Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
STASERA ACCENDERO’ DUE TV: PER MANDARE A WAFFANCULO GLI AMICI DELLE LOBBIE AMERICANE, I CANDIDATI PREMIER INQUISITI, I PATACCARI PADAGNI E I RIVOLUZIONARI DA BAR
Sembra che la politica italiota stasera si concentri sul boicottaggio al discorso del Presidente Napolitano: politici diventati comici sputacchieranno dal web, razzisti padagni guarderanno i cartoni animati di Peppa Pig (richiamo della foresta?), i forzisti sono già divisi tra chi vuole spaccare il telecomando e chi vuole accendere le candele sotto lo schermo.
Sul web gli “incazzati contro il mondo” postano inviti a spegnere la Tv come grande atto rivoluzionario, se mai dovessero assaltare una prefettura scapperebbero come scheggie al primo petardino o fialetta puzzolente.
Contro il “vecchio” Napolitano che almeno un’idea in vita sua l’ha avuta (anche se opposta alla mia) si scatenano orde di giovani zombi viventi in nome del “nuovo”, eversori dei massimi sistemi a parole e incoerenti nella vita quotidiana.
Con un guru in contatto con ambasciate straniere, un portavoce che insulta tutti ma non saprebbe sostenere (e infatti fugge) un confronto perchè è come quegli attori che sanno solo recitare il copione assegnatogli, un candidato premier con la bocca aperta che strilla banalità all’insegna del “o si cambia o si muore” e impartisce lezioni di morale dimenticando che è un condannato in primo grado per danno erariale.
Certo non è che Letta e Alfano ispirino particolare simpatia, ma agli italiani nessuno forse ha ancora detto con chiarezza che “siamo nella merda”: quindi chiunque governi potrò fare ben poco se non si agisce su un solo punto essenziale: l’evasione fiscale e la corruzione.
Insieme valgono 200 miliardi di euro: qua sta la differenza tra l’Italia e gli altri Paesi civili.
Con questa cifra annuale in cassa (e un governo di onesti e competenti) faremmo un mazzo così anche ai tedeschi, invece che sproloquiare sulle malefatte dell’euro.
Dall’altra parte chi troviamo?
Gli amichetti che nominano commercialista e nipote depositari del simbolo, che non hanno un organismo democratico per il rinnovo delle cariche, che fanno finta di rifiutare miliardi pubblici che non potrebbero mai incassare con una organizzazione dittatoriale interna come quella, sfascisti di vario colore, fascisti da macchietta, cazzari planetari, razzisti frustrati, becerume vario, quarantenni arrivisti in bici e adulatori trentenni del ciclista.
Questo sarebbe il nuovo che avanza?
E allora accendo anche la radio, oltre le due Tv, anzi mi sintonizzo per sfregio su Canale 5 o sul web per sentire le parole scontate dell’ex compagno Napolitano.
Aver costretto alle larghe intese per molti è una colpa?
In Germania dove viene fatto prevalere il senso dello Stato rispetto agli interessi di parte è una prassi dovuta se non ci sono alternative.
Non è colpa di Napolitano se abbiamo a che fare con partiti ridicoli.
Ultimo aspetto: Napolitano la grazia a un condannato che la pretendeva non l’ha concessa.
Ci dispiace per comici, travagliati, isteriche, destri e sinistri, che ci speravano per poi specularci sopra elettoralmente: avevamo ragione noi che fin dal primo momento lo avevamo escluso.
Basta quel ricordo per andare ad accendere anche la Tv della vicina di casa che ci ha lasciato le chiavi.
Alle 21.10 la rivoluzione sarà finita.
Andate in pace (e qualcuno affanculo).
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
UNO STUDIO DI QUATTRO ECONOMISTI INTERNAZIONALI RIVELA IL TREND POSITIVO DI INCASSI PUBBLICITARI COLLEGATI AL RUOLO DEL CAVALIERE
A Silvio Berlusconi, da primo ministro, non è mai mancata l’adulazione di chiunque avesse qualcosa da strappargli. Il fondatore di Forza Italia in questo non è stato un’eccezione nella politica prima e dopo di lui, nel Paese e fuori.
Ciò che lo distingue è che all’adulazione dei singoli, nel suo caso, si è unita quella di certe grandi imprese il cui futuro dipende dalle scelte del governo.
Nessuna di esse lo ha pagato direttamente quando era premier, ma in molte hanno versato sempre di più in inserzioni pubblicitarie alle sue reti quando il centrodestra era al potere.
Se Berlusconi non fosse mai stato premier, Mediaset avrebbe incassato in spot oltre un miliardo in meno solo fra il 1994 e il 2009.
La conclusione, dopo anni di lavoro sui dati Nielsen sull’andamento del mercato pubblicitario, è di quattro economisti di primo piano: Stefano DellaVigna dell’Università di California a Berkeley, Ruben Durante di Science Po a Parigi e Yale, Brian G. Knight della Brown University e Eliana La Ferrara della Bocconi.
Il loro è uno studio corroborato da dati e verifiche su come il conflitto d’interessi di un premier proprietario di un gruppo dei media vada oltre la possibilità di usare il governo per favorire le proprie imprese.
C’è anche quello che i quattro economisti chiamano il “lobbying indiretto”: l’aumento della spesa in pubblicità sulle reti del premier da parte di gruppi delle telecomunicazioni, del settore farmaceutico, della finanza o nell’industria dell’auto, per ingraziarsi Berlusconi e spingere il governo a prendere decisioni convenienti per loro.
