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“STATE ZITTI CON I MEDIA”: ORDINE DALL’ALTO NELLA CASERMA CINQUESTELLE, MA SUL TWITTER SCOPPIA LA RISSA

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

IL NUOVO CAPOGRUPPO D’INCA’ RIESCE A RENDERSI GIA’ RIDICOLO…IL BUE DA’ DEL CORNUTO ALL’ASINO: “RENZI BLUFF MEDIATICO”… POVERO BECCHI, NON LO CONSIDERA NESSUNO

Zitti tutti, acqua in bocca. E’ questo il senso dell’sms inviato dal nuovo capogruppo del M5S alla Camera Federico D’Incà  ai suoi colleghi. “Non cedere alle provocazioni di Renzi su media – ha scritto – le risposte verranno date dai capogruppo M5S nelle sedi opportune. Grazie. F.D’Incà “.
Il messaggio arriva lo stesso giorno in cui il segretario del Partito democratico Matteo Renzi ha sfidato Beppe Grillo sul tema delle riforme, in particolare su quella del Senato “per risparmiare un miliardo di euro”.
Tuttavia l’sms viene visto, da alcuni tra i cosiddetti dissidenti del Movimento, come l’ennesima dimostrazione di un “vertice” che “vuole censurare i parlamentari dall’alto”.
Anche se c’è chi osserva, che c’è poco da discutere dal momento che “è evidente che quello di Renzi è solo un modo per riempire i giornali” perchè “il confronto si fa in Parlamento sulla base di proposte concrete”.
Tuttavia c’è chi non ha rispettato la “direttiva”.
Paolo Becchi, il filosofo riconosciuto come uno degli ideologi del movimento, si è rivolto su twitter direttamente a Renzi invitandolo a “mettersi il cuore in pace. Non ci sarà  alcuna riforma del bicameralismo perfetto con l’aiuto del m5s. Cominci a restituire il maltolto”.
Subito è arrivata la risposta del deputato Aris Prodani, che ha generato una rissa sul social network: “Caro Becchi, ma sta parlando in nome di qualcuno o è un suo pensiero? Becchi chi è?”, chiede.
A stretto giro la replica del filosofo: “Io esprimo il mio pensiero. Lei che si definisce ‘deputato’ ed invece è portavoce, cosa vuole? L’ accordo con Renzi?”.
Becchi finisce sotto il fuoco “amico”. Un altro deputato, Alessio Tacconi, dà  man forte al collega Prodani: “Al netto di Renzi e del maltolto, il sistema operativo del m5s è contro le riforme? Per il bicameralismo o cosa?”, chiede a Becchi.
Che subisce anche l’attacco del senatore Luis Orellana: “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”, dice Orellana citando Ludwig Wittgenstein.
E lo dedica “a chi commenta a nome del M5s non avendo titolo”.
Sulle riforme, spiega, “decide m5s tramite il portale. Che non esiste. Oppure…”.

(da “Huffingtonpost“)

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LA MOSSA DI RENZI: PRENDERE O LASCIARE

