Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
A DECINE NE CHIEDONO LE DIMISSIONI: NON E’ NECESSARIO, BASTEREBBE METTERLO IN GALERA IN BASE ALLE LEGGI VIGENTI … POI LA PATETICA AUTODIFESA DA VIGLIACCO: “E’ STATA SOLO UNA ZINGARATA”
La frase è stata pubblicata su facebook nella notte tra domenica e lunedì e in poche ore ha suscitato un vespaio di polemiche, tanto da spingere decine di cittadini a chiedere le dimissioni del consigliere comunale leghista Emilio Paradiso: “Il bianco-fiore si è dovuta piegare ai finocchi e il nero di seppia lo lasciano lì?” ha commentato il politico del Carroccio in un post dove condivideva con gli amici un sondaggio del quotidiano Libero in cui si chiede se il neoministro Kyenge deve essere cacciato per le sue posizioni sul diritto di cittadinanza.
L’infelice accostamento di Paradiso tra il ‘bianco-fiore’, cioè il sottosegretario Micaela Biancofiore che ha dovuto lasciare le Pari opportunità dopo le proteste delle associazioni gay e il ‘nero di seppia’, rozza metafora per indicare il neoministro dell’Integrazione Cècile Kyenge, non ha ottenuto però il risultato sperato.
Invece di compiaciuti commenti di approvazione, la bacheca facebook di Paradiso è stata invasa da decine di post in cui i cittadini indignati lo invitavano alle dimissioni. A quel punto Paradiso ha rimosso la frase incriminata.
Ma le polemiche sono montate ugualmente: “Un altro esponente politico su Facebook dà prova della sua ostentata cultura razzista e della sua omofobia. Siamo certi che sia la procura della Repubblica che l’ufficio nazionale Antidiscriminazioni razziali si attiveranno al più presto. Da parte nostra nelle prossime ore sarà presentata un’interrogazione parlamentare al governo”, così il Sel in una nota.
Paradiso si è difeso definendo la sua una ‘zingarata’, anche se riconosce di aver esagerato: “La mia era semplicemente una battuta satirica che non voleva offendere nessuno, se questo è avvenuto me ne scuso Tuttavia, quella di pubblicare su facebook commenti provocatori sembra un’abitudine del consigliere leghista. Alcuni giorni prima, sulla sua bacheca era apparso un fotomontaggio dove erano presenti il segretario di Sel Nichi Vendola e l’ex deputata Pd Paola Concia, ironizzando sulla loro ‘presentabilità ‘ politica.
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
TUTTI I NUMERI DEI RISPARMI DELLA SQUADRA DELL’ESECUTIVO, DA LETTA ALLA BONINO, DA SACCOMANNI A BRUNETTA
La casa dove vive Enrico Letta con moglie e figli al Testaccio, nel cosiddetto ex ‘Cremlino’ sul Tevere, perchè vi alloggiavano molti vip di sinistra, vanta una rendita catastale e quindi una tassazione Imu abbastanza alta.
Dopo la privatizzazione e un paio di passaggi di mano, l’appartamento di 10 vani catastali è stato acquistato nel 2004 al prezzo di mercato di 900mila euro dalla moglie di Letta.
La giornalista Gianna Fregonara paga 1925,64 euro di Imu (2013).
Altrettanti ne risparmierebbe per il 2012, in caso di rimborso.
Totale: 3.851 euro che — a differenza di Brunetta — il marito-premier però vorrebbe lasciare nelle casse dello Stato.
Se passasse l’idea del Pd di alzare la detrazione prima casa da 200 a 600 euro, la famiglia Letta-Fregonara pagherebbe 1.525 euro invece di 1.925.
Il caso di Emma Bonino dimostra che il catasto è una fotografia infedele della ricchezza immobiliare, soprattutto nel centro di Roma.
A differenza di Brunetta, Bonino ha pagato solo 526,66 euro per il 2012 e risparmierebbe — in tutto tra 2012 e 2013 — solo 1.053 euro.
Un’imposta bassa per una casa certamente più piccola, ma che non vale molto meno di quella del capogruppo del Pdl: 5 vani su due livelli a due passi da Campo de’ Fiori non valgono un quinto di una villa fuori dal raccordo.
Nessun risparmio per il sottosegretario alla Presidenza Filippo Patroni Griffi, la sua casa al Colosseo, comprata a prezzo stracciato dall’Inps, infatti, è affittata e non gode dell’esenzione prima casa.
Ben diversa la situazione del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni: ha pagato 1.830 euro per l’Imu del 2012 e altrettanti ne dovrà per il 2013, per i suoi nove vani ai Parioli.
Il ministro comunque pagherà molto perchè possiede altre due case a Prati, nella stessa via di Massimo D’Alema, per complessivi 15 vani catastali.
Dario Franceschini ha una casa da 8 vani a due passi da piazza Barberini.
Per lui il totale della tassazione Imu dovuta per il 2013 è di 2.316 euro, altrettanti gli saranno rimborsati per il 2012, sempre se passasse la linea massimalista.
Risparmio totale: 4.632 euro.
Invece il ministro dell’Istruzione Maria Carrozza (6 vani al piano terra a Pisa, dove insegna) risparmierebbe 479 euro per il 2013 e altrettanti per il 2012.