Lo studio (“ Marked- based Lobbying: Evidence from Advertising Spending in Italy”) è pubblicato in questi giorni dal National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti, animato dal gruppo di economisti di maggior prestigio e influenza al mondo.
I quattro ricercatori hanno selezionato nei dati Nielsen le 800 imprese che hanno speso di più in pubblicità in Italia fra il ’94, il primo anno di governo di Berlusconi, e il 2009.
Sulla base di quei dati emerge che le fasi di governo del centrodestra (prima il ’94, poi il 2001-2006, infine il 2008-2009) coincidono con un cambiamento di tendenza: già in previsione del ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi la quota di inserzioni riservata a Mediaset, rispetto alla Rai, sale dal 62% al 66% e poi al 69% con la legislatura partita nel 2001.
L’incidenza torna a scendere durante il premierato di Romano Prodi fino al 2008 e risale fino al 70% quando Berlusconi torna al governo nella scorsa legislatura.
Per quale motivo ciò accada, lo fanno capire i quattro studiosi incrociando gli anni del centrodestra al potere e i flussi pubblicitari.
In particolare, il loro studio separa i settori più regolamentati, che dipendono dalle sceltedel governo, da quelli meno regolamentati.
Tra quelli più legati alle scelte politiche ci sono appunto la finanza e le assicurazioni, la farmaceutica, i media e l’editoria e l’auto (a causa degli incentivi all’acquisto di nuovi modelli).
Più indipendenti dal potere nazionale sono invece l’industria dei giocattoli, dell’igiene personale o del commercio al dettaglio.
E il risultato è sorprendente: l’acquisto di pubblicità sulle reti Mediaset da parte di gruppi nei settori regolamentati balza sempre negli anni in cui Berlusconi è al governo.
E supera quella dei settori meno regolamentati, come quota sul totale delle entrate da spot di Rai e Mediaset.
Secondo i quattro economisti, è evidente l’intento di banche, compagnie assicurative o società di telefonia di accattivarsi il premier comprando più spot (o spot più costosi) sulle sue reti.
Le entrate supplementari per Mediaset risultano così di 123 milioni l’anno sulla media di ciascuno dei nove anni di governo di Berlusconi presi in conto.
In modo speculare, calano invece gli introiti per la Rai. È dunque possibile che il governo abbia risposto favorendo i gruppi più munifici verso Mediaset, con un danno per altre imprese magari migliori e per l’economia in generale.
«L’investimento pubblicitario aggira gli obblighi di trasparenza del finanziamento ai partiti, ma può rivelarsi molto efficace», dice Ruben Durante da Yale.
Aggiunge Stefano DallaVigna da Berkeley: «Uno scambio di affari e favori fra società di Berlusconi e altre aziende è legale, ma solleva conflitti d’interesse di tipo nuovo».
Basterebbe una legge per regolare questi rischi: esattamente ciò di cui si continua a non parlare.
Federico Fubini
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
DALLA PUNTATA DI REPORT L’INIZIO DEL DECLINO: “TANTE NOTIZIE COSTRUITE AD ARTE CONTRO DI ME, MA MI DIFESI MALE”
“Mi candiderò alle Europee, perchè voglio riportare l’Italia dei Valori in tutte le istituzioni. Ma ci aspetta un 2014 difficile: un anno di rabbia e vetrine rotte”.
Il presidente onorario dell’Idv, Antonio Di Pietro, parla dalla sua Montenero di Bisaccia. Assicura: “Trascorro giorni sereni, facendo il contadino”. Ma per il futuro ha anche altri progetti.
L’anno che sta finendo è stato davvero duro per l’Idv, rimasta fuori del Parlamento. Di certo hanno inciso due fatti, dell’autunno 2012: la puntata di Report sul suo presunto impero immobiliare (“le 56 case di Di Pietro”) e l’arresto per peculato dell’ex capogruppo Idv presso la Regione Lazio, Vincenzo Maruccio.
Innanzitutto, io non provo rancore verso Report. Loro riportarono delle informazioni così come gliele avevano riferite certe persone, in parte già condannate. Io rilasciai alla trasmissione un’intervista in cui non mi dimostrai all’altezza della situazione. Feci una battuta ridicola, “mia moglie non è mia moglie”. Ora siamo in una fase di mediazione legale: ho chiesto in udienza a Report di poter fornire un’altra versione sulla base di nuovi documenti, con un’intervista. Vorrei una nuova trasmissione per spiegare come sono state costruite ad arte tante notizie contro di me. Per difendermi dal 1994 a oggi ho intentato 353 cause civili e penali, tra quelle definite con sentenza e i procedimenti in corso.
Maruccio, accusato di aver sottratto fondi per oltre un milione al partito, era un dipietrista doc. A molti è parsa la conferma della sua tendenza a sbagliare nella scelta dei dirigenti.
Ho commesso diversi errori. Alcuni madornali, come per De Gregorio: nel suo caso ho dimostrato di non aver letto i fondamentali di Lombroso. Detto questo, tutti parlano di Maruccio, ma io so che in tutti i consigli regionali ci sono tutti i partiti coinvolti in casi simili. E ancora: Razzi e Scilipoti cambiarono casacca, ma perchè non ricordano mai gli altri 9 che votarono per il governo Berlusconi? E Calearo (ex deputato Pd, ndr) con chi stava? Era sempre e solo Di Pietro a sbagliare le scelte?
