Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
I VIAGGI DELLA SPERANZA ACCANTO AI RICORDI DELLA NOSTRA EMIGRAZIONE
Otto anni fa era nato nel parco nazionale della Sila, tra i pini larici di Calabria, il primo
Museo narrante dell’emigrazione.
Da ieri «La Nave della Sila» ha una sezione in più: si chiama «Mare Madre, i popoli si muovono», ed è dedicata ai migranti che attraversano il Mediterraneo da Sud a Nord.
Un viaggio all’incontrario in questa regione che nei secoli scorsi ha visto partire per terre lontane il suo popolo in cerca di fortuna e dove adesso, invece, si vedono spuntare madri, bambini, neonati, uomini con il viso segnato dalla sofferenza, che arrivano dai paesi africani, dopo un viaggio estenuante, con la speranza di trovare in una terra a loro sconosciuta una condizione di vita più umana.
È la voce narrante di Erri De Luca, autore tra l’altro di «Cimitero di Lampedusa», che proietta il visitatore in questo percorso della durata di otto minuti, dove immagini e suoni accompagnano le storie dei migranti
Per documentare le loro vicende la Fondazione Napoli Novantanove, presieduta da Mirella Barracco, ha scelto di portare i visitatori dentro un container, ambiente museale inedito, e simbolo delle traversie umane.
Perchè anche in quelle scatole destinate a spostare merci a volte si svolge la dolorosa traversata nel deserto dei migranti. Una fatica immane senza acqua nè cibo, che spesso si conclude con la morte.
«Questa scelta dimostra la nostra volontà di impegno continuo e di azione sul territorio a partire, come nostra abitudine, dalle scuole», ha detto la Barracco.
Il percorso della nuova sezione inizia con l’arrivo della prima nave, la Vlora, al porto di Bari nel 1991: ventimila profughi sbarcarono in Italia dall’Albania, il più grande arrivo di rifugiati mai avvenuto nel nostro Paese
Ieri e oggi. Emigrazione dall’Italia e per l’Italia.
«Nave della Sila» e «Mare Madre». Ecco il primo tentativo di raccontare l’emigrazione italiana in un’ottica non regionale.
Nella ricostruzione di quella che fu la grande epopea dei nostri emigranti, la scelta di aggiungere quel container e descrivere gli arrivi in Calabria dei profughi del terzo millennio è la volontà di trovare un anello di congiunzione tra presente e passato.
Quando, per esempio, furono gli italiani a fare la fortuna degli Stati Uniti dopo la crisi del ’29, pur sfruttati come accade oggi per gli immigrati che lavorano a Rosarno o a Villa Literno.
Il nuovo Museo è l’occasione per far conoscere e prendere coscienza di un fenomeno che non è più trascurabile e del quale nessuno più s’indigna.
Lo stesso Papa Francesco nei giorni scorsi lo ha ribadito nel suo viaggio a Lampedusa: «Siamo incapaci di piangere per le vittime»
Una delle otto sezioni che descrivono il viaggio della speranza riguarda i campi di detenzione in Libia.
È qui che spesso i migranti sono vittime di soprusi da parte di forze di polizia corrotte e contrabbandieri.
Pronti a vendere come merce di scambio uomini e donne, che dopo essersi privati di ogni bene, per raggiungere le coste del Mediterraneo, finiscono reclusi.
Un viaggio nel buio in un’atmosfera suggestiva accompagna il visitatore dentro il container, e lo rende quasi protagonista di un percorso che attraversa il mare per giungere sino alle nostre coste.
Il mare, che diventa spesso cimitero senza nomi, è l’ultima tappa del viaggio.
Per alcuni è il lieto fine, per altri si trasforma in una nuova odissea che si chiama espulsione.
Carlo Macrì
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
CASO KAZAKO: IL PROBLEMA E’ DECIDERE SU CHI SCARICARE LA COLPA
Riunito in seduta permanente dai tempi del tiramolla indiano sui marò, l’Ufficio Figuracce Internazionali (UFI) sta affrontando in queste ore il delicato caso del ratto delle kazake.
Il problema, naturalmente, non è riportare indietro la moglie del dissidente che l’Italia ha consegnato, insieme con la figlia, al dittatore dello Stato poco libero del Kazakistan, trattandole come clandestine.
Il problema è decidere a chi darne la colpa.
Dai primi accertamenti dell’UFI – citiamo il comunicato ufficiale – «è emerso che l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione non erano state comunicate nè al presidente del consiglio, nè al ministro dell’interno e neanche al ministro degli esteri o della giustizia».
Il comunicato non accenna al ministro dei trasporti (le due espulse hanno viaggiato in aereo) nè a quello dell’agricoltura (il Kazakistan ha un’importante tradizione di pastorizia), ma anche da una lista così scarna si deduce che non un solo fondoschiena governativo è rimasto allo scoperto
Escludendo l’ex ministro all’edilizia inconsapevole Scajola e il comandante scogliocentrico Schettino, e considerando momentaneamente esaurite le parentele egizie, l’elenco dei capri espiatori di routine comincia a scarseggiare.
