Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
BERLUSCONI AI FALCHI: “HO BISOGNO DI TENERE IL PARTITO UNITO FINO ALLA DECADENZA, DOVETE FARVENE UNA RAGIONE”
«È una trappola, Presidente, non possiamo accettarlo. Non abbiamo alcuna garanzia che non apriate la crisi, se è così ce ne andiamo».
Alfano rigetta l’ultimo tentativo di mediazione offerto da Berlusconi al termine di una nuova giornata campale, fitta di vertici e assemblee che disegnano la geografia di due partiti ormai distinti.
Ma l’ultima parola non è ancora scritta.
Sono le 21 quando il vicepremier varca per l’ennesima volta il portone di Palazzo Grazioli. Ha da poco concluso l’assemblea nei locali della Camera di via della Mercede alla quale prende parte la cinquantina tra senatori e deputati intenzionati a confermare la fiducia al governo.
Conclusa con un solo punto fermo: la richiesta a Berlusconi che rinvii «motu proprio”, per dirla con il senatore Paolo Naccarato, il Consiglio nazionale di sabato che si preannuncia fin d’ora una resa dei conti da sangue e arena.
Alfano al Cavaliere si presenta con un ramoscello d’ulivo, in una mano, e con un foglietto con tre condizioni ben sottolineate, nell’altra.
È il mandato che ha ricevuto dagli altri colleghi ministri, Lupi, Quagliariello, De Girolamo e Lorenzin: se davvero quella sorta di congresso si dovesse tenere, allora il leader dovrà confermare la sua fiducia al governo del 2 ottobre, dunque niente crisi anche in caso di decadenza, tenendo ben distinti i due piani.
Punto secondo, garantire equilibrio ai vertici del nuovo partito, ovvero prevedere due coordinatori (oltre alla carica di vicepresidente per lo stesso Alfano): uno in rappresentanza dei “lealisti”, uno degli “innovatori”, che avranno pari poteri al momento della stesura delle liste elettorali.
Via libera al passaggio a Forza Italia, ma i governativi non possono accettare il semplice azzeramento di tutte le cariche e il potere monocratico nelle mani di Berlusconi.
«Se così fosse – ragiona il ministro dell’Interno a margine dell’assemblea coi suoi parlamentari, prima di raggiungere Palazzo Grazioli – finiremmo tutti nelle mani di Verdini e della Santanchè e saremmo rasi al suolo».
Dunque, se prima dell’appuntamento di sabato non sarà siglato un accordo su questi due snodi, allora i ministri e i loro parlamentari non si presenteranno nemmeno all’appuntamento di dopodomani.
Ma soprattutto, «la scissione e la creazione dei nuovi gruppi sarà immediata», è l’avvertimento.
Che poi, intenzionati a dare forfait comunque sono in tanti, da quella parte. Convinti che Berlusconi abbia deciso già di fare piazza pulita di tutti i senatori e i deputati in carica, per lasciare spazio alle nuove leve. Per loro non ci sarà più spazio. Quagliariello, Sacconi, Cicchitto sono tra coloro che avrebbero pure scelto di disertare la kermesse da one man show di sabato all’Eur.
Ma ci sono dei passaggi da consumare prima.
Al faccia a faccia con Angelino, in realtà , Berlusconi si è presentato con una proposta di mediazione.
L’hanno battezzata «mozione Capezzone», maturata al termine del tribolato vertice andato in scena a ora di pranzo a Palazzo Grazioli e durato oltre tre ore.
Il capo, che in mattinata aveva già ricevuto per due ore il ministro Nunzia De Girolamo, incontra assieme a Gianni Letta i falchi Santanchè e Verdini, il lealista Fitto, i mediatori Paolo Romani, Altero Matteoli e Maurizio Gasparri.
«Io ho bisogno di tenere il partito unito fino alla decadenza, dovete farvene una ragione» è la sua tesi.
E l’escamotage ideato, col concorso di Capezzone appunto, sarebbe quello di annunciare in Consiglio nazionale il passaggio a Forza Italia, rivendicare i valori di libertà e leorigini del ’94, ma sorvolando sul governo e sulla sua decadenza.
«Farò un discorso alto» spiega ai commensali. Suscitando le ire di falchi e di Fitto in particolare: «Sono dei traditori e se tu accetti di spostare il Consiglio nazionale ti consegni mani e piedi ai carnefici». Di più.
