Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile ALFANO NON LI SOPPORTA, LA SANTANCHE’ LI GUARDA CON SOSPETTO… CHI C’E’ DIETRO GLI ULTRA’ DI SILVIO? UNA CATENA DI COMANDO CHE VA DA VOLPE PASINI FINO A BONDI, PASSANDO PER DELL’UTRI
L’ultima trovata è la petizione per l’amnistia. Una raccolta di firme per presentare al Parlamento la legge salva-Silvio, che nessun partito – per ragioni diverse – potrebbe proporre. Bastano 50 mila sottoscrizioni, fra i berlusconiani. Roba da poco.
Ma soprattutto, se la proposta non arrivasse mai al voto, resta un modo per mettere in piedi sul territorio una struttura di volontari da far pesare al momento delle grandi decisioni.
Già . C’è un partito parallelo che da mesi si muove nel nome di Berlusconi, ma a sua insaputa.
Ultimo nato è proprio l’Esercito di Silvio. Cui peraltro non crede nessuno.
«Ma chi sono quelli lì?», ripetono i big pidiellini. «Che vogliono dal Presidente?».
Domanda legittima, se si pensa che il portavoce del movimento, Simone Furlan, padovano, è talmente poco noto al suo partito da non avere alcun rapporto nemmeno con il suo concittadino più illustre alla corte del Cav, l’avvocato Niccolò Ghedini. Tanto che il legale dell’ex premier non fa mistero di vedere come fumo negli occhi le iniziative populiste che da un anno a questa parte nascono come funghi intorno al quasi ex Cavaliere.
Eppure, se si fa qualche verifica in loco, dalle truppe dell’Esercito spunta un altro nome noto.
Fra i primissimi arruolati, c’è pure Diego Volpe Pasini, l’imprenditore friulano che un anno fa cenava in allegria a casa di Berlusconi, in compagnia di avvocati, finanzieri e qualche amica.
Lo stesso che vergò il piano “Rosa tricolore”, bollato dai vertici del Pdl come la «fantasia di un pazzo», ma discusso con Berlusconi il 21 giugno 2012.
E, soprattutto, che conteneva un’indicazione: il ritorno a Forza Italia. Pazzo, peone, mitomane quanto si vuole, quel progetto si è manifestato a distanza di un anno sotto la residenza romana del Cavaliere.
Quando è ricomparso il simbolo della discesa in campo del 1994.
«Oggi sono tutti favorevoli al ritorno di Forza Italia, ma quando io organizzai a Milano la prima manifestazione con le vecchie bandiere fui lasciato solo», si sfoga Volpe Pasini.
Che da quei giorni di lite con il segretario Angelino Alfano ha congelato, suo malgrado, i rapporti con Silvio.
E così, nel mondo parallelo dei fan di Berlusconi, ecco comparire anche il sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo, così come l’avvocato Gianpiero Samorì, classe ? 57, modenese, milionario, fondatore dei “Moderati rivoluzionari” con ambizioni di ministro.
A portarlo da Berlusconi fu Volpe Pasini, ancora lui, e, oggi che l’Esercito cresce, è sempre Volpe Pasini a tessere la rete. E a mettere insieme mondi diversi.
Oltre ad Alfano, a sbarrare la porta ai ribelli ci sono pure Maurizio Gasparri e Daniela Santanchè, titolari della corrente dei falchi e tacciati, dai ribelli, di essere berlusconiani dell’ultima ora.
E ancora l’ex ministro Maria Stella Gelmini.
Fra i big, però, c’è pure chi, senza farsi troppo notare, tiene aperto un ponte con i filo-Cav.
Anche perchè se ufficialmente Berlusconi sta con i vertici del suo partito e censura, censura e censura, tiene sempre aperta una porta all’ipotesi bis. E cioè che domani possa tornargli utile proprio quella mobilitazione, che non è costata fatica. E che, all’occorrenza, può essere sconfessata con un tweet.
Fra i coordinatori, il più aperto è Denis Verdini, così come l’ex pupillo di Silvio, Raffaele Fitto, e lo stesso Sandro Bondi, quello che invocò la “guerra civile” e, poche ore dopo, vide scendere in piazza proprio l’Esercito di Silvio.
Buoni i rapporti anche con Marcello Dell’Utri, che nel piano del 2012 figurava fra i leader storici da non rottamare.
Ma che ne sarà dei soldati berlusconiani?
Conoscendo Volpe Pasini, slogan a parte, quel che conterà saranno le “caserme della libertà ” che, grazie alla raccolta di firme per l’aministia, riusciranno ad aprire.
Con l’obiettivo di rientrare dalla porta di Forza Italia, dopo essere stati lanciati dalla finestra del Pdl.
