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G8, ALLA MADDALENA GETTATI AL VENTO 400 MILIONI DI EURO

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

IL TRASFERIMENTO DEL SUMMIT A L’AQUILA RESI I LAVORI INUTILI… BERTOLASO PROMISE CHE L’EX ARSENALE SAREBBE STATO DESTINATO AD ALBERGHI DI LUSSO E YACHT CLUB, MA LE BONIFICHE A MARE NON SONO MAI STATE FATTE

Esistono catastrofi che il silenzio in cui sono state sprofondate, se possibile, rende ancora più intollerabili.
E il G8 sull’Isola della Maddalena è una di quelle.
Quattrocento milioni di euro di denaro pubblico hanno consegnato 27mila metri quadrati di edifici, 90mila metri di aree a terra e 110mila di mare al nulla di un progetto privato di fatto mai partito (un polo di lusso per la vela gestito dalla Mita Resort dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia).
Ai veleni liberati dai fondali della darsena dell’ex Arsenale militare, mercurio e idrocarburi pesanti, la cui dispersione ha raggiunto, sedimentandosi in profondità , l’area limitrofa allo specchio di mare del Parco della Maddalena.
Mezzo milione di Imu.
Ogni anno, la Regione Sardegna paga 500mila euro di Imu per strutture architettoniche di avanguardia in cui, in 4 anni e mezzo, non ha messo piede anima viva, abitate soltanto dal maestrale e dalla ruggine di pilastri e tiranti cui non è stata dedicata alcuna manutenzione.
Il mare chiede bonifiche urgenti per le quali non esistono risorse sufficienti e lì dove pure esistono impongono un accordo tra amministrazioni dello Stato (Presidenza del Consiglio, ministero, Regione, Comune) non ancora raggiunto.
Ogni giorno che passa, ogni inverno che spazza l’Isola, il conto sale.
I 400 milioni di denaro pubblico diventeranno presto 500, o forse addirittura 600, necessari a recuperare quello che si sta mandando in malora e a pagare il conto dei danni chiesti dal privato – la Mita di Emma Marcegaglia – che oggi lamenta di aver avuto in concessione quarantennale una Grande Opera che di grande avrebbe solo le lettere maiuscole.
Una società  che per giunta quella concessione si aggiudicò con un bando sartoriale che la vide non a caso facile vincitrice.
Una società  che avrebbe dovuto pagare 31 milioni di una tantum in 3 rate alla Protezione Civile e canoni annuali alla Regione di 60mila euro per 40 anni, ma che, dal 2009 a oggi, non ha sborsato un solo centesimo.
Il saccheggio e l’inganno.
“La Maddalena è un’altra Ilva”, sostiene oggi Stefano Boeri, l’architetto che ha progettato la “Casa sull’acqua” dell’ex Arsenale, che per quel progetto deve ancora essere pagato (il suo debitore, il costruttore e corruttore Diego Anemone, ha dichiarato fallimento) e sotto i cui occhi quelle opere si sono trasformate in fantasmi.
Regione, Protezione Civile, Mita Resort “sono come le tre scimmiette sul comò”, frusta Angelo Comiti, che dell’Isola è il sindaco, ma più giusto sarebbe dire il primo naufrago, sintetizzando un’immagine e una filastrocca.
Anche perchè, senza girarci troppo intorno, la verità  è che mille e seicento giorni dopo il 23 aprile del 2009, le parole con cui l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò il trasferimento della sede del G8 dalla Maddalena all’Aquila e l’allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso rassicurò l’Isola promettendo di averle quantomeno lasciato in eredità  una Grande Opera che sarebbe diventata il volano di un’economia rimasta orfana della chiusura della base americana, dimostrano il cinismo di un inganno.
Costruito intorno a un format che abbiamo imparato a conoscere con lo svelamento del Sistema Balducci-Protezione Civile.
Dove lo Stato perde sempre.
Nella fase iniziale di progettazione e realizzazione delle opere (gravate di un 30-50 per cento di maggiorazioni “in conto corruzione”). Nella fase di concessione al privato (regolarmente a prezzi di saldo). E nella sua fase finale, altrettanto regolarmente affidata al contenzioso “arbitrale”, dove lo Stato, ancora una volta, si dispone docilmente a soccombere alla richiesta danni del privato (la Mita Resort in questo caso) nei cui confronti finisce per risultare inadempiente. Per non aver “mai consegnato i verbali di collaudo”.
Per non aver bonificato quel che c’era da bonificare.
La bonifica velenosa. Già , un caso di scuola, la Maddalena.
Non c’è angolo della Grande Opera che non porti le stimmate del Sistema. A cominciare dal mare su cui si affaccia.
