Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
L’AEREO UTILIZZATO PER IL RIMPATRIO NOLEGGIATO DALL’AMBASCIATA KAZAKA PRIMA CHE IL PROVVEDIMENTO FOSSE FIRMATO DAL GIUDICE… DAL FALDONE MANCA UNA CARTA INVIATA ALLA QUESTURA DI ROMA CHE CONFERMAVA LA VALIDITA’ DEL PASSAPORTO
Un aereo pronto a decollare prima ancora che l’Italia abbia deliberato l’espulsione, documenti che avrebbero impedito il rimpatrio che scompaiono, e riappaiono poi solo in Austria.
Inquietanti novità si aggiungono alla vicenda del rimpatrio forzato di Alma Salabayeva e di sua figlia Alua di sei anni, rispettivamente moglie e figlia del dissidente kazako Ablyazov, e che sta provocando guai molto seri nel governo delle larghe intese.
Il 31 maggio scorso, quando i parenti delle donne vedono l’aereo pronto con i motori rombanti sulla pista di Ciampino per portare le due ad Astana , capitale del Kazakistan, è della compagnia austriaca Avcon, chiamano Vienna.
Qui la procura austriaca apre immediatamente un’inchiesta da cui si verrà poi a sapere che l’aereo è stato pagato dall’ambasciata kazaka in Italia.
E, soprattutto, dalla deposizione del pilota si viene a sapere che questi è stato allertato alle 11 di mattina del 31 maggio, ovvero prima ancora che il Giudice di pace del Cie di Ponte Galeria convalidasse il fermo di Alma, dato che l’udienza, come da verbale, è terminata dopo le 11.20 di quella stessa mattina.
C’è da chiedersi come mai l’ambasciata del Kazakistan fosse certa di un rimpatrio non ancora convalidato, e così celere da preparare l’aereo perchè non sopraggiungessero altri intoppi.
Ma l’apparire sulla scena della procura austriaca è molto importante anche per altre questioni.
Un passo indietro.
Quando la notte tra il 29 e il 30 maggio Salabayeva è prelevata dalla sua villa di Casal Palocco da una cinquantina di uomini armati della Digos e della Squadra mobile della Questura di Roma, la donna è immediatamente indagata per possesso di documenti falsi (art. 497 bis del codice penale).
Reato per il quale è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, e in questi casi è prassi comune procedere con l’arresto.
Questa volta la Questura di Roma decide diversamente.
In caso di arresto si sarebbe aperto un procedimento penale con tutte le garanzie del caso nei confronti dell’indagato.
L’espulsione evidentemente doveva essere immediata.
Un altro passo indietro.
Come riportato in anteprima da ilfattoquotidiano.it, la nota dell’ambasciata kazaka che avvisava della presenza di Ablyazov sul suolo italiano è stata inviata solo alla Questura di Roma e non, come prassi, anche ai ministeri competenti.
Ora, dagli atti depositati in procura di Roma risulta che le note dell’Ambasciata inviate alla questura di Roma sono due: la prima del 28 maggio si riferisce alla presenza sul suolo italiano di Ablyazov; la seconda, del 31 maggio, avvisa della presenza della figlia Alua. E basta.
Eppure, agli atti della procura di Vienna, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, c’è anche una terza nota inviata dall’ambasciata kazaka alla Questura di Roma, datata 30 maggio, in cui si avverte che la signora Alma Salabayeva è in possesso di due passaporti validi rilasciati in Kazakistan (N° 0816235 e N°5347890).
Passaporti che evidentemente avrebbero permesso il rimpatrio volontario della signora, che non aveva dichiarato il suo ingresso in Italia, e non coatto.
Come mai questa terza nota dell’ambasciata kazaka, fondamentale per permettere a Salabayeva di non essere rimpatriata in fretta e furia su un jet austriaco prenotato ancora prima che si fosse concluso il processo, non è in possesso degli avvocati tra gli atti depositati alla procura di Roma?
Ma c’è di più.
Conclusa l’udienza dal Giudice di pace, quello stesso 31 di maggio gli avvocati della donna — come strategia difensiva per prendere tempo — chiedono alla Procura di Roma di interrogarla.
Eppure nel giro di un’ora arriva un’informativa della Questura, in particolare dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma diretto da Maurizio Improta.
Dice che, in forza della relazione tecnica della Polizia di Frontiera di Fiumicino (che stabilisce in tempo record che il passaporto di Salabayeva è falso, venendo poi smentita dalla sentenza del 25 giungo Tribunale del Riesame) non c’è bisogno di ulteriori accertamenti e bisogna procedere con il rimpatrio.
Per chiudere il cerchio va sottolineato che si tratta dello stesso Ufficio Immigrazione della Questura di Roma che prima decide di non richiedere l’arresto, e che in un secondo momento riceve da destinatario la nota dell’ambasciata kazaka in possesso solo della procura austriaca.
Quella famosa nota del 30 maggio in cui l’ambasciata avvisava che Alma Salabayeva aveva due passaporti validi kazaki.
Cosa che la avrebbe salvata dal rimpatrio coatto immediato, come specifica il decreto di trattenimento fatto nel Cie di Ponte Galeria: dove è scritto che la donna non può lasciare volontariamente l’Italia entro termini stabiliti per legge proprio per la mancanza di documenti validi.
Sono molti i passaggi oscuri di questa vicenda, e sul fronte politico piovono richieste di chiarimento al ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ha frettolosamente avallato l’operazione come perfettamente regolare.
E da cui “dipendono” la Questura di Roma e il suo Ufficio stranieri.
Luca Pisapia
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
FIGURACCIA INTERNAZIONALE: ITALIA PAESE DEI SEQUESTRI DEI DISSIDENTI… CANCELLIERI SMENTITA DAI FATTI , BONINO FURIOSA PER NON ESSERE STATA INFORMATA
Un’inchiesta interna al Viminale e un’altra “verifica” tra gli organi di governo per far luce,
“nel più breve tempo possibile”, sul caso che sta causando un vero terremoto nell’esecutivo di Letta.
E non per questioni economiche, ma per qualcosa di più grave sotto il profilo internazionale. E non solo.
E’ la vicenda che vede protagoniste Salabayeva e Alua, moglie e figlia dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, ora nelle mani del dittatore Nursultan Nazarbayev, grande amico di Berlusconi.