Ma serviva più attenzione
Io mi prendo tutte le mie responsabilità . Tornassi indietro, certi candidati scelti solo perchè avevano un po’ di voti non li ripresenterei. Prima che facessero il boom alle scorse Politiche, lo dissi a Grillo e Casaleggio: fate in modo che non capiti a voi quello che è capitato a me. Ovvero, nella fretta di creare una classe dirigente, di occuparvi più del risultato che del conoscere bene sul campo i candidati. Approvo la loro idea di farsi le pulci tra di loro prima di rivolgersi all’esterno.
Gran parte dei voti dell’Idv sono andati a Grillo.
Certo, è così. Quando fondai Rivoluzione civile con Antonio Ingroia, brava persona ma poco scafata in politica, io ci credevo. Ma il cittadino vide in Rc un insieme di facce divergenti tra loro, ammucchiate, e alle Politiche andò male. Dopodichè, quando ho visto il risultato di Grillo, mi sono tranquillizzato.
Lei provò a fare un patto elettorale con lui?
Per sposarsi bisogna essere in due. A me avrebbe fatto piacere, ma rispetto la scelta di Beppe di non allearsi con nessuno.
Vi sentite spesso con lui e con Casaleggio?
Certo, ci siamo anche fatti gli auguri. Gianroberto è una persona seria e preparata, ha conosciuto la politica gestendo il sito dell’Idv: questo gli ha permesso di imparare pure dai nostri errori.
Le chiedono consigli?
No, non c’è bisogno. Non voglio mettere il cappello sui risultati altrui.
Ora lei vuole presentarsi alle prossime Europee. Ma la politica ha ancora bisogno di Di Pietro?
Ogni vita ha la sua storia, e io ne ho avute tante, di vite e di storie. Ora voglio fare il consigliere della nuova generazione dell’Idv, aiutarla a crescere. Il partito l’ho consegnato ai giovani con il congresso del giugno scorso che ha eletto Ignazio Messina segretario.
Chi sceglierà i vostri candidati?
Un comitato elettorale di 5 persone, di cui faccio parte, sottoporrà i nomi al segretario. I 72 nomi verranno poi messi sul nostro sito due mesi prima del voto, così il web ci aiuterà a fare un ulteriore controllo sui candidati.
Alle primarie lei voleva votare Renzi. Spera in un’alleanza tra il suo Pd e Idv?
Ho espresso la preferenza per Renzi perchè c’è un bisogno di ricambio generazionale. Non ho parlato mai di politica con lui, ma il segretario dell’Idv sta dialogando con il nuovo segretario del Pd.
Renzi farà saltare il governo?
Purtroppo no. Io penso che sarebbe meglio andare a votare il prima possibile, ma questo è un Parlamento di nominati: ci sono più Razzi e Scilipoti che mosche, lì dentro. Non gli permetteranno di dare lo stop.
Lei è sempre stato contrario alle larghe intese. Ma non c’è nulla da salvare?
Questo è solo un governo di abili venditori. Dicono sempre quello che faranno domani, mai quello che hanno fatto ieri. Quando parlano sembra di sentire la voce di Berlusconi.
A proposito: per il capo di Forza Italia politicamente è proprio finita?
Sì, anche se lui non ne vuole prendere atto, e sta ridicolizzando la propria figura.
Grillo invoca l’impeachment per Napolitano: è d’accordo?
Fui il primo a non condividere, anche da dentro il Parlamento, la posizione arrogante del presidente della Repubblica sul processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo, e nel sostenere che doveva dare il buon esempio presentandosi a testimoniare . Fu una delle ragioni per cui mi buttarono fuori dal centrosinistra: misero un veto sull’Idv per fare un piacere a Napolitano.
Ma da un punto di vista normativo, ci sono gli estremi?
Lo si è visto in queste ultime ore, sul decreto Salva Roma: di fatto, il presidente svolge anche un’attività di governo. Mi pare che questo non sia rispettoso della Costituzione. Al netto delle parole di Grillo un po’ sopra le righe, vorrei che si riflettesse sulla sostanza delle cose. Ma l’informazione blasonata elogia solo il grande vecchio che ha preso per mano l’Italia.
Il Paese brucia di rabbia: lei che ne pensa dei Forconi?
Mi dispiace molto vedere come sia stato rovinato un movimento spontaneo di persone e categorie disperate. Io andai alla prima manifestazione dei Forconi, in Sicilia, e mi sentivo a casa. Ma ora sono stati infiltrati da bande che li stanno trasformando in qualcosa di indecifrabile.
Che 2014 sarà ?
Ci sarà un aumento esponenziale di rabbia, e sarà l’anno delle vetrine rotte e delle auto incendiate. Diranno che esaspero gli animi, ma questa è la fotografia. Purtroppo.
Luca De Carolis
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
L’OBIETTIVO DI 12.000 CIRCOLI RIDOTTO A 6.000, MA ATTUALMENTE NON SAREBBERO NEANCHE 500… IL PROBLEMA E’ LA REGISTRAZIONE ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE CHE COSTA 200 EURO
«Sono un vecchietto, ma non posso permettermi di finire la mia avventura come un perdente». Rinuncia al controdiscorso di fine anno, Silvio Berlusconi, e non certo perchè ha cambiato idea su Napolitano.
Ma l’ennesimo attacco al «governo delle tasse» e la filippica sulla «vendetta giudiziaria» ai suoi danni vengono affidati al direttore del Tg5 Mimun e a una serie di telefonate ai club, da Torino a Napoli.
Cita ancora Erasmo e dice che per cambiare «questo povero Paese e avere la maggioranza assoluta serve una follia visionaria ». Serve l’elezione «diretta del capo dello Stato» e una riforma ispirata al sistema «all’americana, con due partiti».