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

SE LE RISPOSTE DOVESSERO TARDARE, IL PD AVREBBE UN BUON MOTIVO PER ROMPERE

La nuova mossa di Matteo Renzi alla politica italiana rende sempre più chiaro il disegno del nuovo leader del Pd.
Una strategia a “doppio taglio” che si può compendiare così: dentro il campo di gioco “imposto” dal partito di maggioranza relativa (legge elettorale maggioritaria, unioni civili, revisione della Bossi-Fini, abolizione del Senato) il sindaco di Firenze vuole costringere i suoi partner – da Enrico Letta ad Angelino Alfano – ad uscire rapidamente allo scoperto. A dire come la pensano. A non nascondersi nei rinvii.
Per costringerli ad accordi, o difficilmente digeribili, politicamente costosi (diritti civili, extracomunitari), o scivolosi, come quello sulle riforme politiche.
Difficilmente digeribili, non perchè Letta, Alfano e quel che resta di Scelta civica abbiano forti ragioni di principio da far valere, per opporsi ad una regolamentazione elementare dei diritti degli omosessuali. O ad una attualizzazione della legge Bossi-Fini.
Negli interlocutori di Renzi, non manca il pragmatismo. Ma su questi temi è già  partito il pressing di Forza Italia, per mettere in difficoltà  i “cugini” del Nuovo Centro Destra e se l’escalation polemica dovesse salire, a quel punto la corda della maggioranza potrebbe spezzarsi.
Facendo felice Matteo Renzi, che punta ad elezioni anticipate.
Anche sulla riforma elettorale, la proposta di Renzi è a doppio taglio: il pressing imposto agli alleati su un modello comunque maggioritario, impone riposte chiare, a breve.
Se le risposte dovessero tardare, se i partiti alleati del Pd cincischiassero, Renzi avrebbe un buon motivo per rompere.
Se invece accettassero di andare a vedere e di farlo rapidamente, attribuirebbero al leader del Pd un’arma deterrente formidabile: una legge elettorale nuova nuova, con la quale poter andare a votare in qualsiasi momento. Anche nella prossima primavera.

(da “La Stampa“)

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L’IMPEACHMENT DEI BOCCALONI: IL DISCO ROTTO DI GRILLO DA LUI STESSO DEFINITO “FINZIONE POLITICA”

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

IN ITALIA NON ESISTE, VI E’ LA MESSA IN STATO DI ACCUSA DEL PRESIDENTE PER ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE: UNA POLEMICA FONDATA SUL NULLA

Grillo torna a sparare la castroneria (“finzione politica” come ammesso da lui stesso) dell’impeachment, che in Italia non esiste.
Esiste la messa in stato d’accusa del Presdiente, decisa dal Parlamento, per atttentato alla Costituzione e questo “attentato” non c’è ,ai stato.
Ci sarebbe, invece, se Napolitano facesse ciò che chiede Grillo
Tralasciando gli altri deliri del Grillo natalizio, la migliore risposta finisce per darla lui stesso, come da questo estratto de “il Fatto Quotidiano” che titolava “Grillo, confessione a eletti M5S: ‘Finzione politica l’impeachment di Napolitano’
Il Fatto ha pubblicato in esclusiva la conversazione tra il leader del Movimento 5 Stelle e i suoi deputati. “Siamo populisti, parliamo alla pancia della gente e non dobbiamo vergognarci. Se andiamo a sinistra siamo rovinati”.
E sul Capo dello Stato dice: “Non possiamo dire che il Colle ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro chi non rappresenta più tutti gli italiani”
“Non dobbiamo vergognarci di essere populisti. L’impeachment ad esempio, è una finzione politica per far capire da che parte stiamo”.
Beppe Grillo parla ai suoi in un’aula della Camera. È una conversazione che nessuno conosce, quella che il Fatto ha in esclusiva, tra il leader e i deputati.
Lui, il grande capo, in piedi, spalle al muro, la voce pacata e i toni concilianti. Gesticola, ride poco e dà  pacche sulle spalle.
“Quelli che ci giudicano hanno bisogno di situazioni chiare. Ad esempio prendete l’impeachment di Napolitano. Molti di voi forse non sono d’accordo, lo capisco. Ma è una finzione politica. E basta. Non possiamo dire che ha tradito la Costituzione. Però diamo una direttiva precisa contro una persona che non rappresenta più la totalità  degli italiani. Noi siamo la pancia della gente”.
Perchè il rischio era molto grosso: “Abbiamo raddrizzato la situazione, siamo stati violenti per far capire alla gente”.

(da “Il Fatto Quotidiano“)

