Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile “NON SARO’ MAI PREMIER TECNICO”
È la conferenza stampa di fine anno: Letta fa il punto sulle attività del suo governo, ma non solo.
Il premier inizia ricordando il sacrificio del brigadiere Giangrande che, nel giorno dell’inaugurazione dell’esecutivo, ormai otto mesi fa, fermò lo sparatore davanti a Palazzo Chigi. E poi esordisce:«Stiamo dando risposte alla fatica sociale che è il cuore della vicenda che abbiamo davanti, ma sono convinto che l’Italia ce la farà », dando uno sguardo a quel che sarà .
LA CARICA DEI 40ENNI
Quindi un passo indietro sull’anno appena trascorso: «Il 2013 sarà ricordato come l’anno della svolta generazionale: si è affermata una generazione di quarantenni senza alcun precedente nella storia repubblicana, se non nell’immediato dopoguerra. Ebbene non possiamo fallire». Si entra nello specifico e Letta promette di «tagliare le spese sul lavoro con le risorse derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review ».
NIENTE IMU PER GLI ITALIANI NEL 2013
«Gli italiani non hanno pagato l’Imu sulla prima casa per il 2013» scandisce nitidamente il concetto il premier. E poi allarga lo scenario, sul tema delle tasse: «Ci impegneremo perchè a gennaio termini l’iter della delega fiscale. Lì dentro ci sono una serie di riforme molto importanti per un fisco che sia migliore, con una serie di norme anti elusione molto importanti». E comunque Letta si dice sicuro che «nel prossimo anno» il carico fiscale sulla casa «sarà inferiore rispetto a come è stato nel 2012».
«TURBOLENZE PER LA SENTENZA BERLUSCONI»
Letta poi ammette che: «ci sono tante cose che avrei potuto fare meglio, me le tengo dentro, ma penso che la cosa principale oggi sia cercare di far sì che si riescano a cogliere per l’anno prossimo le opportunità che il 2013 ci ha lasciato». E comunque «le turbolenze vissute» in quest’anno «sono in parte dovute all’intreccio tra fattori esterni e politica, penso al tema della sentenza che ha riguardato uno dei tre leader che hanno fatto nascere questo governo».
«RENZI FA BENE A PARLARE CON FORZA ITALIA»
Gli chiedono se il neo segretario del Pd Matteo Renzi voglia in qualche modo ostacolarlo, se cerchi scorciatoie verso elezioni anticipate: «Assolutamente no» risponde «Renzi fa parte di quella svolta generazionale di cui parlavo prima: lui fa bene a parlare con Forza Italia e con altri che non fanno parte della maggioranza di riforme istituzionali. E Berlusconi le deve fare, senza terminare la sua carriera con una deriva populista e nichilista». E su eventuali rimpasti non ammette repliche: «Non sono all’ordine del giorno, sono contento della mia squadra».
AMNISTIA E INDULTO
Poi si sofferma sui provvedimenti di amnistia e indulto, che hanno fatto discutere: «Sono di competenza delle Camere. Noi abbiamo dato un segnale con il decreto dell’altro giorno, un primo passo importante nella direzione di rendere la vita nei carceri meno drammatica di quanto avviene oggi, senza che vi sia alcun pregiudizio per la sicurezza dei cittadini: un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio ed è una situazione abnorme».
EMERGENZA MIGRANTI
Si passa all’emergenza-migranti. Prima Letta si sofferma sul lavoro di intervento: «Con Mare Nostrum, l’Italia autonomamente si è fatta carico di un’operazione che ha salvato più di duemila vite umane e ha colpito i mercanti di morte, con arresti di scafisti. È stata un’operazione molto efficace». Poi sulle azioni da intraprendere: «Rivedremo il meccanismo dei Cie e la Legge Bossi-Fini».
GIOCO D’AZZARDO E RIFORMA IUS SOLI
Promette dunque:«Cambieremo radicalmente la legge sulla cosiddetta “porcata” delle slot-machine e del gioco d’azzardo». E se prima si è parlato di migranti, ora si discute di italiani di seconda generazione: «Ho scommesso personalmente- dice Letta- sul tema con un ministro dell’Integrazione. Uno dei punti qualificanti sarà la riforma della normativa sullo ius soli».
NUOVA LEGGE PRIMA DELLE EUROPEE
Si ritorna quindi ad affrontare il tema delle riforme costituzionali: « il governo farà la sua parte. Prima delle Europee dovremo avere la nuova legge elettorale e i primi passaggi parlamentari sull’eliminazione del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la riforma del Titolo V, e l’eliminazione della parola Province dalla Costituzione.Faremo mancare appositamente i due terzi e chiederemo ai cittadini un parere con un referendum ».
GRILLO, CON NAPOLITANO PASSATO IL LIMITE
Per la prima volta in quest’ora e venti di conferenza stampa compare Beppe Grillo. L’occasione sono gli strali del comico contro il Presidente della Repubblica. Ed è duro l’affondo del premier: « Gli attacchi di Grillo hanno passato il limite con parole fuori luogo. C’è bisogno da parte di tutti di essere assolutamente fermi. Le istituzioni hanno bisogno di difesa e di funzionare. Napolitano ha svolto un ruolo fondamentale, ha salvato l’Italia, che stava sbandando».
COSTI DELLA POLITICA, FACILE FARE TWEET
E sui costi della politica, tema caro a Grillo, Letta dice: «Nella discussione sull’eccesso di stipendi della classe politica, tanti parlano ma pochi fanno. Il governo ha fatto secondo le sue competenze: abbiamo eliminato lo stipendio del presidente del consiglio e se qualcuno lo vorrà ripristinare dovrà preparare una legge. È facile fare dei tweet, noi abbiamo dimostrato in questi mesi di parlare con i fatti».
