro dopo vent’anni in cui è stato succube dell’esecutivo. Rileggiamo bene la Costituzione».
Ribadirà il concetto in serata. «L’unica ipotesi che contempliamo è un governo 5 Stelle». Soli.
Lontani dalle contaminazioni con un universo radioattivo.
Sono le parole d’ordine di questi giorni complessi. Comunicati che lasciano poco spazio alle interpretazioni.
Del resto le opinioni del papa ligure e del suo guru Roberto Casaleggio difficilmente sono oggetto di dibattito.
E Casaleggio ha chiarito che, se il MoVimento scegliesse la strada della fiducia a chiunque, lui si farebbe da parte. «O come dico io o niente».
Basta per tenere compatto il gruppo? Forse.
Il cittadino Ivan Catalano, un passo teso, un po’ incerto, che lo inclina in avanti come se cercasse di camminare controvento, involontariamente rompe la consegna all’allineamento.
Si distrae. Aggiustandosi gli occhiali dice quello che tanti sospettano.
«L’ipotesi di un referendum per valutare un accordo col Pd tiene il MoVimento in fermento da giorni. Non ci sono vincoli».
Se Casaleggio sentisse gli si creperebbe il cuore.
O forse si creperebbe quello di Catalano. Una piccola bomba dialettica. Uno vale uno. Ovvero – fino alla sintesi imposta dalla democrazia orizzontale – non vale niente.
Solo il tandem Crimi-Lombardi interpreta la linea.
«Il cittadino Catalano esprime una sua opinione personale e non voleva dire quello che avete capito». Non voleva.
Ma quanti sono i Catalano tra i 163 neoeletti? Non è facile tenere i ranghi compatti. Serve una mano dall’alto per seppellire il dissenso
Come con la storia della marcia dal Colosseo al Parlamento nel giorno dell’insediamento, il 15 marzo.
Un progetto svelato sabato dal cittadino Stefano Vignaroli, che adesso prende le distanze da se stesso. «Io non ho mai organizzato nulla».
Le parole «marcia» e «Roma» infilate nella stessa frase hanno un suono brusco, scuro, tecnicamente nero.
E i sospetti di malinconie da Ventennio sono già troppi per alimentarne altri, in un popolo in cui l’anima progressista-ambientalista-ecologista-collettivista è per giunta maggioritaria.
Così, scendendo dalla macchina, il romano Alessandro Di Battista, uno dei duri e puri, mastica le parole: «Ma quale marcia dal Colosseo? ».
E la sua è cortesia mista a una mal celata insofferenza. Più per i colleghi che per i media.
La pressione dovrebbe costringere tutti a imparare nuove astuzie, perchè di solo web e orgoglio in politica non si campa. Lui l’ha capito. Altri no.
La marcia diventa prima «passeggiata» poi abortisce definitivamente, rottamata come un’idea stramba
Nel pomeriggio, piuttosto, si parla di soldi.
Alle 20, in conferenza stampa, i due capigruppo tirano le somme.
Dicono no a tutto. Alleanze, accordi su presidenze, condivisione di incarichi. Buio anche sul nome individuato per il Quirinale e per Palazzo Chigi. «Vedremo».
Beppe Grillo premier? «Ci mandi un curriculum e lo valuteremo», scherza la Lombardi.
Mercoledì nuova riunione. Il cittadino Catalano va via di corsa. Ha un treno che lo aspetta.
Ivan, il referendum? Lui tace.
Si limita a sorridere rimanendo in allerta, come se una sensazione di pericolo scavasse sotto il suo improvviso torpore.
Andrea Malaguti
(da “La Stampa“)
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
I FEDELISSIMI DI BERSANI: “MATTEO MOSTRA SCARSO RISPETTO PER LA COMUNITA’ DI CUI FA PARTE”
«Chi ha seguito i lavori della Direzione nazionale del Pd sa bene che il tema del finanziamento ai partiti è ben compreso negli otto punti approvati all’unanimità ».
La nota con la quale il partito democratico replica a Matteo Renzi che aveva proposto l’abolizione del finanziamento pubblico tout court, non è ufficiale, ma sa lo stesso di scomunica.