Il 29 maggio scorso, il ministro dell’Interno e segretario del Pdl, Angelino Alfano, ha mandato una cinquantina di uomini armati della Digos a prendere le due donne nella loro casa di Casal Palocco, a Roma, arrivando alla loro successiva espulsione con l’accusa di avere passaporti falsi.
Accusa poi smentita dal tribunale di Roma, secondo cui l’espulsione non andava in alcun modo autorizzata, visto che i documenti erano il regola.
La violazione ha però regalato al dittatore kazako due preziosi ostaggi contro il suo nemico principale, appunto il dissidente Ablyazov.
E siccome l’intera operazione è stata portata a termine dal ministro Alfano senza che nessun altro del governo ne venisse messo a conoscenza, neppure Enrico Letta, c’è il forte sospetto che il vicepremier e segretario del Pdl abbia voluto chiudere la vicenda rapidamente e in barba ad ogni regola solo per compiacere il dittatore kazako, partner privilegiato dell’Eni e — soprattutto — su pressioni dello stesso Cavaliere.
Su questo, Letta ha chiesto piena luce.
La questione, che sta tenendo banco da giorni sui media internazionali, ha mandato su tutte le furie il ministro degli Esteri, Emma Bonino, che non ha alcuna intenzione di prestare il fianco alle critiche feroci dei media sull’operato dell’Italia a cui lei, per altro, non è in grado in alcun modo di rispondere, perchè tenuta all’oscuro di tutto. Bonino si è quindi si è rivolta a Letta: “Evitiamo all’Italia, se possibile, l’ennesima figuraccia…”, spingendo il premier verso l’indagine interna.
Anche il ministro Cancellieri, che in un primo momento aveva parlato di “espulsione avvenuta secondo le regole”, dopo la smentita del tribunale di Roma ha chiesto a Letta di avere “chiarimenti”; il fatto di essere stata messa “fuori strada” dal collega ministro dell’Interno, a cui aveva chiesto lumi, l’ha profondamente contrariata.
Tutti contro Alfano? A quanto sembra, l’intera vicenda è stata gestita con una dose sospetta di superficialità .
Alle domande di Letta, durante un colloquio tra i due avvenuto l’altro giorno a Palazzo Chigi, il vicepremier si sarebbe giustificato sostenendo che i funzionari del ministero gli avevano assicurato che i passaporti delle due donne erano falsi e lui ha quindi dato il via libera all’operazione.
Ma la ricostruzione, a quanto sostengono alcune fonti informate a Palazzo Chigi, farebbe “acqua da tutte le parti”.
“La cosa più grave — prosegue una di queste fonti — è che nessuno ha saputo nulla fino ad operazione conclusa e non c’è stata alcuna chiarezza su chi e perchè avrebbe chiesto di proseguire nell’espulsione di queste due persone; per altro, sono state violate anche le regole in materia di rifugiati e abbiamo avuto forti critiche anche dall’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati, l’Unhcr”.
Sembra, infatti, che l’Italia abbia violato il Testo Unico Immigrazione secondo cui nessuno può essere in nessun caso rimandato verso uno Stato in cui rischia di subire persecuzioni: “ Le autorità italiane — ha criticato l’Unhcr — non hanno valutato appieno le conseguenze che tale rimpatrio forzato potrebbe avere”.
Il caso, che è seguito “da vicino” anche dal presidente della Camera, Laura Boldrini, è quindi destinato ad avere forti ripercussioni a livello di governo.
Soprattutto se, come sospetta Enrico Letta, “l’eccesso di zelo” di alcuni funzionari del ministero dell’interno sull’espulsione della famiglia del dissidente kazako non è stato affatto “spontaneo”, come sarebbe stato sostenuto da Alfano, bensì “indotto da precisi ordini superiori”.
Per questo, dalla “verifica interna agli organi di governo”, chiesta qualche giorno fa, Letta si attende “risposte precise”.
“La questione diplomatica ed economica con il Kazakistan — chiude la fonte di Palazzo Chigi — non deve indurre a conclusioni di comodo; se verranno accertate responsabilità , anche a livello di governo, si trarranno le conseguenze”.
Quali, al momento, non è dato sapere.
Sara Nicoli
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
COSI’ LA BUROCRAZIA CI FA PERDERE 30 MILIARDI
Per toccare con mano la paralisi, recarsi a Laino Borgo, duemila anime in provincia di Cosenza, nel cuore del meraviglioso Parco del Pollino.
Nei pressi del paese c’è una vecchia centrale elettrica, spenta nel 1993 perchè non più economica.
L’Enel vorrebbe ora riconvertirne una parte a biomasse, ma il progetto è imprigionato in un inestricabile dedalo di pareri, autorizzazioni, veti incrociati e carte bollate.
Tutto comincia nel 2001. Sei anni dopo le pratiche sono esaurite (sei anni!), ma quando si sta per girare l’interruttore, una nuova direttiva europea impone un altro passaggio formale.
E la giostra infernale si rimette in moto. I documenti restano nei cassetti della Provincia di Cosenza per due anni e mezzo, mentre l’Ente Parco, undici giorni dopo aver concesso il quarto via libera, ci ripensa.
Piovono i ricorsi e la schermaglia che già era iniziata si trasforma in una guerra termonucleare. In 5 anni si contano 14 fra sospensive, ordinanze e sentenze. L’ultimo pronunciamento del Consiglio di Stato, nell’agosto 2012, ribalta la precedente decisione del Tar favorevole all’impianto azzerando tutte le autorizzazioni. E dopo 12 anni si ricomincia daccapo.
Non vogliamo entrare nel merito della faccenda.
Ma che nella settima, ottava o nona potenza economica del mondo quale dovrebbe essere l’Italia non si riesca a decidere in 12 anni se una vecchia centrale spenta possa o meno essere riaccesa, è davvero il colmo.
Anche perchè quell’insensato spreco di tempo lo paghiamo tutti noi
Sperare però che questo impietosisca una burocrazia ossessiva capace di trasformare l’Italia in un Paese bloccato è davvero troppo.
Lo stesso Parlamento resta vittima di quel meccanismo infernale, come dimostra l’incapacità di fare le riforme.
Prendiamo la più urgente di tutte: l’abolizione del bicameralismo perfetto, che rende l’approvazione di ogni legge un autentico calvario. Se ne parla da anni senza costrutto, nonostante si dicano tutti d’accordo.