«RENZI PREMIER? L’IMPORTANTE È IL GIOCO DI SQUADRA»
La conferenza si avvia verso la conclusione, uscendo dai confini di casa nostra: uno sguardo alla Germania («Sono convinto che il governo tedesco sarà alleato e non un freno alla crescita») e al Medio Oriente («ci impegneremo per la pace tra Israele e Palestina»). E si chiude di nuovo con Renzi. La domanda è forte: «Lei intende sostenere la candidatura alla premiership» del sindaco di Firenze? Letta, di fatto, non risponde: «Se continueremo a fare gioco di squadra come adesso, potrà venirne solo del bene». E chiude per davvero: «Io non sono e non sarò mai un premier tecnico, ho fatto e farò scelte politiche. Ho rischiato quando si è ventilata la crisi, mi sono assunto le mie responsabilità . E continuerò ad assumermele».
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: Letta Enrico | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile NEL 2012 SI SONO CANCELLATI DALL’ANAGRAFE IN 68.000, IN AUMENTO RISPETTO AI 50.000 DEL 2011… METE PREFERITE GERMANIA, SVIZZERA, GRAN BRETAGNA E FRANCIA… IN AUMENTO I PENSIONATI CHE SI TRASFERISCONO
Bel Paese arrivederci. O forse addio.
Per ora la decisione è una: partire per l’estero, poi si vedrà .
Lo hanno fatto nel 2012 ben 68mila italiani, 18mila in più dell’anno precedente. In gran parte giovani, hanno scelto soprattutto l’Europa.
Meta preferita la Germania, per un viaggio all’insegna di uno spread particolare, quello del tasso di disoccupazione, che da noi a ottobre è salito al 41,2% per gli under 25, assai peggio del 7,8% tedesco.
Come sessant’anni fa i nuovi emigranti partono alla ricerca di un’occupazione. Cervelli o braccia che siano, la fuga è da un Paese in crisi che non offre abbastanza posti.
E che anche quando li offre, fa venire voglia di scappare. Perchè fuori c’è più meritocrazia e una classe dirigente migliore. Via i giovani, dunque. Ma anche i pensionati: su una bella spiaggia esotica qualche sfizio te lo togli anche se l’assegno dell’Inps è quello minimo.
Italiani in fuga
Un popolo di emigranti lo siamo sempre stato. Ma negli ultimi anni di crisi i flussi in uscita sono tornati ad aumentare. Secondo l’Istat gli italiani che nel 2012 si sono cancellati dall’anagrafe per trasferirsi all’estero sono stati 68mila, in aumento rispetto ai 50mila del 2011 e ai 40mila del 2010.
Dati che danno l’idea di un fenomeno in crescita, ma sottostimano il numero dei nostri connazionali che sono effettivamente emigrati: chi se ne va non sempre cancella il proprio nome dai registri pubblici o magari lo fa dopo qualche anno, quando ormai è certo che indietro non torna più.
Le partenze recenti vanno ad arricchire le fila già numerose degli italiani oltreconfine: l’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, all’1 gennaio 2013 ne conta 4,3 milioni.
Dentro ci sono gli emigrati nuovi, quelli vecchi, i loro figli nati all’estero e chi ha acquisito negli anni passati la nostra cittadinanza. Al giorno d’oggi gran parte delle partenze per l’estero non sono più dal Meridione.
Dal Sud i flussi migratori sono diretti per lo più verso Roma e verso il Nord. Mentre è soprattutto chi già abita nelle regioni settentrionali a espatriare: nel 2012 da qui lo hanno fatto in 36mila (14mila dalla Lombardia, 7mila dal Veneto).
Dal Sud e dalle Isole sono partiti in 21mila, dal Centro in 11mila. I Paesi più gettonati l’anno scorso sono stati la Germania (vi si sono stabiliti più 7mila italiani), la Svizzera (oltre 6mila), il Regno Unito (più di 6mila), la Francia (più di 5mila).
Mete tradizionali per i nostri connazionali. Ma non mancano le novità : “Si stanno formando nuove rotte migratorie verso Oriente e il Brasile, che in vista dei Giochi Olimpici del 2016 ha aumentato le quote di immigrazione”, spiega Delfina Licata, curatrice del rapporto Italiani nel mondo 2013 della Fondazione Migrantes
Fuori i giovani talenti, qui il merito non conta
A partire sono soprattutto i giovani, nel pieno dell’età lavorativa. Età media 34 anni nell’identikit tracciato dalla Fondazione Migrantes sui dati Istat riferiti al 2011. Il 22% di chi è andato via due anni fa è laureato, mentre il 28,7% è diplomato.
Cervelli in fuga, li chiamano i media. E molti lo sono: un’indagine Istat ha rilevato che a inizio 2010 risiedeva all’estero il 6,4% di chi aveva conseguito un dottorato di ricerca nel 2004 e nel 2006.
Ma oltreconfine non si vanno a ricoprire solo posizioni che richiedono professionalità altamente qualificate. In patria si fatica a trovare un posto all’altezza della propria formazione e delle proprie ambizioni?
Piuttosto che accontentarsi di un lavoro considerato dequalificante qui da noi, meglio andare a sfornare pizze in un ristorante di Londra, a preparare mojito in un bar di Berlino o a fare il commesso in un negozio sugli Champs-à‰lysèes. Certo, il titolo di studio va chiuso in un cassetto. Ma l’esperienza all’estero e la pratica della lingua straniera aiutano a essere un po’ meno choosy, schizzinosi, per usare un termine caro all’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero.
Si parte dunque soprattutto per ragioni di lavoro: secondo un’indagine condotta dal Censis lo scorso ottobre, il 72% degli italiani all’estero ha un’occupazione, mentre il 20,4% è fuori per motivi di studio.