A fine luglio scorso, la Procura di Tempio Pausania, ha chiuso due anni di indagini del pm Riccardo Rossi e del Noe dei carabinieri di Sassari ed è pronta a chiedere 17 rinvii a giudizio per chi avrebbe dovuto bonificare i 60mila metri dello specchio d’acqua dell’ex Arsenale e, al contrario, lo ha avvelenato una seconda volta.
In quel 2009, ballavano 7 milioni di euro per la bonifica e bisognava fare in fretta. Grattarono 50 centimetri di fondale marino di fronte all’ex Arsenale con le benne delle ruspe, smuovendo morchia e veleni depositati in mezzo secolo dalla Marina Militare italiana. E il dragaggio, per giunta, fu fatto a sbalzi, per accumulare più in fretta detriti. Mercurio e idrocarburi pesanti si dispersero in mare e le correnti hanno fatto il resto.
Portando i sedimenti velenosi fino ai confini delle acque del Parco e obbligando a una nuova bonifica (per cui oggi non ci sono fondi sufficienti e non è stato ancora approvato un progetto) su un area grande il doppio di quella iniziale.
Danni imprevedibili.
Nessuno sa o può dire, in questo momento, quanto tutto questo abbia già  intossicato o possa intossicare l’eco-sistema di uno degli angoli più belli del Mediterraneo (la situazione è monitorata dal Parco della Maddalena e dall’Arpas).
Esattamente come nessuno sa prevedere i tempi dell’accertamento delle responsabilità  dei 17 indagati per questo disastro dalla Procura di Tempio, una di quelle sedi giudiziarie, per dirne una, dove a metà  settembre il tribunale è andato a fuoco notte-tempo per un tostapane e dove i gip si arrangiano nelle udienze preliminari in una ex scuola elementare.
Diciassette inquisiti.
Già , i 17. Sono l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso (falso in atti pubblici, truffa ai danni dello Stato, inquinamento ambientale); l’ex presidente del Consiglio Nazionale dei lavori pubblici Angelo Balducci; Marco Rinaldi e Matteo Canu, responsabili dell’impresa appaltatrice delle bonifiche in mare, la “Cidonio” di Roma; l’ex capo della struttura di missione per il G8 Mauro Della Giovanpaola; il direttore dei lavori Luigi Minenza; l’ingegnere e direttore operativo Riccardo Miccichè; il responsabile unico del procedimento Ferdinando Fonti; il provveditore per le opere pubbliche e magistrato delle Acque del Veneto Patrizio Cuccioletta; i “collaudatori” Andrea Giuseppe Ferro e Valeria Olivieri e il segretario della loro commissione, Luciano Saltari; l’ex provveditore ai lavori pubblici per la Toscana Fabio De Santis, l’ingegnere sismico Gian Michele Calvi, il responsabile nazionale dell’Ispra (ministero dell’Ambiente) Damiano Scarcella e il dirigente del ministero dell’Ambiente Gianfranco Mascazzini. Un elenco in cui si rintraccia il filo rosso dei nomi di quella struttura di malaffare battezzata la “Cricca della Ferratella”. Oggi a processo a Roma e a Firenze in dibattimenti che raramente, a distanza di 4 anni e mezzo, hanno conosciuto un verdetto di primo grado e, in molti casi, languono ancora davanti a un gip in udienza preliminare.
La grande fuga.
I tempi della giustizia penale, ammesso e non concesso che una qualche giustizia riuscirà  ad arrivare in tempo, hanno comunque consentito intanto allo Stato di squagliarsela.
La Maddalena, che in quei giorni del 2009, era stata battezzata “sito di interesse nazionale” è stata declassata a “sito di interesse regionale” da Corrado Clini, ministro dell’ambiente del governo Monti.
La legge di riforma della Protezione Civile ha fatto il resto. Il Grande Nulla dell’ex Arsenale è oggi in carico alle finanze sfiancate degli Enti locali, che non hanno risorse per farlo risorgere dal buco in cui è sprofondato.
La Protezione Civile di Franco Gabrielli non ritiene di avere più parte in causa nel capolavoro di Guido Bertolaso (ora tornato a fare il medico volontario in Africa) e non intende (“perchè non più competente”) partecipare nè alla partita delle bonifiche, nè fare fronte alle richieste risarcitorie di Mita Resort.
Il ministero dell’Ambiente non ha più titolo per convogliare risorse su un angolo del territorio sottratto alla sua gestione diretta.
La Politica, nazionale e locale, ha altro a cui pensare. Le 12mila anime dell’Isola hanno un valore nella partita del consenso pari a zero. Naufraghi, appunto. Come l’uomo che li rappresenta, Angelo Comiti. Che in un mattino grigio di settembre, si aggira per l’ex Arsenale come un condannato all’insensatezza e al cinismo di chi non vuole nè vedere, nè ascoltare. E per questo ripete quella litania che dice tutto. “Tre scimmiette sul comò”.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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TAV, LARGHE INTESE E LARGHI AFFARI: UNITI PER SPARTIRSI TUTTO