Restano i giudici che hanno esaminato la pratica e il funzionario dell’ufficio immigrazione che ha visionato i passaporti.
Ma non sottovaluterei l’addetto ai bagagli («non poteva non sapere») e la hostess addetta alle salviette.
L’importante è che il capro salti fuori al più presto, affinchè intorno al suo collo si possa stringere il cappio mediatico che metterà in salvo tutti gli altri.
Lunga vita al Kazakitalistan.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
AMNESTY INTERNATIONAL: “NON RISPETTA I DIRITTI UMANI: PERSINO ASFISSIA CON SACCHETTI DI PLASTICA PER OTTENERE CONFESSIONI DAI SOSPETTATI, NESSUNA ASSISTENZA MEDICA IN CARCERE”
Più che legittime e comprensibili appaiono le preoccupazioni di Mukhtar Ablyazov,
l’oppositore kazako, marito di Alma Shalabayeva, la donna prelevata a Roma assieme a sua figlia di 6 anni e rimpatriata in Kazakistan con un jet privato, in un blitz dai contorni assai opachi, del quale lo stesso ministro degli Interni, Alfano, non sarebbe stato informato.
La paura di Ablyazov ora è che, dopo la decisione del governo italiano di revocare l’espulsione della donna, sua figlia possa essere rinchiusa in un orfanotrofio e sua moglie rinchiusa in una cella. Come, del resto, già risulta, sebbene per ora in stato di arresto domiciliare.
Le ragioni di Ablyazov.
Ha ragione a preoccuparsi Ablyazov – in esilio a Londra – perchè il clima nel suo paese sembra davvero irrespirabile, dal punto di vista dei diritti umani e delle garanzie minime di libertà di espressione.
C’è un rapporto di Amnesy Internazional, che analizza nel dettaglio la situazione nel paese governato da Nursultan Nazarbayev, che parla – ad esempio – di un sistema giudiziario dove sono ammesse come prove anche le confessioni a carico di imputati, difesi da avvocati che portano in dibattimento contro-prove per dimostrare che quelle stesse confessioni sono state estorte con la tortura.
In altre parole, gli standard internazionali di equità processuale, non verrebbero neanche minimamente rispettati.
Le pesanti limitazioni della libertà .
In un contesto di operazioni di contrasto al terrorismo e alla corruzione, perdurano – si legge nel rapporto di Amnesty – pesanti limitazioni alla libertà di espressione e di religione.
Il diritto alla libertà di religione è tuttora limitato e le minoranze religiose hanno continuato a denunciare vessazioni da parte della polizia e delle autorità locali. Musulmani che esercitavano il culto al di fuori delle moschee autorizzate, come la comunità Ahmadi e i seguaci del movimento salafita, hanno riferito di essere sempre più nel mirino della polizia e dell’Nss.
Tra i gruppi più perseguiti vi sono stati richiedenti asilo e rifugiati dall’Uzbekistan e membri o presunti membri di gruppi islamici o di partiti islamisti non registrati oppure messi al bando.
Alcuni esponenti politici di alto profilo coinvolti in operazioni anticorruzione hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente.
I funzionari dell’Nss (i servizi di sicurezza kazaki) sono stati accusati di utilizzare sistematicamente tortura e altri maltrattamenti nei centri di detenzione preventiva sotto la loro giurisdizione.
Alle Commissioni pubbliche di controllo, incaricate dell’ispezione delle strutture detentive, è stato negato l’accesso ai centri di detenzione dell’Nss.
Le furbizie di Nazarbayev.
Tre anni fa, il governo di Astana (capitale dello Stato) ha approvato un piano di tutela dei diritti umani con lo scopo di fugare i dubbi e le preoccupazioni delle organizzazioni per i diritti umani nazionali e internazionali sull’incapacità del Kazakistan di rispettare i propri obblighi in questo ambito.
Una mossa che Nazarbayev fece, non a caso, alla vigilia della presidenza provvisoria del Kazakistan nel gennaio 2010.
Ma trascorsi appena sei mesi, lo stesso Nazarbayev introdusse degli emendamenti a delle norme che regolavano l’uso di internet, sottoponendo le comunicazioni attraverso la Rete alle stesse norme rigidissime che governano gli altri organi di informazione.
Norme che prevedono, senza mezzi termini, sanzioni penali per chi critica il presidente e i funzionari del governo.
Le detenzioni non registrate.
Nel corso di una istruttoria – tanto per fare un altro esempio – relativa ad un caso di possibile estradizione dall’Ucraina di un cittadino, Amir Damirovich Kaboulov, la Corte europea dei diritti umani stabilì che trasferirlo in Kazakistan, nonostante il sospetto che si trattasse di un criminale, avrebbe violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, poichè le persone estradate avrebbero corso un grave rischio di essere sottoposte a tortura o trattamenti disumani o degradanti.