Tommaso Cerno
(da “l’Espresso”)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile RISPETTO ALL’ICI, L’IMU E’ COSTATO AGLI ITALIANI 11,2 MILIARDI IN PIU’… IL DIFFERENZIALE SI POTREBBE IN REALTA’ RIDURRE A SOLI TRE MILIARDI
“Perchè non ritorniamo all’Ici ?”. A chiederlo è il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi –
proprio mentre da par suo Silvio Berlusconi ne chiede la cancellazione completa – che, dopo aver visto le 9 ipotesi presentate ieri dal ministro Saccomanni, sottolinea:
“Ho paura che la vicenda stia prendendo una brutta piega. Con troppe ipotesi sul tavolo c’è il pericolo che i due principali partiti che costituiscono questa maggioranza non trovino un punto di incontro. Perchè non dare un taglio netto all’Imu e ritornare all’Ici ? In fin dei conti l’Imu doveva costituire uno degli assi portanti della riforma sul federalismo fiscale che, purtroppo, è miseramente fallita. Perchè, allora, non tornare indietro ?”
La proposta ha sicuramente un “taglio” provocatorio, ma la lettura dei numeri la giustifica.
L’Imu è costata agli italiani 23,7 miliardi di euro: rispetto all’Ici (con l’inclusione del gettito anche sulle prime case) l’aggravio di imposta è stato di ben 11,2 miliardi di euro.
Con un eventuale ritorno alla vecchia imposta come si potrebbe “coprire” questo differenziale? Innanzitutto va ricordato che secondo una valutazione fatta nei mesi scorsi dalla CGIA, l’extragettito relativo all’Imu è stato di 3,7 miliardi di euro, mentre secondo il Governo Monti, invece, l’extragettito è stato di 1,2 miliardi di euro.
Vale a dire che gli italiani – a fronte dell’aumento della base imponibile riferita agli immobili e delle aliquote medie applicate – hanno “sborsato” molto di più di quanto aveva previsto originariamente il Governo.
Se a questi 3,7 miliardi da noi stimati, aggiungiamo il gettito derivante dall’eventuale reintroduzione dell’Irpef sulle seconde e terze case sfitte, l’Erario potrebbe incassare 1,6 miliardi di euro.
Infine, rivedendo al rialzo le aliquote medie applicate sino a due anni fa con l’Ici, si potrebbero recuperare altri 3 miliardi che farebbero scendere a 3 miliardi circa le mancate entrate per i Sindaci con il ritorno della vecchia imposta sugli immobili.
“Dopo essere usciti dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo e con una spesa pubblica di oltre 810 miliardi di euro — prosegue Bortolussi – non si riescono a trovare 3 miliardi e caso mai recuperarne altrettanti per togliere a quasi tutti l’imposta sulla prima casa ?”
Un eventuale ritorno all’Ici chi avvantaggerebbe ?
“In linea di massima gli imprenditori — conclude Bortolussi – che per gli immobili ad uso produttivo hanno pagato quasi 2,5 miliardi di euro in più rispetto a quando c’era l’Ici e gli artigiani e i commercianti che, invece, hanno subito un aggravio di oltre un miliardo di euro”
(da “‘Huffingtonpost“)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile DALL’ABOLIZIONE TOTALE ALLA RIMODULAZIONE SELETTIVA DELL’ALIQUOTA
4 miliardi
ABOLIZIONE TOTALE DELL’IMPOSTA SULLA PRIMA CASA
È chiaro che questa è l’ipotesi che piace meno al ministro Saccomanni. I pro : è quella che, ovviamente, piacerebbe di più agli italiani. I contro: Costa 4 miliardi, ha «scarsa» efficienza e impatto regressivo rispetto al reddito
2,7 miliardi
DETRAZIONE PIU’ ALTA: DA 200 A 500 EURO
Questa soluzione sarebbe comunque vista meglio dell’abolizione totale. I pro: costa da 1,31 a 2,72 miliardi e ha un impatto progressivo rispetto al reddito, cioè premia facendoli pagare meno gli italiani che guadagnano meno. I contro: resta un provvedimento molto costoso.
2,3 miliardi
RIMODULAZIONE SELETTIVA DELL’ALIQUOTA
Entrerebbero in gioco diversi parametri: l’immobile, la condizione economica del proprietario e della famiglia, applicazione dei valori Omi per la determinazione della base imponibile. Pro: a seconda dei parametri costerebbe da 1 a 2,3 miliardi. Contro: l’efficienza sarebbe solo «media».
4,3 miliardi
UNA TASSA SOLA PER GLI IMMOBILI E I SERVIZI
Diverse ipotesi (esenzione dall’Imu per l’abitazione principale; rimborso dell’Imu sull’abitazione (integrale o parziale) attraverso un credito di imposta esenzionel’abitazione principale e contestuale rimodulazione della Tares. I pro: si ipotizza un recupero di gettito da 2 a 4,3 miliardi.
1,25 miliardi
RENDERE L’IMPOSTA DEDUCIBILE PER LE IMPRESE
L’ipotesi di rendere deducibile l’Imu per le imprese potrebbe alleggerire sensibilmente il carico fiscale. I pro: costa 1,25 miliardi. I contro: avrebbe un grado di efficienza «medio» e presenterebbe criticità per le imprese che non riescono a pagare (e non potrebbero dedurre).