Il ministro agli Affari regionali, Graziano Delrio, risparmierà 360 euro all’anno per la sua casa di Reggio Emilia.
Il ministro dello Sport Josefa Idem paga (e risparmierebbe) 1.238 euro all’anno per la sua casa di Ravenna da 13 vani catastali.
Il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi paga 2.668 euro all’anno per la casa da 11,5 vani tra il Lungotevere e Villa Borghese.
Risparmierebbe 5 mila e 336 euro in tutto.
È l’unico che si avvicina a Brunetta.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
SABATO AL CONSIGLIO NAZIONALE ANCHE I MILITANTI DI OCCUPY
Mentre nel Pd ormai è il tutti contro tutti, l’unico che sembra tenersi defilato è Matteo Renzi.
Ma sbaglierebbe chi pensasse che il sindaco non continua a tenere un occhio puntato sulla politica nazionale.
Il primo cittadino del capoluogo toscano sta dando gli ultimi ritocchi al suo libro
Oltre la rottamazione.
Il tema a cui è dedicato, come ha spiegato lui stesso a chi glielo ha chiesto, «è il futuro del centrosinistra, ma, soprattutto il futuro del Paese e dei giovani».
E infatti l’ultimo capitolo è scritto sotto forma di una lettera che il sindaco invia a un bambino che nasce nel 2013.
La presentazione del libro darà modo a Renzi di riprendere i suoi giri in tutta Italia e le sue apparizioni in televisione. Insomma, sarà uno strumento per riprendere a fare politica, senza però immischiarsi nelle beghe interne.
Secondo il sindaco rottamatore il Pd ha assolutamente bisogno «di fare una riflessione seria e approfondita su se stesso».
Non è tanto un braccio di ferro sul nome del segretario che conta, quanto la linea e l’identità che vorrà darsi il partito.
C’è chi vede Bersani dietro la candidatura di Epifani e D’Alema dietro quella di Cuperlo. Ma non è dallo scontro tra i due che, secondo i renziani, potrà venire qualcosa di buono.
Comunque il sindaco, che non punta ad avere un segretario suo, preferirebbe invece poter mettere bocca sul responsabile organizzativo del partito.
È il posto finora occupato da Nico Stumpo, l’ideatore delle primarie blindate, che interessa i renziani.
Per il resto, il primo cittadino di Firenze ritiene che sia «meglio avere le mani libere» e per questo sta meditando di non candidarsi nemmeno alla presidenza dell’Anci.
Renzi pensa invece di impegnarsi a fondo sul tema del lavoro, tant’è vero che qualcuno ha parlato di una sua svolta neo-laburista: la sua prossima battaglia sarà incentrata sulla riforma della legge Fornero.
E il primo cittadino di Firenze non diserterà l’appuntamento di sabato prossimo a Roma e interverrà all’assemblea nazionale del Pd.
Mentre il sindaco prepara le sue mosse future, nel Partito democratico continuano lo scambio di accuse e le polemiche, che, inevitabilmente, si ripercuotono sul governo. Ieri il sindaco di Bari Michele Emiliano ha attaccato direttamente Letta: «Era vicesegretario, ha le stesse responsabilità politiche di Bersani, perciò era l’ultima persona che poteva guidare questo governo».
E ancora: «Non è un caso che Berlusconi abbia voluto Letta al posto di Renzi: Matteo è un leader naturale, con lui il governo sarebbe stato diverso».
Tenta invece di far da paciere Beppe Fioroni, il quale teme che «tra un po’ non ci sarà il problema degli ex ds e degli ex ppi, ma quello degli ex pd.
Il rischio infatti è che il partito si spacchi in tre tronconi: uno centrista, uno di sinistra massimalista, e un altro che tenterà di fare un nuovo Pd.
Bersani, D’Alema e Veltroni riprendessero a parlarsi, mentre chi sta al governo non creda che l’esecutivo camperà più a lungo perchè non c’è un segretario autorevole alla guida del partito».
Evidentemente Fioroni si riferisce alle lotte intestine tra i maggiorenti ex ds e alla volontà di Letta e Franceschini di frenare sull’elezione di un segretario a tutti gli effetti già all’assemblea di sabato prossimo.
Come ha detto in serata il premier a Che tempo che fa: «Un reggente o un segretario provvisorio», che porti «ad un congresso che dovrà essere fondativo».
L’esatto contrario di ciò a cui punta, per esempio, il «governatore» della Toscana Enrico Rossi, che dà il suo «ok» alla candidatura a segretario operativo di Cuperlo.
È chiaro che tutti questi problemi dovranno essere risolti prima dell’assemblea nazionale di sabato a cui parteciperà anche una rappresentanza di «Occupy Pd», cioè di quei militanti (sopratutto giovani) che in questo periodo hanno occupato le sedi dei circoli del partito per protestare contro il governo con il Pdl.
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
QUANDO GUIDAVA LA CGIL LO ACCUSARONO DI ECCESSIVA SUDDITANZA ALL’ESECUTIVO PRODI
La proposta di guidare una formazione politica, Guglielmo Epifani l’ha già avuta.