Il sindaco di Firenze si è preso una tirata di orecchi e con questo si sono riaperte le ostilità interne al partito in vista delle primarie probabili in caso di elezioni anticipate.
La questione dei finanziamento pubblico dei partiti è diventato il pomo della discordia all’interno del Pd.
Sia Bersani che Renzi sono per rivedere questa materia, ma mentre il primo (il segretario) è per una revisione all’interno di una norma più generale sui partiti che preveda comunque un sostegno economico pubblico, il secondo (il sindaco di Firenze) è per l’abolizione del finanziamento, punto e basta.
La controversa era nell’aria fin da mercoledì scorso, quando c’è stata la Direzione del partito, ma è scoppiata sabato sera, a «Che tempo che fa» quando Renzi ha specificato il suo totale dissenso con la segreteria su questo punto.
Mercoledì Renzi, com’è noto, aveva lasciato l’assise del partito senza prendere la parola.
La questione del finanziamento, così come proposta da Bersani, non gli era piaciuta e poneva l’esigenza che su questo si confrontassero gli eletti in parlamento.
Il Segretario, nella replica alla fine della Direzione, aveva chiarito il suo punto di vista sulla materia: «Dichiaro l’assoluta disponibilità ad un superamento dell’attuale sistema di finanziamento dei partiti – aveva detto – ma lo mettiamo in connessione con il funzionamento democratico dei partiti».
Riforma del finanziamento sì – è l’idea del segretario – abolizione totale no.
Come peraltro si dice nei famosi otto punti della piattaforma votata dalla Direzione, dove si parla di «Legge sui partiti con riferimento alla democrazia interna, ai codici etici, all’accesso alle candidature e al finanziamento»
Questo è il quadro della controversia sabato sera, quando Matteo Renzi è ospite di Fazio e rende evidente tutto il suo dissenso: «Se Bersani agli otto punti aggiungesse l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti non farebbe alcun atto di demagogia ma di serietà ».
La disputa ormai è chiara e la questione è diventata terreno di conflitto.
Al punto che Stefano Fassina, vessillifero del bersanismo, dà una lavata di capo al recalcitrante Sindaco: «Renzi mostra scarso rispetto per la comunità di cui fa parte – dice – e cavalca spregiudicatamente l’antipolitica, provando a ridicolizzare il Pd in una situazione certamente difficile».
«Proporre di ascoltare i neo eletti come chiede Renzi – replica il parlamentare renziano Ernesto Carbone – è forse per Fassina mancanza di rispetto? ».
Anche Arturo Parisi (da sempre contro il finanziamento pubblico) invoca chiarezza. «A questo punto, se si profilasse un ritorno alle urne – aggiunge la deputata amica del Sindaco, Simona Bonafè – Renzi rientrerebbe in pista con nuove primarie. E penso che sarebbe molto opportuno».
Raffaello Masci
(da “La Stampa”)
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
CON GRILLO OPERAI E LAVORATORI AUTONOMI, ADDIO LEGAMI DI TERRITORIO
Non è è una scossa isolata e occasionale.
Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta.
Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica.
La prima – a cui abbiamo già dedicato attenzione – colpisce il legame con il territorio.
È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”. Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra.
Nelle Marche e in Toscana, soprattutto.
La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province “forza-leghiste”, un tempo “bianche”. Democristiane.
Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.
Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo.
Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto.
È qui la seconda “crisi”, esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento.
Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private.
E gli stessi inoccupati.
Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente “protette” dallo Stato.
Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi.
I vent’anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale.
Marcata dalla “questione settentrionale” e dai soggetti politici che, più degli altri, l’hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto “pubblici”) e gli intellettuali.
Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito.
L’identità sociale – per non dire di “classe” – delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.
Il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo” (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore).
Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressochè dimezzato: dal 68 al 35%.
Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%.
Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).
Anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” alla base.
Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure “intellettuali”, il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.
Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati.
Perchè, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità .
La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all’altra.
Gli operai – e i disoccupati – non si sono spostati a sinistra.
Tanto meno – figurarsi – gli imprenditori e i lavoratori autonomi.
I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori “in fuga” si sono rivolti altrove.
Hanno scelto il M5S.
Per insoddisfazione – spesso: rabbia – verso le “alternative” tradizionali.
Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.
Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa.
Dove l’alternativa avviene – prevalentemente – fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra.
Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti.
Imprenditori e operai oppure impiegati.
Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%).
Quelli che guardano la tivù…
Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista.
Da partito di massa all’italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica.
Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%).
Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) – dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”.
Distribuito in tutto il territorio.
Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio.
Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”.
Non è così. Perchè il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato.
Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda – ma anche la Prima – Repubblica oggi non riescono più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori.
Siamo entrati in un’altra Storia.
I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo.
Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo.
Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd deve cambiare.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica”)
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
L’ENNESIMA VICENDA DI UN PADRE SEPARATO CHE DA TRE MESI FA LO SCIOPERO DELLA FAME DAVANTI A PALAZZO DI GIUSTIZIA… NONOSTANTE L’AFFIDO CONDIVISO NON RIESCE A VEDERE LA PROPRIA FIGLIA
Oggi vi raccontiamo una storia come tante se ne sentono nel nostro paese.
La storia è quella di Fabrizio Adornato che da mesi protesta quotidianamente davanti al Tribunale di Genova.
Fabrizio è un padre separato come tanti, ciò che lo rende un po’ diverso è la sua appartenenza all’Arma dei Carabinieri; è insolito infatti trovarci davanti ad un uomo delle Forze dell’Ordine che da tre mesi ha scelto lo sciopero della fame e che piano piano, sotto gli occhi di tutti e davanti all’indifferenza di molti lo ha portato a deperire a vista d’occhio, peggiorando di giorno in giorno il suo stato di salute.
Come mai una forma di protesta tanto radicale?
Dietro c’è una delle tante storie di separazioni conflittuali e diritti mancati che gli hanno impedito nel tempo di poter vedere la figlia oramai adolescente, nonostante abbia ottenuto da tempo l’affido condiviso.
Crediamo che la sua vicenda rappresenti al meglio uno dei problemi cardine del nostro paese, ovvero il mal funzionamento dei tribunali.
Non abbiamo l’abitudine di discutere il lavoro di altre categorie, certo è che chi è stato a contatto con certe vicissitudine giudiziarie può capire meglio le attuali problematiche.
Apprendiamo ad esempio dal sito aperto dal Maresciallo (www.eremita65.com), dalla sua pagina Facebook, e riassunto brevemente da un’intervista apparsa su Huffington Post che Fabrizio avrebbe “denunciato otto magistrati per omissioni d’atti d’ufficio e per interessi privati in atto d’ufficio”.
Parla di “relazioni dei servizi sociali falsificate, di giudici che per pigrizia prendono per vere le parole della sua ex moglie senza verificare la loro fondatezza”, senza che mai qualcuno abbia presentato una contro-querela per calunnia o diffamazione. (http://www.huffingtonpost.it/2013/02/02/io-padre-separato-pronto-a-morire-per-vedere-mia-figlia_n_2606761.html)
E’ capitato spesso per via del nostro lavoro di raccogliere lo stupore e la frustrazione di persone le quali un tempo pensavano che certe vicende potessero essere solo ed esclusivamente racconti di fantasia, fino a quando non ci si sono imbattute.
Sentiamo come fosse un po’ anche nostra questa storia, sapendo che il suo ruolo di certo non lo agevola.
Oltre alla solidarietà portatagli da noi, facciamo presente che anche alcuni sindacati di Polizia nonchè il Cobar dell’Arma dei Carabinieri (consigli di base di rappresentanza del personale militare) si sono espressi.
La nostra speranza è che i ripetuti appelli ed il continuo parlarne possano sbloccare la situazione e far si che Fabrizio ponga termine a questa protesta, prima che vi siano danni irreparabili.
Movimento Poliziotti
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
SI CONCLUDE LA VICENDA DEI DUE MARO’ ITALIANI SU CUI NON AVEVA GIURISDIZIONE, IN BASE ALLE LEGGI INTERNAZIONALI, LA GIUSTIZIA INDIANA
Una nota della Farnesina che suona come una sfida: “L’Italia ha informato il governo indiano che, stante la formale instaurazione di una controversia internazionale tra i due Stati, i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non faranno rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso”.