Si cercano chance di carriera e di crescita professionale. Ma non solo. In Italia, a dirla tutta, non si sta più bene: il 54,9% degli intervistati denuncia l’assenza di meritocrazia a tutti i livelli, il 44,1% non sopporta più il clientelismo e la bassa qualità delle classi dirigenti, mentre più di una persona su tre (il 34,2%) soffre l’imbarbarimento culturale della gente.
Valigia pronta e via, magari senza più fare ritorno: il 44,8% dei giovani emigrati — stima il Censis — vivono ormai stabilmente in un altro Paese.
Che fuori le cose possano andare bene lo dimostra anche un’indagine fatta nel 2012 da Almalaurea, secondo cui a cinque anni dalla laurea chi è andato all’estero guadagna in media 2.282 euro netti, un bel po’ in più dei 1.434 dei connazionali rimasti nel Nord Italia, dei 1.357 di chi lavora al Centro e i 1.222 di chi è impiegato al Sud.
Bel Paese sì, snobbato pure
Da un confronto tra i dati relativi al censimento del 2001 e quelli del censimento del 2011, Gian Carlo Blanciardo, docente di Demografia all’università Bicocca, ha calcolato che mancano all’appello circa 100mila persone che 12 anni fa erano nella fascia tra i 15 e i 29 anni. “Ad andarsene sono stati i giovani migliori — spiega — e la conseguenza è un impoverimento del Paese”. Se la perdita economica della fuga di capitale umano non è facile da stimare, a preoccupare è una certezza: “Questo fenomeno — continua Blangiardo — è la prova che l’Italia non è capace di conservare i talenti utili allo sviluppo e alla crescita. Sessant’anni fa si emigrava spinti dalla fame, oggi dall’assenza di gratificazione”.
Il Bel Paese, insomma, ha perso forza attrattiva. Per gli italiani che se ne vanno. Ma anche per gli stranieri: arrivano meno immigrati (nel 2012 sono stati rilasciati per motivi di lavoro 67mila nuovi permessi di soggiorno, quasi la metà del 2011) e molti lasciano l’Italia (l’anno scorso si sono cancellati dall’anagrafe in 38mila).
Che fanno poi i cervelli degli altri Paesi? A venire in Italia non ci pensano proprio. Lavoce.info ha riportato un esempio: dei 287 giovani ricercatori europei che nel 2013 hanno vinto gli starting grants, ovvero dei fondi assegnati dallo European research council, solo otto studiosi hanno scelto l’Italia come sede della propria ricerca.
Davvero pochi in confronto ai 60 diretti in Gran Bretagna e ai 46 che hanno scelto la Germania. E gli otto attirati dal nostro Paese? Beh, sette erano italiani. Uno solo straniero.
Paese di emigranti snobbato dai talenti stranieri. “L’Italia in questo è simile a Portogallo, Grecia e Polonia — spiega Michele Sanfilippo, docente di Storia moderna all’università della Tuscia di Viterbo -. In parte anche alla Spagna, che però attrae le popolazioni dell’America Latina”.
Via i cervelli, le braccia che fanno?
In Svizzera e in Germania ci si arriva anche con i pullman. Partono da Sicilia e Calabria, attraversano la Penisola e riportano al lavoro emigrati vecchi e nuovi, dopo una breve vacanza nei paesi di origine. Il viaggio dura più di un giorno, ma rispetto all’aereo il risparmio è assicurato. Viaggiano così le braccia in fuga?
Le statistiche, secondo il direttore generale del Censis Giuseppe Roma, non danno conto di un aumento dell’emigrazione di operai: “Gli italiani meno qualificati all’estero lavorano più spesso in ristoranti e bar che in fabbrica o in cantiere”.
Aggiunge una riflessione Delfina Licata: “Dal momento che in Italia è aumentata la percentuale di chi ha studiato, è possibile che contribuiscano a un’emigrazione di braccia gli stessi diplomati”. Ci sono poi tutti quegli emigrati che non vengono registrati dalle statistiche: “Non solo chi non si è iscritto all’Aire — spiega il professor Sanfilippo — ma anche gli italiani che vivono in Paesi extracomunitari da clandestini. Persone che sono partite con un visto temporaneo e non hanno fatto più ritorno. A loro toccano i lavori di più basso livello, da fare in nero”.
Vita da pensionato ai Tropici
Via i giovani. E via gli ultrasessantacinquenni. Ecco la novità nel panorama dell’emigrazione italiana: nel 2011 se ne sono andati via 3.219 over 65, il 37,3% in più dei 2.345 partiti nel 2010.
Nonni d’Italia spinti dalla crisi a passare gli ultimi anni di vita in Paesi come il Marocco, la Tunisia, la Thailandia, le Filippine.
O ai Caraibi, dove sotto il sole tropicale riempiono quelle che ormai vengono chiamate “spiagge Inps”. Lì riesce a vivere dignitosamente anche chi ha una pensione minima, che da noi non gli consentirebbe nemmeno di arrivare a fine mese. “Ma a emigrare — spiega Licata — sono anche ex dirigenti ed ex manager che hanno raggiunto pensioni d’oro”.
Attirati, in questo caso, dagli agi dei nababbi.
Luigi Franco
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Lavoro | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile PUNTO CRITICO PER LA DEMOCRAZIA DI UN PAESE IMPOTENTE
Il “tempo dei Forconi” segna un altro passaggio della crisi della nostra democrazia
rappresentativa.
Tanto più esplicito ed evidente perchè amplificato dal risentimento sociale prodotto dalle crisi: economica e politica.
Esprimono il senso di deprivazione relativa alimentato dalla percezione del declino.
Non si tratta solo di perdita del lavoro e del reddito. Ma dell’insicurezza pesante che pervade quanti, nel passato recente, erano saliti, faticosamente ai piani medi della scala sociale. I lavoratori autonomi. L’Italia dei lavori, appunto. Che non ha mai avuto una vera rappresentanza organizzata.