Il Cavaliere lascia Villa San Martino per una puntata di alcune ore a Milano.
Per il resto, la testa è sui club, non senza preoccupazione. L’operazione finora si sta rivelando un flop.
I 12 mila da aprire «entro l’anno» sono già scesi ai seimila rivendicati ieri. E la ragione chiama in causa il coordinatore Marcello Fiori, finito a sorpresa sotto scopa. La procedura ideata per la costituzione dei club si è risolta in una trappola burocratica che avrebbe mandato su tutte le furie l’ex premier.
Ed è il motivo per il quale le poco più di 5 mila, in realtà sono semplici adesioni via web e monopersonali, che si arenano lì almeno nel 90 per cento dei casi, come spiega non senza dispiacere chi ci sta comunque lavorando.
Il fatto è che, chi si registra al sito per creare un club, scopre subito dopo di doverlo iscrivere come associazione all’agenzia delle entrate, al costo di 160 euro più marche da bollo (per un totale di 200 euro).
Passaggio necessario per registrare un codice fiscale. Ancora, è indispensabile la soglia minima di otto persone, cinque delle quali devono essere iscritte a Forza Italia, il vice presidente, i vice, il tesoriere (costo dieci euro per uno, totale 50).
Una corsa a ostacoli insomma che al 31 dicembre ha scoraggiato i più intraprendenti, salvo eccezioni nel Lazio, in Lombardia, in Puglia, Sicilia, giusto le regioni dove i parlamentari più radicati si sono datida fare per far bella figura col capo.
Sta di fatto che l’annunciata convention milanese dei club, la due giorni del 25-26 gennaio nel ventennale della discesa in campo, con molta probabilità si risolverà in una celebrazione del leader, comunque in qualcos’altro.
Berlusconi ci sta lavorando, spiegano.
Di certo, gongola in questi giorni più di un alto dirigente forzista. «La missione di Fiori si sta rivelando un fiasco alla Scelli, la verità è che se non ci siamo noi a riempire i teatri o le piazze, se non ci siamo noi a difendere il presidente nei momenti clou, non si va da nessunaparte e lui se ne sta rendendo conto » spiega uno dei big più in vista, dietro anonimato.
Altri sposano l’operazione. «Con Forza Italia e i club Forza Silvio, Berlusconi parla al cuore e alla testa degli italiani» dice Mariastella Gelmini.
Ma tutto piace assai poco ai dirigenti rimasti a bocca asciutta e in attesa di nomine ai vertici, che dovrebbero essere ufficializzate da Arcore a ridosso dell’Epifania.
«Forza Italia e Club sono due realtà che cammineranno insieme» rassicura Berlusconi dicendo al Tg5 che di club «ce ne sono già seimila: ognuno dovrà prendersi carico di 5 sezioni elettorali per puntare ad altri 4 milioni di voti, delusi e grillini».
Poi parte alla carica. «Questo è stato un Natale dimesso, in un clima di paura e sfiducia, colpa di tasse e spesa pubblica a pioggia».
E ancora, «contro di me una vendetta giudiziaria scientifica». Ma lui non molla la presa, come promette nella telefonata a un club di Torino.
In serata, a un altro di San Vitaliano, nel Napoletano, denuncerà «la situazione di stallo: stiamo per programmare un miracolo e mi sembra giusto cominciare da qui, prendendo esempio da quello di San Gennaro».
Un miracolo alla portata, «il 51 per cento deve votare per Forza Italia».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
DOPO CHE L’AVANTI E’ PASSATO DA BISSOLATI E MUSSOLINI A LAVITOLA, ORA TOCCA A L’UNITA’ TRASFERIRSI DA GRAMSCI A LADY IOANNUCCI
Lo sbarco di Maria Claudia Ioannucci, ex senatrice di Forza Italia nonchè amica e collaboratrice di Valter Lavitola, nell’azionariato dell’Unità , a fronte del comprensibile allarme della redazione che minaccia cinque giorni di sciopero, sta suscitando altrettanto comprensibili entusiasmi nel mondo della sinistra italiana, ma anche europea.
Al momento non si registrano commenti ufficiali, a parte le minacce di denuncia dell’amministratore delegato del quotidiano del Pd (che però farebbe bene a denunciare la stessa Ioannucci per aver messo a verbale davanti ai pm di Napoli: “Lavitola, oltre che mio cliente, è divenuto uno dei miei più cari amici e tali rapporti di amicizia, nel tempo, si sono estesi all’intera famiglia”).
Ma è solo perchè i vari leader stanno ancora cercando le parole più adatte per salutare l’evento con la dovuta solennità .
Dopo un secolo di vite separate infatti si prospetta una possibile fusione fra le due storiche testate della sinistra italiana: l’Avanti!, fondato nel 1896 e passato da Bissolati a Mussolini a Craxi giù giù fino ai prestigiosi Cicchitto & Brunetta e agli autorevoli De Gregorio & Lavitola; e l’Unità , creata nel 1924 da Antonio Gramsci e ora appunto appartenente per il 14% a lady Ioannucci.
Già c’è chi immagina, per celebrare degnamente la storica saldatura 92 anni dopo la scissione del Congresso di Livorno, la nuova testata: “AvantiUnità ! — Giornale fondato da Antonio Gramsci, ma solo da Lavitola in su”.
Vivo apprezzamento starebbe per esprimere il presidente Giorgio Napolitano, infaticabile ricucitore della lacerante frattura social-comunista fin dall’elogio dell’invasione sovietica in Ungheria all’insegna del riformismo più sfrenato.