I lealisti, pretendono che sabato si vada alla resa dei conti. Proprio su governo, legge di stabilità e decadenza, gli scogli che il Cavaliere vorrebbe prudentemente schivare.
Ma su questa linea Berlusconi sembra abbia tenuto il punto, ribattendo a muso duro: «È da vent’anni che medio, lo devo fare e lo farò anche questa volta».
In mattinata lo aveva colpito il documento con cui si era presentata a Palazzo il ministro De Girolamo, finora la più vicina dei cinque al leader.
Sostegno al Berlusconi leader ma anche al governo, firmato da 250 tra sindaci, assessori, consiglieri del Sannio.
Non sarà stato quello l’ago della bilancia. Ma è ai numeri che guarda in queste ore l’ex premier. «Quanti sono con me, quanti contro di me?»
E nella caselle degli avversari ormai inserisce tra i tanti anche il ministro Quagliariello, «che continua a rilasciare interviste contro di me anche ai giornali dei comunisti, sono colombe con gli artigli, di loro non posso più fidarmi. Se hanno deciso di andare, alla fine vadano pure».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
IL GIUDICE “DIVISIVO” CHE VA PUNITO (ANCHE SE NON HA COMMESSO REATI) PRIMA CHE DECADA IL PREGIUDICATO COLPEVOLE
Anzichè seguitare a trafficare intorno al giudice Antonio Esposito, cercando ogni pretesto per
punirlo, il Csm potrebbe dire chiaramente ciò che abbiamo capito tutti. Esposito si è reso “divisivo” perchè ha osato fare ciò che nessuno aveva mai fatto: condannare definitivamente Silvio Berlusconi.
Diversamente da plotoni di toghe che, al primo cenno del Quirinale, si mettono sull’attenti e sospendono processi, interrompono requisitorie, si bevono impedimenti-farsa, congelano udienze, rinviano camere di consiglio, Esposito ha obbedito soltanto alla legge.
Come presidente della sezione feriale della Cassazione, ha emesso la sentenza del processo Mediaset il 2 agosto, prima che scattasse la solita prescrizione.
E così ha disturbato la “pacificazione” ordinata da Napolitano e Letta jr. per tener buono il Caimano.
Dunque bisogna trovare il modo di punirlo, anche se non ha fatto altro che il suo dovere, anzi proprio per questo.
Il pretesto è noto: l’intervista apparsa sul Mattino il 6 agosto, intitolata “Berlusconi condannato perchè sapeva”.
Peccato che, nel testo concordato col giornalista, Esposito non parlasse mai di B.. Peccato che la domanda su B. fosse stata aggiunta dopo, senza il suo consenso, appiccicata a una risposta sull’infondatezza del “non poteva non sapere” nei processi. Peccato che le motivazioni depositate il 29 agosto siano totalmente diverse dai princìpi enunciati nell’intervista.
Ma non è bastata la prova provata che Esposito non ha mai anticipato le motivazioni della sentenza Mediaset.
Il Csm ha aperto un procedimento per trasferirlo d’ufficio (e dove, di grazia, visto che la Cassazione è competente su tutt’Italia?).
E il Pg ha avviato un’istruttoria disciplinare. Due iniziative che hanno alimentato il linciaggio sugli house organ della Banda B. Ma due iniziative illegali.
La prima perchè il trasferimento d’ufficio dipende da situazioni incolpevoli di incompatibilità ambientale, che prescindono dalle condotte volontarie (come le le interviste).
La seconda perchè la legge che regola i procedimenti disciplinari, la 269/2006, ritiene illecite solo le “dichiarazioni o interviste che riguardino soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione ovvero trattati e non definiti”.
E il processo Mediaset era già definito con sentenza definitiva. Ed Esposito non aveva neppure nominato il “soggetto coinvolto” (ma, se l’avesse nominato, non avrebbe commesso illeciti ugualmente).
Nei giorni scorsi Esposito ha appreso dai giornali, che riprendevano un lancio di agenzia, che la sua pratica di trasferimento stava per essere archiviata, e con quale motivazione.
Bel paradosso: il Csm anticipa a mezzo stampa la sentenza su un giudice accusato di aver anticipato a mezzo stampa una sentenza.
Il relatore ha smentito di averla spifferata lui. Ma ieri s’è scoperto che il verdetto corrisponde alle indiscrezioni.