4,66 miliardi
LASCIARE AI COMUNI IL GETTITO DEI FABBRICATI AD USO PRODUTTIVO
Questa ipotesi costerebbe allo Stato circa 4,66 miliardi. I pro: i Comuni avrebbero le risorse necessarie per garantire i servizi ai cittadini. I contro: i profili di efficienza dell’imposta non cambiano per il contribuente, che continuerebbe a pagare esattamente come prima.
4,3 miliardi
IRPEF: ABOLIRE L’ADDIZIONALE COMUNALE
I pro: Verrebbe abolito anche l’acconto sull’addizionale. I contro: la misura costerebbe 3,4 miliardi, mentre i profili di efficienza netti dell’imposta riveduta in questo modo sono «complessi da determinare in misura puntuale così come gli effetti redistributivi».
2 miliardi
L’ACCONTO IRPEF FISSATO AL 100% “IN VIA DEFINITIVA”
Se si scegliesse questa strada lo Stato ci guadagnerebbe. I pro: si ipotizzano risorse aggiuntive pari a 2 miliardi. I contro: l’efficienza dell’Imu e profili redistributivi invariati. E naturalmente una scelta del genere difficilmente si tradurrebbe in un vantaggio per i contribuenti.
2,34 miliardi
CANCELLARE LA PRIMA RATA DI QUEST’ANNO
I pro: darebbe un sollievo immediato ai contribuenti italiani. I contro: la misura costerebbe 2,43 miliardi, e oltretutto non affronterebbe in nessun modo i problemi strutturali del prelievo immobiliare, che si ripresenterebbero al momento di pagare la seconda rata e nei prossimi anni.
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile IL CONSIGLIO REGIONALE AVEVA RISCHIATO LO SCIOGLIMENTO PER NON AVER APPLICATO I TAGLI DEL GOVERNO MONTI… ORA LO FA MA CON LA SORPRESINA
Il rischio di un nuovo scioglimento del consiglio regionale del Molise, fino a poche settimane fa,
era dietro l’angolo.
Ma alla fine il peggio è stato evitato: con la legge regionale 10 del 25 luglio scorso, anche la Regione Molise ha recepito il decreto Monti, il provvedimento (convertito in legge) che impone la riduzione dei costi degli apparati politici regionali.
“Abbiamo chiuso la vicenda sulla casta”, aveva commentato il neogovernatore Paolo Di Laura Frattura.
A ben vedere, tuttavia, la busta paga degli inquilini di palazzo Moffa non sembrerebbe essersi alleggerita, in realtà è aumentata di 1.000 euro, passando da 9.250 a 10.150 euro netti..
Perchè, è vero, l’indennità di base, come un po’ in tutte le Regioni, è stata ridotta.
Dai 6163 euro lordi, si passerà ai 6mila.
E niente più diaria e rimborso spese di missione, che permettevano ai consiglieri di intascare altri 3600 euro (netti).
In compenso, con la nuova legge, i vari benefit saranno accorpati sotto un’unica voce: “Spese di esercizio mandato”.
Un maxi-forfait di 4500 euro netti, che verrà erogato ogni mese (in aggiunta chiaramente ai 6mila euro di sopra).
Senza l’obbligo di rendicontare alcunchè.
Non è tutto perchè la nuova normativa — ironia della sorte, lo stesso giorno in cui è approdata in aula la proposta di legge, i consiglieri hanno approvato l’aumento dell’Irpef e del bollo auto — introduce anche un’indennità di funzione in base al ruolo ricoperto in Consiglio.
Si va dai 750 euro lordi per i capigruppo (su 20 consiglieri ce ne sono ben 14), i presidenti di commissione e i segretari, ai 1500 euro per assessori e vicepresidenti del Consiglio.
Al presidente della giunta e a quello del Consiglio toccheranno invece 3mila euro.
E se il consigliere non risiede a Campobasso (dove ha sede palazzo Moffa), nessun problema: gli verrà accordata una mancetta aggiuntiva, a seconda della distanza, fino ad un massimo di 860 euro.
Ma i 4500 euro non basterebbero per affrontare le non enormi spese chilometriche (viste le dimensioni del Molise)?
Dulcis in fundo, c’è ancora una voce che andrà a gonfiare ulteriormente i portafogli dei consiglieri regionali del Molise.
E’ un’eredità della legge regionale 7 del 2002, con la quale venne introdotto un rimborso fisso mensile per l’assunzione di un portaborse personale: altri 2451 euro netti.
Nel frattempo che la questione verrà “studiata”, i consiglieri (nel dubbio) continueranno ad intascarlo.
Come se non bastasse, gli stipendi sono stati anche indicizzati.
Insomma se cresce il costo della vita, crescono anche le buste paga dei consiglieri molisani.
Alla faccia dei pensionati, che percepiscono un assegno superiore ai 1400 euro lordi.
A loro la riforma Fornero lo ha bloccato: nessun adeguamento all’indice Istat.
Infine ci sono gli ormai famosi trasferimenti ai gruppi.
La cifra complessiva stanziata per i gruppi ammonta infatti ad oltre 430mila euro all’anno.