Pare che un passaggio del suo ottavo, storico discorso di fine anno sarà dedicato alla ritrovata unità a sinistra: “Cari sudditi, Lavitola politica del sottoscritto volge quasi al termine, nel senso che me ne andrò dal Quirinale nel 2020, ma vorrei lanciare un accorato monito alle masse progressiste tutte: o comprate la nuova Unità , o mi dimetto”.
Lo storico togliattiano Michele Prospero ha già pronto un editoriale dei suoi: “Studiando approfonditamente gli scritti del Migliore, sono giunto alla conclusione che, già durante il pacifico sterminio degli anarchici in Spagna, il grande Palmiro avesse preconizzato l’avvento nella grande famiglia comunista dell’amica di famiglia di Lavitola”.
Lo psico-guru Massimo Fagioli, mèntore dell’azionista Matteo Fago, è parecchio su di giri, ma non siamo in grado di riportare il suo commento perchè non si capisce niente. In compenso il suo nome ha ispirato a Francesca Pascale un messaggio di congratulazioni scritto col rossetto viola: “Silvio dice che Claudia è quel che fa per voi. Così — aggiungo io — risolverete come me il tragico problema dei fagiolini”.
Dal canto suo il cane Gunther, intestatario dell’italianissima società del socio-immobiliarista Maurizio Mian “Gunther Reform Holding Spa”, a mezzadria fra Pisa e le Bahamas, ha dato la sua approvazione abbaiando tre volte al sol dell’avvenire. Ora è allo studio un ampliamento redazionale con l’apertura di un nuovo ufficio di corrispondenza a Panama con vista sul Canale, dove Lavitola & Ioannucci vantano robuste entrature presso il presidente Martinelli, semprechè riesca almeno lui a restare a piede libero.
In attesa della scarcerazione di Valterino, s’è offerto come caporedattore un vecchio cronista di razza: Sergio De Gregorio.
Luca Landò, neodirettore e ottimo velista, potrebbe raggiungerlo di tanto in tanto in barca a vela, o in alternativa su uno dei pescherecci messi a disposizione da Lavitola. Dev’essere per questo che Piero Fassino, per un riflesso condizionato rimastogli dai tempi della segreteria Ds, continua a telefonare in redazione a ogni ora del giorno e della notte.
Le segretarie, stremate, non gli rispondono più.
Ma lui insiste e lascia sempre detto nella segreteria telefonica: “Allora, abbiamo una barca?”.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
ALFANO DOVRA’ RINUNCIARE AGLI INTERNI CHE PASSEREBBERO AL RENZIANO DEL RIO
Chi lo ha visto stamane nelle pause della riunione della giunta di Firenze giura che la decisione è presa: Matteo Renzi si ricandiderà per la guida di Palazzo Vecchio.
Ad oggi la scelta è questa, come del resto annunciato più volte dallo stesso segretario del Pd. Ma qualora ci fossero tentennamenti – come pure ci sono stati nelle ultime settimane, lo spiegheremo più avanti — tutti i nodi dovranno sciogliersi nei prossimi dieci giorni. Non di più.
Perchè per decisione della direzione metropolitana del Pd di Firenze il sindaco uscente dovrà sciogliere la riserva sulla sua eventuale ricandidatura entro il 10 gennaio, data che evidentemente sarà chiave per capire anche i destini del governo Letta.
Va da sè che una nuova corsa di Renzi per il secondo mandato a Palazzo Vecchio fermerebbe automaticamente gli orologi verso il voto anticipato.
Se il sindaco sceglierà di ricandidarsi alla guida della sua città , vorrà dire che rinuncia alla corsa per la premiership: almeno per quest’anno.
L’anno prossimo è un’altra storia. E del resto già prima di Natale Renzi ha avvertito i suoi potenziali elettori che, in caso di rielezione a Firenze, è possibile che non resti lì per i prossimi cinque anni.
Ma un sì alla nuova esperienza da sindaco il 10 gennaio dovrebbe mettere dei punti fermi alla traballante legislatura di Letta, assicurando che — a meno di eventi traumatici – non si torna al voto con le europee del 25 maggio (come invece vorrebbe Silvio Berlusconi) e nemmeno durante il semestre italiano di presidenza europeo (a maggior ragione).
Ad oggi, assicura chi ha parlato con Renzi, la tabella di marcia dovrebbe essere questa.
Ma è vero che nelle scorse settimane un secondo mandato a Palazzo Vecchio in contemporanea con il fresco incarico alla guida del Pd non veniva dato proprio per scontato al quartier generale renziano, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali che non lo hanno mai messo in dubbio.
Il neoleader ci ha riflettuto molto e continua a soppesare per bene l’impatto che un doppio incarico, per giunta a tempo, potrebbe avere sull’elettorato.
Se Renzi non si ricandidasse a Palazzo Vecchio, il suo candidato naturale sarebbe l’ex vicesindaco Dario Nardella, ora deputato del Pd, un nome che circola anche nelle ipotesi di rimpasto di governo.
Rimpasto che, secondo lo schema pensato nella cerchia ristretta del segretario Dem, dovrebbe spostare il renziano Graziano Delrio, attuale ministro per gli Affari Regionali, al Viminale, ministero decisamente più ‘pesante’ ora guidato da Angelino Alfano, cui rimarrebbe solo la carica di vicepremier.
E poi nel mirino del Pd a trazione renziana c’è di sicuro il ministero del Lavoro, ora affidato a Enrico Giovannini.
L’idea di Renzi è di affidarlo ad una personalità di fiducia, di spicco magari nel mondo dell’università . Ad ogni modo, una figura in grado di attuare il Job Act che la sua segreteria sfornerà a breve.