Dunque qualcuno dal Csm l’ha fatto uscire prima. Peccato che l’interessato non ne sapesse nulla: del resto non l’hanno neppure ascoltato per consentirgli di difendersi. Alla fine, con 17 Sì, 2 No e 5 astenuti, il Plenum ha deciso di non trasferirlo.
Ma ha trovato comunque il modo di sputtanarlo: “Il comportamento può integrare profili disciplinari, deontologici e professionali, da affrontarsi eventualmente nelle sedi competenti”.
Anche se la legge non lo prevede.
Perchè fosse tutto ancor più chiaro, i signori del Csm hanno infilato nella delibera l’ultimo monito di Napolitano alle toghe: “misura e riservatezza“, niente “fuorvianti esposizioni mediatiche” nè “atteggiamenti protagonistici e personalistici”.
Come se i moniti valessero più delle leggi.
Immediata l’esultanza del laico del Pdl Niccolò Zanon, che è pure uno dei 35 saggi ricostituenti di Letta & Napolitano: “Il lato positivo è che la delibera parla di aspetto disciplinare. Speriamo che la Procura generale faccia quello che deve fare”.
Se si danno da fare, magari riescono a punire il giudice innocente prima che decada il pregiudicato colpevole.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
IL TENENTE DI BELLO: “IL MOVIMENTO E’ SOLO UN PRODOTTO DI MARKETING, GRILLO E’ AUTORITARIO”… “LA MIA CONDANNA E’ UNA MEDAGLIA AL MERITO PER AVER DIFESO IL MIO TERRITORIO”
Da candidato di punta del Movimento 5 Stelle per le elezioni regionali in Basilicata a “traditore”.
Il tenente Giuseppe Di Bello, escluso dalla campagna elettorale perchè condannato in primo grado e quindi con un profilo che tecnicamente va contro le regole per le candidature grilline, si è sfogato a Montecitorio in una conferenza stampa organizzata da Sinistra ecologia e libertà .
Attivista della prima ora e noto per le sue battaglie per l’ambiente, ha vinto le “primarie M5S” online nell’ottobre 2013: poche ore dopo essere stato scelto come portavoce però, ha ricevuto una chiamata dal leader.
“Hai dichiarato il falso”, gli avrebbe detto al telefono, “Al tuo posto subentra il secondo classificato, Piernicola Pedicini“.
Motivo? La condanna in primo grado a due mesi e 20 giorni per rivelazione di segreto d’ufficio: ha fatto trapelare i risultati dei campionamenti dell’invaso del Pertusillo e denunciato (fuori dall’orario di lavoro) l’inquinamento delle sue terre.
“Sono stato escluso”, ha dichiarato Di Bello, “dalla corsa elettorale per una condanna in primo grado che per me è una medaglia al merito. E la cosa ancora più grave è che io avevo avvisato lo staff di Grillo e Casaleggio ben prima di partecipare alle primarie. Sapevano della mia situazione e mi hanno fatto passare per uno che dichiara il falso”.
E ha continuato: “Sono stato cacciato con grande autoritarismo ma anche in modo truffaldino: mi ha detto che dovevo fare un passo indietro — sostiene Di Bello — così il secondo arrivato sarebbe diventato primo e poi in qualche modo ci si sarebbe accordati”. Di Bello così ha lasciato il Movimento e fondato alcune liste civiche.
Sinistra ecologia e libertà ha sposato la battaglia del tenente.
“Di Bello è un esempio in Basilicata — ha assicurato la candidata alla presidenza lucana per Sel Maria Murante — da sempre in prima linea con le sue battaglie ambientali”.
Che gli sono costate la condanna in primo grado che ha sancito la fine della sua storia con il Movimento 5 Stelle.
Di Bello, di sua iniziativa, ha fatto dei campionamenti delle acque dell’invaso del Pertusillo, “una risorsa — spiega — destinata ad uso potabile per ben 3,5 milioni di cittadini tra Puglia e Basilicata. La qualità dell’acqua risulta precipitata vertiginosamente a causa delle grandi multinazionali che in quella area prelevano petrolio: dalle analisi risulta evidente la presenza di metalli pesanti e idrocarburi”.
Ma Di Bello, all’epoca comandante della Polizia provinciale, viene “denunciato dall’assessore all’ambiente del Pd, dapprima per procurato allarme — spiega — poi, quando l’acqua si fa di colore rosso e migliaia di pesci cominciano a salire a galla morti, per rivelazione di segreto d’ufficio”.