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CASO ESODATI: SOLO UNO SU TRE HA RICEVUTO L’ASSEGNO

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

SU 130.000 STIMATI, ACCOLTE 80.000 DOMANDE… FINORA EROGATE 27.000 PENSIONI

Con il richiamo del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel messaggio di fine anno ha voluto richiamare anche la loro condizione tra quelle di sofferenza sociale, gli «esodati» si affacciano da protagonisti anche sul 2014.
A rigore, si tratterebbe dei lavoratori che hanno perso il posto o si sono licenziati in vista della pensione che sarebbe scattata per loro nel 2012, ma si sono ritrovati improvvisamente con la riforma Fornero che ha cambiato le carte in tavola, in molti casi rinviando di parecchi anni l’appuntamento con l’assegno previdenziale.
Senza più lavoro e con la pensione diventata di colpo un miraggio, gli esodati hanno da allora riempito le cronache.
UN PASTICCIO INFINITO
Prima con l’esplosione di migliaia di storie drammatiche di persone senza più alcun reddito. Poi con le prime mosse del governo che cercò di capire quanti fossero gli esodati, ma senza arrivare a una parola chiara, con l’Inps che a un certo punto (giugno 2012) aveva stimato in 390 mila le persone a rischio, ma poi fu costretto dal governo a rimangiarsi l’allarme.
Infine con i primi provvedimenti legislativi per correre ai ripari. Sono 5 gli interventi di «salvaguardia» presi negli ultimi due anni, incluso quello contenuto nella legge di Stabilità  approvata prima di Natale.
Consentono tutti di andare in pensione con le regole in vigore fino al 31 dicembre 2011, cioè prima della riforma Fornero, a chi ha determinati requisiti. Si è così costruito nel tempo un sistema complesso di regole a maglie sempre più larghe: dai lavoratori in mobilità  a quelli che si erano licenziati, cioè dagli esodati in senso stretto a categorie assimilate, come i contributori volontari, persone che pur non lavorando più avevano scelto di proseguire la contribuzione all’Inps per andare in pensione, fino a comprendere, con l’ultima legge di Stabilità , anche i lavoratori che si sono licenziati prima del 2012 e poi hanno ripreso a lavorare (purchè non a tempo indeterminato) anche se dovessero guadagnare bene (finora per questi c’era un tetto di 7.500 euro l’anno).
Un sistema sempre più complicato, quindi, dove magari qualche poveraccio resta fuori da ogni tutela e altri sono fin troppo protetti. E come se non bastasse, l’attuazione di questi provvedimenti procede molto a rilento.
SOLO 27 MILA IN PENSIONE
L’iter è estremamente complesso: si parte con la legge, poi c’è il decreto ministeriale attuativo, quindi la circolare Inps. Nel frattempo passano parecchi mesi.
Quando finalmente tutto è pronto, la domanda va presentata alla direzione territoriale del ministero del Lavoro , che fa una prima verifica, e poi la passa all’Inps per tutta l’istruttoria del caso.
Finora solo la prima salvaguardia, decisa a metà  del 2012, cioè un anno e mezzo fa, può ritenersi conclusa.
Per la seconda e la terza, anche se i termini di presentazione delle domande sono scaduti da tempo (21 maggio e 25 settembre 2013), l’esame delle pratiche è ancora in corso.
Secondo un monitoraggio dell’Inps aggiornato al 13 dicembre scorso, la situazione è la seguente. Le prime 3 salvaguardie erano state varate per mandare in pensione complessivamente 130 mila persone, le domande accolte finora perchè con i requisiti in ordine sono quasi 80 mila e le pensioni in pagamento meno di 27 mila.
Insomma, solo uno su tre col diritto certificato alla pensione sta incassando l’assegno. Come mai? E come mai ci sono 50 mila domande in meno del previsto?
Certamente sullo scarto tra platea stimata e domande accolte pesano le lungaggini procedurali e qualche calcolo sbagliato: per esempio, con la seconda salvaguardia si volevano tutelare 40 mila lavoratori in mobilità , ma le certificazioni finora inviate sono solo 5.432.
Probabile quindi che ci sia stata una sovrastima di questa categoria. Sulle poche pensioni liquidate, invece, ci sono anche altre spiegazioni.
Dice il direttore generale dell’Inps, Mauro Nori: «La differenza maggiore tra diritto certificato ed erogazione della pensione l’abbiamo sui lavoratori in mobilità . In molti casi queste persone resteranno ancora per anni con il sussidio previsto e la pensione scatterà  solo dopo. Quindi anche se hanno il diritto certificato, l’assegno non poteva essere già  messo in liquidazione». Gli esodati, dunque, ci accompagneranno ancora per molti anni.
UNA SPESA DI 11,5 MILIARDI
Del resto, ai 130 mila potenziali beneficiari delle prime tre salvaguardie ne vanno aggiunti 9 mila della quarta decisa lo scorso agosto, che potranno presentare domanda fino al 26 febbraio 2014, e altri 17 mila previsti dalla legge di Stabilità , per un totale che supera le 156 mila unità .
Con un costo davvero pesante: circa 11 miliardi e mezzo in nove anni, dal 2012 al 2020, che dovranno essere spesi per pagare pensioni che altrimenti (applicando i requisiti dalla riforma Fornero) non si sarebbero pagate.
E che la storia degli esodati si esaurisca con la quinta salvaguardia è davvero improbabile.