Gabriele Paglino
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile DA AGNES A GAMBERALE, LA CORSA AL FONDO INPS
«L’Italia è il Paese che amo…» erano le prime parole che Silvio Berlusconi pronunciava nel videomessaggio registrato che il pomeriggio del 26 gennaio 1994 annunciava la sua «discesa in campo».
Nello stesso Paese, in quelle stesse ore, mentre in Parlamento suonava la campanella del «liberi tutti», sulla Gazzetta Ufficiale compariva una leggina di dieci righe, approvata dal Parlamento il giorno prima a tempo di record e a tempo di record pubblicata.
Si sparse subito la voce che era stata fatta apposta per Biagio Agnes, l’ex direttore generale della Rai che da qualche anno aveva traslocato alla Stet, la finanziaria telefonica pubblica.
Non era una malignità infondata. Quella leggina favoriva il passaggio al fondo dei telefonici presso l’Inps di chi godeva già di una pensione di una gestione diversa, magari di un altro fondo dello stesso istituto di previdenza.
Fu così che Biagio Agnes, pensionato dal 1983, riuscì a decuplicare il suo assegno: da 4 milioni di lire a 40 milioni 493.164 lire al mese.
Decorrenza, marzo 1994. Un mese dopo l’approvazione della legge.
La cosa non passa inosservata. I Cobas del pubblico impiego diramano un comunicato al fulmicotone, rivelando che la ricongiunzione costerà alla Stet, cioè allo Stato (nel 1994 i telefoni sono ancora pubblici) e ai risparmiatori che hanno comprato il titolo in borsa, qualcosa come 5,8 miliardi di lire. Oggi sarebbero più di quattro milioni e mezzo di euro
Qualche giorno dopo che quelle dieci righe hanno tagliato in Senato l’ultimo traguardo, Dino Vaiano spiega sul Corriere com’è andata.
Cominciando dagli autori. Il primo a correre in soccorso dell’irpino Agnes è il lucano Romualdo Coviello, deputato di Avigliano, in provincia di Potenza.
Democristiano di sinistra come Biagione, non tradirà mai la causa. Dalla Dc ai popolari, alla Margherita.
Racconta Vaiano: «Sono giorni caldi, le commissioni lavorano come slot machine, strizzando l’occhio alle lobby e alle categorie che potrebbero garantire voti. Le leggi decollano, fedeli all’equazione degli anni ruggenti della partitocrazia: spesa pubblica uguale voti. Perfino gli attenti funzionari parlamentari ammettono di non averci capito quasi nulla. Ma la rapidità è da record. La leggina sulle pensioni d’oro corre come Speedy Gonzales…
Il primato di velocità è tuttora imbattuto. Non così l’assegno.
Abbiamo infatti scoperto che nel 2013 c’è chi, l’ex manager della Telecom inventore della «carta prepagata» Mauro Sentinelli, porta a casa 91.337 euro al mese.
Il triplo di quanto varrebbe oggi la pensione di Agnes, che allora sembrava stratosferica. E il doppio di quella, addirittura extraterrestre, cui ha diritto dal 1999, quando aveva 55 anni, il suo ex capo Vito Gamberale: partiva da 75 milioni e 600 mila lire al mese
La leggina di cui stiamo parlando, in realtà , non fece che aggiungere un altro privilegio a quello monumentale già riservato al fondo Inps dei telefonici. Al quale non si applicava il tetto massimo dei 200 milioni di lire l’anno.
La ragione? Semplice: nessuno dei dipendenti arrivava a quella cifra.
Soltanto che a quel fondo si erano iscritti anche i manager. Tutti, anche se in teoria avrebbero dovuto versare i contributi all’Inpdai.
Ma dato che all’Istituto previdenziale dei dirigenti d’azienda alle pensioni d’oro era in vigore appunto quel limite, avevano evidentemente preferito confondersi con gli operai e gli impiegati nel fondo dei telefonici.
E quando gli stipendi hanno cominciato a lievitare come la panna montata, l’ondata di piena è stata terrificante.
Anche perchè le regole del contributivo garantivano pensioni praticamente identiche all’ultimo stipendio.
Il capo della Sip Paolo Benzoni andò via con 39,2 milioni di lire al mese. Ernesto Pascale con 42. Francesco Chirichigno con 36. Umberto Silvestri con 38,5. Francesco Silvano con 37,3.
L’elenco delle superpensioni telefoniche è sterminato, ed è arrivato fino a noi. Senza offrire risposta alla domanda più banale: perchè in tanti anni non sono mai state cambiate le regole? Difficile dire
Certo, però, nel Bengodi pensionistico made in Italy i telefonici sono sempre stati in buona compagnia. Tetto o non tetto.
Basterebbe ricordare i sontuosi trattamenti previdenziali dei dirigenti dell’Enel, che potevano aggirare il limite dei 200 milioni annui grazie a un faraonico fondo integrativo aziendale pagato dagli utenti con le bollette.
Memorabili alcune pensioni, come quelle dei due direttori generali che si sono succeduti prima della trasformazione in spa, Alberto Negroni e Alfonso Limbruno, che si ritirarono entrambi con assegni da 37 milioni (di lire) al mese.