Perchè il Job Act, insieme alla legge elettorale, l’abolizione delle province e quella del Senato almeno in prima lettura sono i provvedimenti che il sindaco-segretario si propone di portare a casa nei primi mesi del nuovo anno.
E da qui si capisce come l’idea di rimpasto sia centrale nella strategia renziana, profondamente legata ai provvedimenti da attuare, insieme al governo Letta per quanto sarà possibile lavorare insieme.
Movimenti che andrebbero a riequilibrare la squadra di governo, troppo sbilanciata a favore del Nuovo Centrodestra, secondo la lettura che se ne fa in casa Pd.
Ma, a quanto sembra, sono pedine che verranno mosse solo dopo il 10 gennaio.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
FIAT HA TAGLIATO 15.000 DIPENDENTI IN ITALIA PER ASSUMERE NEGLI USA DOVE IL COSTO DEL LAVORO E’ PIU’ BASSO… I CALL CENTER DI TELECOM VERSO ORIENTE…E ANCHE LA BREMBO PUNTA SUI PAESI DELL’EST
Fiat ha tagliato oltre 15mila dipendenti in Italia per assumere negli Stati Uniti e in Paesi dove la manodopera è più conveniente, mentre i call center di Telecom migrano verso la Romania.
E perfino un’azienda con risultati eccellenti come la Brembo ha puntato sull’Europa dell’Est per la produzione di componenti Porsche e Mercedes.
E’ la triste conferma che il vento della delocalizzazione soffia forte e sta cambiando la mappa dell’industria italiana, comprese le piccole aziende (vedi l’incredibile caso della Firem di Modena, i cui 40 dipendenti rientrati dalle vacanze estive hanno trovato gli impianti in via di smantellamento).
Uno studio della Cgia di Mestre l’anno scorso ha fornito dati significativi: le società che hanno spostato la produzione all’estero per risparmiare su stipendi e tasse lasciando a casa i lavoratori italiani sono aumentate dal 2000 al 2011 del 65%, arrivando a superare le 27mila unità .
I motivi, spiegava Giuseppe Bortolussi, segretario dell’associazione degli artigiani mestrini, sono diversi: “Le imposte, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima sociale nei confronti dell’azienda è più favorevole”.
Fiat punta sugli Usa e sulla manodopera low cost in Serbia
Uno degli esempi più evidenti è la Fiat, che non perde occasione per minacciare di abbandonare l’Italia, e ha ridotto di 15.821 dipendenti la forza lavoro nel Paese dal 2007 al 2012 (il personale impiegato è passato da 77.679 a 61.858 unità ), mentre il numero di lavoratori negli Stati Uniti è lievitato da 11.364 a 73.713.
Stesso andamento per gli stabilimenti, passati da 56 a 44 in Italia e da 22 a 48 negli Stati Uniti, e per i centri ricerca e sviluppo. L’azienda torinese assume sempre di più anche in Sud America, mentre taglia in Europa.
Un discorso a parte, invece, riguarda la produzione di auto italiane in Serbia.
Fiat Serbia, come ha recentemente notato il ministero delle Finanze di Belgrado, è risultata di gran lunga al primo posto nella lista dei maggiori esportatori in Serbia nei primi otto mesi del 2012, con merci per un controvalore di 952,4 milioni di euro.
La conferma è arrivata dai dati sull’export serbo pubblicati lo scorso maggio, con il settore dell’auto trainato da Fiat che contribuisce al 20% delle esportazioni e ha ”quasi triplicato la produzione” nei primi tre mesi del 2013 rispetto allo stesso periodo del 2012.
Ad accendere i riflettori sugli impianti di Fiat in Serbia era stato stato anche il gesto disperato di un operaio dello stabilimento di Kragujevac, che lo scorso maggio ha danneggiato 31 vetture 500 L, provocando un danno da 50mila euro.
L’uomo ha graffiato le carrozzerie scrivendo “italiani andatevene” e “aumentate gli stipendi”. Un episodio che ha fatto scendere in campo i sindacati locali, che hanno colto l’occasione per lamentarsi della paga mensile, pari a circa 320 euro.
Brembo, utili volano ma aumenta la produzione in Est Europa
A puntare sull’Est Europa sono anche le aziende più solide. Brembo — che ha chiuso i primi nove mesi del 2013 con un utile di 63,4 milioni di euro, con un incremento del 29,4% rispetto al corrispondente periodo del 2012 — ha raggiunto alla fine di giugno un’intesa sindacale su 200 esuberi (47, non ancora intrapresi, riguardano dipendenti assunti a tempo indeterminato, mentre 153 riguardano contratti a tempo determinato scaduti).
Le uscite sono motivate dalla decisione dell’azienda di trasferire nell’Est Europa alcune linee di produzione e riguardano soprattutto Curno e, in parte minore, la divisione auto di Mapello.
“Stanno spostando all’estero la produzione di pinze per Porche e Mercedes”, spiega Eugenio Borella, segretario generale della Fiom-Cgil di Bergamo, sottolineando che “in Italia rimarrà pochissimo”.
D’altronde, ha aggiunto, “nell’Europa dell’Est un operaio guadagna un terzo rispetto all’Italia (14mila contro 40mila euro all’anno) e l’energia costa la metà ”.
L’azienda ci tiene tuttavia a precisare di avere aumentato la produzione nei Paesi dell’Est per questioni logistiche, in modo da essere più vicina alle case automobilistiche tedesche, che vanno sempre più a gonfie vele, mentre “nonostante tutti gli sforzi fatti le attività italiane sono in perdita”
I passi avanti del gruppo a Est, d’altronde, non sono una novità .