Con queste poche parole il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata ha fatto sapere che i due marò italiani non torneranno a Delhi alla scadenza del permesso concesso per tornare a votare.
E’ stato l’ambasciatore italiano a Nuova Delhi, Daniele Mancinia comunicare alle autorità indiane la decisione.
Scelta che, si aggiunge nel comunicato, è stata assunta d’intesa con i ministeri della Difesa e della Giustizia e in coordinamento con la Presidenza del consiglio dei ministri.
“L’Italia — si legge ancora — ha sempre ritenuto che la condotta delle autorità indiane violasse gli obblighi di diritto internazionale gravanti sull’India”, in particolare “il principio dell’immunità dalla giurisdizione degli organi dello Stato straniero”.
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
IL REATO IPOTIZZATO E’ CORRUZIONE NELL’AMBITO DI UNA PRESUNTA COMPRAVENDITA DI SENATORI NEL 2008…STESSA IMPUTAZIONE PER LAVITOLA E DE GREGORIO
La Procura di Napoli ha chiesto il giudizio immediato nei confronti di Silvio Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta compravendita di senatori. Analoga richiesta è stata formulata per il senatore Sergio De Gregorio e l’ex direttore dell’Avanti, Valter Lavitola.
Il reato ipotizzato è di corruzione.
Nei confronti di De Gregorio resta ancora aperta l’indagine relativa a presunti rapporti con la camorra.
Gli atti sono stati trasmessi poco fa all’ufficio del giudice per le indagini preliminari che dovrà procedere all’assegnazione del fascicolo.
Era già nell’aria l’ipotesi che la Procura di Napoli, sul caso della presunta compravendita di senatori da parte del Pdl nel 2007, potesse chiedere il giudizio immediato.
La scelta poi è diventata concreta quando la scorsa settimana l’ex premier, ‘invitato a dedurre’ dai pm napoletani ha fatto sapere di non essere disponibile nelle date proposte dalla Procura — 5, 7 e 9 marzo — la quale ha ribattuto sostenendo che Berlusconi non poteva avvalersi del ‘legittimo impedimento’.
Ma i magistrati partenopei in questi giorni hanno continuato l’attività investigativa ascoltando Romano Prodi, Antonio Di Pietro, Paolo Rossi, Anna Finocchiaro e Nello Formisano.
La tesi dell’accusa si fonda essenzialmente sulle ricostruzioni fatte da Sergio De Gregorio, senatore uscente del Pdl, che nel 2007 dall’Italia dei Valori passo’ con il partito di Berlusconi costendo alla coalizione di centrodestra di ottenere la maggioranza in Aula.
De Gregorio, in due interrogatori, ha confermato che fu pagato per il traghettamento. Tre milioni di euro, di cui un milione versato nelle casse dell’associazione ‘Italiani nel mondo’ e due a nero su conti cifrati.
La Procura ha infine chiesto alla Giunta per le Autorizzazioni a procedere di utilizzare le intercettazioni indirette dell’ex premier e di aprire una cassetta di sicurezza al Monte dei Paschi di Roma dove ci sarebbe la prova della dazione di danaro
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
GLI STESSI PARLAMENTARI PDL CHE HANNO VOTATO PERCHE’ RUBY FOSSE LA NIPOTE DI MUBARAK RIUNITI DAVANTI AL TRIBUNALE DI MILANO PER IMPEDIRE UNA SENTENZA GIUDIZIARIA
In marcia dall’Unione del commercio al tribunale di Milano.
I parlamentari del Pdl, dopo una riunione degli eletti che si è rivelata poco più che una formalità , si sono spostati in gran parte a piedi davanti al tribunale di Milano per manifestare mentre dentro il tribunale si sta celebrando il processo Ruby.
Processo che è stato sospeso e sta qui l’origine della protesta dei parlamentari del Popolo delle Libertà la cui rabbia è stata rinfocolata dalla nuova richiesta di visita fiscale dei pm milanesi al processo Ruby, dove l’ex presidente del Consiglio non si è presentato perchè ricoverato all’ospedale San Raffaele per un’uveite ed è stata disposta una nuova visita fiscale.