Nella scorsa legislatura la commissione affari costituzionali del Senato ci ha lavorato a lungo: fatica sprecata. Ora si riparte da zero.
Tre mesi già se ne sono andati per nominare quaranta saggi cui è stato affidato il dossier delle riforme istituzionali.
Piccolo particolare, fra di loro ci sono anche tre principi del foro schierati dalle Regioni nella causa alla Consulta contro la riforma delle Province: Beniamino Caravita di Toritto, Massimo Luciani e Giandomenico Falcon.
D’altra parte, come non ricordare che il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D’Alia, oggi favorevolissimo all’abolizione delle Province, fu orgoglioso autore nel 2006 di un emendamento alla finanziaria per salvare la chiusura delle prefetture minori?
Leggi, commi e decreti
Il simbolo più eclatante della sconfitta subita dalla politica a opera della burocrazia è senza dubbio il ministero della Semplificazione, ora pietosamente sepolto.
Mentre il ministro Roberto Calderoli menava inutilmente fendenti su 375 mila leggi inutili, la macchina della Complicazione andava a pieni giri.
Un documento appena sfornato dall’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle racconta che dal 2008 a oggi sono state approvate 491 norme tributarie, delle quali 288 hanno reso la vita più difficile alle imprese, contro le 67 che invece sulla carta le semplificavano.
Bilancio: 4,3 complicazioni per ogni semplificazione.
Lui, Calderoli, ci provò a fare una legge per stabilire che le leggi dovevano essere scritte in modo chiaro e comprensibile.
Quell’obbligo esiste da quattro anni. Ma sfogliate una Gazzetta ufficiale , a caso, e controllate quante volte è stato rispettato. Praticamente mai.
Le leggi continuano a essere un groviglio incomprensibile di commi, lettere e rimandi ad altre leggi modificate da altri introvabili commi.
Per avere norme semplici e comprensibili bisognerebbe forse cambiare chi le scrive. Che invece sono sempre gli stessi.
Magistrati e altissimi burocrati detentori dei gangli del potere: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, commissari straordinari, consiglieri di ministri e sottosegretari, ai vertici delle authority. Il fulcro della burocrazia. Tecnici e politici al tempo stesso, con entrature di peso nei partiti e nelle loro correnti.
Anche loro una lobby, per dirla con Anna Maria Cancellieri?
Di sicuro un pacchetto di mischia solido e compatto.
Un esempio? Nella legge anticorruzione compare una pillola avvelenata: i magistrati non potranno restare fuori ruolo per più di 10 anni. Fine degli incarichi extragiudiziali a vita.
Spunta però un comma previdenziale che esenta dal tetto i membri del governo.
Ovvero, i consiglieri di Stato Antonio Catricalà e Filippo Patroni Griffi, allora rispettivamente sottosegretario alla presidenza e ministro della Funzione pubblica: nel successivo governo di Enrico Letta il primo è diventato viceministro dello Sviluppo e il secondo è andato al posto del primo.
Non basta. Il decreto attuativo non è mai stato approvato, con il risultato che sugli altri incarichi degli altri magistrati decide sempre il relativo organo di autogoverno. Al Csm si è già stabilito che nei dieci anni non sono compresi i periodi di aspettativa.
I decreti attuativi sono una caratteristica tipica delle leggi italiane, il meccanismo con cui il parlamento consegna il proprio potere legislativo alle burocrazie.
Perchè la legge, se non c’è il decreto ministeriale, resta lettera morta.
E i decreti li scrivono gli uffici. Soltanto la legge varata nell’estate del 2012 per rilanciare lo sviluppo ha avuto bisogno per essere attuata di 74 norme di secondo livello.
Un livello che spesso interviene pesantemente, modificandolo nella sostanza, anche sul primo.
La lentezza è uguale per tutti
A forza di moltiplicare centri decisionali che si ostacolano l’un l’altro, di fare leggi e circolari che contraddicono altre leggi e altre circolari, nonchè di aggiungere enti, società , agenzie, authority, era inevitabile che si arrivasse alla paralisi.
Tutto, in Italia, diventa oggetto di contenzioso.
Non mancano casi in cui lo Stato fa causa allo Stato, come dimostra la surreale vicenda legale che oppone la Finmeccanica al suo azionista Tesoro.
Una storia nata da un disaccordo sulla liquidazione di una società costituita nel 2005 per fare la carta d’identità elettronica cui la Finmeccanica partecipa insieme al Poligrafico dello Stato e alle Poste, e sfociata in tribunale.
Carte d’identità prodotte: zero virgola zero. In compenso, 876 mila euro sono andati agli avvocati. Adesso siamo in appello. Prima udienza fissata per il 22 novembre del 2016.
La giustizia non è forse uguale per tutti, Stato compreso?
La durata media di un procedimento civile per inadempienza contrattuale qui è di 1.210 giorni, più del triplo rispetto a Germania, Francia e Regno Unito (394, 390 e 399 giorni). Una procedura fallimentare va avanti in media per 2.567 giorni, ma ci sono casi, come quello di una piccola ditta pugliese fallita nel 1962, che hanno segnato record di 48 anni cui si è sfiorato il mezzo secolo. Una pacchia forse per gli avvocati, tanto numerosi da superare nella sola città di Roma quelli di tutta la Francia, certo non per le imprese. Nè italiane, nè straniere, che infatti hanno ridotto al lumicino gli investimenti nel nostro Paese.
Uno zaino pieno di sassi
Il gravame giudiziario è uno dei tanti pesi che la burocrazia made in Italy carica sulle spalle di chi produce.
Folgorante la battuta del segretario dell Confartigianato Cesare Fumagalli: «È come se nella competizione internazionale i nostri corressero con uno zaino pieno di sassi». La sua organizzazione ha calcolato che il costo burocratico per le imprese sfiora ormai i due punti di Pil: 30 miliardi e 980 milioni. Parliamo di 7.091 euro in media per ogni azienda al di sotto dei 250 dipendenti
Fra i sassi, ovviamente, c’è anche quello dell’arretratezza tecnologica della pubblica amministrazione.
Dicono gli artigiani che sono appena 928 su oltre 8 mila i Comuni in grado di svolgere tutte le pratiche per via telematica, pagamenti compresi, mentre solo 2.449 intrattengono con i fornitori rapporti di fatturazione elettronica: il che contribuisce ovviamente al ritardo enorme con cui il pubblico onora i propri impegni, in media 180 giorni con punte di 800 nella sanità .