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

SPUNTANO “AMICI” DI D’ALEMA, DELL’UTRI, ALFANO E FINOCCHIARO

Anticipiamo uno stralcio dell’approfondita inchiesta sugli affari del Tav in edicola, in versione integrale, su ‘l’Espresso’ in edicola da oggi
Nell’indagine sulla Tav di Firenze che ha portato in carcere Maria Rita Lorenzetti del Pd, spuntano “amici” di Massimo D’Alema, Marcello Dell’Utri, Angelino Alfano, Anna Finocchiaro e Gianni Letta. Uniti per spartirsi tutto.
L’intreccio politico affaristico è svelato da una inchiesta de l’Espresso da cui emergono molti punti inediti.
Negli ambienti giudiziari la chiamano «larga intesa degli affari» e accomuna, di fatto, esponenti politici di destra e di sinistra.
Tutti insieme appassionatamente, in un gioco abilissimo e sotterraneo di nomi e prestanome: si palesano solo i volti di professionisti e tecnici, ma le loro ombre celano segretari di partito, ministri, presidenti di gruppi parlamentari, capi correnti, deputati e senatori. I pupari. E le marionette.
Per muovere affari di milioni, velocizzare pratiche di appalti pubblici, approvare decreti per favorire imprese amiche, cambiare componenti di commissioni di vigilanza e authority.
Di fatto, svuotare le istituzioni e piegare le regole democratiche in uno spoil system che genera un sistema viziato.
In scena c’è una “grosse koalition” tessuta da personaggi che si presentano come uomini di fiducia e consulenti di esponenti politici.
Amici di Massimo D’Alema e Marcello Dell’Utri, Anna Finocchiaro e Angelino Alfano: pedine che garantivano il dialogo e le spartizioni tra ex fascisti ed ex comunisti.
Al centro di questo giro c’è un geologo siciliano del Pd, Walter Bellomo, arrestato dai carabinieri del Ros di Firenze: in passato ha fatto parte del Pci, e nel 1996 è stato segretario del Pds a Palermo ed ha tentato attraverso esponenti di vertice del Pd di entrare a far parte della giunta del governatore siciliano Rosario Crocetta.
Bellomo è componente della commissione Valutazione impatto ambientale del ministero dell’Ambiente, fondamentale per varare qualunque opera, per gli inquirenti il suo ruolo era strategico: facilitatore di appalti.
Accanto agli affari e alla divisione — trasversale – dei posti di potere emerge uno spaccato di politici attaccati alle poltrone e contrari ai tagli pubblici dei manager.
L’inchiesta de ‘l’Espresso’ svela come nel luglio 2012 l’allora presidente di Italferr, Maria Rita Lorenzetti era entrata in fibrillazione perchè si ventilava il taglio dei posti dei cda nelle società  parastatali.
Una persona molto vicina a Renato Schifani (all’epoca presidente del Senato) avverte della manovra del governo l’esponente del Pd, che con una laurea in filosofia sedeva al vertice di una società  che gestisce appalti.
Lorenzetti sembra nel panico e chiama subito il consigliere politico della senatrice Finocchiaro al quale espone “il pericolo” a cui vanno incontro: il taglio di manager nella pubblica amministrazione.
Il consigliere della Finocchiaro tenta di consolare Lorenzetti: «Ho parlato con Anna e ho due novità : uno che si interesserà  personalmente con Schifani per sapere se questa cosa è vera, però lei non ne sa nulla. Sicuramente nel partito non c’è stata nessuna discussione e quindi non è una linea del partito. E’ una linea del governo Monti, di Bondi, il superconsulente di taglio delle spese degli enti pubblici. Il partito non ha fatto assolutamente nulla. Assolutamente non è niente di certo».

Lirio Abbate
(da L’Espresso”)

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IL RETROSCENA DEL “DIMETTIAMOCI TUTTI”: LA COMPETIZIONE TRA SANTANCHE’ E BRUNETTA PER LA MEDAGLIA DEL PIU’ SOLIDALE AL CAPO

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

I PEONES SI IMMOLANO MA RESTANO SMARRITI: “DAVVERO DOBBIAMO DIMETTERCI TUTTI?'”

Il giorno del “grande errore” del Pdl, quello che sta portando i berluscones verso un redde rationem da dove potrebbero uscire con le ossa rotte (e il partito in frantumi) è cominciato ieri all’ora di pranzo a Palazzo Grazioli, dove un Berlusconi in uno stato di prostrazione fisica e mentale (ha preso 11 chili di peso per lo stress, non li ha persi, come invece si era detto in precedenza) aveva chiamato i suoi colonnelli (presenti tutti, compreso Alfano) per decidere come agire.
Una discussione cominciata già  dall’antipasto, con Daniela Santanchè e Renato Brunetta che da subito hanno incrociato le spade sparando le ipotesi più fantasiose per rispondere all’esigenza berlusconiana di “dare un segnale forte” al Pd sulla sua decadenza e al governo sulla necessità  di non pestare troppo sull’acceleratore sia sul fronte delle riforme (quella elettorale in particolare) che su quello del patto di legislatura, che il Cavaliere non ha alcuna intenzione di firmare.
A quel punto, in un clima surriscaldato dal litigio, Renato Brunetta ha spiazzato l’uditorio dei commensali facendo sua la proposta delle dimissioni di massa, proposta che in passato era stata invece avanzata dalla Santanchè.
Una “guerra tra falchi”, insomma, che ha portato verso una sorta di cupio dissolvi del centrodestra berlusconiano: se deve “morire” il capo, noi moriremo con lui.
Mossa strategicamente e politicamente sbagliata che ha vissuto, però, il suo momento più drammatico (ma forse anche grottesco) la sera, nella sala della Regina di Montecitorio, dove Berlusconi aveva convocato i gruppi parlamentari.
E, infatti, c’erano tutti, al tavolo Schifani, Brunetta e Alfano, davanti le truppe berlusconiane al gran completo. E’ stato Schifani, con un discorso definito da alcuni dei presenti come “di alto profilo istituzionale” a rimarcare sullo sgarbo fatto dal Pd nell’accelerazione compiuta in Giunta sulla decadenza di Berlusconi da senatore “senza aver neppure voluto prendere in considerazione la nostra richiesta di avere contezza della retroattività  della legge Severino”.
A quel punto è stata la volta di Brunetta, che si è attaccato proprio alla legge Severino per comunicare ai presenti che le dimissioni di massa sarebbero state la mossa decisa dal vertice per il “segnale”.
Quindi la parola sarebbe dovuta passare ad un Alfano assolutamente titubante e per nulla convinto della necessità  “di arrivare a tanto” quando ha fatto il suo ingresso nel salone Silvio Berlusconi, scusandosi “per aver interrotto l’assemblea”.
Schifani, a quel punto, si è rivolto ai colleghi chiedendo la disponibilità  di chi “si era iscritto a parlare” di lasciare spazio “al presidente”, “anche se credo di parlare a nome di tutti — questo il passaggio chiave — nel dire che nel momento in cui il Presidente dovesse essere dichiarato decaduto, noi non potremo certo restare qui, quindi ci dobbiamo considerare fin da ora tutti formalmente decaduti al suo fianco…”.
E’ partito un applauso che ha suggellato (almeno in apparenza) la volontà  dei parlamentari pidiellini di “morire insieme al Capo”, anche se poi, finita la sbornia dell’emozione, le facce di molti peones si sono fatte subito pallide e impacciate: “Ma davvero dobbiamo dimetterci tutti?”. Si, e lo ha deciso Brunetta, si dovrebbe sottolineare.
“Che non si è reso conto — commenta un ‘alta fonte del Pdl — di portarci tutti verso un vicolo cieco; se si andrà  ad una verifica parlamentare della crisi, il partito andrà  in mille pezzi, ma soprattutto adesso non sappiamo come uscirne: è stata fatta una vera cazzata…”.
Berlusconi, ieri sera, dopo l’applauso dei suoi, si è mostrato commosso, ma c’è chi sostiene, dentro il Pdl, che la sua paura di essere arrestato “da una delle tante procure d’Italia che vuol mettersi la medaglietta e mettermi le manette ai polsi” sia tale da aver ormai preso ampiamente il sopravvento sulla strategia.
E, soprattutto, sulla ragione.