Analizzando i bilanci del 2007 e del 2012, in questi ultimi compare un nuovo impianto produttivo in Repubblica Slovacca con 98 dipendenti e uno in Repubblica Ceca, costituito nel 2009, che ora può contare su ben 421 lavoratori.
Aumenta negli ultimi cinque anni di 128 uomini la forza lavoro anche nello stabilimento di Dabrowa-Gòrnicza, in Polonia, mentre diminuisce leggermente nell’altro impianto produttivo del gruppo nello stesso Paese.
La migrazione dei call center verso Oriente, il caso Telecom
Un discorso a parte riguarda invece i call center, spostati sempre più all’estero, soprattutto in Europa dell’Est, per risparmiare sui costi. A partire da Telecom Italia.
I posti di lavoro emigrano a Oriente, mentre quanto resta in Italia viene ridimensionato. L’azienda precisa che la delocalizzazione dei call center è effettuata dalle società a cui affida il servizio e non riguarda l’assistenza clienti, ma quella commerciale.
Le difficoltà che devono affrontare i dipendenti italiani, però, sono sotto gli occhi di tutti.
Telecom ha siglato con i sindacati lo scorso marzo un accordo che prevede contratti di solidarietà per 32mila dipendenti e la collocazione in mobilità per altri 500.
“L’accordo è una cambiale in bianco per Telecom, che sarà libera di delocalizzare ulteriormente”, avverte Fulvio Macchi dello Snater (sezione delle telecomunicazioni del sindacato Usb), sottolineando che è solo una questione di tempo.
“Le sigle confederali hanno accettato tutta una serie di ricatti”, aggiunge, “dalla chiusura di alcune sedi agli spostamenti sul territorio dei lavoratori, passando per l’aumento dei carichi di lavoro e l’obbligo per chi lavora da casa di installare una webcam per essere controllato”.
Il rischio di nuove delocalizzazioni è in una frase all’interno dell’accordo.
“C’è scritto che Telecom rivaluterà la situazione tra due anni”, spiega Mattea Cambria della Cgil piacentina, prevedendo che “coglieranno sicuramente l’opportunità per spostare sempre di più l’attività in Romania e Albania, dove la paga oraria — secondo quanto scoperto da alcune dipendenti italiane — non supera i due euro l’ora”.
Lo spostamento del personale del gruppo all’estero, d’altronde, non è una novità . La percentuale di dipendenti impiegati in Italia è calata dal 2007 al 2012 di 15 punti, dall’80,5% al 65,4 per cento.
Mentre le assunzioni all’estero sono salite dal 76,7% all’88,95%, soprattutto grazie alla crescita in Sud America.
La scarpa che respira venduta in Italia ma prodotta all’estero
C’è poi chi il vizio della produzione low cost l’ha sempre avuto. E’ il caso di Geox, che già nel 2007 produceva ben poco in Italia: soltanto 898 dipendenti, contro 1.274 in Romania, 712 in Slovacchia e 659 in altri Paesi.
Il gruppo, che attualmente ha il 37% della forza lavoro in Italia, ha trovato l’estate scorsa un accordo con i sindacati per 71 esuberi. Pesa la flessione dei ricavi, scesi nei primi nove mesi dell’anno a 618,1 milioni dai 701,5 milioni registrati nello stesso periodo dell’anno scorso.
Il fatturato cala, ma l’Italia rimane il mercato principale, con una quota del 35% delle entrate del gruppo.
Segnale che la scarpa che respira viene prodotta all’estero a basso costo per poi essere rivenduta agli stessi italiani.
“La delocalizzazione è un male necessario imposto dal mercato”, ha dichiarato nel 2004 lo stesso Mario Moretti Polegato, presidente e fondatore del gruppo Geox, intervistato dal Corriere della Sera, sottolineando che “l’impresa del domani sarà quella intelligente: qui, in Italia, la creatività , l’organizzazione della produzione, il marketing; fuori, dove la manodopera costa meno, la produzione”.
Ma la sorpresa peggiore, parlando di delocalizzazione, riguarda i 40 dipendenti della Firem, storica fabbrica di resistenze elettriche di Formigine, in provincia di Modena.
In agosto, mentre i lavoratori erano in ferie, ignari di tutto, i proprietari della società hanno fatto sparire il 90% dei macchinari, trasferendo l’impresa quasi interamente in Polonia.
A fine agosto, grazie all’intervento delle istituzioni locali e dei sindacati, si era poi aperto uno spiraglio: il blocco della delocalizzazione, con il mantenimento di parte della produzione in Italia, e l’apertura di una nuova sede nell’Europa dell’Est.
Ma per i dipendenti non è ancora tempo di cantar vittoria. L’azienda è infatti tornata recentemente sotto i riflettori per non avere pagato gli stipendi arretrati.
Francesco Tamburini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI GIOVANNA: “VI SONO LOBBY CHE STRUMENTALIZZANO I MALATI COME ME PER GIUSTIFICARE LA VIVISEZIONE”
“I ricercatori vanno in televisione a dire che usano gli animali per curare noi malati, io credo che la vera ricerca dovrebbe pensare a noi malati senza sacrificare nessun animale, e in ogni caso credo che nessun animale debba morire per curare me».
Lo scrive Giovanna Bordiga, che da 65 anni combatte contro una grave malattia e si schiera contro le lobby che, denuncia, strumentalizzano i malati come lei per giustificare la sperimentazione sugli animali, riferisce una nota della Federazione italiana associazioni diritti animali e ambiente.