La burocrazia è così fitta che le amministrazioni pubbliche, dopo aver accumulato un debito con i fornitori di oltre 100 miliardi, ora che potrebbero ripianarne almeno una parte sono costrette a uno slalom procedurale assurdo per pagare le imprese. Vittime così di una ulteriore crudele beffa.
Ancora. In Italia i giorni necessari per ottenere permessi edilizi sono in media 234, contro i 184 della Francia, i 99 del Regno Unito e i 97 della Germania.
Senza citare l’inconcepibile quantità di strumenti urbanistici attraverso cui bisogna districarsi nel caso di opere appena più complesse di una semplice ristrutturazione: l’imprenditore campano Alfredo Letizia ne ha censiti 62.
Vincoli che non hanno impedito al Paese più iper regolato di diventare campione europeo di illegalità e abusivismo edilizio, ma che rendono ancora più tortuoso ogni processo decisionale, condizionato da un numero incredibile di soggetti competenti.
Alla conferenza dei servizi della Stazione dell’alta velocità di Roma Tiburtina hanno partecipato in 38, ciascuno dotato di un potere di veto più o meno piccolo.
Per fotocopiare e distribuire a tutti il progetto sono stati spesi 456 mila euro, poi altri 22 mila per distruggere le fotocopie.
Inutile meravigliarsi, poi, se per far partire un’opera pubblica servono in una Regione come la Sicilia più di 1.500 giorni.
E se un chilometro di autostrada o ferrovia costa il triplo che in Francia o Spagna: 32 milioni contro 10.
Il Paese dei 23 mila appaltatori
Inutile meravigliarsi, soprattutto, che la spesa pubblica abbia superato di slancio il 50 per cento del Pil, senza aver fatto crescere la ricchezza nazionale. Anzi.
Fra il 2001 e il 2012, mentre la spesa lievitava di 200 miliardi, il Pil pro capite a prezzi costanti crollava del 6,5 per cento.
La colpa?
Certo la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra ha moltiplicato i centri di spesa privandoli dei necessari controlli dal centro. Si è arrivati a contare 23 mila stazioni appaltanti, con conseguenze a dir poco perverse come nella sanità , che rappresenta oltre metà del mastodontico esborso regionale e dove si continua a tagliare mentre le spese crescono senza sosta. Basta dire che all’eliminazione di 5 mila posti letto nel solo Lazio ha corrisposto, per quanto sia difficile da credere, un aumento del 17 per cento della spesa per l’acquisto di beni e servizi
La spesa per la sanità pubblica è salita di 50 miliardi in dieci anni senza che la qualità sia migliorata.
Secondo l’Istat, nel 2012 il 50,8 per cento dei pazienti in fila alla Asl ha atteso oltre 20 minuti. Rispetto al 2002 il tempo di attesa medio si è allungato dell’11,9 per cento.
Per di più, mentre si riducono i posti letto degli ospedali, la sanità pubblica continua a foraggiare una marea di strutture private convenzionate: soltanto in Sicilia sono 1.476.
Cifra che rende necessaria una diversa interpretazione dei dati sul personale pubblico. E non soltanto nelle Asl
Quanti sono davvero i dipendenti pubblici?
Le statistiche ufficiali dicono che il numero dei nostri dipendenti pubblici è perfettamente in linea con la media europea. Ma pur avendo più o meno lo stesso personale del Regno Unito (tre milioni e mezzo), non abbiamo la stessa qualità dei servizi.
Quanto abbia contribuito nei decenni una certa politica sindacale priva di qualunque suggestione meritocratica è sotto gli occhi di tutti. In Italia i dipendenti pubblici ricevono un incentivo alla «presenza», cioè per il solo fatto di timbrare il cartellino.
E poi le «progressioni orizzontali» (banalmente, gli aumenti di stipendio) uguali per tutti com’era regola anni fa alla Regione Campania, i giudizi sempre ottimi per tutti i dirigenti basati sulla valutazione di se stessi, quando non accordi sindacali che escludevano addirittura la possibilità di dare insufficienze ai subalterni. Il principio della deresponsabilizzazione ha letteralmente dilagato dai massimi gradi dirigenziali fino ai livelli inferiori.
Nè i tentativi di riforma sono stati in grado di imprimere una svolta.
In questo sistema tutto italiano si è trovato anche il modo per aggirare i blocchi alle assunzioni. Così sono nate migliaia di società controllate dagli enti locali, con moltiplicazione di competenze, sovrapposizione di funzioni, sprechi indicibili.
Altre spese, altra burocrazia. Ma stavolta «societaria», e con un vantaggio: assumere senza concorso nè incappare nel divieto del turnover.
Nel 2008 la Corte dei conti calcolava che questa massa informe di imprese pubbliche occupasse 255 mila persone, oltre a 38 mila fra consiglieri di amministrazione, revisori contabili e alti dirigenti.
Ciascuna con una media di 68 dipendenti e ben 12 persone in posizioni di comando. Per avere un’idea del peso di queste società , si consideri che il Comune di Roma ha 25 mila dipendenti e 37 mila stipendi pagati da municipalizzate o aziende partecipate. Totale, più di sessantamila. Sessantamila…
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
GLI ARTIGIANI VENETI: “LE GRIFFES PREFERISCONO I NOSTRI CONCORRENTI CINESI”
Dopo avere rispolverato la memoria a Patrizio Bertelli, amministratore delegato di Prada
sulle responsabilità dei marchi del lusso nel declino della Milano della moda, ecco la seconda tappa del Made in Italy: la Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova, capitale della scarpe griffate.
Capitale ancora per poco se i nostri marchi continuano a cullarsi sulla convinzione che il mondo non si accorgerà mai del trucco sotto il tacco marchiato Made in Italy.
Oggi l’export del prodotto di lusso regge bene alla crisi soprattutto grazie ai mercati emergenti. Basterebbe un po’ di lungimiranza per prevedere che i russi e i cinesi con i portafogli griffati non acquisteranno più il Made in Italy quando scopriranno che stanno pagando per una scritta esclusiva che mente sull’origine della produzione artigianale.
La norma sull’etichettatura europea infatti consente di realizzare all’estero le parti più importanti di qualunque prodotto manifatturiero e le nostre marche prediligono l’Europa dell’est e l’Asia grazie ai bassi costi della manodopera.