Somme certamente enormi. Che fanno però sorridere al confronto di certe pensioni garantite, secondo regole che nessuno ha mai voluto mettere davvero in discussione, dallo Stato.
L’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini, ex sottosegretario alla presidenza con Mario Monti, ha dichiarato di percepire una pensione di 519 mila euro lordi l’anno.
Somma alla quale si deve aggiungere ora lo stipendio da Consigliere di stato.
Perchè le pensioni d’oro, da noi, hanno una particolarità : spesso chi le incassa continua a lavorare, talvolta ricoprendo incarichi pubblici altrettanto dorati
Per non parlare di altre micidiali stravaganze. La nomina a capo dell’Agenzia siciliana dei rifiuti, l’avvocato Felice Crosta, dirigente della Regione, fu accompagnata da un emendamento approvato anch’esso in un baleno dall’assemblea regionale grazie al quale gli venne riconosciuta di lì a poco una pensione di 460 mila euro.
Dopo un’estenuante battaglia legale quell’assurdità è stata cancellata.
Ma la storia la dice lunga su come funziona ancora l’Italia: tutto sommato, non è poi così diversa da quella della leggina che favorì Agnes e forse pochi altri.
Ed è per questo che nel Paese dove le persone normali la pensione se la sognano, mentre le pensioni d’oro si accompagnano di regola a una retribuzione sontuosa, sarebbe forse il caso di prenderla seriamente in considerazione, la proposta avanzata da Bruno Tabacci, Angelo Rughetti, Andrea Romano e Fabio Melilli in una lettera al Corriere: i pensionati d’oro che intascano stipendi (pubblici) d’oro scelgano fra la pensione e lo stipendio. È una richiesta così scandalosa?
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile IL CAVALIERE RESPINGE L’OFFERTA DEL QUIRINALE: ACCETTARE LA SENTENZA, DIMETTERSI DA SENATORE E INIZIARE A SCONTARE LA PENA… BERLUSCONI VUOLE RICANDIDARSI A OTTOBRE MA NAPOLITANO LO HA AVVISATO: DENUNCERA’ AL PAESE I RESPONSABILI CHE GIOCANO ALLO SFASCIO
“O viene abrogata l’Imu sulla prima casa, o salta il governo”. 
Eccolo, il “segnale”. È nel gabinetto di guerra di Arcore che Silvio Berlusconi decide di bruciare i tempi rispetto alla dead line di Ferragosto.
E di accelerare sulla rottura, avvelenando i pozzi. Imu o morte.
È chiaro che se non è già crisi di governo, ci manca davvero poco.
E c’è un motivo se il Cavaliere ha deciso scegliere il terreno della possibile rottura. Che non c’entra con la relazione del ministero dell’Economia sull’Imu.
Quello è il pretesto.
È “l’altro” segnale, quello che è arrivato dal Colle ad essere considerato da Berlusconi in un solo modo: “Irricevibile”.
È una partita delicata, quella tra il Cavaliere e Giorgio Napolitano, entrata nello spazio di poche ore sul terreno del conflitto.
Perchè ad Arcore raccontano che “è vero che Napolitano sta riflettendo”, ma che “mentre riflette, sonda, prova a mandare messaggi”. E l’orientamento del Colle, in cui la partita giudiziaria di Berlusconi è intrecciata alla partita politica, prevede che l’agibilità politica del Cavaliere è legata a un governo che deve durare e a una sentenza che deve essere rispettata.
Ecco come chi è stato parecchie ore nella giornata di giovedì nel gabinetto di guerra di Arcore sintetizza il lodo Napolitano: “Ha chiesto a Berlusconi di dare segnali che rispetta la sentenza, e di valutare la possibilità di dimettersi da senatore per creare un clima disteso. Solo quando avrà iniziato a scontare la pena, solo allora si può valutare un regime soft di detenzione”.
Parallelamente, il ragionamento politico del Colle è quello che Quagliariello ha espresso in questi giorni: “Non si può votare con questa legge elettorale”.
Ecco, i due corni, quello giudiziario e quello politico, configurano per Berlusconi la più classica delle trappole.
Ecco la virata sull’Imu. Ecco il piano per elezioni anticipate.
A ottobre, massimo novembre. Con questa legge elettorale.
Anche perchè i legali del Cavaliere considerano non automatica l’applicabilità della Severino ora: “E’ controversa — spiega una fonte vicina al dossier — e si fa un grosso errore a dire che a settembre Berlusconi sarebbe incandidabile”.
È questo lo schema su cui Berlusconi ha chiesto ai suoi di avviare le macchine.
Che prevede la grande rottura sul primo dossier utile, e una campagna elettorale da iniziare in piazza e da finire ai domiciliari, utilizzando la carcerazione come il più grande spot elettorale mai immaginato.
O almeno questo è lo schema che sta utilizzando per far sentire sotto ricatto Napolitano, e vincolare la sopravvivenza del governo al suo salvacondotto.
Ed è in questo clima di crescente tensione che il capo dello Stato ha consegnato agli ambasciatori del Cavaliere un messaggio che suona come ultimativo.