Sara Nicoli
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LA VERA STORIA DELLE DIMISSIONI FARSA DEI PARLAMENTARI DEL PDL

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

QUAL’E’ IL GROSSO RISCHIO PER IL CAVALIERE

Può forse essere utile, nelle giornate tragiche e sciagurate che l’Italia si appresta a vivere, raccontare e spiegare un po’ meglio cosa sono queste dimissioni-farsa minacciate dai parlamentari del Pdl, perchè le chiamiamo qui con l’epiteto della farsa, della finta minaccia, e cio’ nonostante rischino lo stesso di produrre conseguenze eversive.
– Le dimissioni minacciate con grande strepito sono state “consegnate nelle mani di” Renato Brunetta e Renato Schifani, i   due capigruppo del partito. Procedura burla, perchè naturalmente le dimissioni si danno o non si danno, e quando si danno si presentano con una lettera scritta alla presidenza della camera di appartenenza.
– Se anche accadesse davvero questo, il 4 ottobre, cosa succederebbe? Dal punto di vista dei regolamenti delle Camere non esiste ovviamente in nessun modo l’istituto delle dimissioni di massa. Le dimissioni sono sempre e comunque individuali.
– Se la motivazione delle dimissioni è la volontà  di optare per una carica incompatibile con il suo mandato, l’aula ne prende atto senza procedere a votazioni. Il caso delle minacciate dimissioni del Pdl è diverso. Se infatti le motivazioni sono differenti, le dimissioni devono essere accolte dall’aula con una deliberazione. L’articolo 49, comma 1, del Regolamento della Camera, e l’articolo 113, comma 3, del Regolamento del Senato, stabiliscono che la votazione ha luogo a scrutinio segreto.
Si voterebbe, naturalmente, caso per caso. In caso di dimissioni accettate, subentrerebbe il primo dei non eletti. Poi il secondo, e così via.
Questo per l’ovvia ragione di impedire, a ogni elezioni, alle minoranze di disertare in massa l’aula e crashare ogni volta il sistema.
Tra l’altro, per prassi parlamentare, di solito dimissioni di un parlamentare vengano sempre respinte una prima volta come gesto di cortesia.
Questo anche solo per dare l’idea di cosa succederebbe in concreto (è da chiedersi se poi un Berlusconi elettorale sarebbe penalizzato da questa palude da lui creata; in Italia è persino possibile che se ne avvantaggi, agitando la vecchia storia della persecuzione delle toghe rosse).
– Ma naturalmente le dimissioni sarebbero un fatto di natura politica enorme, se davvero acccadesse. Come potrebbe il parlamento restare operativo se un terzo dei suoi componenti decide di non partecipare più alle sedute?
Qui però la questione si fa controversa, e viene in mente un grande presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che si faceva un vezzo in circostanze difficili del vecchio detto “a brigante, brigante e mezzo”.
Se Berlusconi impalla il parlamento e crea il caos istituzionale, pretendendo nello stesso tempo di non far cadere tecnicamente il governo, è già  chiara l’arma (non solo retorica) che gli è stata subito prospettata: le dimissioni immediate del presidente della Repubblica.
Giorgio Napolitano ha già  comunicato, attraverso vari canali, di avere la lettera pronta nel cassetto.
– In quel caso la situazione sarebbe questa: parlamento politicamente paralizzato, ma non sciolto, e costretto dalle norme a votare caso per caso le singole dimissioni.
Nulla vieterebbe però a quel punto – anzi, sarebbe obbligatorio, con un presidente della Repubblica davvero dimissionario – di fissare subito la riunione in seduta comune per eleggere il nuovo presidente.
– Attenzione, si tratta di scenari non favolistici, ma realmente configurati – come racconta ampiamente La Stampa – dal Quirinale nei suoi colloqui con gli “ambasciatori” politici. Con una postilla assai esplicita: un nuovo presidente non sarebbe a quel punto un presidente eletto con larghe intese, ma un presidente coi voti di una maggioranza semplice.
– Chi potrebbe essere? Inutile spingersi a tanto. Diciamo che non sarebbe un’eventualità  del tutto conveniente per il Cavaliere dell’eversione-farsa.