Anche molte delle griffes francesi si spingono in Serbia, Romania, Cina e Indonesia per poi assemblare nella Riviera del Brenta le parti realizzate all’estero.
La legge truffa lo consente.
Alle griffes francesi conviene. I loro marchi del lusso, dopo avere comprato gli italiani Gucci, Bottega Veneta, Sergio Rossi e via dicendo, producono soprattutto in quei distretti italiani dell’artigianato che ancora godono di prestigio.
Il discredito che potrebbe colpire quei distretti può penalizzare soltanto il brand più prezioso: il nostro Made in Italy.
I politici di casa nostra non hanno difeso l’esclusività della nostra manifattura artigianale quando hanno approvato regolamenti europei sull’etichettatura che consentono di marchiare Made in Italy prodotti realizzati in gran parte all’estero. Sono i responsabili della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro della piccola e media impresa in favore di quella grande che ha ridotto i costi.
«I dati parlano chiaro», sostiene Matteo Ribon della Cna Federmoda Veneto «il fatturato del settore è lo stesso da dieci anni e la produzione si aggira sempre intorno ai 20 milioni di scarpe l’anno quindi è evidente che a perderci sono gli Italiani, in particolare gli artigiani annientati dalla doppia concorrenza: quella straniera causata dalla delocalizzazione e quella dei Cinesi che lavorano qui nel distretto».
Nel settore pelli calzature dal 2001 al 2012 le imprese individuali cinesi sono aumentate da 30 a 205 mentre hanno chiuso bottega 90 imprese artigiane italiane.
I Cinesi hanno sostituito gli Italiani a colpi di concorrenza sleale. Illegalità , sfruttamento della manodopera (spesso in nero) sono alla base di un’inesorabile avanzata dei laboratori cinesi in tutti i distretti del Made in Italy.
La statistica smentisce impietosamente l’ipocrisia dei committenti italiani che fingono di non sapere perchè i terzisti cinesi ai quali affidano la propria merce sono così rapidi, flessibili e concorrenziali.
Tutte (proprio tutte) le volte che le forze dell’ordine si ricordano di effettuare un controllo nelle aziende “artigianali” cinesi, riscontrano almeno una delle seguenti irregolarità : impiego della manodopera in nero, riduzione in schiavitù di clandestini, violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, evasione contributiva e ovviamente fiscale.
Avere sempre una mazzetta di soldi in nero sotto il bancone è particolarmente utile.
Le griffes delle scarpe sono state le prime in Italia ad arruolare direttamente terzisti cinesi. Ma non vedono, non sentono e non parlano.
Però pagano a prezzo scontato le tomaie, che è poi la parte più artigianale della scarpa. Mentre i prezzi delle loro pregiate scarpe Made in Italy non sono affatto diminuiti. Sono invece drasticamente crollati i posti di lavoro per gli artigiani italiani.
L’Associazione tomaifici terzisti veneti presieduta dall’artigiano Federico Barison riunisce una quarantina di terzisti stanchi di aspettare che i politici regionali, la magistratura e le forze dell’ordine si accorgano della nuova “mala” del Brenta.
Un esposto arrivato un anno fa alla Procura della Repubblica di Venezia non ha modificato lo scenario.
Un paio di controlli e tutto è rientrato. Stranamente i controlli sono invece aumentati nei confronti degli associati.
Matteo Ribon della Cna denuncia: «Quest’anno ci sono 250 dipendenti di tomaifici e terzisti in cassa integrazione e venti aziende sono a rischio chiusura. Ovviamente solo italiane. Non mi risulta che quelle cinesi facciano richiesta di cassa integrazione».
Nel video registrato con camera nascosta si vedono numerosi operai cinesi intenti a cucire tomaie in un laboratorio della Riviera.
Da una verifica è poi risultato che il titolare cinese aveva registrato presso l’ufficio preposto soltanto due dipendenti.
Gli altri lavoravano in nero e non è dato sapere se fossero anche clandestini. L’imprenditore cinese cuciva tomaie a metà prezzo per una nota marca italiana che qualche mese prima l’aveva preferito all’artigiano italiano, che in mancanza di lavoro è stato costretto a mettere in cassa integrazione le sue operaie. Un altro costo per la collettività .
Finchè non si applicheranno severe sanzioni anche contro i committenti e finchè non si farà una norma che disponga la distruzione della merce pregiata trovata nei laboratori irregolari non cambierà niente.
Il prestigio del Made in Italy resiste finchè i panni sporchi continuano a essere lavati in famiglia. Denunciare è l’unica arma rimasta in mano agli artigiani.
Alle griffes per ora sta andando di lusso perchè i cinesi (ricchi) non si sono accorti che potrebbero fare già tutto in casa, arruolando quelli (poveri), soprattutto gli emigrati in Italia per lo più illegalmente.
Hanno goduto di dieci anni di impunità per trasformarsi in abili esecutori dell’eccellenza artigianale.
Le stesse griffes hanno delocalizzato parte della produzione in Cina esportando le nostre preziose competenze su materiali, macchinari e tecniche di manifattura. Proprio dei maestri.
Sabrina Giannini
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
FONDI EUROPEI DESTINATI ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE: LA TROPPA BUROCRAZIA AFFONDA IL PROGETTO JEREMIE, SOLO 60 MILIONI SU 371 SONO STATI UTILIZZATI
Nella sola Atene stanno aiutando centinaia di piccole e medie imprese a nascere, crescere e dare lavoro: i fondi strutturali europei del programma Jeremie 2007/2013 costituiscono tra il 50 e il 70% del capitale (120 milioni di euro) che finanzia le oltre 200 start up ad alto tasso di tecnologia che stanno facendo intravedere cenni di risveglio nell’economia nella capitale greca. Una scena hi-tech in piena espansione che crea occupazione e attira investitori da ogni parte del mondo, nonchè uno spiraglio di luce nel baratro in cui la Grecia è precipitata.
Nato nel 2006, Jeremie, Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises, è attivo anche in Italia dal 2008 per start up e Pmi in difficoltà : 371 milioni disponibili in Sicilia, Calabria e Campania, dove è gestito dal Fondo Europeo di Investimento, che seleziona le banche che erogano i prestiti e a loro volta prestano il loro denaro alle stesse condizioni.
Altri stanziamenti sono previsti in Lombardia, dove l’ente gestore è Finlombarda, la finanziaria regionale.