I Forconi: colpiscono i punti nevralgici del Paese. Il sistema delle comunicazioni e della mobilità . Bloccano strade e autostrade. E generano grande disagio con uno sforzo, relativamente, limitato.
Non sono un “movimento”, orientato da obiettivi comuni. Diversamente dal M5S, che è un non-partito organizzato, presente alle elezioni e in Parlamento. Dunque: un partito.Non sono una “rete”, che collega esperienze diverse. Ogni iniziativa che tenti di unificarne l’azione, come la manifestazione di Roma della settimana scorsa, ne mostra i limiti. Perchè non sono in grado di coalizzare i diversi luoghi e i diversi attori della protesta. Nè, tanto meno, di riassumere i diversi motivi di disagio e rivendicazione in una piattaforma comune.
Ri-producono molte manifestazioni e molte immagini. Quanti sono i luoghi e i protagonisti della protesta. Camionisti, artigiani, allevatori, contadini. Lavoratori autonomi diverse aree, di vari e diversi lavori. Alcuni li hanno definiti una “moltitudine”, echeggiando una formula coniata da Antonio Negri, per evocare “un insieme di singolarità ”, capaci di antagonismo. Non rappresentabili.
Se non fosse che, in effetti, i “Forconi” hanno una “rappresentazione”, riassunta dal nome con cui sono conosciuti. Ereditato dalle proteste contro le accise, in Sicilia, nel 2012. E oggi attribuito a tutti coloro che protestano, in tutta Italia. Indipendentemente dal luogo e dalla professione. E dallo specifico motivo di disagio espresso.
Non a caso, al proposito, si è parlato di “jacquerie” (come ha fatto, alcuni giorni fa, Barbara Spinelli). Echeggiando le sollevazioni spontanee dei contadini francesi, nel XIV secolo.
Ma il termine stesso, “Forconi”, costituisce, appunto, una “rappresentazione” unificante. Che evoca la rabbia popolare. Contro il “potere”. Indefinito e indeterminato, quanto la moltitudine che protesta. È questa la ragione che, oggi, rende così rilevante – e inquietante – la mobilitazione dei “Forconi”.
Il fatto è che dà evidenza – rappresentazione – alla sfiducia di gran parte della popolazione contro “tutti” i soggetti della rappresentanza. I politici e partiti. Il Parlamento e le amministrazioni locali. L’Europa. Lo Stato.
I “forconi”, dunque, sono pochi. Differenti e divisi. Eppure godono di grande consenso. Secondo un sondaggio Ipsos (per Ballarò) il 29% degli italiani ne condivide obiettivi e forme di lotta. Il 49% solo gli obiettivi. In altri termini: 8 italiani su 10 condividono le ragioni dei forconi.Anche se non il modo in cui le manifestano. D’altronde, ieri anche il Papa ha espresso l’invito a “dare un contributo senza scontri e violenza.”. Ma Papa Francesco è l’unico che oggi si possa permettere di dare “buoni consigli”. Perchè è l’unica figura pubblica che disponga di una base di fiducia estesa. Anzi: larghissima (quasi il 90%).
Tutte le altre autorità , tutte le altre istituzioni – locali, nazionali e internazionali – godono di un credito limitato. Spesso bassissimo. E in calo costante.
Dallo Stato, al Parlamento, alla UE. Ne ha risentito perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in particolare dopo la rielezione.
Oggi, infatti, la quota di italiani che esprime (molta-moltissima) fiducia nei suoi riguardi è sotto il 50%. Sicuramente elevata, ma 5 punti in meno rispetto a un anno fa. Per questo i Forconi sono tanto popolari, in Italia.
Perchè rendono visibile la sindrome di cui soffre il Paese. La sfiducia. Verso le istituzioni e i soggetti politici. Ma non solo.
Gli italiani (oltre 6 su 10, Demos dicembre 2013) non si fidano neppure delle persone che incontrano, con cui hanno relazioni. Insomma, non si fidano e basta.
Tanto che, alla fine, la sfiducia è diventata una risorsa – la principale – da spendere in politica e nella rappresentanza. Non a caso, l’indulgenza verso i Forconi è tanto ampia.
Anche fra coloro che, in fondo, ne sono fra le cause (e i bersagli). Sindacati e associazioni imprenditoriali. Colpiti, pesantemente, dalla sindrome della sfiducia (lo ha rammentato ieri Eugenio Scalfari).
Per la stessa ragione, paradossalmente, i Forconi sono divenuti protagonisti del fenomeno contro cui protestano. La politica come spettacolo.
Lo spettacolo della politica. Da qualche settimana, i loro leader appaiono dovunque, in TV. Perchè la sfiducia è, mediaticamente, attraente.
Contribuisce ad alzare l’audience dei programmi, anche se ne abbassa la credibilità . D’altronde, i cittadini, o meglio, gli spettatori, quando guardano i talk politici e le inchieste di denuncia, si incazzano. Si “sfiduciano” ulteriormente.
Ma, nonostante tutto, insistono a seguire e a inseguire questi programmi. La Rete, d’altra parte, contribuisce a rafforzare questo sentimento.
Visto che la sfiducia verso le istituzioni e i partiti sale fra coloro che utilizzano internet con più frequenza (Sondaggio Demos-Coop sull’Informazione, dicembre 2013).
Per questo la protesta dei Forconi segna un punto critico, per la nostra democrazia. Non per la misura (circoscritta) di chi ne è coinvolto direttamente.
Ma perchè rivela, in modo aperto, quanto sia profondo, in Italia, il deficit della rappresentanza.
L’assenza di canali e soggetti capaci di “rappresentare” e di “organizzare” le domande e i problemi della società , dei territori e delle persone. In mezzo a una società dissociata e anomica, popolata da individui mobilitati solo dalla sfiducia.