“Per una volta abbiamo disobbedito a Berlusconi dopo le notizie di stamani e manifestiamo il nostro disappunto, per porre un argine all’utilizzo improprio del sistema giudiziario” dice l’ex ministro dell’Istruzione Marisastella Gelmini.
I parlamentari del Pdl si sono riuniti davanti a Palazzo di Giustizia per una manifestazione che sarà , secondo le loro intenzioni, “silenziosa”.
Tra i primi ad arrivare gli ex ministri Nitto Palma, Gianfranco Rotondi e la stessa Gelmini e le parlamentari Laura Ravetto e Nunzia Di Girolamo.
In tutto i parlamentari presenti sono circa 190.
“Non c’è più lo stato di diritto e nemmeno una democrazia normale se il leader della seconda coalizione e del terzo partito italiano sin dal 1994 viene sottoposto a un bombardamento giudiziario arrivato oggi alla sua fase finale”, afferma Cicchitto.
Ovvio, nei Paesi civili i processi si concludono e nessuno trova mille cavilli per sottrarsi al giudizio.
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
ERRANI FA DA PONTIERE E ARRIVANO LE PRIME APERTURE, MA NEL PD ARRIVANO I MUGUGNI: “BASTA INSEGUIRE GRILLO”
«Io ci credo, mi voglio giocare il tutto per tutto». Il sentiero che porta alla nascita del governo Bersani è strettissimo.
Il segretario del Pd ne è consapevole.
Sa che il dialogo con i grillini può rivelarsi un percorso costellato di trappole. Ed è conscio che ogni rapporto con il centrodestra è impraticabile.
Eppure vuole provarci, appendendo il filo della speranza alla possibilità che un gruppo di eletti del Movimento 5Stelle conduca Grillo e Casaleggio sulla strada della ragionevolezza.
Una eventualità per il momento assai remota.
«Ma io ci credo – ripete a tutti il leader democratico – e sono pronto a cogliere questa occasione, questa è la mia occasione».
Bersani non parla ancora di ultima chance, ma certo se l’incarico che riceverà la prossima settimana dal capo dello Stato non si tramutasse in un esecutivo, allora l’ipotesi del passo indietro assumerebbe contorni piuttosto concreti.
Per questo il segretario sta studiando ogni mossa per giocarsi tutte le sue carte.
Una partita che, appunto, continua a passare nell’angusto tunnel che conduce nel mondo grillino.
E per la scelta di mettere a disposizione degli altri gruppi parlamentari le presidenze di entrambe le Camere: Montecitorio e Palazzo Madama.
Per questo ieri ha chiesto al suo capo della segreteria, Maurizio Migliavacca, di contattare i capigruppo del M5S.
E’ stato lui a preannunciare a Crimi l’intenzione di discutere gli assetti istituzionali di questa legislatura.
«Consulteremo tutti – è il ragionamento che l’inquilino di Largo del Nazareno sta svolgendo in queste ore – per rompere una prassi che da venti anni ha invertito il significato dei rapporti parlamentari». Niente «bottino pieno» insomma alla coalizione vincente ma «corresponsabilità istituzionale».
Il Pd non considera questa disponibilità come il tentativo di avviare una «compravendita» delle poltrone, ma come la decisione di interrompere una «abitudine berlusconiana» di incassare tutti gli incarichi da parte del vincitore.
Ma ogni cosa è complicata e soprattutto ogni casella è legata da un filo invisibile ad un’altra casella.
Le cariche parlamentari sono legate alla maggioranza che darà – se la darà – la fiducia al governo e quest’ultima all’elezione del nuovo capo dello Stato.
La tattica di Bersani, però, è quella dello “step by step”, un passo alla volta.
Prima il Parlamento, poi il governo e infine il Quirinale. Ma è chiaro che un accordo sulle presidenze di Camera e Senato verrebbe da tutti interpretato come il preludio ad un’intesa sull’esecutivo.
Non a caso Grillo e Casaleggio hanno fatto sapere ai loro deputati e senatori di giudicare «inaccettabile» anche solo l’idea di ricevere i voti del Pd per lo scranno più alto a Montecitorio o a Palazzo Madama.
Non a caso tra i democratici la soluzione più attendibile viene ritenuta quella che vede Dario Franceschini come successore di Gianfranco Fini e Mario Monti per l’eredità di Renato Schifani.