Ma in Italia il fondo funziona male, specie al Sud. Una realtà che si scontra con i dati dei primi tre mesi del 2013, in cui sono state costrette a chiudere 40 piccole e medie imprese al giorno. Le colpe del cattivo funzionamento di Jeremie? Di tutti.
Banche, Regioni ed enti gestori: ritardi nell’attivazione, tassi di interesse troppo alti, poche informazioni, “scarsa predisposizione degli istituti di credito a usare Jeremie”.
In Sicilia i fondi sono due, per un totale di 120 milioni: 110 li ha il Dipartimento Finanza e Credito (44 sono dell’Ue, 66 li mette la Bnl), 10 il settore delle Attività produttive con Unicredit, destinati al microcredito.
Dal 2009, anno di costituzione del fondo, sono stati erogati solo 10 milioni. “Nel 2012 abbiamo sbloccato il meccanismo — spiega al fattoquotidiano.it Giovanni Bologna, dirigente del Dipartimento Finanza — alzando il massimale da 400 mila euro ad un milione e dando la possibilità alle imprese di ristrutturare il loro credito.
Ora la macchina è partita”.
Eppure l’assessore all’Economia, Luca Bianchi, il 23 maggio scorso dichiarava: “I fondi Jeremie hanno fallito e se non funzionano occorrerà definanziarli”.
Le responsabilità ? Il solito scaricabarile.
Solo il 5 ottobre 2012 l’allora assessore Armao denunciava “gravi inadempienze dell’Istituto bancario gestore in materia di comunicazione tali da impedire alle imprese la giusta conoscenza delle opportunità dello strumento”. Giovanni Catalano, direttore di Confindustria Sicilia, spiega: “Nell’ultimo seminario che abbiamo fatto, Bnl e Unicredit hanno dato la colpa al complesso meccanismo di gestione delle pratiche: per il microcredito, ad esempio, costa troppo gestire il progetto di un prestito che al massimo è di 25 mila euro, e per questo le banche non hanno interesse a usare questi fondi”.
Ancora peggio va in Calabria.
Nell’ottobre 2011 veniva presentato uno stanziamento di 45 milioni. A tutt’oggi alle imprese non è arrivato un euro. Il 29 maggio il nuovo annuncio: 95 milioni a disposizione delle Pmi (52,5 del Banco di Napoli, 42 della Banca del Mezzogiorno). Ma alla conferenza stampa si notava un’assenza importante, quella di Confindustria Calabria: “Il problema è che il pallino è in mano alle banche — racconta il presidente, Giuseppe Speziali — i vincoli sono troppo stringenti e il costo del denaro troppo alto: qual è l’impresa in difficoltà che riesce a prendere un prestito con un tasso dell’11%?”. Colpa della politica per Franco Laratta, politico calabrese, fino al 14 marzo deputato Pd: “I Confidi non bastano, la Regione non ha previsto un fondo di garanzia pubblico in grado di tranquillizzare le banche, che tengono alti gli interessi”.
Le cose vanno meglio in Campania.
Dei 156 milioni a disposizione (70 dai Fondi Fei e i restanti 85,5 di Unicredit) 50 sono stati erogati alle imprese. Un terzo, un capolavoro nel panorama generale.
Sono 371 i milioni stanziati complessivamente nelle 3 Regioni (210 dell’Ue, 161 delle banche), solo 60 quelli utilizzati.
Un’idea complessiva sul perchè la dà il Rapporto Finale del Workshop Tecnico sul sistema del Microcredito in Italia, datato 24 febbraio 2012 e firmato da Ente nazionale per il microcredito e Commissione Ue: “scarsa informazione”, “difficoltà di trovare operatori competenti”, “elevati ritardi dei decreti attuativi”, “eccessiva burocrazia”, “scarsa predisposizione degli istituti di credito a usare Jeremie”.
A Nord Jeremie è disponibile in Lombardia dal 2008.
L’ente gestore è Finlombarda. I pochi dati ufficiali li fornisce il Rapporto sul Microcredito: in Lombardia, si legge, “le risorse messe a bando ammontano a 31,5 milioni”.
I siti di Regione, finanziarie e banche traboccano di comunicati che parlano di milioni e milioni di euro a disposizione delle Pmi (dai 76 annunciati da Confidi Lombardia e Intesa Sanpaolo nell’aprile 2010 ai 95 sbandierati da UniCredit ed Eurofidi nell’ottobre 2011), nessuno che parli di erogazioni. Come stanno andando questi fondi? Finlombarda non risponde alle richieste di informazioni.
E il resto dell’Ue? Ad oggi, sono 14 i Fondi Jeremie gestiti dal FEI in Europa.
Quasi tutti vanno meglio di quelli italiani.
Il Report Annuale 2012 racconta che dei 349 milioni disponibili in Bulgaria a fine anno ne erano stati erogati 90.
In Francia due fondi regionali per complessivi 50 milioni sono stati utilizzati per il 32%.
La Lituania aveva 170 milioni: 126 sono andati alle imprese.
In Romania “i fondi stanziati sono andati oltre i 115 milioni, superando la dotazione del fondo che era di 100″.
Marco Quarantelli
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
UNIONCAMERE: CONSUMI GIU’, PRODUTTORI AL PALO
Trentacinque fallimenti al giorno. ![](http://sphotos-b.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-frc1/1001875_10200621861521584_746950016_n.jpg)
Ogni due ore in Italia muoiono 3 imprese: 5.334, per la precisione, nei primi cinque mesi dell’anno.
Duecentottantaquattro in più (+5,6%) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
La fotografia che scatta Unioncamere nel suo ultimo rapporto sulla crisi italiana, che la Stampa è in grado di anticipare, è impietoso.
E’ la rappresentazione esatta di quel baratro di fronte al quale ci troviamo da mesi, o se vogliamo l’ultimo fotogramma del film della caduta senza fine della nostra economia: sono i numeri che fanno disperare le nostre imprese e vivere nell’inquietudine il governo.
Oltre ai fallimenti crescono anche le domande di concordato, addirittura triplicate rispetto al 2012: passate da 539 a 904 casi (+68%).
In alcuni casi si tratta di un modo per procrastinare situazioni già molto compromesse, in molti altri è invece la via breve per serrare i cordoni della borsa e liberarsi (per un po’) di tanti creditori.
Nessuno paga più
Le imprese muoiono perchè i consumi continuano a scendere, perchè non riescono o non possono agganciarsi al treno dell’export, perchè i costi sono troppo alti.