Nel 2007, mentre nasceva il Pd a guida Veltroni, verso il quale l’ex segretario Cgil non nutriva grande trasporto, fu Fausto Bertinotti a prospettargli la leadership di una Federazione della sinistra. Non se ne fece nulla.
Ora, a 63 anni, dopo 36 anni nel sindacato, è in ballo per la segreteria del Pd.
Forse la tesi di laurea su un’icona socialista come Anna Kuliscioff lo fa apparire di sinistra mentre il tono vellutato, e la carriera sindacale, rassicurano i moderati.
“A me piace” diceva qualche giorno fa Raffaele Bonanni, “almeno so come ragiona”. Prima di fare il segretario della Cgil è stato il vice di Sergio Cofferati.
Ultimo esponente di quella “componente socialista” della Cgil che nel 1984, con il decreto Craxi sulla scala mobile, fu a un passo dalla rottura.
Epifani restò defilato ma negli anni 80 era quasi impossibile essere socialista e non stare con Craxi.
Quando sostituisce Cofferati alla segreteria della Cgil, nel 2002, riceve l’eredità del Circo
Massimo.
Epifani la conserva fino al 2003 partecipando al movimento per la pace e poi, in dissenso con lo stesso Cofferati, schierando il sindacato accanto a Fausto Bertinotti nel referendum per estendere l’articolo 18.
Poi la Cgil è risucchiata dall’Unione di Romano Prodi, accolto in trionfo al congresso del sindacato: “Il vostro programma è il mio programma” dirà il Professore.
Con il governo del centrosinistra la Cgil dismette la posizione anti-governativa.
Nasce qui lo scontro con Sergio Cofferati che dura ancora oggi.
A Epifani viene rimproverata la perdita di autonomia e una eccessiva subordinazione al governo. In questo periodo rinasce il conflitto con la Fiom guidata da Gianni Rinaldini che gli contesta “di aver chiuso rapidamente la fase precedente e di essere tornato alla normale routine burocratica”.
Scontro che tocca il culmine con la vicenda Marchionne.
Epifani lavora nel solco dell’unità sindacale realizzando l’accordo sulle pensioni con Prodi. Ma la nuova vittoria di Berlusconi spazza via quella strategia.
La Cgil, a quel punto, è stretta tra l’ostilità della sinistra interna e il gelo degli altri sindacati. Una sorta di “nè-nè” che porta all’impasse.
Nel 2010 Epifani lascia la Cgil.
L’ultimo discorso in piazza lo tiene alla manifestazione della Fiom a San Giovanni. Fischiato dai duri ma “protetto” da Landini e Cremaschi.
Qualche giorno dopo saluta la Cgil e il direttivo nazionale, in cui fa eleggere la fidata Camusso, anche lei ex socialista, gli tributa un sentito omaggio.
Per quasi due anni si “parcheggia” alla presidenza dell’Associazione Bruno Trentin, creata apposta per lui.
Ma, come dice chi lo ha conosciuto da vicino, “il ragazzo è ambizioso”.
Vorrebbe fare il ministro del Lavoro, ipotesi sfumata con la sconfitta di Bersani che ne inventa la candidatura alla segreteria del Pd.
Epifani, dice in giro, si sente tagliato per quel ruolo.
Ma i partiti non portano fortuna ai segretari sindacali. Chi lo ha preceduto alla guida della componente socialista in Cgil, Ottaviano Del Turco, quando è andato a dirigere un partito, il Psi orfano di Craxi, ne ha accompagnato lo sfarinamento.
Luciano Lama, nel 1984, dopo la morte di Enrico Berlinguer, fu bloccato alla segreteria Pci dai “giovani turchi” di allora, tra cui D’Alema.
Sergio Cofferati, il naturale leader della sinistra dopo il Circo Massimo, incontrò anche lui l’ostilità di Massimo D’Alema.
Epifani è diverso, sa farsi canna che si piega al vento.
Ma oggi deve vedersela con un partito allo sbando che potrebbe preferirgli l’ipotesi di Gianni Cuperlo.
Anche lui, guarda caso, dalemiano.
Salvatore Cannavò
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
ULTIMO SEGRETARIO DELLA FGCI, DEPUTATO DAL 2006…SI ASTENNE SULLA MOZIONE PER FAR DIMETTERE COSENTINO
A guardarlo, ha il volto da professore di filosofia benevolo, di quelli che se arranchi nell’interrogazione ti fanno la domanda a piacere.
A sentirlo dal palco della (sua) milionesima direzione, mentre discetta di “capitalismo che ha vinto la sua battaglia con la modernità ”, sembra quasi fuori posto.
Gianni Cuperlo, deputato triestino di 51 anni, dalemiano di stretta osservanza, è un segretario più che possibile, ma poco immaginabile per il Pd.
Perchè è complicato figurarselo nella battaglia perenne del suo partito, a tenere a bada i capi delle infinite correnti.
Eppure potrebbe essere proprio questo il destino di Cuperlo, appassionato di libri e politica.
Laureato al Dams di Bologna, la sua carriera nel partito inizia negli anni ’80.
Nel 1988 viene nominato segretario della Fgci, la giovanile del Pci.