Così, non resta che gridare, inveire e insultare. Per sfogare la nostra rabbia. La nostra frustrazione. Non contro il potere, ma contro chi lo dovrebbe esercitare.
E contro noi stessi.
Il Paese dei forconi: è un Paese impotente.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica”)
argomento: denuncia | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile I PARTITI ATTENDONO LE MOTIVAZIONI DELLA CONSULTA
Solita storia: all’inizio grandi promesse che questa volta si farà di corsa, anzi la nuova legge elettorale verrà approvata a tempo di record.
Entro fine gennaio, si diceva quando la Corte costituzionale bocciò il «Porcellum», e comunque prima che siano rese note le motivazioni della sentenza…
Poi, strada facendo, sono emerse le solite divergenze: chi vuole il modello tedesco e chi lo preferisce spagnolo, chi guarda alla Francia e chi alla Svizzera.
Sembrava a un certo momento che il «Mattarellum» potesse rappresentare il minimo comune denominatore perlomeno tra i tre maggiori partiti (Pd, M5S e Forza Italia), ma poi Berlusconi si è ricreduto, e circa le vere intenzioni di Grillo nessuno metterebbe la mano sul fuoco.
Col risultato che dopo 20 giorni il treno della riforma è già fermo in stazione.
Tra i partiti (tutti) l’ansia da prestazione è ora rimpiazzata da una prudente e, per certi aspetti, ragionevole attesa di come la Consulta argomenterà l’incostituzionalità del premio (nella versione «Porcellum») e delle liste bloccate.
In particolare, ai piani alti della politica si vuol capire se il nuovo sistema elettorale dovrà prevedere per forza le preferenze, oppure la libertà di scegliere il proprio rappresentante sarà compatibile con altri congegni.
A qualunque porta si bussi in queste ore, la risposta è più o meno la stessa: «Non possiamo mettere in piedi adesso una riforma, col rischio che venga smontata dalla Corte costituzionale…»
D’accordo. Ma la Corte, quando renderà pubbliche le proprie motivazioni?
Non è dato sapere con certezza. Gli addetti ai lavori se le aspettano nella seconda metà di gennaio. Qualcuno ipotizza addirittura, data la complessità dell’argomento, i primi di febbraio.
Secondo Luciano Violante, ex presidente della Camera e «saggio» quirinalizio, questa attesa della Consulta è un po’ una scusa, nel senso che serve a mascherare una certa confusione di idee.
«Mi ricorda», spiega Violante con una battuta, «dei signori che litigano per prendere il taxi, però non sanno ancora dove vogliono andare…».
C’è un’ulteriore spiegazione. Renzi sta usando la riforma elettorale come una pistola puntata contro il Nuovo centrodestra alla vigilia della verifica di governo.
Casomai Alfano dovesse mettersi di traverso su qualche nodo programmatico, oppure volesse rifiutarsi di rinunciare a qualche poltrona ministeriale, il segretario Pd si riserverebbe di fare una legge con Berlusconi e Grillo («Non li tengo fuori», ha ribadito durante una puntata di Fazio) in modo da tornare alle urne il 25 maggio, insieme con le Europee.
I tempi della riforma, insomma, saranno in qualche misura condizionati dal negoziato sul governo (e viceversa)
Fatto sta che in Commissione affari costituzionali della Camera, spiega il suo presidente Sisto, il calendario dei lavori è al momento il seguente: «Entro sabato 28, i partiti potranno proporre i nomi degli esperti da consultare. Ai primi di gennaio si riunirà l’ufficio di presidenza per fissare le audizioni e la tempistica successiva». Nella speranza che, nel frattempo, qualcosa si sblocchi.
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
argomento: elezioni | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile LO ZAR HA MOSTRATO AL MONDO CHE IN RUSSIA E’ L’UNICO A DECIDERE I DESTINI DI TUTTI
Dopo aver passato tre giorni a seguire avidamente su tutte le tv (per lo più estere) le prime
dichiarazioni di Mikhail Khodorkovsky, esaminando nel dettaglio le rughe lasciate sul suo volto da 10 anni di prigione, e cercando di capire dalle inflessioni della sua voce tranquilla quanto fossero bellicose le sue intenzioni verso il Cremlino, oggi i russi sono stati invasi dalle immagini delle Pussy Riot.
Babbo Natale continua a girare per la Russia di Putin, regalando la libertà ai prigionieri per i quali per anni si erano battuti governi, Ong e attivisti in tutto il mondo.
Ma invece che letizia e pace le renne portano amarezza nella depressa e divisa opposizione russa.
Maria Aliokhina esce di prigione dicendo che, se avesse potuto, avrebbe rifiutato l’amnistia dello zar: “E’ una presa in giro, una profanazione, è solo propaganda”.
Nadezhda Tolokonnikova, rilasciata qualche ora dopo in Siberia, grida “Russia senza Putin” come prime parole in libertà . Ed entrambe promettono battaglia e impegno, contro il Cremlino e per le loro compagne rimaste in carcere.
E’ una storia natalizia curiosa con un lieto fine a metà , quella dell’oligarca che fu l’uomo più ricco della Russia e delle due punk sconosciute, che hanno avuto in comune la folle idea di sfidare il potere.
Le Pussy Riot divennero famose in tutto il mondo due anni fa, quando organizzarono nella cattedrale moscovita del Cristo Redentore una “preghiera punk” contro Putin.
Un episodio tra i tanti della Mosca di quei giorni, che ribolliva di proteste, manifesti, cortei, in un risveglio di protesta dopo 20 anni di torpore.
Nessuno si aspettava che le due ragazze avrebbero pagato con due anni di carcere per “teppismo a sfondo religioso” una bravata che perfino molti oppositori considerarono di dubbio gusto.