Ma anche perchè, spiega Unioncamere, i clienti, spesso altre aziende, non pagano. Insomma si fallisce – e pure tanto – non solo per debiti ma anche per crediti non riscossi.
Non solo dallo Stato, che in queste settimane poco alla volta ha iniziato a pagare i suoi primi 20 miliardi di arretrati, ma dai privati.
Manifattura al capolinea
I settori più colpiti sono le attività manifatturiere (1131 fallimenti), le costruzioni (1.138) e il commercio, sia al dettaglio che all’ingrosso (1.203).
Ma anche le attività immobiliari non se la passano bene con un aumento del 117,4% delle istanze (salite da 135 a 250).
Idem le attività di trasporto e magazzinaggio: +49,5% (da 93 a 281 fallimenti). A fallire sono soprattutto i costruttori edili (680, +67,1%), e le aziende che effettuano lavori di costruzione specialistici (413, +70%).
A ruota seguono le attività immobiliari ed i trasportatori (202, +75,7%), ma soffrono anche i ristoratori (202 fallimenti) e ed i fabbricanti di mobili (113 procedure, +91,5%).
Le difficoltà del settore edili ed immobiliare sono fotografate bene anche dall’impennata delle domande di concordato arrivate da questo comparto: +277,3% per le attività immobiliari, +141,7% per le costruzioni. Boom anche nel settore delle industrie alimentari (+222,2% a quota 29) e nel commercio all’ingrosso, +145,5% a quota 108.
Il Ko da Nord a Sud
E’ Milano la città che conquista il primato in questa per nulla entusiasmante graduatoria con circa il 10% di tutti i fallimenti, 525 nei primi 5 mesi del 2013, uno in più del 2012; seguono Roma (466), Napoli (217), Torino (209) e Brescia (143) come Firenze.
A livello regionale il record spetta pertanto alla Lombardia (1211 fallimenti, +95), seguita da Lazio (595, +11,4%) e Veneto (454, +11,5%).
Mentre sono Toscana (+38,2% a quota 441), Calabria (153, +24,4%) ed Emilia Romagna (+15,1% a quota 428) a segnare i rialzi più forti, segno che la crisi sta penetrando in profondità ovunque nel Paese e non risparmia nemmeno le aree (Emilia, Toscana e Veneto) tradizionalmente più dinamiche ed attrezzate per far fronte alle tempeste dei mercati.
È il segno che il male è ormai diffuso in tutto il corpo del Paese, e che la cura deve essere rapida. E soprattutto molto forte.
Paolo Baroni
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
NELLE MOTIVAZIONI DEI GIUDICI DI MILANO SI AFFERMA CHE BERLUSCONI GUIDAVA L’AZIENDA ANCHE SENZA AVERE CARICHE
Berlusconi eleggibile o ineleggibile?
La battaglia più attesa della legislatura parte giovedì al Senato, alle 14, nella giunta per le autorizzazioni, presieduta dal vendoliano Dario Stefà no.
E sin dalle prime battute esploderà il nodo politico, l’alleanza sul campo tra una parte del Pd e l’M5S, che potrà creare qualche malumore anche nel governo. Per certo non sarà gradita al Cavaliere che ne detiene la determinante golden share.
L’ex pm ed esponente di punta dei Demoratici Felice Casson e l’ex capogruppo grillino Vito Crimi, con formule diverse, chiederanno che la sentenza del processo Mediaset entri a pieno titolo nella discussione sul ruolo dell’ex premier.
Quella sentenza d’appello – 4 anni per frode fiscale e 5 d’interdizione dai pubblici uffici – contiene “la novità ” che potrebbe cambiare il corso del dibattito. Lì è scritto che Berlusconi è l’effettivo dominus delle sue aziende. Questo lo metterebbe in conflitto con la legge 361 del ’57 sul conflitto d’interesse.
Ma vediamo che succede giovedì.
Il caso Molise, dove il capo del Pdl ha optato per l’elezione, arriva in giunta.
Sul tavolo una dozzina di ricorsi.
Il relatore è Andrea Augello, esponente Pdl, ex An, vice in giunta nella scorsa legislatura, noto per la sua intransigenza sul caso Di Girolamo poi salvato dall’assemblea. Sta scrivendo la relazione. Nessuna anticipazione. Ma il quadro è chiaro.
Le precedenti pronunce della Camera sono a favore di Berlusconi.
Se le pezze d’appoggio restano le stesse la pronuncia potrebbe essere identica. La suspense è per le nuove “carte”. Pd e M5S sono pronti.
Casson lo conferma: «L’ho sempre detto. Chiederò che venga acquisita la sentenza Mediaset, perchè lì ci sono i fatti nuovi che la giunta deve valutare».
Come conferma Vito Crimi, M5S ha già pronto il suo dossier, «in cui c’è anche la sentenza Mediaset», con materiale che «chiarisce il ruolo di Berlusconi, il suo essere tuttora l’effettivo titolare e proprietario delle sue aziende».
M5S sfida il Pd: «Si giocano tutto e devono rispondere politicamente delle loro scelte, dovranno dire se sono pro o contro Berlusconi, se sono succubi o no». Casson ha già fatto il suo passo, ma molti Pd in giunta si sono espressi per Berlusconi
Toccherà ad Augello analizzare i nuovi documenti.
L’ex premier non ha presentato una memoria difensiva, ma potrebbe farlo, così come potrà chiedere d’essere ascoltato.
Giacomo Caliendo, vice presidente Pdl, lascia intendere che la decisione sia senza storia, ma dalle sue parole si capisce che i berlusconiani vogliono prendere tempo. Nessuna decisione prima dell’estate, tentativo di agganciare la Cassazione per Mediaset, ma valutare anche le altre due sentenze su Mediatrade, quella di Roma chiusa nel marzo 2013 con un “il fatto non sussiste” e quella di Milano dell’ottobre 2011 con un “assolto per non aver commesso il fatto”.
Berlusconi padrone effettivo? Il nodo è qui.
Conviene citare una lettera di Ettore Gallo, famoso ex presidente della Consulta, che il 24 giugno del ’96, in occasione di un niet della Camera, scriveva a Vittorio Cimiotta, da sempre impegnato nella battaglia per l’ineleggibilità : «Affidare a una persona di fiducia la posizione giuridica da cui deriva l’ineleggibilità per regolarizzare la situazione sul piano formale è un’autentica fraus legis che lo spirito sostanziale della legge non consente».