Jacopo Iacoboni

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IMPRENDITORI ITALIANI IN FILA A CHIASSO: OLTRE 260 AZIENDE PRESENTI

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

INVESTIRE NEL CANTON TICINO: “DA NOI NON C’E’ PIU’ ALCUN FUTURO”

Più di 600 erano le prenotazioni, 260 sono le aziende che giovedì mattina sono state ammesse al meeting organizzato dal comune di Chiasso per convincere imprenditori italiani a trasferirsi in Canton Ticino.
Como, la Brianza, Milano sono le provenienze più ricorrenti, quello che ha fatto più strada e’ partito da Ravenna.
La maggior parte di loro dichiara di aver accolto l’invito solo per raccogliere informazioni sulle condizioni offerte dalle autorità  elvetiche, tutti sono un termometro fedele dello stato d’animo dominante nel mondo dell’imprenditoria italiana.
«Da noi non c’è assolutamente più futuro, basta un cliente che non paga e una causa in tribunale che dura anni e la tua azienda rischia di finire a rotoli. Sono qui perche’ ho voglia di ripartire» confessa Lino Casati, da Cantù nell’atto di varcare la soglia del teatro comunale di Chiasso sede dell’incontro.
«Non capisco perchè le agevolazioni che il governo Letta promette agli investitori stranieri non possano essere concessa a noi italiani» osserva Pietro Massaroli, quello che viene da Ravenna. Moltissimi sono anche gli imprenditori che preferiscono dribblare le domande dei cronisti, arrivati numerosissimi qui a Chiasso: tra gli accreditati c’è anche una troupe della Cnn. Rigorosissimi i controlli all’ingresso: secondo alcune indiscrezioni confermate anche dal municipio di Chiasso la scelta di tenere fuori dal teatro persone non accreditate e’ dettata anche dal timore che tra il pubblico possa «mimetizzarsi» personale della Guardia di Finanza italiana a caccia di informazioni fiscali.

(da “il Corriere della Sera“)

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PANICO NEL PD, HANNO PERSO L’AGENDA

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

PARE LA CHIAVE DI VOLTA PER RISOLVERE TUTTI I PROBLEMI INTERNI

Segnatevi questa parola: agenda. Già  che ci siete, segnatevela su un’agenda.
Così, sempre se non perdete l’agenda, vi ricorderete della parola“agenda”, che pare essere la chiave di volta per risolvere le spinose questioni del Pd, partito in attesa di congresso.
La soluzione la presenta, forte e chiara, il ministro Graziano Delrio, intervistato da l’Unità : “Sia visibile una chiara agenda del Pd e una classe dirigente rinnovata che parli con una voce sola”.
Ecco, giusto. Un’agenda. Non male. Quanto alla voce sola, al momento è un po’ un problema, perchè le voci sono molte.
Certo, dice Delrio, “i candidati devono presentare una loro analisi, possibilmente condivisa, su quel che serve al Paese”. Per esempio un’agenda.
Sull’agenda si potrebbe segnare una data per il congresso, cosa che ci sono voluti sei mesi per fare.
Si vede che l’analisi non era condivisa.
Figurarsi l’agenda: solo per decidere se sarà  in pelle,finta pelle, con la copertina rigida, settimanale o elettronica ci vorranno due anni di discussioni.
Ma sia: torniamo all’agenda. E a Delrio: “Ma infatti se il Pd non riesce a dare una sua agenda rischiamo di essere ricattati da parole d’ordine che non ci piacciono”.
Ah, giusto. Gira e rigira serve un’agenda.
Ma poi l’agenda chi la scrive: Renzi o Cuperlo? I Bersaniani? I Dalemiani Rinati del Settimo Giorno?
O sarà  un’agenda con tanti interventi, tipo la Smemoranda, dove ogni dirigente può scrivere la sua pagina spiritosa?
Delrio ha una risposta anche su questo: “Se si affrontano i temi in maniera condivisa e si presenta una nostra agenda, si spersonalizza la questione”.
Traduco: ci vuole un’agenda con le priorità ,che sia scritta da tutti i candidati insieme che vanno d’amore e d’accordo.
Scrivendola tutti insieme senza litigare, poi, dopo, nessuno litigherà  più.
Una specie di Comma 22, insomma.
Perchè intanto è un litigare continuo tra chi vuole rottamare, poi viene appoggiato dai rottamandi, che poi si spostano mentre li stai contando e devi cominciare da capo, e tutto senza contare Fioroni che oggi appoggia Renzi, domani no, i giorni dispari lo attacca, i giorni pari dice che è l’unico candidato,e la domenica si riposò.
E poi, mentre si cerca l’agenda del Pd, non è lecito chiedersi dov’è finita la famosa“agenda Monti” che il Pd condivise e votò per più di un anno?
L’agenda andò persa, forse durante il trasloco da Palazzo Chigi alle stanze di Scelta Civica.
Con tutto questo perdere agende,è chiaro che il Pd ne vuole una sua,da non perdere. Ma su cosa dovrebbe essere scritto nell’agenda — mi raccomando, scritto da tutti in accordo e condivisione, cioè dagli stessi che oggi si mandano fraternamente a quel paese — c’è qualche vaghezza.
Sì, stato sociale, certo. Un po’ di soldi alle fasce più deboli, va bene.
Tutte cose su cui i candidati al congresso potrebbero essere d’accordo.
Ma non è un po’ troppo un’agenda per questi due appuntini che suggerisce Delrio? Potrebbe bastare un post-it, quei bigliettini gialli un po’ adesivi.
Se invece serve qualcosa di più denso, che somigli a una linea politica per il partito e per il Paese, beh, allora serve un’agenda.
Condivisa, eh!
Ok, da capo. Segnatevi questa parola: agenda…