Un’idea soprattutto del segretario uscente Pietro Folena, che anni dopo sul Foglio rivendicherà : “Scegliemmo Cuperlo perchè era quanto più di lontano dal funzionario di partito”.
Sarà proprio il triestino “eterodosso” a dover sciogliere la federazione nel 1990, dopo la caduta del Muro e la svolta di Achille Occhetto
Raccontano che una delle sue più grandi soddisfazioni fu l’assemblea dei giovani comunisti a Rimini, nell’estate pre-scioglimento.
Si temeva una spaccatura rumorosa tra occhettiani e ingraiani, e invece i giovani discussero e ascoltarono, disciplinati.
Nel dicembre successivo, congresso a Pesaro e fine della Fgci.
La storia di Cuperlo continua nella Sinistra Giovanile del Pds, di cui è segretario sino al 1992.
Poi, il triestino che ama la letteratura americana (il preferito è Joe Lansdale) entra nella direzione del Pds, e diventa dalemiano.
È un consigliere molto dietro le quinte, che legge e scrive (anche) per l’ex premier. Comunque atipico, tanto da guadagnarsi l’etichetta di “diversamente dalemiano”: differente dagli altri pasdaran del leader come Claudio Velardi, arcigno capo segreteria, e Fabrizio Rondolino, responsabile della comunicazione, autore di un romanzo erotico. Niente facce feroci o sfregamenti su carta invece per Cuperlo: che, incredibile per un dalemiano, si guadagna la fama di uomo facile al sorriso e alla battuta.
Responsabile comunicazione Ds, uno dei primissimi politici con un blog, diventa deputato nel 2006.
Due anni dopo è in corsa per la segreteria assieme a un altro ex Fgci, Nicola Zingaretti. Cuperlo commenta parafrasando Groucho Marx: “Non vorrei mai stare in un partito che avesse tra i suoi leader uno come me”.
Non fa per nulla ridere nel gennaio 2009, quando si astiene, assieme ad altri 25 democratici, sulla mozione che chiedeva le dimissioni dell’allora sottosegretario Nicola Cosentino, accusato da sei pentiti di rapporti con la camorra.
Cosentivo si salva, anche grazie a Cuperlo. Cortese ma testardo, di quelli che non cambiano idea.
Oratore ricercato, con i suoi discorsi talvolta da comitato centrale.
Se c’è da difendere la linea e D’Alema, morde volentieri.
Dieci anni fa attaccava l’Unità di Furio Colombo.
Nel marzo scorso, sull’Unità , rispose a Debora Serracchiani che invitava l’ex premier a tirarsi fuori dalla corsa dal Quirinale: “Un’esponente del Pd ammonisce un fondatore del partito a dichiarare che non farà mai una cosa che non ha chiesto, per non precludere il dialogo con Grillo. Logica piuttosto intrigante”.
Ma la collisione vera è con Matteo Renzi.
Nella direzione del 6 marzo, Cuperlo lo disse al microfono: “Buona parte del confronto tra di noi ruota attorno al sindaco di Firenze, che è qui ma non prende la parola. Questo non è un nodo che investe la nostra democrazia, cos’è un partito e come discute? I percorsi paralleli non funzionano”.
Luca De Carolis
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
MA PRIMA QUALCUNO SPIEGHI CHE FINE FARANNO I SOLDI DELLA FONDAZIONE AN E DEL PATTO ELETTORALE CON MONTI
Tra un paio di giorni, l’8 maggio, Fini ha deciso di convocare l’assemblea di quello che rimane di Futuro e Libertà : sarà quella l’occasione, dopo aver a lungo meditato, in cui comunicherà il suo addio alla politica.
C’è chi parla di un unico commissario per gestire gli affari contabili correnti (una sorta di liquidatore), chi invece ipotizza una reggenza a cura di un triumvirato con l’obiettivo di mantenere in vita formalmente Fli in attesa di “sistemarsi” al meglio.
Quello che è certo è che Fini non condivide quel progetto di destra che alcuni dei suoi vogliono perseguire.
Riportiamo la sua dichiarazione: “I miei dirigenti vogliono trattare con i colonnelli dell’ex An. Io non mi metto di traverso, ma questa non è la mia strada. Con me nessuna ricomposizione è possibile, nè posso essere l’uomo della riappacificazione. Il mio progetto di destra non è compatibile con quello di Berlusconi”.
Parole che se da un lato dimostrano la coerenza dell’uomo Gianfranco Fini, dall’altro rivelano come le cause della sconfitta elettorale possano anche essere individuate nella scarsa coesione umana e politica della sua classe dirigente.
E’ bastato il “rompete le righe” perchè non vi fosse più un progetto di riferimento, ma solo il tentativo di accasarsi altrove o di “trattare con il nemico”, vantando ancora una minima struttura e relativa percentuale elettorale.
Potremmo postare decine di nobili riferimenti ai “valori di Bastia Umbra” declamati da personaggi che ora le cronache ci riportano, a livello locale e nazionale, come prossimi a rientrare “in caserma”.
Come dopo un sisma, eccoli correre all’impazzata: chi in direzione di chi vuole fermare il loro declino, chi riscopre l’indirizzo nostalgico, chi si rifugia nelle scelte ciniche, chi vanta di avere una vecchia liaison con la sorella d’Italia.