Infatti, nonostante le modifiche al codice penale e a quello di procedura penale, per arginare le azioni illegittime, la pratica della tortura e dei maltrattamenti hanno continuato a essere assai diffusi.
Così come le confessioni estorte con la forza godono tuttora della forza processuale di una prova, nonostante evidenti smentite, nel paese governato da Nazarbayev continuano le detenzioni non registrate di persone, ben oltre le tre ore consentite dal diritto interno, così come non è stata affrontata la mancanza di una chiara definizione di detenzione, a dispetto delle raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura del novembre 2008.
Il dossier del relatore speciale dell’ONU.
Quattro anni fa, il Relatore speciale dell’Onu sulla tortura, in visita ad Astana, ha detto chiaro e tondo di “aver raccolto molte denunce credibili di percosse con mani e pugni, bottiglie di plastica riempite di sabbia e manganelli in uso alla polizia e di calci, asfissia con sacchetti di plastica e maschere antigas, utilizzate per ottenere confessioni dai sospettati. In diversi casi, tali affermazioni sono state avvalorate da referti di medicina legale”.
Un tribunale di Astana, un paio di anni fa, ha condannato due uomini, rispettivamente a 25 anni di reclusione e all’ergastolo, per l’omicidio premeditato di una donna e dei suoi tre bambini.
Entrambi gli hanno sempre affermato di non aver commesso gli omicidi, ma di essere stati torturati durante la detenzione per costringerli a confessare.
Secondo osservatori del processo, il giudice ha ordinato alla giuria di non prendere in considerazione le accuse di tortura.
A quanto sembra, una videoregistrazione in mano alla polizia kazaka, mostrava uno dei due condannati coperto di lividi.
Quel nastro è poi risultato “smarrito” dal pubblico ministero.
La Corte suprema ha poi respinto i ricorsi presentati da entrambi gli imputati., e per quanto riguarda le accuse di tortura, non risulta che siano state condotte indagini.
La situazione delle carceri.
Lo stesso Relatore speciale delle Nazioni Unite ha anche dichiarato che “alcuni gruppi sociali corrono maggiori rischi di trattamento crudele, disumano e degradante rispetto ad altri”, rilevando che la probabilità per gli stranieri di venire sottoposti a tale trattamento sembrava essere “superiore alla media”.
La relazione di Amnesty affronta poi l’altrettanto preoccupante situazione delle carceri kazake, dove vengono rifiutate le cure mediche necessarie e dove i detenuti possono contare soltanto sulle medicine procurate loro dai familiari.
Luoghi, a quanto pare, difficilmente visitabili da rappresentanti del Parlamento e comunque assolutamente interdetti agli organi d’informazione.
Chi è Nazabayev.
Eletto circa vent’anni fa con più del 90% dei consensi – plebisciti frequenti tra gli autocrati dell’Asia centrale – Nursultan Nazarbayev, che ora per legge è rielegibile ad libitum, prima di diventare presidente era da tempo a capo del Partito comunista kazako, quando c’era ancora l’URSS.
In un clima del genere, è abbastanza comprensibile che non si palesino frequentemente degli oppositori, soprattutto perchè gli apparati del governo non fanno nulla per non diffondere nella popolazione la convinzione che è meglio stare un po’ tutti al proprio posto, senza alzare la voce, in un paese dalle immense ricchezze minerarie e – stando a diversi rapporti di organizzazioni per la difesa dei diritti umani – interessato da livelli di corruzioni, diciamo così, “superiori alla media”.
Nella foto di famiglia.
Nella foto di famiglia del presidente Kazako figura anche suo genero, ormai ex, tal Rakhat Aliyev, marito di sua figlia Dariga, già viceministro degli Esteri e ambasciatore a Vienna, dale spiccate inclinazioni al successo personale.
Ambizioni che lo hanno portato ad inciampare in un procedimento giudiziario assai complicato, al punto da costringerlo ad uscire di scena.
Nel frattempo si è reso per legge ripresidenziabile ad infinitum
Carlo Ciavoni
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
SAREBBE INDAGATA PER “CORRUZIONE PER AVER OTTENUTO IL PASSAPORTO”….LA FARNESINA PRENDE LE DISTANZE DA ALFANO: “NON ERAVAMO AL CORRENTE”
Alma Shalabayeva “non è in prigione o agli arresti domiciliari”, ma ha obbligo di residenza ad Almaty perchè “sotto inchiesta sul rilascio del passaporto per il marito e i familiari in cambio di tangenti”.
La precisazione, sulle condizioni della moglie del dissidente kazako Muhktar Ablyazov, espulsa dall’Italia il 31 maggio, arriva dal portavoce del ministero degli esteri kazako.
“Tutti i diritti e le libertà della signora – ha aggiunto il rappresentante di Astana – come previsto dalla legislazione kazaka e dalla legge internazionale, sono pienamente rispettati e garantiti dalle forze dell’ordine del Paese”.