Di Bello, a causa della condanna, viene demansionato, “da comandante a tenente in un museo”. Così, sentendosi vittima del sistema e della politica, si avvicina al M5S.
“Grillo mi chiama al telefono per intervenire a due comizi a Matera e Potenza — ha raccontato — mi presenta come il tenente caposaldo della Basilicata, ‘altro che Papaleo’, dice.
Divento attivista a tutti gli effetti e intanto continuo la mia battaglia con i campionamenti delle acque”.
Poi arrivano le primarie e Di Bello, prima di presentare la propria candidatura, chiama “lo staff dei 5 Stelle per capire se c’erano problemi per quella condanna, invio dunque tutta la documentazione del caso coinvolgendo persino i parlamentari M5S”.
Tutto fila liscio, “vengo certificato per essere candidato portavoce in Regione”. Arrivano le selezioni online e Di Bello, forte della sua celebrità sul territorio, sbaraglia tutti gli altri. Ma qui cominciano i guai.
“Prima vengo chiamato dal deputato Vito Petrocelli che mi preannuncia problemi e una telefonata in arrivo — racconta — poi mi chiama Grillo che, in modo scortese e insensibile ad ogni rapporto umano, mi dice che devo fare un passo indietro”, perchè tanto “in qualche modo ci si mette d’accordo. Poi aggiunge che anche lui è stato condannato, ma io a differenza sua ho una sentenza in primo grado che è una medaglia al merito, due situazioni completamente diverse”, ha rivendicato.
“Lì mi risveglio dal sogno — dice — capisco che il M5S è solo un prodotto di marketing, non serve a cambiare il Paese”.
Di Bello è passato al contrattacco e presenta delle sue liste civiche, ma ben quattro vengono ricusate.
Alla fine ricorre al Tar ma la spunta per una sola lista.
A Grillo oggi Di Bello rimprovera di portare avanti solo battaglie populiste, ma di tirarsi indietro davanti agli interessi delle grandi multinazionali. Corporation del petrolio comprese.
Migliore rincara la dose: “Noi siamo dalla parte di chi denuncia la casta, ma anche quella economica e finanziaria, non soltanto quella politica di cui non facciamo parte. Grillo su questi temi resta sempre in silenzio, le multinazionali per lui non si toccano. Quando si pestano i piedi alle corporation, chissà come mai, non troviamo mai nè Grillo nè il Movimento 5 Stelle”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
L’IDEA DEI MARONIANI CONTRO BOSSI
“Chi sarà presidente è l’ultima delle mie preoccupazioni. Ma voglio dire una cosa. Se sarò eletto il
primo di tutti che voglio coinvolgere è Giancarlo Giorgetti. Sarà alla guida della Lega con me”.
È Matteo Salvini, in un’intervista ad Affariitaliani.it, a lanciare un sasso nel magma leghista che si sta muovendo intorno al Congresso del prossimo 7 dicembre.
A preoccupare il variopinto mondo che ruota intorno a Bobo Maroni, artefice della discesa in campo dell’europarlamentare, è la mina vagante rappresentata dalla candidatura di Umberto Bossi.
“Matteo è in largo vantaggio – spiega un dirigente leghista – ma il senatùr è una variabile impazzita. Non è possibile calcolare i tanti dei nostri che, al netto degli sviluppi della Lega negli ultimi mesi, andranno a votare appositamente per scrivere il suo nome, soprattutto nell’elettorato della prima ora”.
Così, se da un lato l’attuale presidente del Carroccio preoccupa Salvini, dall’altro una parte del mondo maroniano sta cercando una soluzione che permetta ai colonnelli di mantenere la propria autonomia a prescindere dal segretario in pectore.
Una fonte leghista, racconta dello strano triangolo che si sta cercando di comporre in questi giorni.
“L’accordo vedrebbe Salvini segretario, Giorgetti presidente federale e Giacomo Stucchi a guida della Lega lombarda”.
L’uomo chiave è proprio Stucchi. Il presidente del Copasir, maroniano di lungo corso, si è candidato in concorrenza con Salvini.
Una candidatura che spaventa il favorito. Se a Milano il consenso dell’europarlamentare appare plebiscitario, nelle altre province lombarde il senatore potrebbe erodergli non pochi consensi.