I temi chiave di Fli per cui si erano in apparenza battuti (legalità , diritti civili, cittadinanza, giustizia sociale) vengono venduti ai ferri vecchi, nel timore che possano trovarglieli in casa.
Nessun stupore: come avevano votato per affogare gli immigrati con Silvio e Bobo, possono tornare a farlo senza pudore.
Ma una domanda ci poniamo: non è che qualcuno si stia muovendo anche per mantenere un piede sul tesoretto della Fondazione An, in attesa di un accordo con gli ex nemici, magari domani nuovamente alleati?
Una transazione amichevole, si sa, apre tante porte.
A quanto ammontano i debiti di Fli?
E a che cifra ammonta la percentuale che il partito di Monti deve destinare a Fli, in base a un preciso accordo, dei rimborsi elettorali complessivi che percepirà ?
Tutti piccoli dettagli che forse andrebbero resi pubblici, così come i progetti in fieri di alcuni ex massimi dirigenti che praticano la respirazione bocca a bocca ai pochi militanti rimasti per accreditarsi un domani magari come capisala al servizio di qualche “consorella”.
Chi vivrà , ne vedrà delle belle.
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
“LA RESISTENZA DEI PARTITI SARA’ FORTE”…”IL DEBITO ITALIANO E’ UNO DEI PIU’ ALTI NEL MONDO SVILUPPATO”
“E’ inverosimile che il libro dei sogni del signor Letta diventi realtà ”. E’ la riflessione finale, che suona come una bocciatura, di un editoriale del Financial Times sulle sfide del governo Letta anche perchè comprende esponenti Pd, Pdl e Scelta Civia, avversari tra di loro alle ultime elezioni e con visioni e obiettivi diversi.
Il premier italiano “è il nuovo eroe” di coloro che sono contro l’austerity: “Nel suo primo discorso in Parlamento, il vice segretario dei democratici di centro-sinistra (così lo definisce il quotidiano economico) ha annunciato” l’abolizione di tasse — Imu e le altre — fino a 6 miliardi di euro”.
Secondo il quotidiano economico, che dà conto del viaggio nelle capitali europe per “attuare e promuovere rapidamente politiche per la crescita di posti di lavoro” bisogna andare oltre la “superficie” e “vedrete che il messaggio del signor Letta è più complesso”: c’è innanzitutto il limite del 2,9 per cento deficit concordati con Bruxelles per il 2013.
Ma questo “obiettivo” è “incoerente”, inconsistent scrive FT, con l’allenamento della pressione fiscale.
Letta però ribatte e, durante la conferenza stampa per la nomina del commissario per Expo 2015, dice: “Anche i sogni ci vogliono. Anche per quanto riguarda l’Expo occorre avere un pò di follia visionaria così come quando l’abbiamo avuta sette anni fa. Io ricordo cos’era allora l’idea dell’Expo ma essere oggi qui tutti insieme è la dimostrazione che a volte i sogni servono anche alla politica arida”.
Per il Ft il fallimento potrebbe insinuarsi nella natura stessa del governo, composto di partiti diversi e lontani tra loro e con vocazioni diverse: la “lista dei desideri” del presidente del Consiglio “ha uno scopo prevalentemente interno” ovvero quello di “tenere insieme una coalizione ampia e fragile, che include parti con priorità economiche diverse”, per il Ft quindi “sarebbe più facile arrivare a concordare riforme politiche, come il taglio del numero e degli stipendi dei parlamentari“.
Ad ogni modo la questione fiscale non appare “chiara”.
Certo è che l’intervento della “Banca Centrale Europea ha rasserenato i mercati, spingendo i rendimenti dei titoli a 10 anni sotto il 4 per cento. Questo dà Roma spazio di manovra — ragiona il Financial TImese -. Ma il debito nazionale, proiettato al 131 per cento del reddito nazionale nel 2013, è uno dei più alti nel mondo sviluppato”.
Il suggerimento è diretto: “Il governo deve fare attenzione nella scelta di quali tasse tagliare”.
Si ricorda che Silvio Berlusconi vuole abolire l’Imu, “ma i prelievi sulla proprietà sono un modo semplice per tassare la ricchezza accumulata senza ridurre gli incentivi per il lavoro”.
Gli “sforzi” di Letta dovrebbero concentrarsi, quindi, sulla diminuzione delle imposte sul lavoro “in modo da promuoverne la competitività “.
Il consiglio è quello che il nuovo governo si impegni alla “riduzione della spesa corrente”.
C’è molto “grasso” da tagliare, ritiene l’autore dell’editoriale, e Bruxelles dovrebbe tollerare “un moderato aumento del deficit fiscale” se i soldi saranno investiti “in attività produttive, comprese le scuole e le università ”.
Ma non solo: “la Commissione europea dovrebbe esigere che l’Italia” spinga fortemente sull riforme strutturali, per migliorare” la performance “di crescita che è poco brillante”.
Il quotidiano è però scettico sulla bontà di questo percorso: “La resistenza di partiti sarà forte. Il centro-sinistra bloccherà i tentativi di riformare il mercato del lavoro. Il centro-destra si affiancherà a avvocati e farmacisti, e ostacolerà gli sforzi per liberalizzare le professioni”.