La dichiarazione di Astana contrasta con quanto comunicato in precedenza da uno degli avvocati della donna, Vincenzo Cerulli Irelli, secondo cui Alma e sua figlia Alua, si troverebbero “agli arresti domiciliari in casa del padre di lei”.
Dopo il dietrofront del governo Italiano, che ieri ha revocato l’espulsione della donna, evidenziando una grave mancanza d’informazione all’esecutivo e annunciando un’indagine interna, il legale ha inoltre fatto sapere che madre e figlia “non hanno subito maltrattamenti”.
“GRAVE IRREGOLARITà€ FORZE POLIZIA”
“Per raggiungerla – ha spiegato l’avvocato – abbiamo dovuto prendere contatto con un console in Kazakistan. Non ci risultano ulteriori pericoli per la signora ma suo marito è il maggiore oppositore del regime e questo ci fa temere per il futuro”.
“E’ importante – ha detto ancora il legale – che i riflettori su questa vicenda restino accesi”.
La vicenda rischia di avere anche ripercussioni politiche sul governo, con l’annuncio di una mozione di sfiducia M5S-Sel nei confronti del ministro dell’Interno, Angelino Alfano. “Il nostro governo si è mosso subito con il governo kazako per il bene della signora – ha aggiunto Cerulli Irelli – da questo punto di vista siamo tranquilli ma resta il fatto della gravissima irregolarità delle nostre forze di polizia compiuta all’insaputa del governo”.
“Ieri sera – ha spiegato l’avvocato – il governo ha annullato il provvedimento di espulsione, insomma ha preso atto dell’illegalità dell’operazione di polizia. A oggi non risulta che ci sia stata una responsabiltà politica”.
APPELLO DI ABLYAZOV A LETTA
Intanto a rivolgere un appello al presidente del Consiglio, Enrico Letta, è direttamente Ablyazov sul quotidiano La Stampa. “Caro mister Letta – scrive il dissidente – grazie per questa decisione coraggiosa, ma adesso temo che Nazarbayev reagirà mandando mia moglie Alma in prigione e la mia bambina Alua all’orfanatrofio”.
Un invito a non abbassare l’attenzione. “Alma e Alua ora si trovano in una situazione di grave pericolo – sottolinea Ablyazov – detenute dal regime di Nazarbayev che le tiene in ostaggio al fine di usarle contro di me”.
FARNESINA NON ERA AL CORRENTE
La Farnesina, invece, ha fatto sapere di essersi immediatamente attivata con il Kazakistan per aiutare la signora Alma Shalabayeva e di aver ottenuto un “impegno scritto” dalle autorità locali affinchè rispettino “tutte le prerogative e i diritti della signora”.
Le stesse fonti hanno tuttavia sottolineato che il ministero non era al corrente del provvedimento di espatrio.
Il fax della Farnesina del 29 maggio alla Questura di Roma si limitava a rispondere se Shalabayeva avesse o no copertura diplomatica.
La richiesta fatta dall’ufficio immigrazione, fanno sapere dalla Farnesina, faceva riferimento alla signora Alma con il suo nome da ragazza e non dava alcuna indicazione che potesse fare risalire al dissidente kazako.
“Non potevamo fare – sottolineano fonti del ministero – nessun collegamento tra questa signora, indicata con il suo nome da ragazza e di cui ci veniva solo chiesto se godesse o meno di copertura diplomatica, e la moglie di Ablyazov”.
RELAZIONE ENTRO 2-3 GIORNI
Si conoscerà , comunque, tra due-tre giorni la relazione del capo della polizia Alessandro Pansa, dopo l’indagine richiesta da Palazzo Chigi per chiarire i passaggi e le circostanze che hanno portato all’espulsione.
(da “La Repubblica“)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
TRA I MISTERI DELL’OPERAZIONE ABLYAZOV: IL BLITZ NON ‘E NATO PER CASO, MA SU PRECISE INDICAZIONI E PRESSIONI DEL GOVERNO KAZACO
Come è stato possibile? Chi lo ha reso possibile? E perchè? Repubblica ha avuto accesso ai
documenti amministrativi e giudiziari del caso Ablyazov.
Ha raccolto le testimonianze di chi ha avuto parte diretta in questa vicenda.
Sono dodici diverse fonti – inquirenti, legali, ministeriali e di polizia – che consentono una prima ricostruzione di dettaglio di quanto accaduto tra la mattina del 27 maggio e la sera del 31, quando, all’aeroporto di Ciampino, Alma Shalabayeva, moglie del dissidente, sale insieme alla figlia Alua sulla scaletta dell’aereo che l’indomani mattina la riporterà ad Astana.
28 Maggio. Kazaki in Questura
Il 28 maggio, dunque. La storia comincia da qui. Quel martedì mattina, i due kazaki che si presentano in Questura nell’ufficio del capo della Squadra Mobile Renato Cortese, non stanno nella pelle. Sono Andrian Yelemessov, l’ambasciatore in Italia, e il suo primo consigliere Nurlan Zhalgasbayev.