In caso di rottura Napolitano, in un messaggio al paese, denuncerà con forza i responsabili dello sfascio.
E di questo sono stati informati i vertici di tutti i partiti che sostengono il governo.
(da “Huffington Post“)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile IN 48 ORE ANDATI IN FUMO 8.000 ETTARI DI BOSCO, UN FERITO GRAVE… PER ORE NON SONO STTI IMPIEGATI GLI AEREI ANTINCENDIO
La Sardegna è ancora avvolta dalle fiamme — in 48 ore bruciati oltre 8mila ettari di verde — e intorno al ministro della Difesa Mario Mauro divampano le polemiche. Dov’erano gli aerei antincendio mentre il fuoco si mangiava intere fette di isola?
Da ieri il grido di rabbia dei deputati sardi, dal Pdl ai Cinque Stelle, rimbomba nelle orecchie del ministro, che proprio oggi è in visita alle caserme sarde.
“Rinunciando all’acquisto di un F35 – tuona Mauro Pili (Pdl) – si potevano comprare 8 Canadair”.
“Vorrei sapere – dice invece il deputato di Sel Michele Piras – da chi ha sostenuto il governo Monti e poi l’attuale governo, quando chiederanno scusa ai sardi per il danno che hanno procurato sottraendo risorse e mezzi, riducendo la flotta dei Canadair, lasciando la strada spianata e le vite delle persone esposte ai delinquenti ed alla devastazione del territorio”.
“Ieri mattina sono andati via gli aerei senza avvertici, ci hanno lasciato scoperti dalle 10 e per quasi sei ore siamo rimasti senza nulla”, accusa il sindaco di Laconi (Oristano), Ignazio Paolo Pisu.
“Alle 16:30 quando la situazione stava precipitando sono stato costretto ad alzare i toni, ho chiamato chiunque: la Prefettura, l’assessore regionale, ho parlato con il capo Dipartimento della Protezione civile nazionale Franco Gabrielli, con il presidente della Regione, poi sono anche arrivati i deputati Caterina Pes (Pd) e Mauro Pili (Pdl). Alla fine sono arrivati cinque elicotteri e tre canadair”.
A chi tira in ballo l’acquisto degli F35, Mauro risponde che si tratta di un “paragone improprio”.
“Quando parliamo di acquisto degli F35, parliamo di operazioni che all’interno di un bilancio dello Stato hanno una loro ragione intrinseca”, sostiene Mauro, in vista nelle caserme della Sardegna, rispondendo alla polemica innescata ieri dai parlamentari sardi in seguito agli incendi che negli ultimi due giorni hanno devastato l’Isola e che hanno chiesto meno F35 e più Canadair.
“Se concettualmente tolgo un F35, posso fare un asilo, una scuola, un ospedale o acquistare un aereo antincendio. Il programma F35, però, è partito 20 anni fa”, aggiunge il ministro.
“Dovevano essere 150 ora siamo a 90. Con i 60 che sono stati tagliati quante scuole, quanti asili e quanti Canadair sono stai acquistati? Bisogna fare attenzione. Gli F35 vengono acquistati perchè 254 aerei dell’Aeronautica vanno in pensione”.
“In questo paese la Difesa fa molto — si difende ancora Mauro – raccoglie l’immondizia, pattuglia le strade, trasporta gli organi, lo fa per senso dello Stato, per le capacità logistiche e tecniche che esprime. Tutto quello che abbiamo potuto fare nel passato, che esprimiamo nel presente, e che continueremo a fare nel futuro anche per situazioni di Protezione civile, tra cui la lotta agli incendi”.
Parole che però non bastano a lenire la rabbia di molti cittadini sardi, a cominciare dal presidente della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci (Pdl), che tuona: “Il ministro della Difesa ha parlato di un pericolo a 10mila chilometri di distanza che può esplicare i suoi effetti anche in Sardegna. Gli ho raccontato che ieri, ma è un fatto assai frequente nell’isola, il pericolo non era così lontano, ma a pochi metri da case e comunità “.
Ieri, in un colloquio con Cappellacci sull’emergenza incendi, Mauro aveva motivato così la necessità di affrontare la spesa per l’acquisto di 90 caccia F35.
Una risposta che, al presidente della Sardegna, non basta: a cosa serve preoccuparsi di un pericolo a 10mila chilometri di distanza, quando non si riesce a proteggere i cittadini da eventi prevedibili e ciclici come degli incendi estivi?
Il bilancio delle 48 ore di inferno vissute dall’isola è pesantissimo: quattro feriti, di cui uno gravissimo, mezzo paese (compresa una casa di riposo per anziani) e una colonia penale evacuati, 8mila ettari bruciati. Incendi sono divampati a Laconi-Nurallao-Isili (il più esteso), Ghilarza e Sinnai – i più gravi, senza contare gli altri 12 roghi in tutta l’isola.
Un uomo di 52 anni, che ha tentato il tutto per tutto per salvare le sue 15 vacche nelle campagne di Ghilarza (Or), è in coma farmacologico al Ss. Annunziata di Sassari con ustioni sul 70 per cento del corpo e lotta tra la vita e la morte.