Ma in Russia, in tutta la sua sventurata storia, le occasioni di diventare eroi proprio malgrado non mancano, si tratta di saperle cogliere. Due ragazze poco più che ventenni, incarcerate e processate con tanto di manette in aula, come fossero serial killer pericolosi, sono diventate il simbolo della ribellione, di una nuova generazione che voleva la libertà a tutti i costi.
Una battaglia che hanno proseguito anche in carcere, denunciando le condizioni disumane delle donne detenute, umiliate, minacciate, percosse, costrette a lavorare 14 ore al giorno, sottoposte a vessazioni e ricatti come visite ginecologiche forzate.
Maria ha cercato di rinviare la sua scarcerazione per amnistia, per “proteggere” le sue compagne, temendo che una volta liberata la detenuta famosa l’amministrazione del penitenziario avrebbe scatenato una rappresaglia contro chi aveva osato parlare.
Khodorkovsky in questi giorni ha raccontato il suo dramma con un “gioco di potere duro” con regole spietate, dove alla fine è stato costretto a una resa onorevole, spedito in esilio senza avere nemmeno la possibilità di cambiarsi l’uniforme da prigioniero, con modalità che non si vedevano dai tempi della deportazione di Solzhenitsyn.
Le Pussy Riot restano in Russia. Dopo la liberazione non sono volate subito a Berlino sull’aereo di una multinazionale, e non dormiranno la prima notte in libertà in uno degli alberghi più lussuosi d’Europa.
Dietro alla loro liberazione non c’è stato un intrigo ai più alti vertici della diplomazia internazionale. La giornalista e blogger Tonia Samsonova ha espresso lo sconcerto di molti con il suo manifesto “Il mio Khodorkovsky resta in carcere”.
La liberazione dell’oligarca diventato il detenuto più famoso del Paese, ha scritto, doveva essere il primo atto di una rivoluzione, il simbolo della libertà che arriva, non il gesto di clemenza di un leader che baratta la vita di uomini e donne con il successo delle sue Olimpiadi: “Dovevamo essere noi a liberarlo”.
Ma Maria e Nadia, la bionda e la bruna, la dolce e la dura, con la loro determinazione e rabbia ieri hanno riscattato quel che resta della protesta dopo che uno zar in vena di bontà ha mostrato a tutto il mondo che in Russia lui è l’unico a decidere i destini di tutti.
Anna Zafesova
(da “La Stampa“)
argomento: radici e valori | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile DOPO UN ANNO DI RECLUSIONE: “LA MIA OPINIONE SU PUTIN NON E’ CERTO CAMBIATA”
Le due componenti della band russa Pussy Riot ancora in carcere, Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova, sono state liberate questa mattina dopo l’amnistia voluta nei giorni scorsi dal presidente Vladimir Putin.
La prima a essere liberata è stata Maria. Poi le porte del carcere si sono aperte anche per Nadezhda.
All’uscita dall’ospedale carcerario in cui era rinchiusa in Siberia – riferisce Itar-Tass – c’erano il marito e numerosi giornalisti.
Anche se provata dai 22 mesi di prigionia, Maria Alyokhina ha bollato l’amnistia come una mera trovata propagandistica del presidente russo e ha detto che avrebbe preferito rimanere in carcere: “Io non credo che sia una amnistia, si tratta di una profanazione”, ha detto al canale televisivo Dozhd, aggiungendo che la misura si applica solo a una piccola minoranza di detenuti e di non credere affatto che la sanatoria sia un atto umanitario ma “solo una trovata pubblicitaria”.
Dopo aver trascorso circa un anno e dieci mesi di reclusione per aver inscenato una “preghiera punk” nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore in protesta contro la rielezione di Vladimir Putin, Alyokhina ha detto la sua opinione sul presidente russo non è cambiata e che lei avrebbe rifiutato l’amnistia se avesse potuto: “la mia opinione sul presidente non è cambiata affatto”, ha sottolineato, “se avessi avuto la possibilità di non approfittare di questo ‘gesto umanitario’, non ne avrei sicuramente approfittato”. Ma “in questa situazione ero solo un corpo che doveva essere spostato nello spazio, non dipendeva da me”.
“Se avessi avuto la scelta di rifiutare (l’amnistia ndr), l’avrei fatto senza dubbio”. “Nenche il 10 per cento dei detenuti è stato liberato”, ha rimarcato la componente delle Pussy Riot, sottolineando come tante detenute incinte, accusate di reati gravi, non saranno liberate.
La Alyokhina si è detta comunque sicura che continuerà a lottare per i diritti dei suoi compagni di prigionia nel campo di Nizhny Novgorod.
“La cosa più difficile in carcere è vedere come le persone si arrendono e si trasformano in una massa”, ha detto.
“Difendere i diritti umani è l’attività che ho intenzione di intraprendere”, ha promesso.
(da “Huffington Post”)
argomento: Diritti civili | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile LA LETTERA INEDITA DEL “PICCONATORE” CHE SMENTISCE LE BALLE DI GRILLO
Rievocano l’ultima incendiaria stagione di Francesco Cossiga per usarla contro di lui. 
Lo dipingono come un suo storico e giurato nemico che oggi però starebbe scivolando sulle stesse «prassi irrituali», «forzature», «interferenze», «esorbitanze dai poteri» e «giochi politici» che si era concesso il Picconatore una ventina d’anni fa.
Così, ricordano la prova di forza aperta tra la primavera del 1991 e l’inizio del ’92, quando il Pds, dopo una lunga gestazione, preparò un dossier di quaranta pagine per la messa in stato d’accusa di quel presidente della Repubblica che, con una traumatica profezia della catastrofe irrigata da durissime e asfissianti esternazioni («vi prenderanno a pietrate per le strade», ripeteva ai leader di partito, compreso il proprio) aveva messo il sistema sotto stress – e quasi in torsione – facendosi in prima persona patrocinatore di una vasta riforma della Carta costituzionale
L’iniziativa presa allora da Botteghe Oscure fu archiviata dal Parlamento al termine di un esame trascinatosi fino all’11 maggio 1993, quando al Quirinale c’era già da un pezzo Oscar Luigi Scalfaro.