L’agenzia privata di investigazioni Syra, che ha i suoi uffici a Roma, per un compenso di cinquemila euro, ha individuato per conto del Regime di Astana la casa in via di Casal Palocco 3 dove si rifugerebbe il dissidente Mukhtar Ablyazov.
I kazaki prospettano a Cortese “un colpaccio”. L’arresto di un uomo che dipingono come un pezzo da 90. “Tra i più pericolosi ricercati dall’Interpol”.
I due, per suonare ancora più convincenti, agitano pezzi di carta che vendono come proprie informazioni di intelligence e polizia e che dipingono l’uomo come “pericolosissimo”. Abituato “a girare armato”. “Fiancheggiatore e finanziatore del terrorismo”.
Cortese non sa chi diavolo sia Ablyazov. Spiega ai kazaki che nel nostro Paese si può arrestare qualcuno in forza di un provvedimento legittimo. Non di una soffiata. Consulta la banca dati della Polizia in cui quel nome non compare. Una ricerca internet potrebbe dire qualcosa di più su colui che, dal 2001, ha assunto il ruolo di oppositore del presidente Nazarbaev.
Ma il Capo della Mobile, su insistenza dei kazaki, chiama la nostra divisione Interpol al Viminale.
Il funzionario dall’altro capo del telefono lo conforta. Nella loro banca dati, quel Mukhtar “ha il bollino rosso”. Sulla sua testa, pende un mandato di cattura internazionale kazako per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato.
E la telefonata deve confortare Cortese se è vero che, nel pomeriggio, proprio dall’ufficio Interpol arriva un fax che certifica e sollecita alla Mobile l’ordine di cattura internazionale.
Del suo status di rifugiato politico ottenuto a Londra non una sola menzione.
La circostanza non è burocraticamente presente nella banca dati dell’Interpol, dunque “non esiste”.
Kazaki al Viminale
La solerzia dell’Interpol e il repentino via libera dato a Cortese hanno una ragione.
Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura.
E devono suonare convincenti, perchè vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà . Ad horas.
Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità , spiegano che “il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro”.
“Anche perchè – aggiungono le stesse fonti – quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, nè prima, nè dopo, della visita e della richiesta dei diplomatici kazaki”.
28-29 maggio. In 30 per il Blitz
E’ un fatto che la richiesta kazaka viene cotta e mangiata. Nella notte tra il 28 e il 29, dopo un rapido sopralluogo in via di Casalpalocco 3, una grande villa con giardino protetta da un muro di recinzione alto 2 metri, una trentina di poliziotti della squadra mobile, cui vengono aggregati anche agenti della Digos, fa irruzione.
La visita non è di quelle in guanti bianchi. Mukhtar Ablyazov non c’è. Perchè in casa, insieme alla moglie Alma e alla piccola figlia Alua, c’è un solo uomo, Bolat Seraliyev, il cognato del “Grande Ricercato”.
Viene malmenato fino a fargli sanguinare il naso (o almeno così certificherà il pronto soccorso) e insieme alla sorella Alma finisce in una cella dell’Ufficio Immigrazione. Mentre nei borsoni della mobile finisce quanto sequestrato nella villa: 50 mila euro, dei gioielli, una scheda di memoria su cui è una foto digitale di Mukhtar che porta la data del 25 maggio.
30 Il passaporto diplomatico. La Farnesina
Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è “una pratica ordinaria” sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocraticamente macinata come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”.
La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione.
Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen.
Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, nè dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un “falso”.
L’Ufficio Immigrazione contatta la Farnesina. E anche qui, la burocrazia cade dal pero. Nemmeno al nostro ministero degli Esteri sanno che quella donna è la moglie di un dissidente kazako.
Sanno solo che, qualche anno prima, è stata proposta console onorario del Burundi in Italia. Nomina che non ha avuto corso.
Ma dello status diplomatico della donna non c’è traccia. Insomma, per quanto li riguarda e dunque per la polizia ce ne è abbastanza per espellerla.
Errori materiali. Un solo dubbio
Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la prima volta gli avvocati dello studio Vassalli-Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato.
Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel pre-stampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha).
E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza).
Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti.
Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.
La sera del 31, “tutte le carte sono a posto”, secondo la regola aurea che muove la burocrazia italiana e la libera da ogni responsabilità .
Alma Shalabayeva viene consegnata insieme a sua figlia alle autorità kazake all’aeroporto di Ciampino.
Il Paese è precipitato in un affaire internazionale di evidente gravità .
Ma nessuno sembra saperlo.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
PER L’ITALIA “LA SIGNORA PUO’ TORNARE”, PECCATO CHE SIA AGLI ARRESTI IN KAZAKISTAN
Il governo Letta si accorge con quaranta giorni di ritardo dello scandalo di Alma Shalabayeva e della figlioletta di 6 anni, consegnate con un blitz al Kazakhstan, e revoca il provvedimento di espulsione scaricando però tutto sulla polizia.