(da “il Corriere della Sera”)

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MARCHIONNE SBANCA LA CHRYSLER, COLPO GROSSO A DETROIT

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

LA FIAT CONQUISTA IL 100% DELLA SOCIETà€ DOPO L’ACCORDO CON IL SINDACATO… PAGATI 4,35 MILIARDI DI DOLLARI MA OLTRE LA METà€ SONO SOLDI DELLA STESSA AZIENDA USA

Gli Agnelli mettono a segno il colpo grosso. Rilevando l’intero capitale della Chrysler, infatti, completano l’avventura americana con un successo.
L’accordo con il sindacato americano Uaw, che deteneva, tramite il fondo sanitario Veba, il 41,5% dell’azienda automobilistica salvata da Obama e ceduta alla Fiat, è stato raggiunto ieri.
La casa torinese, ora, possiede il 100% dell’azienda di Detroit con un esborso tutto sommato minimo, 4,35 miliardi di dollari la maggior parte dei quali provengono dalle stesse casse della Chrysler.
Come da comunicato ufficiale, l’accordo riguarda il 41,46% della casa americana detenuto da Veba Trust e acquistato dalla controllata Usa della Fiat, la Fiat North America Llc (Fna).
“A fronte della vendita della partecipazione, si legge, il Veba Trust riceverà  un corrispettivo complessivo pari a 3,65 miliardi di dollari Usa”.
Ma non saranno tutti soldi che fuoriescono dai forzieri degli Agnelli.
Solo 1,75 miliardi, infatti , verranno versati “al closing”, cioè a chiusura di tutta l’operazione mentre 1,9 miliardi, cioè più della metà , saranno il frutto “di un’erogazione straordinaria che Chrysler Group pagherà  a tutti i soci”.
L’azienda, insomma, verserà  un dividendo straordinario, possibile grazie ai risultati fin qui raggiunti, e la quota di pertinenza della Fiat verrà  girata al Veba costituendo parte del prezzo di acquisto.
Quella che al Lingotto è definita “la magia di Marchionne” è dunque un’abile operazione finanziaria che consente alla società  degli Agnelli di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Dall’inizio dell’operazione Chrysler, infatti, e grazie alle scelte di Obama e del sindacato Usa, la Fiat ha sborsato complessivamente “solo” 3,7 miliardi di dollari. La Daimler aveva dovuto tirare fuori ben 36 miliardi mentre il fondo Cerberus, quando acquistò l’80% dell’azienda di Detroit, pagò 7,4 miliardi.
Inoltre, non ci sarà  aumento di capitale. L’unica concessione fatta al sindacato di Bob King — che per gestire la trattativa si è affidato alla Deutsche Bank mentre la Fiat ha fatto affidamento su Ron Bloom che aveva gestito il piano di salvataggio dell’auto per Obama — è un contributo di 700 milioni di dollari al Veba Trust, versati in quattro rate annuali. In questo modo si arriva ai 4,35 miliardi di dollari. In cambio, però, il sindacato “si impegnerà  a sostenere le attività  industriali della società  e l’ulteriore implementazione dell’alleanza Fiat-Chrysler, in particolare il programma World Class Manufacturing”. Insomma, una garanzia di massima collaborazione.
In questo quadro l’entusiasmo delle dichiarazioni di casa Fiat è del tutto comprensibile. “Aspetto questo giorno sin dal primo momento — ha detto il presidente John Elkann — sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione della Chrysler”. Ancora più entusiasta il regista dell’operazione, Sergio Marchionne : “Nella vita di ogni grande organizzazione ci sono momenti importanti che finiscono nei libri di storia. L’accordo raggiunto è senza dubbio uno di questi momenti”.
Apprezzamenti sono giunti anche da Fim e Uilm, protagonisti dell’intesa Fiat in Italia, dal sindaco di Torino, Piero Fassino e dal presidente della Regione Piemonte , Roberto Cota. In conseguenza dell’intesa, infine, sia Fna che Veba ritireranno l’azione legale che entrambi avevano presentato davanti al tribunale del Delaware — sede legale di Chrysler — per spuntare il massimo prezzo dalla trattativa.
Con il successo dell’operazione, Marchionne raggiunge l’obiettivo fondamentale che si era dato all’inizio dell’operazione “americana”. Innanzitutto ottiene il controllo pieno della liquidità  della Chrysler, molto importante soprattutto se sommata a quella della Fiat. In questo modo potrà  gestire, da un’unica plancia di comando e con un’unica visione, le strategie del gruppo.
Il secondo passaggio che gli è reso possibile è quello della quotazione in borsa. Non è chiaro se ci sarà . Si tratta di capire se Fiat procederà  o meno alla fusione delle due società  creando davvero il polo mondiale dell’automobile — a oggi il settimo o l’ottavo. In ogni caso, l’accordo di ieri ha comportato una valutazione “ufficiale” della Chrysler in 8,6 miliardi di dollari.
Una parte dei quali potrebbero rientrare nelle casse Fiat in seguito a una quotazione vincente in borsa.
Tutto quanto, però, andrà  guardato alla luce delle prospettive complessive che Marchionne e gli Agnelli vorranno disegnare per il gruppo automobilistico. La vittoria negli Usa comporta grandi potenzialità  ma significa anche che d’ora in avanti il centro di gravità  delle decisioni si sposta definitivamente.
L’Italia è davvero una provincia e come tale verrà  gestita. Quattro anni dopo il varo del piano “Fabbrica Italia” successivamente rimangiato, il prossimo aprile Marchionne presenterà  il suo nuovo “piano quinquennale”. Solo allora si saprà  davvero se e quanto in Italia c’è da gioire per il colpo grosso di Detroit.