E ora, per una sorta di straniante legge del contrappasso, un certo fronte politico-mediatico recrimina che anche Giorgio Napolitano avrebbe tracimato dagli argini costituzionali e sarebbe meritevole di impeachment.
Con un destino che dovrebbe quindi ricalcare quello di Cossiga.
Pretesa che poggia su basi più che fragili, costituzionalmente inesistenti, lanciata dal circuito Movimento 5 Stelle–Fatto Quotidiano .
Ma su cui soffia aggressivamente pure Forza Italia, nella speranza di alzare il più tossico dei polveroni. In modo da intimidire il capo dello Stato, condizionarne i passi (in vista di un impossibile salvacondotto per il Berlusconi decaduto da senatore?), spingerlo a sloggiare dal Colle dopo averlo pregato con il cappello in mano, appena otto mesi fa, di concedere il bis
Un pressing incrociato che si alimenta di ricostruzioni spesso confuse e distorte, come minimo approssimative e in qualche caso platealmente fuorvianti, per Napolitano.
Insopportabile, per lui, passare alla stregua di un irriducibile avversario ideologico del vecchio presidente scomparso un paio d’anni fa.
E, in quanto tale, congiurato di spicco in quel «partito trasversale» che avrebbe voluto far processare Cossiga per attentato alla Costituzione e spodestarlo.
Altro che fedeltà con la rigida disciplina imposta dal vertice dell’ex Pci. Napolitano fu tra i pochi a contrastare la linea più aspra scelta dal Pds.
Certo, era anche lui colpito e sotto choc per le devastanti provocazioni del Picconatore, e non a caso sottolineò che «al Quirinale si era totalmente smarrito il senso della misura».
Tuttavia indicò le dimissioni come la via d’uscita che avrebbe salvaguardato di più la saldezza di un sistema se non sabotato, di sicuro ferito.
Con Emanuele Macaluso, Gianni Pellicani e Umberto Ranieri – la corrente riformista, cosiddetta dei «miglioristi», di cui era leader – spinse per quella soluzione.
Pagandone un prezzo rispetto ai compagni di partito. E lo stesso Cossiga glielo riconobbe.
Lo dimostra una lettera chiarificatrice finora inedita che Maurizio Caprara, suo portavoce in questo nuovo mandato, ha fatto avere al Corriere proprio per sgombrare certe intossicate letture
Il contrasto su quella decisione – «presa non collegialmente» – il capo dello Stato lo aveva sintetizzato nella propria Autobiografia politica , pubblicata da Laterza nel 2005, quand’era da poco tempo senatore a vita e non ancora eletto al Quirinale.
Rammenta in quelle pagine Napolitano: «Non eravamo d’accordo con quella esasperazione, in termini istituzionali, della polemica con il presidente della Repubblica… ma nessun dissenso politico poteva giustificare il protrarsi di quella campagna di deformazioni e insinuazioni contro noi riformisti».
Cossiga, che dei travagli interni di Botteghe Oscure sapeva molto, dimostrò di non considerare «in alcun modo tendenziosa o ostile la posizione» tenuta all’epoca dall’attuale capo dello Stato. «Caro Giorgio», gli scrisse tra l’altro il 2 novembre 2005 l’ex picconatore, «ho molto apprezzato il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona. Ma alcuni che dissentivano da te, si sono ricreduti…». E chiuse la missiva con un auspicio affettuoso, che aveva il sapore del presentimento: «Mi auguro che il centrosinistra (anche con il trattino) ti valorizzi! Ma perchè non eleggerti capo dello Stato? Io ti voterei!!!».
Marzio Breda
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: Cossiga, Napolitano | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile RIVALUTAZIONE PIENA O QUASI PER GLI ASSEGNI FINO A 2000 EURO AL MESE
Aumenteranno, anche se di poco, le pensioni il prossimo anno.
Nulla di eclatante, va da sè, ma in tempi così grigi si tratta comunque di un piccolo segnale.
Gli aumenti saranno compresi tra i 6 e i 20 euro al mese per i trattamenti fino a circa 2.000 euro lordi mensili.
Il meccanismo messo a punto dal governo con la legge di Stabilità prevede infatti una rivalutazione piena solo per le pensioni lorde che non superano tre volte il trattamento minimo di 495,4 euro al mese; per tutte le altre la rivalutazione sarà parziale (al 95% per chi prende 1.981,7 al mese).
Secondo i calcoli de Il Messaggero, ad esempio, una pensione da 500 euro di quest’anno salirà a 506 nel 2014, con un incremento di 6 euro mensili.
Per arrivare a un aumento a doppia cifra bisogna prendere almeno 900 euro al mese: in questo caso il trattamento l’anno prossimo sarà di 910,8 euro al mese (+10,8 euro mensili).
Chi incassa oggi 1.800 euro al mese godrà di un aumento più consistente: +20,52 euro. A questo punto la curva degli aumenti comincerà a flettere, tanto che dai 3.000 euro in su l’aumento sarà per tutti di 14,27 euro.
La legge di Stabilità impone anche un tetto al cumulo di stipendio e pensione: 300 mila euro al massimo.
(da “Huffington Post“)
argomento: Pensioni | Commenta »
Dicembre 23rd, 2013 Riccardo Fucile FONDI PER I TRENI VALDOSTANI, PER IL PAESE DI PADRE PIO E PER I TEATRI DI NAPOLI E VENEZIA
«Nelle lanterne semaforiche, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente
disposizione, le lampade ad incandescenza, quando necessitino di sostituzione, devono essere sostituite con lampade a basso consumo energetico, ivi comprese le lampade realizzate con tecnologia a Led».