La svolta per salvare il ministro dell’Interno Angelino Alfano dopo un vertice a quattro a Palazzo Chigi. Presenti, oltre Alfano, il premier Letta, la titolare della Farnesina Emma Bonino e la guardasigilli Anna Maria Cancellieri.
La versione ufficiale dell’esecutivo smentisce tensioni e polemiche tra i ministri e mette sotto accusa la Polizia: “Resta grave la mancata informativa al governo sull’intera vicenda, che comunque presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari. Tale aspetto sarà oggetto di apposita indagine affidata dal ministro dell’Interno al capo della Polizia, la fine di accertare responsabilità connesse alla mancata informativa”.
In pratica, il vertice massimo della catena di comando della rendition a Casal Palocco, alla fine di maggio, deve essere individuato tra Questura di Roma e Dipartimento di Pubblica Sicurezza.
Ma non per l’iter seguito. Solo per la mancata informazione.
Eppure, nonostante l’iter “corretto”, alla moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov è stata revocata l’espulsione per “circostanze e documentazione sopravvenute”.
Troppo debole come spiegazione.
La figuraccia del governo, con tanto di retromarcia, si spiega solo con la volontà di salvare Alfano da uno scandalo che giorno dopo giorno sta assumendo proporzioni gigantesche.
Quel blitz talmente anomalo e frettoloso, su pressione dello Stato del dittatore Nazarbayev, caro amico di Silvio Berlusconi, può essere solo colpa della Polizia? Secondo il comunicato del governo, Alfano passa dal ruolo di inquisito politico a quello di inquisitore nei confronti della Polizia.
Chi pagherà adesso? Eppure, al vertice di ieri, i vari ministri sono arrivati sull’onda di feroci divisioni interne.
Quando dalla stampa internazionale, lo scandalo Shalabayeva approdò sui nostri quotidiani (non tutti, a dire il vero), il ministro Bonino emise un giudizio netto sulla vicenda, definita “miserabile”.
Lei, a quanto si apprese da fonti diplomatiche, venne informata solo tre giorni dopo.
E tutte le responsabilità furono imputate ad Alfano.
Anche la Cancellieri sarebbe stata furiosa per alcune forzature di Alfano sul ruolo della magistratura, procura di Roma e procura minorile.
Quando poi, mercoledì scorso, molti si aspettavano in aula a Montecitorio lo stesso Alfano per rispondere a un’interrogazione leghista, alla fine è apparso il premier Letta. Una mossa interpretata come un modo per “nascondere” Alfano e salvarlo dallo scandalo.
I risultati dell’indagine interna avviata dal premier hanno portato a scaricare tutto sulla Polizia.
La colpa: non vennero informati i ministri, in particolare quello dell’Interno.
In vari ambienti parlamentari, compreso il Pd, è invece opinione convinta che il principale responsabile di questa vicenda sarebbe Alfano.
Nichi Vendola, leader di Sel, ha chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno: “La nota di Palazzo Chigi, che riconosce gravi e colpevoli mancanze da parte di apparati dello Stato, in qualsiasi altro Paese civile si sarebbe conclusa in ben altro modo: con le dimissioni del ministro dell’Interno. Non ci si può ipocritamente lavare la coscienza con due parolette. Aspettiamo ora dal titolare del Viminale il passo conseguente”. Aggiunge Claudio Fava, sempre di Sel: “La responsabilità politica di questa operazione di polizia, che ha assunto nelle modalità , nei tempi e nella spregiudicatezza tutte le caratteristiche di una extraordinary rendition, ricade adesso sul ministro dell’Interno. Se Alfano sapeva dovrà spiegare in nome e per conto di chi sono stati disposti l’arresto e la consegna della signora Shalabayeva alle autorità kazake, contravvenendo precise norme di legge e di diritto internazionale.
Ancor peggio se nulla il ministro ha saputo: sarebbe la prova di una sua inaudita inadeguatezza politica”.
Ecco invece la mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle, che ha come primo firmatario il senatore Giarrusso: “Le violazioni di norme ordinarie e costituzionali che, peraltro, rischiano di compromettere fatalmente la vita di un essere umano, non consentono la permanenza del Ministro dell’Interno in seno alla compagine governativa”.
Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
IL MESSAGGIO VIA FACEBOOK DEL MARITO E LE ASSICURAZIONI DELL’AMBASCIATORE A ROMA: “STANNO BENE, A CASA DEI NONNI”
Il caso Ablyazov è diventato ormai lo scandalo Shalabayeva. Perchè la pericolosa vita di
Mukthar Ablyazov, già industriale e ministro dal miliardo facile che è fuggito dal Kazakistan ma anche dall’Urss e vive oggi a Londra — o forse in Svizzera — con l’incubo di essere rispedito a casa (dove ha già saggiato le patrie galere), si è trasformata nella certezza di una violenza cui sono state sottoposte Alma Shalabayeva e la figlia Alua, di sei anni.
Il comunicato di Palazzo Chigi non ammette il rapimento di fatto, ma l’errore nell’espulsione sì.