Ed è così che arriva l’amara conclusione dell’editoriale che: “E’ inverosimile che il libro dei sogni del signor Letta diventi realtà ”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
CONTINUA LA TRATTATIVA SULLA SPARTIZIONE DELLE PRESIDENZE DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Soffiano venti di guerra sulla maggioranza che sostiene il governo Letta, con la trattativa sulle presidenze delle commissioni parlamentari che ormai fa segnare picchi di tensione ben oltre i livelli di guardia.
L’accordo tra Pd, Pdl e Scelta Civica è lontanissimo.
La trattativa si è incagliata sulla guida di due commissioni del Senato considerate strategiche da Silvio Berlusconi: Giustizia e Lavori Pubblici, commissione che regola anche le Comunicazioni, ovvero la televisione.
Il Cavaliere vuole piazzare a capo delle due commissioni Francesco Nitto Palma e Paolo Romani.
Il Pd mette il veto sui due ex ministri pidiellini.
E Renato Brunetta, annuncia: «Questa volta se non passano i nostri nomi cade il governo”
Dopo che sabato la riunione tra i capigruppo Schifani, Brunetta e Zanda è finita male, ieri i canali di comunicazione sono saltati e tra i due fronti è calato il gelo.
Il Pd non ha intenzione di accettare due candidati che ritiene troppo vicini agli interessi, giudiziari e aziendali, di Berlusconi.
Ed è pronto allo scontro.
La riunione clou con tutti i capigruppo di maggioranza in calendario presumibilmente si trasformerà in un lungo e drammatico negoziato.
Con l’obbligo di chiudere entro sera visto che domani le 30 commissioni parlamentari devono votare i loro presidenti.
Nel Pdl si narra di un Berlusconi infuriato per il trattamento subito dalla Biancofiore, per la «poca chiarezza sull’Imu» e soprattutto per i veti che il Pdl ha già dovuto subire nelle nomine di ministri e sottosegretari.
«Sono veti a senso unico, da loro passa Fassina che poi mi attacca e invece i nostri sono tutti impresentabili? », ripeteva ieri il Cavaliere ai suoi.
Che nelle telefonate private in questa fase lo descrivono «freddo » sul futuro del governo e indisposto a cedere anche sulle commissioni.
Tanto che Brunetta annuncia la posizione con la quale si presenterà al negoziato: «Noi non molliamo, siamo gente seria, responsabile e determinata ad andare avanti con il governo ma a volte la responsabilità implica anche il non cedere all’irresponsabilità altrui».
Ovvero? «Se salta l’accordo sulle commissioni andiamo alle elezioni». Un modo per prendere in contropiede il Pd, che in caso di mancata intesa non si straccerebbe le vesti visto che a quel punto si andrebbe al voto sui presidenti e nelle due commissioni in bilico insieme ai montiani potrebbe tagliare fuori gli uomini del Cavaliere.
Tensione altissima, dunque.
Intanto Magistratura democratica dice di non avere chiesto «alcun riequilibrio» nelle commissioni parlamentari dopo la nomina a sottosegretario di Cosimo Ferri, segretario di Magistratura Indipendente.
All’opposizione vanno le commissioni di garanzia e tutte le forze politiche vogliono evitare che i grillini prendano la guida del Copasir.
L’accordo è di darlo a Sel (in corsa Fava e Migliore) ma Vito Crimi (che nello schema disegnato dagli altri partiti andrebbe a guidare la Vigilanza Rai) si oppone: «Al M5S dovrebbero andare sia Copasir che Vigilanza».
Crimi aggiunge che il Copasir è «incompatibile » con la Lega.
Risponde Maroni: «Neo-poltronismo grillino ».
E i grillini puntano alla vicepresidenza della commissione Giustizia alla Camera con Alfonso Bonafede.
Alberto D’Argenio
(da “la Repubblica“)
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Maggio 6th, 2013 Riccardo Fucile
AVEVA 94 ANNI E SCOMPARE PROPRIO NEL MOMENTO IN CUI LA SUA DC PARE RITORNATA AL POTERE
Giulio Andreotti è morto oggi alle 12 e 25 nella sua abitazione romana.
Lo hanno reso noto i suoi familiari. Aveva compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso.
Fu sette volte presidente del Consiglio dei ministri, otto ministro della Difesa, cinque degli Esteri e due delle Finanze, bilancio e industria.
Infine passò anche per il Tesoro, l’Interno e le Politiche comunitarie.
Giulio Andreotti, nato a Roma nel 1919, è stato un pezzo della politica italiana, un uomo fondamentale e di un potere che forse nessun altro ha mai avuto, sia all’interno del partito, sia negli apparati statali.
Nominare Andreotti significava mettere sull’attenti chiunque.
Forse è anche per questo, e per una buone dose d’invidia, che nel corso della sua storia venne soprannominato in tanti modi.
Il “Divo” dopo un articolo di Mino Pecorelli, discusso giornalista e direttore della rivista Op, il “gobbo” per la conformazione fisica, lo “zio” per le accuse che accostavano il suo nome alla mafia, “Belzebù” in accoppiata a Belfagor-Licio Gelli e la “volpe”.