Alessandro Robecchi).
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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IL GOVERNO SI SVEGLIA: DUE MOSSE PER BLOCCARE LA VENDITA DI TELECOM AGLI SPAGNOLI

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

NUOVE NORME SU OPA E GOLDEN SHARE PER LE RETI DI TELECOMUNICAZIONE

Con due mosse il governo si prepara a mettere fuori gioco Telefonica nella sua scalata a Telecom Italia.
Il primo colpo sarà  messo a segno già  domani, quando durante il consiglio dei ministri sarà  approvato il decreto attuativo sui “golden power”, i poteri speciali del Tesoro sulle società  e sui singoli pezzi di queste ritenuti “strategici”.
Dopo che il Copasir ha allertato l’esecutivo sui rischi per la sicurezza nazionale dalla perdita del controllo della rete Telecom, il governo ha deciso di inserire l’infrastruttura telefonica tra quelle sottoposte ad un via libera preventivo in caso di compravendita.
Ma la mossa decisiva che potrebbe far battere in ritirata Telefonica, saranno le nuove norme sulle Opa, le offerte pubbliche di acquisto.
Come ha ricordato il Presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, la soglia del 30% dopo la quale scatta l’obbligo di comprare le azioni di tutti gli azionisti si è rivelata fino ad oggi inutile.
Telecom è passata di mano per ben tre volte senza la possibilità  per i piccoli investitori di partecipare al banchetto.
Il sottosegretario all’Economia, Alberto Giorgetti, ha spiegato che il governo interverrà  modificando la normativa.
La soglia dell’Opa sarà  abbassata. Poi le singole società  avranno la possibilità  di modificare i propri statuti inserendo tetti più alti o più bassi entro, comunque, un range predeterminato.
Il punto fondamentale, a questo punto, sarà  il livello al quale sarà  fissata dal governo la nuova soglia di Opa.
Questa mattina il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha ricordato come la commissione che riscrisse il Testo Unico della Finanza, presieduta da Mario Draghi, propose un tetto del 15% per le public company ad elevata capitalizzazione.
Una soglia bassa che avrebbe permesso la nascita in Italia di public company.
La proposta, pure approvata preliminarmente dal consiglio dei ministri, poi fu bocciata in Parlamento.
Dunque si potrebbe ripartire da qui. Telefonica, che a valle dell’operazione con Telco, si troverebbe in pancia il 22,5% di Telecom Italia, sarebbe costretta ad offrire 1,1 euro non solo a Mediobanca, Intesa e Generali, ma a tutti i risparmiatori.
Il costo dell’operazione per gli spagnoli supererebbe i 13 miliardi di euro ai quali aggiungere altri 29 miliardi di indebitamento netto.
Per una Telefonica indebitata per 57 miliardi sarebbe impossibile sostenere lo sforzo. L’operazione, dunque, sarebbe destinata a saltare.
Che tempi ha il governo per mettere mano alle nuove norme sull’Opa?
C’è sicuramente fretta, ma il calendario, per come è stata strutturata l’operazione Telco, è a favore dell’esecutivo.
In base agli accordi Telefonica salirà  fino al 100% nel capitale solo il prossimo anno, nel 2014.
Dunque la finestra a disposizione del governo Letta per intervenire si chiuderà  a dicembre di quest’anno. Certo, sarebbe meglio accelerare.
Anche perchè se l’intenzione fosse quella di intervenire per decreto, sarebbe meglio tener conto delle fibrillazioni della maggioranza e dei rischi che corre Letta dopo la minaccia di dimissioni in massa dei parlamentari del Pdl.
Siccome sul mettere le briglie all’offerta Telefonica sono d’accordo sia Pd che Pdl, saggezza consiglierebbe di muovere prima che tutto crolli.

(da “Huffingtonpost”)

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RIPRENDE “SERVIZIO PUBBLICO”, INTERVISTA A SANTORO: “CI SARANNO NOVITA'”