E precisa: “Il governo, colti i profili di protezione internazionale che il caso ha sollevato, si è immediatamente attivato per verificare le condizioni di soggiorno in Kazakistan della signora e della figlia”.
Inoltre, “la signora Alma Shalabayeva potrà rientrare in Italia, dove potrà chiarire la propria posizione”.
Notizie che non avranno tranquillizzato più di tanto Ablyazov.
Ieri, prima di conoscere la decisione di Letta, il dissidente aveva scritto un messaggio sulla sua pagina facebook spiegando che moglie e figlia erano in pericolo: “Le autorità kazake hanno promosso un procedimento penale contro Alma il 30 maggio, il giorno prima che le donna e la figlia venissero imbarcate a Ciampino sull’aereo privato messo a disposizione dall’ambasciata kazaka — scrive il sito di Ablyazov -.
Ora si attende che venga fissata l’udienza per reati relativi ad un passaporto che Alma Shalabayeva non ha mai visto nè usato. La donna rischia una condanna a due anni e, a quel punto, la bambina verrebbe messa in orfanotrofio”.
Quando l’ambasciatore kazako a Roma Andrian Yelemessov viene informato sulla revoca dell’espulsione, alza le spalle: “Le procedure sono state corrette, ogni giorno ci sono sciocchezze sui giornali su questo caso. L’espulsione è stata corretta. La signora Alma e la figlia sono ad Astana dai genitori della donna e stanno benissimo. Si può verificare” .
Di certo la Farnesina ha già preso contatto con l’ambasciatore Yelemessov: adesso che l’Italia riconosce le sue colpe e invita la signora espulsa ingiustamente a tornare qui, bisogna anche dare un’occhio a mamma e figlia, cercare di capire se davvero si stiano godendo in pace la compagnia dei familiari o se invece la legge farà in fretta il suo mestiere anche laggù spedendo in galera la Shalabayeva.
Negli ambienti internazionali i commenti sono scarsi, le facce stranite.
Dopo la storia dei marò, un altro pateracchio diplomatico che lascia senza parole.
“à‰ una notizia fantastica, ritengo che sia l’inizio di un doveroso ripristino dei diritti violati della signora Alma Shalabayeva e della figlia, che a questo punto dovremmo tutti sforzarci di far rientrare nel nostro paese” ha detto invece Riccardo Olivo, uno dei legali della signora Shalabayeva .
Un drappello di onorevoli M5S ha annunciato l’intenzione di recarsi ad Astana per verificare che “siano rispettati di diritti civili” di mamma e bimba.
Chissà se il presidente Nazarbayev sarà felice di accoglierli.
Per ora ha fatto pubblicare sul sito del governo il video che riprende l’arrivo del jet affittato per riportare in Kazakistan Alma e Alua.
Le migliori armi a sua disposizione per trattare con Ablyazov.
Chiara Paolin
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 13th, 2013 Riccardo Fucile
ALTROVE PER MOLTO MENO SALTANO MINISTRI, DA NOI TUTTO E’ LECITO
C’è uno scandalo politico da illuminare, nella linea d’ombra che attraversa gli Stati e gli apparati, la diplomazia e la burocrazia, i diritti e gli affari.
Solo in Italia può succedere che cittadini stranieri, ma domiciliati qui, possano essere «sequestrati» in gran segreto dalle autorità di sicurezza e rispediti nel Paese di provenienza, dove si pratica abitualmente la tortura.
Solo in Italia può accadere che questi cittadini siano rispettivamente la moglie e la figlia minorenne di un noto dissidente del Kazakistan, rimpatriati a forza con il pretesto di un passaporto falso per fare un «favore» a un premier «amico» come Nazarbayev, con il quale si fa business ma del quale si parla come di un dittatore violento e senza scrupoli.
Solo in Italia può avvenire che un simile strappo alle regole dei codici nazionali e internazionali sia scaricato, tutto intero, sulle spalle dei funzionari della pubblica amministrazione, mentre i ministri del governo della Repubblica si lavano serenamente le mani e le coscienze.
Perchè questo è, alla fine, il comunicato con il quale Palazzo Chigi prova a chiudere l’oscuro caso Ablyazov-Shalabayeva: un atto di viltà politica e di inciviltà giuridica, che invece di ridimensionare lo scandalo,lo ingigantisce.
Il testo, redatto alla fine di un vertice tra il presidente del consiglio Letta e i ministri Alfano, Bonino e Cancellieri, è un concentrato di buone intenzioni e di clamorose contraddizioni.
Chiarisce che le procedure che hanno portato all’espulsione di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni sono state assolutamente regolari sul piano formale. Trasferisce sulla Questura di Roma e sulla Digos la colpa «grave» di non aver comunicato ai vertici del governo e ai ministri competenti «l’esistenza e l’andamento delle procedure di espulsione».
Riconosce l’errore, revoca il provvedimento e si premura di verificare «le condizioni di soggiorno della donna» ora detenuta nella capitale kazaka, auspicando che possa al più presto «rientrare in Italia per chiarire la propria posizione».