Salvatore Cannavò
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LETTA E L’INCONTRO CON MATTEO: “NON MI SCHIACCIARE SU ALFANO”

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

SISTEMA DI VOTO E CONTRATTO DI COALIZIONE… VERRA’ ABOLITO IL VOTO DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO

L’appuntamento è a giorni, prima della ripresa.
Il faccia a faccia con Matteo Renzi forse già  questo fine settimana in Toscana, dove il premier Enrico Letta potrebbe ritirarsi prima di rimettere piede a Palazzo Chigi, da martedì 7.
Telefonata di auguri tra i due in questi giorni, ma ora si fa sul serio. E fare sul serio per il sindaco di Firenze vuol dire mettersi al lavoro e subito sulla legge elettorale. Sulla riforma il suo sprint, ma sfiderà  Grillo di nuovo sui costi della politica e l’abolizione del Senato.
Entro domenica 12 Renzi vuole chiudere la sua proposta sul sistema di voto.
Due le ipotesi ancora aperte sulla sua scrivania. La prima, il ritorno al Mattarellum utilizzando come premio di maggioranza il 25 per cento di proporzionale previsto nello schema originario.
La seconda, il doppio turno di coalizione per l’elezione del cosiddetto «sindaco d’Italia».
Il presidente del Consiglio Letta non ha alcuna voglia di stare a guardare. La settimana prossima insedierà  a tamburo battente il tavolo formato dalle tre delegazioni che compongono la maggioranza.
C’è da mettere nero su bianco l’ormai famoso contratto coalizione sul quale sarà  riscritto l’accordo di governo. Si risolverà  in una dozzina di schede, ciascuna contenente un impegno concreto da realizzare nell’arco di 10-12 mesi.
Sollevato, il premier, ancor più che soddisfatto, dal discorso del presidente Napolitano.
«Ormai so che questo governo andrà  avanti – è una delle considerazioni fatte – Ma nella definizione del nuovo programma dovremo prendere in considerazione solo impegni che possiamo mantenere davvero. Il resto si risolverebbe in un boomerang». Occhio ai passi falsi, insomma. Lo spettro del voto anticipato a maggio assieme alle Europee – che Silvio Berlusconi agita ancora come spauracchio al quale nemmeno lui mostra ormai di credere – è destinato a restare tale.
Seppure la legge elettorale dovesse essere approvata in tempi più che rapidi, non ci sarebbero poi quelli necessari a mettere a punto i collegi. Un lavoro di settimane, se non di mesi.
Su un punto premier e sindaco avrebbero trovato già  un’intesa: abolire, con la riforma elettorale, il voto degli italiani all’estero, che necessiterà  però di un passaggio costituzionale.
Il nodo a questo punto diventa tutto politico. Se davvero nei prossimi giorni Letta e Renzi stringeranno il loro patto di ferro – è il ragionamento fatto a Palazzo Chigi – allora per gli altri partiti di governo i margini si faranno strettissimi, difficile che il Nuovo centrodestra di Alfano piuttosto che i centristi di Mauro possano fare la voce grossa.