Un sottufficiale della forestale è stato ricoverato per un’intossicazione da fumo a Sinnai (Ca). Altri due sono feriti lievemente.
Di fronte a un tale disastro, il presidente della Regione Sardegna non esita a definire “inaccettabile la non sensibilità del governo”.
“Bene la Conferenza nazionale sulle servitù militari, ma è inaccettabile che lo Stato consideri per un verso strategica la Sardegna, ma per altro verso non abbia la stessa sensibilità quando sono in gioco la vita e la reale vocazione della nostra comunità e si tratta di difendere la nostra terra dalla piaga criminale ed assassina degli incendi”.
(da “L’Huffington Post“)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile IDEA URNE IN AUTUNNO CON UNA CAMPAGNA “VERSIONE MANDELA”
L’ordine di scuderia è netto. 
E l’«attaccate Saccomanni» arriva direttamente da Arcore. Accompagnato da un messaggio chiaro, indirizzato ai gruppi dirigenti del partito: «Se Enrico Letta dice che lui non governa a tutti i costi, facciamogli sapere che questo vale anche per noi. Senza l’abolizione dell’Imu, il governo salta subito».
Quasi non gli pare vero, a Silvio Berlusconi, il passaggio della relazione dei saggi di via XX Settembre in cui l’abolizione dell’Imu, il punto programmatico del Pdl che il Cavaliere ha trasformato nel «suo» cavallo di battaglia, viene associata agli aggettivi «sconsigliabile», «iniquo», «poco efficiente» e addirittura «regressivo».
Di conseguenza, quando da Roma gli segnalano le frasi chiave del ministro dell’Economia, il Cavaliere decide per l’attacco ad alzo zero. «Attaccare Saccomanni», «attaccare il Pd».
Se non è la miccia in grado di innescare immediatamente la crisi di governo, poco ci manca.
Anche perchè, da quello che nel Pdl considerano «un autogol» di Saccomanni, Berlusconi è convinto di riuscire a capitalizzare un vantaggio nella partita per la famosa «agibilità politica» che si aspetta dal Quirinale dal giorno della condanna in Cassazione.
In fondo, il tema è sempre lo stesso. Tenere sulla corda Palazzo Chigi con l’obiettivo di «forzare» nel dialogo col Colle. Non a caso, anche prima che scoppi «l’affaire Saccomanni», nella giornata di ieri i sismografi di Arcore danno tutti la stessa indicazione: «Voto anticipato».
La relazione del ministero dell’Economia sull’Imu non fa altro che accelerare un orientamento già fissato dal Cavaliere, insomma.
Infatti i primi ad andare all’attacco di Saccomanni sono Renato Brunetta e Renato Schifani, che al ruolo di capigruppo del Pdl hanno assommato anche quello di ambasciatori presso il Quirinale.
Per non parlare della frase che un berlusconiano di ferro come Altero Matteoli consegna alle agenzie prima che si faccia sera: «Il Pd ha deciso di far cadere il governo?».
Perchè è questo, uno dei punti che sta più a cuore a Berlusconi.
Minacciare la tenuta dell’esecutivo, insistere sul suo status di «condannato ingiustamente» ma evitare – almeno per adesso – di dare a Palazzo Chigi un colpo mortale.
Non a caso, fino a ieri sera, nonostante il pressing dei «falchi», i ministri in quota Pdl non avevano ancora fatto sentire la propria voce sull’Imu.
Ma questa è la tattica.
La strategia, al momento, porta dritto verso le elezioni anticipate.
Con un canovaccio già scritto. Silvio Berlusconi leader «in versione Mandela», come l’ha definito ieri mattina Augusto Minzolini durante la trasmissione Omnibus .
E, se non esistono i margini normativi per un suo impegno diretto, Marina Berlusconi sarà il candidato premier.
Ma c’è un tarlo, che sta attraversando la mente di Berlusconi.
Il pensiero che, tra Quirinale e Palazzo Chigi, si giochi di melina per rinviare l’appuntamento con le elezioni a «febbraio o marzo».
Mentre invece, è l’adagio del Cavaliere, «se crolla tutto io voglio andare alle urne subito». Dove per «subito» s’intende l’ultima domenica di ottobre o la prima di novembre, il tutto con questa legge elettorale.
Dell’impossibilità di andare al voto prima del 3 dicembre, segnalata ieri dal ministro Gaetano Quagliariello, l’ex premier non vuole sentirne parlare.
Anche perchè la paura che Pd e Cinquestelle si accordino su una riforma elettorale è tanta.
Soprattutto perchè i segnali che gli arrivano dai deputati del Pdl, che siedono vicino ai banchi dei grillini, non sono confortanti.
Della serie, «stiamo attenti perchè i parlamentari del M5S faranno di tutto per non tornare al voto. Di tutto…».
L’ennesima sirena preoccupante, suonata nel fortino di Arcore.