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

“LE NOTIZIE ARRIVANO DAGLI APPROFONDIMENTI”… STASERA INTERVISTA A DE GREGORIO

Ricomincia Servizio Pubblico. In che anno siamo dell’era Santoro?
Ormai abbiamo raggiunto il quarto di secolo. Il primo Samarcanda risale all’87. Una trasmissione che ha accompagnato i grandi cambiamenti dalla Prima Repubblica ad oggi.
Ne sei stato il testimone diretto.
Testimone e coprotagonista perchè non mi nascondo l’importanza che la tv ha conquistato e che conserva ancora oggi. La trasformazione subita dalla politica è stata determinata dall’evoluzione della televisione, quella generalista in particolare.
Più facile o più difficile per te condurre oggi un programma così seguito?
Più difficile: noi eravamo i pionieri di questo genere, potevamo amministrare le forze con meno assillo di concorrenza. Ora si assiste al moltiplicarsi dei contenitori informativi, non uso il termine talk perchè molti programmi come il nostro fanno fatica ad essere inquadrati nella categoria talk. Non costruiamo solo parole ma anche immagini.
Fin dall’inizio hai imposto uno stile che i contenitori attuali non fanno che ripetere. L’ospite che diventa protagonista, il palco che dà  voce alla protesta civile, gli scoop giornalistici.
Nel nostro caso, anche la scenografia costituisce un elemento fondamentale della narrazione che vogliamo svolgere nel corso della puntata; come lo è per un giornale, la grafica delle pagine. L’idea delle torri in studio, nata dopo l’evento sul web “Tuttinpiedi”, rappresenta la distanza tra la politica e l’indignazione che monta tra i cittadini. Vorrei aggiungere un elemento. Ci si concentra sulla crisi degli ascolti ma si parla poco del perchè le reti non riescono più ad esercitare la funzione che avevano storicamente: ad esempio, Ballarò fa ottimi risultati se si considera che va in onda su Raitre, dove, in questo momento, gli ascolti faticano.
Perchè le reti non svolgono più la loro funzione?
Oggi assistiamo alla malattia dell’industria televisiva che è stata sempre specchio del Paese, uno specchio che guarda avanti. Nelle tendenze della tv, si prefigurano i futuri spostamenti nell’opinione pubblica e nelle istituzioni. La causa di questa malattia è il conflitto di interessi: per un lunghissimo periodo la tv è stata sotto il controllo di una sola cultura, senza creare una vera concorrenza. E ciò è avvenuto anche quando governava la sinistra. Alla fine della Prima Repubblica, c’è stata un’omologazione profonda del sistema, senza più distinzioni tra servizio pubblico e privato, e un controllo verticale delle quote a cui la sinistra non si è opposta, accontentandosi di gestire spazi subalterni. Da allora c’è stato un lento deteriorarsi della struttura dei network tipica della vecchia tv: i direttori di rete e i capistruttura che autonomia hanno oggi? Si dà  per scontato che la tv sia eterodiretta e non solo dalla politica. Colpisce per esempio che il banchiere Gotti Tedeschi chieda l’intervento del Vaticano sulle nomine Rai senza suscitare il minimo clamore.
Ombrelli protettivi che possono risultare comodi, a chi sta in questo recinto.
La crisi dei talk va in parallelo con quella del varietà . Oggi si basa tutto sulla logica dei format: l’equilibrio perverso che si è creato prevede che gli autori siano esterni al network e che le loro proposte siano attente soprattutto agli interessi del padrino di riferimento.
Nel sistema che tu descrivi agiscono però anche gli uomini. Voglio dire che un conduttore non vale l’altro e che il successo di un programma deriva anche dall’esperienza, dall’energia e dal carisma di chi lo dirige.
Storicamente i conduttori dei programmi di informazione sono personalità  molto forti, espressione di un punto di vista preciso: penso a Giuliano Ferrara, a Gad Lerner, a Maurizio Costanzo e allo stesso Bruno Vespa. Di figure così ne abbiamo sempre di meno.
Spesso i conduttori non hanno le spalle abbastanza forti per opporsi ai padrini politici.
Con tutti i suoi difetti, lo star system è stato un elemento di ostacolo al controllo verticale del potere perchè nessuno di questi protagonisti (uno per tutti Enrico Mentana) si è arreso al ruolo di mero esecutore.
Non hai l’impressione che agli spettatori piaccia sempre di meno il dibattito tra i soliti nomi e che maggior gradimento abbiano i reportage e le inchieste?
Si investe poco in queste produzioni perchè, oltre ai costi piuttosto elevati, hanno un risultato incerto: l’inchiesta “funziona” solo quando è deflagrante e finisce sui giornali. Abbiamo chiuso la scorsa stagione di Servizio Pubblico producendo sei speciali di montaggio su temi caldissimi come la trattativa Stato-mafia e il peso della camorra sull’economia meridionale. Hanno avuto ottimi ascolti ma nessun editore è venuto a chiederci di investire su un prodotto del genere. La tv riflette l’atteggiamento della classe dirigente a cui manca la visione per ideare programmi nuovi. E in questo i talk sono elementi più dinamici rispetto ai telegiornali: le verità  vengono sempre fuori dai programmi di approfondimento. Se il talk è in crisi o addirittura morto, i tg sono forse vivi?
Servizio Pubblico fa paura a tanti leader politici. È vero che molti non vengono per paura di Marco Travaglio?
Per loro l’ingresso in quell’arena significa dare legittimità  a chi li accusa e li critica. Lo stesso Berlusconi venendo in trasmissione ha segnato la sconfitta dell’editto bulgaro, questo era la grande novità  che nessuno ha valorizzato.
Chi vi ha criticato non voleva celebrare il successo di B. quanto piuttosto attaccarvi: dimostrare che eravate come tutti gli altri.
In Italia vige la leggerezza della critica televisiva, vale a dire non riuscire a leggere la televisione dentro i processi sociali e istituzionali del Paese. Con il vecchio sistema elettorale maggioritario un politico non poteva permettersi di non andare in tv. Doveva per forza assumersi le sue responsabilità  davanti all’elettorato. L’attuale classe dirigente, figlia del Porcellum e formata da nominati, è espressione chi di un padrone, chi di un partito. Personaggi che non devono rendere conto delle proprie azioni se non a chi li ha messi lì.
Oggi la tv somiglia a un “talent”: prima era un mezzo per far arrivare alla gente la voce dei partiti di massa o dei grandi leader. Ora, invece, a parte che di grandi leader non se ne vedono in giro, è la tv a fabbricarli.
L’immagine di Berlinguer colpito da ictus su quel palco di Padova rappresenta in maniera drammatica che cosa ha significato la sacralità  del leader: lui stava morendo e parlava con sempre più fatica ma nessuno dei suoi osava avvicinarsi per non intaccarne il carisma. Oggi il leader non è più un intoccabile, una figura divina. E ciò vale anche per i più potenti. Prendiamo Silvio Berlusconi: la leggenda vuole che la sua forza discenda da un’eccellente capacità  di comunicare. Non è così. Penso invece che lui abbia individuato un blocco sociale di interesse al quale far riferimento, dopodichè si è affidato ad un esercito di pasdaran e al blocco delle sue televisioni: senza le tv non avrebbe potuto incidere così tanto sul sistema.
Renzi e Grillo quanto possono essere considerati dei leader mediatici?
Renzi cerca il sostegno della gente puntando sulle capacità  di comunicatore, vere o gonfiate che siano. Si torna quindi alla logica del talent: il sindaco di Firenze è come il vincitore di X-Factor e non importa che si confronti o meno con gli elettori. L’esperienza di Beppe Grillo, invece, assomiglia al modello Berlusconi: ha costruito una macchina capace di intercettare l’umore del web e di incanalarlo in una forza politica. Gode di una posizione dominante anche perchè l’estrema frammentazione della rete favorisce il più forte.
Torniamo a Servizio Pubblico, riuscirà  a mantenere i livelli di ascolto e il forte impatto sull’opinione pubblica?
Veniamo da due stagioni pazzesche prima con l’esperimento sulla piattaforma delle tv locali, poi con l’arrivo su La7 dove in termini di ascolto siamo stati spesso la seconda o la terza rete e, in un paio di volte, la prima. Cosa faremo? Ci saranno delle novità , nuove sperimentazioni. Proveremo a rompere tutti i ritmi del talk. Sono convinto che il mondo che raccontiamo sia destinato ad essere sconvolto da cambiamenti precisi. E a ciò dobbiamo essere preparati. E’ come fare surf sull’oceano cercando l’onda giusta.