Ma c’è di più. Il leader pd è sicuro che dentro il Movimento 5Stelle si stia aprendo un confronto vero. Che può provocare qualche ripercussione.
Ed è per questo che ha incaricato Vasco Errani, il governatore dell’Emilia Romagna, di sondare i grillini più attenti.
Contatti che avrebbero incoraggiato l’azione bersaniana trovando la sponda di una dozzina di neoeletti.
Per incoraggiare l’opera di persuasione da qui al 21 marzo Bersani illustrerà una delle otto proposte ogni due giorni.
Un modo per dimostrare che le sue intenzioni sono effettive. E nella stessa direzione va l’idea di inviare a tutti i partecipanti alle primarie una sorta di questionario con cui fare un sondaggio tra i sostenitori del centrosinistra.
Ma la strategia del vertice democratico non convince tutti all’interno del partito.
Molti giudicano azzardato il salto incondizionato verso i grillini.
I dubbi emergono nel fronte dalemiano e in quello veltroniano, ma anche tra le fila dei giovani turchi e dei renziani.
«Basta inseguire l’ex comico – ripete da giorni il sindaco di Firenze – meglio far valere le nostre proposte e anche il nostro rinnovamento».
Anche perchè quasi tutti si stanno preparando al ritorno al voto in tempi brevi e ridisegnano i confini dell’alleanza inserendo al loro interno anche il gruppo montiano.
La deriva “giudiziaria” del Pdl del resto rischia di far abortire ogni tentativo di formare un governo.
Berlusconi, dopo lo scontro con la procura di Milano, è ormai tentato da un nuovo show down alle urne.
Anche perchè gli attuali equilibri al Senato possono essere per lui drammatici: se i pm di Napoli, ad esempio, dovessero chiedere l’autorizzazione all’arresto, l’aula di Palazzo Madama potrebbe approvarla attraverso una maggioranza pd-grillini.
Su tutto comunque peserà la valutazione del presidente della Repubblica.
Napolitano ha ricucito il dialogo con Bersani dopo le incomprensioni dei giorni scorsi. Gli darà l’incarico – probabilmente il 21 marzo – ma non sarà pieno e soprattutto non si tratterà di una delega in bianco.
Il leader democratico, per sciogliere la riserva, deve ripresentarsi sul Colle con tutti i voti sufficienti e tutti certificati. «Niente salti nel buio», ripetono al Quirinale.
Il segretario pd dunque non potrà giocare la sua scommessa come fece Berlusconi nel ’94 che racimolò 4-5 voti in extremis al Senato anche utilizzando metodi piuttosto impropri.
Napolitano pretende certezze. Altrimenti lo schema cambierà completamente.
Ma dopo Bersani ogni passo sarà un punto interrogativo.
Sul Colle non vogliono lasciare nulla di intentato prima di rinunciare.
Il modulo del “governo del presidente” resta un’opzione valida pur di evitare il ”modello Grecia”: il ritorno al voto dopo pochissime settimane e sotto la pressione infernale dei mercati finanziari.
Ma la spinta alle elezioni anticipate sta diventando per molti irrefrenabile.
(da “La Repubblica“)
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Marzo 11th, 2013 Riccardo Fucile
LA PAURA DEGLI ARRESTI DOMICILIARI PER IL CAVALIERE FRENA I FALCHI… IL PARTITO PRONTO ALL’AVENTINO
Piomba in clinica l’intero stato maggiore del Pdl per convincere Silvio Berlusconi a rinunciare all’affondo finale del Caimano.
Quando l’accerchiamento del Tribunale ad opera di deputati, senatori, europarlamentari, consiglieri regionali era già pianificato stamattina.
«Dobbiamo rinunciare, Silvio, il Quirinale non gradisce affatto questa mossa, viene vissuta come un grave strappo istituzionale ed esasperare adesso, con quel che sta per arrivare da Napoli, non ci conviene» spiegano Gianni Letta e Renato Schifani, nei panni delle colombe, al capezzale del Cavaliere.
È mezzogiorno. E al San Raffaele, col braccio destro di sempre e col presidente uscente del Senato, arrivano da Roma Angelino Alfano, Denis Verdini, Fabrizio Cicchitto.