Non così tanti da insidiare direttamente le posizioni di Salvini, ma abbastanza da metterlo in difficoltà in caso di exploit del senatùr.
Qui la situazione si fa ingarbugliata.
Perchè Stucchi, maroniano, metterebbe i bastoni tra le ruote al candidato sponsorizzato da Maroni? Il fatto è che Salvini segretario preoccupa parte del Carroccio.
Quella che fa capo a Flavio Tosi, su tutti, ma anche parte dell’inner circle maroniano. Non è un caso che il sindaco di Verona abbia lanciato la sua candidatura alle primarie del centrodestra nella Mantova di Giovanni Fava, altro uomo legato a Bobo.
Dunque? “Dunque – continua la fonte del Carroccio – parte degli uomini di Maroni strizzano l’occhio a Tosi: hanno avanzato la candidatura di Stucchi, ma l’obiettivo è quello di trattare per la presidenza della Lega lombarda”.
Se il cerchio dovesse chiudersi, il presidente del Copasir potrebbe anche ritirarsi, mettendo così al riparo Salvini dall’insidia rappresentata da Bossi.
Maroni otterrebbe così la sua vittoria congressuale, e i maroniani ‘scettici’ e gli uomini di Tosi avrebbero la propria contropartita nella marcatura stretta che si realizzerebbe con Stucchi alla guida dei lombardi e Giorgetti garante del patto di sindacato.
Proprio il capo dei deputati sarebbe stato il candidato intorno al quale coagulare il maggior consenso, ma lo storico dirigente leghista non ne ha voluto sapere.
In molti, dalle parti di via Bellerio, leggono le parole di Salvini (“Giorgetti sarà alla guida della Lega con me”) come un segnale che l’accordo sarebbe in via di definizione.
Tanto più che mentre Flavio Tosi si tiene in disparte, Roberto Cota ha sciolto gli indugi: “Appoggerò Matteo perchè lo ritengo una persona in gamba. Penso che in Piemonte otterrà un ottimo risultato”.
(da “Huffington post”)
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Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
GLI ALTRI CANDIDATI PRONTI A SFILARSI… LA LINEA POCO ISTITUZIONALE DI SALVINI NON CONVINCE IL GRUPPO DEI SINDACI….ZAIA: “RISCHIAMO DI ANDARE AL MASSACRO”
Umberto Bossi che non molla e insiste con la sua candidatura «perchè la Lega va male e va rimessa in sesto», Gianluca Pini che viene escluso per un vizio di forma e presenta ricorso al segretario federale «per far prevalere il buonsenso contro i cavilli italici», il pressing per far ritirare la candidatura di Giacomo Stucchi e infine Roberto Maroni che sente il dovere di fare il suo endorsement per Salvini («spero che la base lo indichi come segretario»).
La sintesi perfetta per descrivere la Lega in versione precongressuale è quella del presidente veneto Luca Zaia: «Con questa mischia al centro rischiamo di andare al massacro».
Lo stesso Flavio Tosi l’ha capito e si è fatto da parte, per evitare di restare invischiato in una lotta tra microfrazioni.
Candidato unico
Per la prima volta nella storia del Carroccio, il ruolo di segretario è conteso tra più persone. Non è mai stato così — ovviamente — nell’era Bossi, ma non è stato così nemmeno lo scorso anno, quando la platea del congresso ha eletto (quasi all’unanimità ) l’unico candidato, Roberto Maroni, dopo il discorso di Bossi che con la citazione biblica di Re Salomone aveva puntato sulla necessità di dare unità al partito.
Oggi è tutta un’altra storia e il partito è frazionato non solo in correnti interne, ma in fazioni diverse tra le stesse correnti.
Per intenderci: non esistono più i maroniani, compatti, contrapposti ai bossiani, come succedeva fino allo scorso anno.
Anche nella componente che si è sempre stretta attorno al segretario uscente ci sono divisioni, prevalentemente di tipo geografico, ma non solo.
La base e le istituzioni
Matteo Salvini è indubbiamente il candidato più accreditato alla vittoria finale, anche se i malumori verso “il Renzi leghista” (copyright di Maroni) sono forti.
Ma le altre candidature (eccezion fatta per quella di Bossi, che merita un discorso a parte), dovrebbero azzerarsi da qui al 30 novembre, quando ci sarà la presentazione ufficiale dopo la raccolta firme.