(da “il Fatto Quotidiano“)

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DA NEW YORK LETTA SFIDA SILVIO: “ANDIAMO IN PARLAMENTO LA PROSSIMA SETTIMANA E VEDIAMO SE CI VOTANO CONTRO”

Settembre 26th, 2013 Riccardo Fucile

“BASTA RICATTI”: IL PREMIER METTE IL PDL ALL’ANGOLO… IL TITOLO MEDIASET CROLLA IN BORSA…CONFALONIERI TENTA DI RICUCIRE LO STRAPPO DEL PDL PER SALVARE L’AZIENDA

“Se vogliono buttare giù il governo se ne devono assumere la responsabilità  di fronte al Parlamento e al paese”.
In contatto costante con Roma Enrico Letta spiega da New York che stavolta di fronte al ricatto di Berlusconi c’è una sola possibilità : sfidarlo in Aula e parlamentarizzare la crisi.
L’idea è di chiedere un voto di fiducia già  la prossima settimana.
È il “piano” condiviso col Quirinale impegnato nel tentativo di contenimento: “Se oggi non rientra la minaccia di Berlusconi — spiega un ministro del governo vicino a Letta — allora la prossima settimana si va in Parlamento e vediamo se il Pdl vota contro”.
È appeso a un filo il tentativo di far rientrare la crisi.
A quello che sta facendo Napolitano, che oggi al Quirinale incontrerà  i capigruppo del Pdl per un ultimo avviso.
Se non verranno fornite precise garanzie, e non generiche buone intenzioni, allora la verifica si fa in Parlamento.
Già , nella giornata di martedì.
Con Letta pronto a inchiodare il Pdl a un voto di fiducia: o dentro o fuori. E se è fuori non è per motivi economici o per l’Iva su cui le coperture ci sono, ma perchè Berlusconi — di fronte alle condanne — sceglie la linea del muoia Sansone con tutti i filistei.
Enrico Letta è categorico.
Stavolta non si può far finta di niente, e dire “abbiamo scherzato”.
Un segnale del clima che si vive nel governo è gelo tra Franceschini e Alfano materializzatosi nella telefonata di stamattina.
Anche Enrico Letta rimprovera al suo vicepremier il doppio registro di chi fa il responsabile dentro il consiglio dei ministri, e quando esce cambia casacca e va a battere le mani a chi minaccia le dimissioni.
Perchè quello che non ha funzionato nelle ultime ore è stata proprio la “parola” di Angelino. Che dava rassicurazioni a Franceschini dentro le stanze del governo per poi uscire e partecipare a una manifestazione dai toni “eversivi”.
Ecco la scelta di mettere il Pdl di fronte alle proprie responsabilità , e di parlamentarizzare la crisi.
Prima che la Giunta del Senato voti la fiducia.
È quando Letta rientrerà  stanotte da New York che sarà  dato il via liberta al piano dopo un confronto col capo dello Stato, impegnato in un’azione di contenimento.
Non è sfuggito a palazzo Chigi che in queste ore si è già  messo in moto il “partito Mediaset” con l’intento di frenare una crisi che Doris e Confalonieri vedono come devastante per le aziende.
È sempre Mediaset l’unico argine tra Berlusconi e la crisi. È bastata la fiammata delle dimissioni per far crollare il titolo che a mezzogiorno era già  a meno tre.
Molto però dipende dalle parole e dagli atti del partito di Berlusconi.
Le dichiarazioni contro Napolitano di Bondi, Santanchè e dell’ala dura di certo non aiutano a far rientrare l’incidente.
Nè Letta può essere indifferente all’insofferenza che arriva dal Nazareno: “Salva te stesso e l’onore” è il messaggio.
Il capogruppo Roberto Speranza ci va giù duro: “La minaccia del Pdl è gravissima, serve un chiarimento vero, forte e definitivo sia sul piano politico che istituzionale”. Già , definitivo.

(da “Huffington Post”)

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