Nomignoli ai quali lui rispondeva con quell’ironia molto romanesca che riusciva a incantare gli elettori che per questo lo hanno amato e votato.
Nonostante la carriera politica sia ancora carte da decifrare.
E oggi faranno a gara i commentatori per dividersi tra coloro che lo considerano e lo hanno sempre considerato un grande statista e tutti gli altri.
Sicuramente è stato un pezzo della storia politica importante dell’Italia, dalla Costituente all’inizio degli anni Novanta, quando tangentopoli la Dc la spazza via.
Andreotti iniziò a 20 anni a fare politica nelle fila della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana che allevò tante leve dello Stato del dopoguerra come Aldo Moro, Francesco Cossiga, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati.
Fu Alcide De Gasperi nel 1948, a volerlo nell’Assemblea Costituente e, successivamente, candidato, con le prime elezioni libere.
Da allora è sempre stato eletto in Parlamento, fino al 1991, quando l’allora presidente della Repubblica Cossiga lo nomina senatore a vita.
Da delfino di De Gasperi all’uscita di scena degli avversari.
Per Andreotti, la figura di De Gasperi, leader del Partito Popolare e poi fondatore della Democrazia Cristiana, fu quella di un maestro e di un apripista (per quanto avesse riferito su di lui agli Alleati) tanto che già nel 1947, dietro la sollecitazione di Giovanni Battista Montini, dal 1963 papa Paolo VI, lo nominò sottosegretario dalla presidenza del consiglio.
Forte dei voti che gli derivavano dal radicamento nella circoscrizione laziale (e a cui, dal 1968, si aggiunse il supporto siciliano del “grande elettore” Salvo Lima con tutti gli strascichi giudiziari degli anni Novanta), Andreotti sapeva sfoderare capacità diplomatiche che lo resero centrale in più di un’occasione.
Quella ricordata con maggiore frequenza è il sabotaggio della cosiddetta “operazione Sturzo”.
Era il 1952 e a Roma si preparavano le elezioni amministrative in cui la Dc sembrava in aria di presentare una lista capeggiata da Luigi Sturzo e appoggiata da monarchici e postfascisti.
Ad Andreotti era chiaro che una mossa del genere avrebbe innescato una crisi di governo, vista la contrarietà espressa da liberali, repubblicani e socialdemocratici. E così si attivò presso papa Pacelli, Pio XII, sfruttando i buoni servigi della sua più stretta collaboratrice, suor Pascalina.
Ottenne l’effetto di bloccare il progetto politico dal futuro catastrofico e guadagnò punti sul suo padrino politico, De Gasperi, che invece aveva fallito nello stesso intento.
Il 1954, l’anno in cui De Gasperi muore, è anche quello in cui Andreotti diventa per la prima volta ministro.
A 35 anni si ritrova a capo degli interni, il ministero della pubblica sicurezza, ed è proprio il periodo in cui — tra delitto Montesi (dal cognome di una ventunenne, Wilma, trovata senza vita nel 1953 sulla spiaggia di Torvaianica) e scandalo Giuffrè su attività finanziarie truffaldine che pur lo lambirono — videro uscire di scena alcuni suoi concorrenti, come Attilio Piccioni, il cui figlio rimase coinvolto nella vicenda della ragazza romana.
Arrivarono i tempi dei dossieraggi dei servizi segreti e i venti di golpe.
La fine degli anni Cinquanta coincise con la conquista di un’altra roccaforte di potere, il ministero della difesa, e qui rimase fino a quando scoppiò un altro scandalo.
Fu quello dei dossieraggi del Sifar al tempo del generale Giovanni de Lorenzo, 150 mila fascicoli su politici, sindacalisti, intellettuali e altre personalità pubbliche — a iniziare dal candidato al Quirinale Giovanni Leone e soprattutto da sua moglie Vittoria — che avrebbero dovuto essere distrutti in un inceneritore di Fiumicino e che invece vennero in parte ritrovati nell’archivio uruguaiano della P2.
A questa vicenda si aggiunse la preoccupazione destata dal “Piano Solo” che nel 1964 aveva fatto temere il golpe e il cui scopo politico ultimo fu il contenimento delle istanze del partito socialista durante i primi governi di centrosinistra.
Ma nel corso di quel periodo, ci fu anche un evento che segnò la permanenza di Andreotti alla difesa: la commissione d’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni precipitato nel 1962 con il suo aereo nei cieli di Bascapè. Commissione che in 4 mesi si pronunciò escludendo l’ipotesi dell’attentato, riemerso invece molto più tardi, negli anni Novanta, nelle inchieste dell’allora sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia.
Sindona, Gelli, il terrorismo e il delitto Moro: il nodo degli anni Settanta.
Se il sesto decennio del Novecento fu un periodo di mare grosso, ma anche di ulteriore forza politica per Giulio Andreotti, quello successivo non fu da meno.
I Settanta infatti si aprirono presto sul “salvatore della lira” Michele Sindona e sulle malversazioni delle sue banche, con i fallimenti del 1974 e che videro il Divo in stretto contatto — per quanto filtrato da una rete costante di intermediari, tra cui il suo braccio destro, Franco Evangelisti — con chi tentava il salvataggio degli interessi del banchiere nato in Sicilia e trasferitosi a Milano negli anni Cinquanta attestandosi come un mago dell’economia e della sparizione di capitali all’estero.