Il cortocircuito è evidente: si prova a coprire questa vergognosa “rendition all’amatriciana”, ma di fatto si sconfessa senza ammetterlo l’operato di Alfano, che ne aveva negato l’esistenza.
Sommerso dalle critiche internazionali e dalle polemiche interne, l’esecutivo prova a dire l’indicibile all’opinione pubblica: di questa vicenda non sapevamo niente, ha fatto tutto la polizia senza avvertirci, ma ha fatto tutto secondo le regole, e nonostante questo ci rimangiamo l’espulsione.
Un capolavoro di ipocrisia pilatesca, che non regge alla prova dei fatti e meno che mai a quella dei misfatti.
Basta ricapitolarli, e incrociarli con le spiegazioni farfugliate in queste settimane dai ministri, per rendersi conto che la linea difensiva non tiene.
Le domande senza risposta sono tante, troppe, per non chiamare in causa direttamente il vicepremier e responsabile del Viminale Angelino Alfano, e in subordine le “colleghe” Bonino e Cancellieri.
Come si può credere che la Digos organizzi di propria iniziativa un blitz imponente, che nella notte tra il 28 e 29 maggio impegna non meno di 50 uomini, per arrestare Muktar Ablyazov, «pericoloso» oppositore del regime kazako di Nursultan Nazarbayev, inseguito da «quattro ordini di cattura internazionale» (in realtà ne risulta uno solo)?
Come si può credere che la Questura di Roma e poi il prefetto decidano di propria iniziativa il decreto di espulsione a carico della moglie del dissidente Alma, per poi trasferirla insieme alla figlia Alua al centro di accoglienza e infine imbarcarla su un aereo per il Kazakistan con il pretesto di un passaporto della Repubblica centrafricana falso (che in realtà si rivelerà autentico)?
Pensare che un affare di questa portata politica, che va palesemente al di là della dimensione della pubblica sicurezza, possa esser stato gestito in totale autonomia dal capo della Digos Lamberto Giannini e dal dirigente dell’ufficio Immigrazione Maurizio Improta, è un’offesa al buonsenso e alla dignità delle istituzioni.
Eppure è quello che si legge ora nel comunicato di Palazzo Chigi.
I fatti si sono svolti ormai quasi un mese e mezzo fa.
Da allora, i ministri coinvolti hanno taciuto, e manzonianamente troncato e sopito.
Dov’era Alfano, mentre per ragioni ignote si rispedivano nelle mani di un governo accusato da Amnesty International di «uso regolare della tortura e dei maltrattamenti» le familiari di un dissidente che vive tuttora in esilio a Londra?
Dov’era Alfano, mentre l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov tempestava il Viminale di telefonate, per sollecitare l’operazione di polizia poi consclusa con l’arresto di Alma e Alua?
Dov’era la Bonino, giustamente sempre così attenta ai diritti umani,mentre un aereo messo a disposizione dalla stessa ambasciata kazaka imbarcava madre e figlia a Ciampino, per ricacciarle nell’inferno di Astana?
Dov’era la Bonino, mentre il Financial Times e i giornali internazionali denunciavano su tutte le prime pagine lo scandalo di una doppia «deportazione» che viola apertamente la Convenzione del 1951 sui rifugiati politici?
A queste domande non c’è risposta, se non l’omertoso comunicato ufficiale.
I ministri coinvolti non sentano il dovere di assumersi uno straccio di responsabilità .«Non sapevamo», dicono, mentendo e ignorando che in politica esiste sempre e comunque una responsabilità oggettiva, e che la politica impone sempre e comunque doveri precisi connessi alla funzione.
Non sentono il dovere di rendere conto, e di spiegare chi e perchè ha esercitato pressioni, e chi a quelle pressioni ha ceduto, in una notte della Repubblica che ricorda alla lontana un’altra notte del 2010, alla Questura di Milano, quando un presidente del Consiglio chiedeva per telefono ai funzionari presenti di rilasciare una ragazza perchè era «nipote di Mubarak».
Chi ha telefonato a chi, questa volta? E con quale altra ridicola scusa di «parentela eccellente » ha trasformato un’operazione di polizia contro un rifugiato politico in un gesto di cortesia a favore di un despota asiatico ricchissimo di gas e petrolio, a suo tempo in amicizia con il Berlusconi premier e tuttora in affari con il Berlusconi imprenditore?
Altrove, per molto meno, saltano teste e poltrone.
In Italia, com’è evidente, non funziona così.
Sul piano etico, il minimo che si può chiedere è che a quella madre e a quella figlia, purtroppo cacciate con il fattivo contributo delle nostre autorità , sia restituito il diritto di tornare nel Paese in cui avevano deciso di vivere.
Sul piano politico, il massimo che si deve pretendere è che chi ha sbagliato, chi ha mentito, o anche solo chi ha taciuto, ne risponda di fronte all’Italia e agli italiani.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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