(da “il Corriere della Sera“)
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Agosto 9th, 2013 Riccardo Fucile LA DIREZIONE ANNUNCIA LE TAPPE PER IL CONGRESSO, MA SOLO A VOCE… NEL COMUNICATO LA DATA NON C’È E POI: SI ELEGGE IL SEGRETARIO O L’ASPIRANTE PREMIER?
La paura fa 24 (novembre): giorno di primarie, giorno di Matteo Renzi.
E le facce un po’ in tensione e un po’ in apprensione di Enrico Letta e Guglielmo Epifani non fanno intuire chi sia più spaventato: il presidente del Consiglio, immobile e braccato dal Quirinale o il segretario traghettatore, inquieto per il partito che prende la strada di Firenze.
Ora che c’è una scadenza (teorica, nulla di ufficiale), e la direzione nazionale l’ha partorita con fatica e celerità , ci sarà soltanto una domanda con un immenso interrogativo: il governo, che non vuole tirare a campare, sopravviverà ?
I renziani non esultano perchè i cunicoli burocratici sono infiniti e sarà l’assemblea, fissata per il 21 settembre (san Matteo), a deliberare regole aperte o socchiuse, procedure inclusive o esclusive.
La fiducia non abita fra i democratici: ci si guarda con sospetto e l’agguato non è soltanto una tecnica per impallinare Romano Prodi.
Quando Renzi s’è fermato a discutere con Epifani aveva un viso tirato, nervoso e molto, davvero molto, diffidente.
Perchè i reduci Ds non vogliono consegnare il Pd a un ex popolare e sono pronti, in un gioco di masochismo collettivo, a decapitare l’esecutivo di Letta pur di salvare la struttura.
Sarà pure sconfitto e un po’ titubante, ma Pierluigi Bersani non farà mai un favore a Matteo.
Il rivale che, appena può, lo sfotte con il giaguaro ancora da smacchiare.
I democratici, miracolo, non hanno pronunciato mai la parola Berlusconi. No, non prendono le distanze: la vicinanza è asfissiante e chi siede a palazzo Chigi non vuole irritare l’alleato.
Enrico Letta ha sorvolato le questioni interne, e non per vanità o cabale, ma perchè voleva ricordare con quel tipico monito, tipico per il Quirinale, che il voto va spinto più in là : “Occorre stabilità o non saremo credibili e il debito finirà per strozzare l’Italia. Il semestre europeo è un appuntamento fondamentale”.
Ecco, il benedetto semestre europeo che angoscia Giorgio Napolitano e frena la corsa di Renzi.
L’ex (?) amico Enrico — la stretta di mano con Matteo è stata rapida e gelida — ha tirato su la testa.
Messaggio: io non mi faccio schiacciare. Il sindaco conosce il campo e conosce un avversario fra Firenze e palazzo Chigi, il Colle: deve avere pazienza, almeno per una decina di mesi.
Però, non rimarrà in silenzio: domenica giunta in Comune, dieci giorni di vacanza, e poi riprenderà il giro fra le feste democratiche, le apparizioni televisione, le interviste ai quotidiani.
Epifani ha anticipato l’intervento di Letta, ma — per osmosi, forse — ha copiato il tono, quasi drammatico, e la cautela, quasi artificiale: “Dobbiamo dare un segnale di maggiore unità . Questo è un governo di servizio, non di pacificazione. Evitiamo fibrillazioni”.
Un infortunio verbale, però, all’esperto Epifani è scappato: non di pacificazione.
Vuol dire niente sconti a Berlusconi e senza sconti a Berlusconi — questo è il dilemma-cantilena nel Pd — per Letta comincia un lancinante stillicidio verso la fine. Forse Epifani ha provato quel sentimento che Anna Finocchiario ha espulso con fastidio: “Renzi non sarebbe un buon segretario per il mio partito”.
Cioè il partito di Bersani, ex democratici di sinistra, ex comunisti un pochino nostalgici, messi in riga da un democristiano moderno.
Ora che c’è quel 24 novembre — senza sottovalutare l’assemblea del 21 settembre — Letta dovrà incollare il governo e il partito col rischio di rimanere attaccato a se stesso mentre Renzi può battere un po’ di qua e un po’ di là : “Dobbiamo sfruttare la finestra di ottobre per riformare la legge elettorale”, ha sospirato il premier.
La logica di rinviare per stancare è ormai la bussola di Letta.
Il Pd va in ferie con una promessa: il 21 di settembre ratificheremo le primarie per il 24 di novembre (compreso il corredo di cavilli che spargeranno fuoco).
Chissà se il governo di larghe intese avrà la ventura o la sventura di assistere all’evento oppure sarà vacanza, allora sì, forzata.
Ma la confusione e l’approssimazione di proprietà democratica: a ogni mossa, ci si chiede quale sia il trucco; a ogni accelerata, ci si chiede quale sia il percorso.
E se ci fosse un’immagine da tenere in archivio con fierezza sarebbe quella di Franco Marini, un uomo che ha sfiorato il Quirinale, che sgattaiola dietro le spalle di Anna Finocchiaro.
Oppure, se le immagini fossero due, Renzi che entra da destra mentre i giornalisti aspettano a sinistra.
A destra, l’ingresso o l’uscita è proprio lì.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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