Gli altri dirigenti che si sono fatti avanti hanno voluto dare un messaggio a Salvini: attenzione, la Lega del futuro dovrà sì avere una componente “movimentista” (che Salvini incarna benissimo), ma anche cercare di mantenere un profilo istituzionale.
Per intenderci: sì al fazzoletto verde al collo, ma anche alla pochette nel taschino della giacca. È questo il senso della candidatura di Giacomo Stucchi, per esempio, che rappresenta le istanze di una cinquantina di sindaci bergamaschi e non solo che non si sentono troppo rappresentati da Salvini.
Oppure quella di Manes Bernardini, in campo per ricordare che i confini della “Padania” non si limitano a Piemonte, Veneto e Lombardia.
Verso il passo indietro
Oggi sono in campo, tra tre settimane – se Salvini presentasse un programma soddisfacente – magari no.
Lo stesso Stucchi, il più “pericoloso” tra gli sfidanti di Salvini, non pare intenzionato a restare aggrappato alla sua candidatura.
Continuerà a fare il presidente del Copasir, magari verrà promosso a presidente della Lega Lombarda, ruolo ora occupato da Salvini.
E anche il “caso Pini” potrebbe presto rientrare: il romagnolo ha fatto ricorso contro il rigetto della sua candidatura e si vocifera che presto sarà reintegrato da Maroni, a patto che anche lui faccia un passo indietro per lanciare Salvini.
Il consigliere del varesotto, Roberto Stefanazzi, è visto un po’ come “il Pittella” della Lega e non sembra in grado di raccogliere molti consensi.
Il vero ostacolo
Sulla strada di Salvini, dunque, sembra esserci soltanto Umberto Bossi. In nome dell’unità del movimento invocata dallo stesso Senatùr in occasione dell’elezioni di Maroni, tutti sperano in un gesto eclatante del vecchio Capo: un passo indietro e la benedizione per Salvini, un personaggio di certo non ostile a Bossi.
Anche perchè la corrente pronta a dare anima, cuore e voto per lo storico leader è nettamente minoritaria e andare alla conta potrebbe essere umiliante.
Ma l’imprevedibilità di Bossi, e di chi lo circonda, rischia di complicare le cose. E riaprire i giochi anche per gli altri candidati, che in quel caso potrebbero portare avanti la loro corsa fino al 7 dicembre in un devastante gioco al massacro.
Marco Bresolin
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Novembre 14th, 2013 Riccardo Fucile
SILVIO AZZERA TUTTI, MA ALFANO NON MOLLA, DIFFICILE CENA TRA I DUE CHE NON VOGLIONO ROMPERE MA NON POSSONO RIAPPACIFICARSI
Evitare la scissione rilanciando Forza Italia con pieni poteri al Capo e incarichi azzerati attorno. E
lasciare il governo in una zona d’ombra. Senza forzare su legge di stabilità e decadenza.
È questa l’ipotesi di accordo che Silvio Berlusconi offre a un partito che pare un Vietnam.
E che, al momento, non convince nessuno.
Perchè i lealisti di Fitto, in questo modo, non ottengono che i rapporti di forza si traducano in organigrammi e linea politica.
Forti di oltre seicento firme si ritroverebbero a cantare Menomale che Silvio c’è insieme agli altri che di firme ne hanno meno, senza avere garanzie sul ritorno all’opposizione.
Ma è un accordo che turba soprattutto i nervi di Alfano.
Perchè Angelino uscirebbe azzerato, e senza quelle garanzie sul governo in nome delle quali ha lanciato il guanto di sfida al Cav.
Ecco perchè prima della riunione della sua corrente i più determinati tra i suoi lasciano intendere che senza un “accordo chiaro” l’ipotesi di disertare il consiglio nazionale è ancora in campo.
È nel corso di un pranzo con Fitto, Romani e Daniela Santanchè che il Cavaliere spiega però che il suo primo obiettivo è ricondurre a unità il partito, per portarlo unito al voto sulla decadenza, quando sarà : “Una scissione non porterebbe da nessuna parte — ha ripetuto — e non voglio trasformare il rilancio di Forza Italia in un bagno di sangue”.
Una soluzione dolce che consente di siglare una tregua interna e di valutare le mosse in attesa del voto sulla decadenza.
È la cacciata dal Senato a scandire tempi e mosse del Cavaliere, prima ancora di quella legge di stabilità che considera una “schifezza”.