La paziente, di cui è stato pubblicato un videomessaggio su Youtube, racconta: «Mi chiamo Giovanna, sono spastica da itterizia da subito dopo la nascita, vivo in casa con un cane, tre gatti e cinque conigli, sono i miei compagni di vita. Ho partecipato a tutte le manifestazioni contro Green Hill, anche quando la mia salute me lo rendeva difficile. Aver visto quei cani uscire da quell’inferno e aver poi visto quel posto vuoto è stata una delle più belle gioie della mia vita. Quindi, signori vivisettori, ogni volta che dite di stare sacrificando gli animali per noi malati, non fatelo più nel mio nome».
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Dicembre 31st, 2013 Riccardo Fucile
IL DIFFICILE CAMMINO DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE
L’unica soluzione praticabile per riformare la Costituzione è abolire il Senato. Introducendo il monocameralismo. Ma serviranno altri contrappesi: più poteri al Capo dello Stato, ricorso diretto alla Consulta delle minoranze
Riforme costituzionali? A parlarne, rischi una denuncia per maltrattamenti: chi ti ascolta finirà per slogarsi le mascelle a forza di sbadigli.
Perchè l’argomento non è fra i più eccitanti, e perchè il chiacchiericcio dura da trent’anni, senza cavare un ragno dal buco.
Meglio, molto meglio, concentrarsi sui temi dell’occupazione, della concorrenza, dei salari.
C’è tuttavia un legame fra le nostre ingessate istituzioni e la camicia di gesso che blocca l’economia italiana. Quando il sistema si rivela incapace di produrre decisioni, quando è perennemente ostaggio dei veti incrociati, quando infine la voce del padrone ha il timbro rauco delle lobby, l’unica industria è quella dei favori.
E infatti l’Italia, dal 2000 in poi, ha registrato la crescita più bassa del pianeta, se si eccettua Haiti.
Da qui l’urgenza di correre ai ripari. Sbarazzandosi in primo luogo di due Camere gemelle, che s’intralciano a vicenda.
Il bicameralismo paritario ci ha donato in sorte un procedimento legislativo macchinoso, una pletora di parlamentari che riempirebbe la tribuna di San Siro, governi ballerini come Carla Fracci.
Sicchè, almeno in questo caso, l’accordo è trasversale. Però, attenzione: meglio nessuna riforma che una cattiva riforma.
E d’altronde — come osservò Aristotele — se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare.
Eppure i nostri eroi promettono di riuscire nell’impresa.
Quale mai sarebbe la loro ricetta? A quanto pare, un bicameralismo differenziato, assegnando in esclusiva ai deputati il potere di vita e di morte sui governi, nonchè l’officina delle leggi.
E i senatori? Verificano, ispezionano, controllano, manco fossero altrettanti Sherlock Holmes.
Richiamano in seconda lettura le leggi più importanti, quindi andranno in porto solo le leggi più insignificanti. Rappresentano i territori regionali, come se invece la Camera debba rappresentare Marte.
E in che modo varcano l’uscio del Senato? Attraverso un’elezione a suffragio universale, secondo una corrente di pensiero; ma allora ci risiamo col doppione. Attraverso un seggio di diritto per governatori regionali e sindaci, secondo un’altra opinione; però il doppio mestiere riesci a farlo se la tua giornata è di 48 ore.
E no, messa così diventa un pateracchio. In primo luogo perchè questo colpo d’ingegno s’iscrive non tanto nell’ingegneria, quanto nell’archeologia costituzionale: la «Camera delle regioni» era un’idea di quarant’anni fa (Nicola Occhiocupo ci scrisse sopra un libro nel 1975).
In secondo luogo perchè il Senato diverrebbe — come pure è stato detto — non tanto una seconda Camera, quanto una Camera secondaria.
E in terzo luogo, chi li convince i senatori a segarsi gli attributi? Eppure alla riforma servirebbe pur sempre il loro assenso, cozzando contro il paradosso illustrato nel 1932 da Fraenkel: quando il riformatore coincide con il riformato, nessuna riforma sbuca mai fuori dal cilindro.
La via d’uscita? Una sola Camera, e buonanotte ai suonatori, pardon, ai senatori.
Ma buonanotte pure ai deputati, sicchè nessuno ci rimette, nessuno ci guadagna. Politicamente, è l’unica soluzione praticabile.
Giuridicamente, soddisfa quattro imperativi: rappresentare, decidere, semplificare, ridurre (il numero dei parlamentari).
Una proposta di cui si discusse quest’estate in seno alla commissione governativa sulle riforme, e sulla quale due costituzionalisti (Ciarlo e Pitruzzella) hanno scritto un documento dettagliato.
Ma soprattutto un sistema ormai vigente in 39 Stati, e non soltanto in contrade esotiche e remote. Hanno un Parlamento monocamerale Paesi come la Svezia, la Scozia, l’Ucraina, il Portogallo, Israele, la Danimarca, la Grecia, la Norvegia.
Certo, rinunziando a una Chambre de reflection serviranno altri contrappesi, per scongiurare i colpi di mano.
Ma si può fare potenziando il ruolo del capo dello Stato, permettendo il ricorso diretto delle minoranze parlamentari alla Consulta, prescrivendo maggioranze qualificate per determinate leggi. Tutto si può fare, se c’è un grammo di buon senso.
Ma in Italia — diceva Manzoni — il buon senso se ne sta ben nascosto, per paura del senso comune.
Michele Ainis
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