Poi, gli avvocati Ghedini e Longo (attesi oggi al nuovo round con i pm del processo Ruby).
C’è apprensione per quei battiti accelerati del paziente Berlusconi, di cui parla il medico Zangrillo, conseguenza degli antidolorifici somministrati in dosi massicce per lenire il dolore all’occhio.
Il ricovero proseguirà anche oggi col forfait, ovvio, alla requisitoria del processo milanese.
Ma il passaggio è delicato, non solo sotto il profilo sanitario.
Letta e Schifani forse intuiscono solo il clima, o per davvero hanno avuto riscontro degli umori che nel frattempo maturano al Colle.
Sta di fatto che la lettura dei giornali di ieri, la notizia della mobilitazione al Tribunale, genera sul serio insofferenza e apprensione al Quirinale.
La presenza di parlamentari in una manifestazione di contrapposizione a una Procura della Repubblica viene letta come un pericoloso punto di non ritorno.
Meglio soprassedere.
Berlusconi non ne è convinto. E con lui – racconta chi è alla riunione nella stanza-salottino del settore Q della clinica – il falco Verdini.
La loro opinione è un po’ quella che da lì a qualche ora rilancia via twitter Daniela Santanchè: «Va bene il rispetto per le istituzioni, ma non sono d’accordo nel rispettare chi non rispetta» con chiaro riferimento ai giudici.
Alfano e Cicchitto con le colombe, convinti dal suggerimento rivolto al capo da Letta e Schifani: «Non laceriamo i rapporti con Napolitano, che costituisce il nostro ultimo argine, l’unica garanzia in questo momento in cui a Napoli si prepara quel che sai». Ovvero, la temuta, vociferata e finora per nulla confermata richiesta di custodia ai domiciliari che il pm Woodcoock potrebbe presentare al Senato, nell’ambito dell’inchiesta per la compravendita dei parlamentari.
«Vogliono arrestare Berlusconi per non farlo più parlare» titolava ieri il Giornale di famiglia.
L’entourage del Cav ha già cerchiato di rosso la data del 14 marzo, quando si scioglieranno ufficialmente le vecchie Camere.
Nella nuova giunta per le immunità muteranno gli equilibri, Pd e grillini avranno la maggioranza.
E un’eventuale richiesta di misure cautelari, dopo quel giorno, rischia di passare.
È il vero incubo di queste ore, al San Raffaele.
Lui rinuncia alla mobilitazione, ma spera in un «generale rasserenamento del clima» raccontano i suoi.
O, per dirlo con Anna Maria Bernini, tra gli altri, «a questo punto Napolitano intervenga contro lo stalking in atto».
Il punto di mediazione del lungo vertice in clinica diventa la nota che da lì a qualche ora Letta e Alfano mettono per iscritto pesando parola per parola.
La mobilitazione dei parlamentari (tra ieri sera e stamattina arrivati a Milano) si trasforma nella riunione di neodeputati e senatori, non più a Roma come previsto ma alle 11 di oggi alla Camera di commercio di Milano.
Per una standing ovation di solidarietà a distanza al capo ricoverato.
In quella sede si prepareranno altri passaggi «eclatanti» prima della piazza del 23. In molti spingono per la diserzione dell’insediamento delle Camere e dell’elezione dei presidenti.
Tanto più se, come sembra, il Pdl sarà tenuto fuori anche dal vertice di Palazzo Madama.
Così anche per l’insediamento delle commissioni.
Alfano invece salirà al Colle per le consultazioni, la linea è preservare il presidente delle Repubblica dagli «strappi» in cantiere.
Tuttavia perplessità e retropensieri nella corte del leader ormai si autoalimentano.
Il panico da «eliminazione politica» del capo è crescente.
I falchi sospettano che la linea morbida sia stata sponsorizzata da Schifani per ambizioni da riconferma a Palazzo Madama. Veleni.
Altri, come la Santanchè, restano sulle barricate: «Io questa mattina un salto in Tribunale lo faccio comunque, da cittadino, per guardare in faccia la Boccassini mentre terrà la sua requisitoria».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
argomento: Berlusconi, PdL | Commenta »