Su queste magie, nell’autunno del 1974, venne chiamato a lavorare il commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli che, dopo quasi 5 anni di lavoro, attacchi istituzionali, minacce e la quasi in completa solitudine (oltre a uno stretto pool di collaboratori, l’avvocato potè contare sull’aiuto solo del maresciallo della guardia di finanza Silvio Novembre), arrivò a ricostruire le trame sindoniane per finire assassinato.
Accadde l’11 luglio 1979 per mano del killer William Joseph Aricò su mandato di Sindona.
E nel 2010, in una delle sue ultime apparizioni, di fronte alle telecamere di Giovanni Minoli, Andreotti commentò che Ambrosoli “in termini romaneschi se l’andava cercando”. Subito dopo, in piena polemica, sostenne di essere stato frainteso.
Ma gli anni Settanta non hanno significato solo questo.
Sono infatti coincisi con il periodo delle stragi, a iniziare da quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e di dichiarazioni fatte per proteggere sodali, come il finto giornalista Guido Giannettini (per il cui favoreggiamento Andreotti fu prosciolto nel 1982) o l’estremista Giovanni Ventura.
Episodi che, nel corso dei processi per i fatti della Banca Nazionale dell’Agricoltura, verranno a galla e già prima erano state ammesse a mezzo stampa quando non era più possibile negarle.
E che porteranno alla condanna da parte di uomini di Andreotti nei servizi, come il generale Gianadelio Maletti, riparato in Sudafrica dopo la sentenza del 1979.
Gli anni della strategia della tensione hanno significato inoltre sequestro e delitto Moro (dal 16 marzo al 9 maggio 1978), la linea della fermezza smentita da tentativi di trattative occulte e i comitati per la gestione dell’emergenza fortemente infiltrati da aderenti alla loggia massonica P2 proprio nel periodo in cui Giulio Andreotti era presidente del consiglio dei ministri e Francesco Cossiga agli interni.
Ci sono state le leggi speciali contro il terrorismo e la solidarietà nazionale dell’esecutivo che soppiantò l’avvicinarsi del compromesso storico con il Pci.
Da via Monte Nevoso a Gladio: altri segreti da non poter più negare.
Tutte vicende, queste, che non hanno mai smesso di far indagare e scrivere, nonostante il riflusso, anche istituzionale e per quanto rotto da periodiche crisi, degli anni Ottanta.
Divenuto nel 1983 ministro degli esteri nel corso del primo governo presieduto da Bettino Craxi, con lui il Divo si scontrò più volte, come nel corso della crisi di Sigonella.
Era il 1985 e il premier socialista arrivò alla rottura dei rapporti con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan mentre Andreotti cercava la via della trattativa con i palestinesi, forte dei suoi rapporti consolidati con Yasser Arafat.
Ma fu in quel decennio che si consolidò il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani) in opposizione alla tradizione pentapartitica che un altro democristiano, Ciriaco De Mita, avrebbe voluto conservare.
Con la caduta del muro di Berlino e la fine del bipolarismo Usa-Urss, ecco che nel 1990 si approssimò un altro scandalo.
Era il periodo in cui Francesco Cossiga aveva già conquistato il Quirinale perchè, nel 1985, era stato ritenuto — a torto — dai suoi compagni di partito un capo di Stato non troppo presenzialista.
Ma nell’estate 1990 fu ormai innegabile l’esistenza di Gladio di cui Cossiga sapeva molto, un esercito segreto nato a seguito di accordi bilaterali risalenti agli anni Cinquanta tra servizi italiani e statunitensi.
Il 2 agosto di quell’anno, a 10 anni dalla strage alla stazione di Bologna, Andreotti promise che in una sessantina di giorni avrebbe riferito al parlamento sull’argomento. Intanto accadde che il 9 ottobre saltò fuori una nuova versione del memoriale di Aldo Moro dal covo milanese di via Monte Nevoso e 11 giorni più tardi, il 20 ottobre, Andreotti consegnò la prima versione del suo rapporto, intitolato “Sid parallelo — Operazione Gladio”, poi ridotto il 23 ottobre in un nuovo documento più stringato, chiamato semplicemente “Operazione Gladio”.
A quel punto Cossiga “impazzì” e dall’aplomb sfoderato almeno in sede pubblica passò alla carriera da “picconatore” con attacchi istituzionali ad Andreotti che, come suo costume, preferì scartare.
Accusato negli anni successivi di aver favorito cosa nostra e di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, assassinato a Roma il 20 marzo 1979, dopo la nomina a senatore a vita dal punto di vista politico fu un progressivo ritiro, tra nuovi partiti d’ispirazione cattolica e suspance quando si trattava di appoggiare o meno i governi di centrosinistra di Romano Prodi e Massimo D’Alema.
E forse, uno dei sunti migliori su un’attività così lunga e così piena di luci e ombre, la diede il film biografico “Il divo” uscito nel 2008 per la regia di Paolo Sorrentino: “È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene”.
Antonella Beccaria
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Politica | Commenta »