Con una prosa piuttosto incerta e supremo sprezzo del ridicolo, nel passaggio in Senato del decreto cosiddetto salva Roma hanno infilato anche questo.
Certo è arduo immaginare che in un Paese normale serva una legge approvata dal Parlamento per cambiare le lampadine fulminate dei semafori.
Ma questa è la prova che di normalità , quando qui si fanno le leggi, è davvero difficile parlare.
Prendiamo il decreto di cui sopra. Il governo l’aveva fatto per risolvere la rogna degli 864 milioni di debiti spuntati nei conti di Roma Capitale, ma già sapendo di far partire una diligenza destinata all’assalto generalizzato.
E a palazzo Madama ci è stato caricato di tutto.
Venti milioni per tappare i buchi del trasporto pubblico calabrese. Ventitrè per i treni valdostani. Mezzo milione per il Comune di Pietrelcina, paese di Padre Pio. Uno per le scuole di Marsciano, in Umbria. Un altro per il restauro del palazzo municipale di Sciacca. Ancora mezzo per la torre anticorsara di Porto Palo. Un milione a Frosinone, tre a Pescara, 25 addirittura a Brindisi. Quindi norme per il Teatro San Carlo di Napoli e la Fenice di Venezia, una minisanatoria per i chioschi sulle spiagge, disposizioni sulle slot machine, sulle isole minori, sulla Croce Rossa, sul terremoto dell’Emilia-Romagna, sui beni sequestrati alla criminalità organizzata.
E perfino l’istituzione di una sezione operativa della Direzione investigativa antimafia all’aeroporto di Milano Malpensa per prevenire le infiltrazioni mafiose nell’Expo 2015.
Per non parlare di alcune perle, nel solco della tradizione di estrema trasparenza delle leggi made in Italy.
Esempio: «All’articolo 1 del decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, il comma 4-bis è abrogato». Abrogato al pari del «terzo comma dell’articolo 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 10 aprile 1948, n. 421, ratificato, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 1957, n. 104».
Chi ci capisce qualcosa? Alla faccia di quella norma approvata dal Parlamento quattro anni fa, che imporrebbe di scrivere le leggi in modo chiaro e comprensibile a tutti, senza costringere i cittadini a scavare nei codici e nelle Gazzette ufficiali di cinquant’anni prima per capire di che si tratta.
Ma tant’è. Quella norma, voluta dall’ex ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, non è mai, e sottolineiamo mai, stata applicata.
Nè hanno avuto seguito i reiterati richiami dei presidenti della Repubblica, prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano, a evitare di produrre grovigli sterminati di norme incomprensibili che si sovrappongono ad altre norme incomprensibili, con rimandi a decreti ministeriali che espropriano il Parlamento del potere legislativo e talvolta non vengono neppure emanati.
Non è servita di lezione nemmeno la vicenda incredibile della finanziaria 2007, costituita da un unico articolo di 1364 commi.
La sera prima dell’approvazione si seppe che nella confusione generale una manina aveva inserito una norma per tagliare le unghie alla Corte dei conti.
Il premier Romano Prodi andò su tutte le furie e impose di eliminarla.
Gli esperti degli uffici legislativi la cercarono nel testo tutta la notte senza però riuscire a trovarla.
La finanziaria fu così approvata con il comma incriminato (il numero 1346) che fu eliminato il giorno dopo, una volta finalmente rintracciato, con un altro decreto legge. L’autore del misterioso geroglifico era un senatore della maggioranza, Pietro Fuda: presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione della legislazione. Nientemeno
Ma c’è ben poco da fare. Senza eliminare il bicameralismo perfetto, che esaspera i passaggi parlamentari in un ping pong infinito fra Camera e Senato, sarà impossibile uscirne.
Anche se, a giudicare da quello che capita nelle Regioni dove quel problema non esiste, qualche grossa responsabilità ce l’hanno di sicuro le persone.
Il bilancio della Regione Lazio che si discute in queste ore, per esempio.
Sul testo della giunta si è riversata una massa di 5.300 emendamenti capaci di far dilatare il fascicolo d’aula a 8.172 pagine.
Denuncia nel suo sito la consigliera regionale Teresa Petrangolini che i 653.760 fogli necessari a stampare le 80 copie di quel fascicolo saranno abbattuti 8,28 pini alti quindici metri.
Non c’è governo che negli ultimi anni non abbia dovuto mettere in campo maxiemendamenti con relativi voti di fiducia per far passare finanziarie, decreti omnibus, leggi milleproroghe…
Un delirio legislativo al quale nessuno è riuscito a sottrarsi.
Ci aveva provato Giulio Tremonti, trasformando la legge finanziaria in «legge di Stabilità ». Doveva essere una semplice tabellina di numeri sul modello della legge britannica: prendere o lasciare.
Aveva faticato non poco, il superministro delle stagioni berlusconiane. Di «legge di stabilità » ne aveva parlato per primo Giuliano Amato, in quel terribile 1992.
Poi Tremonti aveva rilanciato il concetto nel 2002, riuscendo però a imporla solo nel 2009. Ma a poco a poco il Parlamento e le lobby se la sono mangiata, cosicchè di «stabilità » rimane solo il titolo.
Siamo dunque tornati alla vecchia finanziaria, l’ultimo treno che passa e sicuramente arriva in stazione: perciò i vagoni devono essere capienti e ospitali.
Esattamente come quelli degli altri provvedimenti che necessariamente vanno approvati, tipo il decreto salva Roma o la legge milleproroghe, ormai un classico dell’orrore cui già si sta pensando di rifilare le cose non partite con i convogli precedenti.
La frenesia è tale che i vagoni vanno pericolosamente a sbattere gli uni contro gli altri, manovrati da interessi contrapposti.
E la confusione, niente affatto casuale, è tale da permettere ogni colpo basso.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
argomento: governo | Commenta »