Liana Milella
(da “La Repubblica“)
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
IL TESORIERE PD: TESTO DA CAMBIARE… PDL: NO ALL’ABROGAZIONE DEI FONDI
Il governo alza le barricate in difesa della legge che cancella il finanziamento ai partiti. ![](http://sphotos-f.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash4/1001131_10200620173879394_1038306058_n.jpg)
Perchè «o il sistema viene riformato o andiamo verso il collasso », sostiene il premier Enrico Letta, mettendo in guardia da qualsiasi manovra di alleggerimento messa a punto per attenuare i rigori della norma.
Trova man forte questa volta in Matteo Renzi, pronto a sparare a pallettoni contro le eventuali retromarce. Soprattutto quelle che qualcuno sta ipotizzando dentro il Pd.
I suoi parlamentari di riferimento sono sul piede di guerra. «Su questo punto il Pd deve essere limpido e lineare, troppe ambiguità finora» attacca ad esempio il deputato Dario Nardella: «Il governo Letta si gioca la credibilità , ora si tratta di capire se tutti nel nostro partito credono in questa battaglia o meno, se la linea sia quella di Sposetti o quella del premier: diciamo no al 2 permille ma anche ai finanziamenti a progetto». Il monito di Letta nei colloqui privati – tanto più dopo prese di posizioni come quella dell’ex tesoriere Ds e senatore Pd, Ugo Sposetti, nell’intervista di ieri aRepubblica («Senza soldi ai partiti la democrazia è morta») – si spinge fino al punto di minacciare l’intervento drastico di Palazzo Chigi con un decreto, alla ripresa d’autunno.
Avvertimento che conta poco o nulla sulla sponda Pdl, dato che Cicchitto e altri sono contrari all’azzeramento di ogni forma di finanziamento e lo dichiarano fin d’ora.
Il ddl governativo a stento concluderà il suo iter in commissione Affari costituzionali della Camera a fine luglio.
Tutta la partita in aula poi sarà rinviata alla ripresa.
Lo scontro è aperto proprio dentro il Partito democratico.
Col tesoriere Antonio Misiani chiamato in causa quale big sponsor del contestato rimborso «a progetto».
Il deputato, che ha anche studiato in Canada le forme di finanziamento alternative ai partiti, nega qualsiasi intenzione di sabotare il ddl Letta in combutta coi colleghi del Pdl. Spiega che «se c’è un modello Ottawa da guardare con attenzione riguarda il tetto massimo alle singole donazioni private, forti agevolazioni fiscali per le piccole donazioni, l’organizzazione della raccolta fondi dei partiti canadesi ».
Del resto, aggiunge, il provvedimento adottato dal governo «ha significativi margini di miglioramento ».
Cicchitto su questo punto dà ragione a Sposetti, dissentendo dalle ipotesi di abrogazione tout court del finanziamento dei partiti, «perchè in questo contesto porterebbe anche alla loro di abrogazione: su tale punto andrebbe aperta una riflessione senza demogogia».
Elena Centemero, anche lei Pdl, mette in guardia dall’articolo 13 del testo che conterrebbe interventi «salva fondazioni» e avverte: «Se il provvedimento resta tale, non lo voterò».
I Radicali invitano Renzi e il M5s a sostenere il loro referendum (uno dei 12) anti finanziamento.
Ma i parlamentari grillini, in una nota, chiamano in causa su questa vicenda il presidente del Consiglio Letta: vuole approvare la riforma del finanziamento, «peccato però che non dica una parola sui 91 milioni di euro che entro il 31 Luglio lo Stato verserà nelle casse dei partiti ».
Hanno depositato una mozione che sarà discussa il 15 luglio alla Camera con cui chiedono «al governo di sospendere il pagamento dei rimborsi di luglio in attesa che il Parlamento abbia approvato la riforma».
Difficile, dato che è stato già approvato lo scorso anno il dimezzamento del budget, che ha già dimezzato la cifra erogata dallo Stato alle formazioni politiche, dai quasi 180 milioni a 91 milioni di euro. Intanto, se e quando il ddl Letta verrà approvato, l’abolizione del finanziamento sarà graduale. Per entrare a regime solo nel 2016.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Luglio 8th, 2013 Riccardo Fucile
IN 10.000 PER LA MESSA, L’INCONTRO CON I MIGRANTI… LA FORTE SIMBOLOGIA DELLE AZIONI DEL PONTEFICE
Prima di scendere sul molo di Lampedusa, ha deposto in mare una corona per ricordare i migranti morti in mare.
Papa Francesco ha inaugurato così la sua prima visita nell’isola, dove lo attendeva una folla di 10mila persone.
E’ stata proprio la notizia degli «immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte» ad averlo spinto a scegliere Lampedusa come meta della sua prima visita.
Lo scopo, come ha ricordato durante la messa, è «risvegliare le nostre coscienze perchè ciò che è accaduto non si ripeta».
LA MESSA
Il Papa è arrivato a Lampedusa nella tarda mattinata.
Al suo arrivo, a Punta Favaloro, ha stretto la mano ad un gruppo di migranti, ricordando di pregare «anche per quelli che non sono qui».
Un gesto inaspettato, che non è previsto in nessun protocollo.
Mentre durante la messa, che si è tenuta nello stadio dell’isola, il Pontefice si è scagliato contro «la globalizzazione dell’indifferenza» e la società «che ha dimenticato l’esperienza del piangere».
Si è poi rivolto agli immigrati musulmani, salutandoli con l’espressione dialettale lampedusana « o’ scià » (che significa «o fiato») e assicurando che «la Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie».
LA VISITA
Dopo la messa, Papa Francesco ha raggiunto la parrocchia di San Gerlando, dove ha incontrato alcuni migranti, un gruppo di cittadini di Lampedusa e il sindaco Giusi Nicolini.
Presente all’incontro anche don Stefano, il parrocco che nel maggio scorso lo aveva invitato nell’isola.
Uscendo dalla chiesa, il Pontefice ha salutato i lampedusani chiedendo loro di «proseguire in questo atteggiamento tanto umano quanto cristiano».
Un invito che ha ripetuto anche via Twitter: “Preghiamo per avere un cuore che abbracci gli immigrati. Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi” ha twittato durante la mattinata dall’account @Pontifex_it.
(da “il Corriere della Sera“)
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