Convinto che possa slittare a dicembre o anche dopo l’ex premier considera sbagliato scegliere adesso e appiccarsi a una linea.
Ecco perchè mentre cena con i giovani falchi pronuncia parole incendiarie sul governo: “Non possiamo collaborare coi nostri carnefici dopo che compiono il mio omicidio politico”.
Ma poi, quando all’una di notte si chiude nella sua lussuosa stanza a San Lorenzo in Lucina con Verdini e Daniela Santanchè si abbandona a una confidenza che lascia impietriti i due falchi: “Io di far cadere questo governo non ho voglia”.
LA MEDIAZIONE
La mediazione che propone Berlusconi sul partito è in fondo quella che più si adatta a un’indole divisa tra l’istinto del “falco” e quello della “colomba” a seconda del tipo di volo più conveniente al momento: il partito ai comandi di un uomo solo che decide quello che è più opportuno di fronte all’appuntamento decisivo.
Più situazionista che stratega, il Cavaliere pensa di essere l’unico elemento unificante e pacificatore del grande zoo pidiellino.
E di riuscire, ancora una volta, a rappresentare l’elemento di garanzia di tutti, da Fitto ad Alfano.
È davvero il grande ritorno a quella che Giulio Tremonti chiamava “una monarchia temperata da un altissimo grado di anarchia”.
È chiaro che quello che ha più da perdere in uno schema del genere è Alfano, che non si troverebbe più nelle condizioni di dare garanzie a Letta sul governo.
Dipende da lui la tregua interna.
Se questa sera, dopo la riunione della sua corrente, si presenterà a palazzo Grazioli alzando l’asticella e mettendo in discussione la proposta del Cavaliere, a quel punto sarà Berlusconi a cacciare dal cassetto il discorso della rottura col governo.
È un accordo politico alla luce del sole quello che Angelino Alfano chiede per accettare di partecipare al Consiglio nazionale del Pdl. Un patto chiaro sul governo e sul partito: “Io sono sempre stato per l’unità e la voglio davvero. Ma il governo Letta deve andare avanti per il bene del paese anche in caso di voto sulla decadenza”.
Quando il vicepremier nel tardo pomeriggio riunisce la corrente dei filo governativi nelle sale riunioni della Camera in via della Mercede riceve un mandato preciso.
Col quale andare a trattare nel “faccia a faccia” con Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli previsto per la sera.
Il mandato è destinato a entrare in rotta di collisione con la proposta del Cavaliere, tesa a celebrare l’unità del partito attorno a sè glissando sulla questione del governo.
E il mandato di Alfano consiste nel fatto che dal consiglio nazionale di sabato deve uscire un messaggio rassicurante per l’esecutivo delle larghe intese.
I modi per veicolare il messaggio possono essere affidati alla fantasia della politica: un documento che impegni la rinata Forza Italia a sostenere il governo; un voto a un discorso che contenga questo impegno. O altre diavolerie del caso.
Ma la “sostanza” politica non è in discussione.
Nel corso della riunione in molti chiedono un rinvio del Consiglio nazionale. Altri sono per la conta. Alfano non vorrebbe rompere.
E non è un caso che nel corso della riunione eviti di forzare nei toni. E suoni lo spartito della vittima: “Ho ricevuto il solito fuoco di dichiarazioni offensive e già questo dà la misura di un problema e ciò accade ogni volta che il presidente Berlusconi butta il ponte levatoio nel tentativo di costruire una nuova unità ”.
Anche quando lascia intendere che potrebbe non presentarsi al consiglio nazionale lo fa con la deferenza di chi chiede permesso: “Quando ho spiegato che non vogliamo rovinare la festa di sabato, volevo dire che sabato deve essere una festa perchè Berlusconi la merita”.
E non è un caso nemmeno che nel corso della riunione non venga presentato alcun documento ufficiale dei “filo-governativi”.
Segno che Alfano vuole provare a trattare usando toni dolci più che la pistola sul tavolo.
Anche se il punto politico è chiaro: senza “garanzie” per sè e per il suoi Alfano non si metterà a cantare Menomale che Silvio c’è.
Anche perchè è sicuro che a livello parlamentare i suoi consensi stanno crescendo tra i senatori che hanno paura di perdere il seggio a causa delle crisi di governo e che interpretano le iniziative del Cavaliere con i giovani come un anticipo di rottamazione.
(da “Huffington post“)
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