La tolda di comando Pd si blinderebbe fino alle elezioni. «Se invece mi volessero schiacciare su Alfano, allora sì, tutto diventerebbe più difficile» è l’avvertimento del presidente del Consiglio.
Si tratterà  di capire da martedì quali saranno le reali intenzioni di Renzi. Se attraverso i suoi per esempio insisterà  per un rinnovamento della compagine di governo, dalla poltrona della Giustizia a quella del Lavoro, per cominciare.
Per noi le priorità  «sono le cose da fare ma il confronto che si aprirà  in maggioranza sarà  a 360 gradi» è quanto precisano da Palazzo Chigi. Come dire, tutto è in gioco, rimpasto compreso.
Tanto più che a rivendicarlo è anche Mario Monti, rimasto fuori squadra dopo l’ammutinamento dei «suoi» ministri.
Molto dipenderà  anche dal livello di coinvolgimento da parte di Renzi di Berlusconi (e Grillo) nella partita della riforma elettorale.
Non è un mistero che Letta, come Alfano, lo vorrebbero fuori dai giochi, almeno nella prima fase. Anche perchè il Cavaliere ha già  iniziato una campagna elettorale tutta sua e mirata alle Europee. Finita la pausa festiva, in questi giorni riprenderà  il battage delle telefonate ai club.
Mentre ieri sputava fuoco e fiamme contro Napolitano: «Col suo discorso ha voluto archiviarmi, mai un cenno alla mia decadenza, al nodo della giustizia, alle larghe intese fallite» si lamentava da Arcore coi suoi.
«Si conferma un presidente di parte, prima ce ne liberiamo, meglio è».

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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RISSA CIVICA, NEL “CENTRO” DI MONTI VOLANO I LODEN

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

DOPO APPENA UN ANNO IL PARTITO SI E’ SPACCATO… IL DIVORZIO DEI POPOLARI E L’IRA DEL LEALISTI

“Complimenti! Bravo Mario Mauro …..Davvero un bel regalo di inizio anno! Invece di andare in giro a spender soldi e a far campagna elettorale pro domo sua, sarebbe stato meglio si fosse occupato di questa vicenda che riguarda l’India e l’annullamento della commessa di elicotteri alla Augusta Westland per un danno di 560milioni di euro a Finmeccanica. Ci faccia lui un regalo vero: si dimetta”.
Buon anno: Gianfranco Librandi, deputato di Scelta Civica comincia augurando un sereno 2014 all’ex compagno di partito Mario Mauro.
È ministro del governo Letta, ma non più per conto dei fedelissimi di Mario Monti. Insieme agli altri popolari se n’è andato in Per l’Italia: e adesso che ufficialmente non vivono più sotto lo stesso tempo, i sopravvissuti del grande Centro possono finalmente levarsi il loden e fare quello che volevano provare da tempo.
Tirarselo addosso.
L’anno cominciato in bellezza da Librandi e Mauro, era finito con altrettanta letizia tra Benedetto Della Vedova e Pier Ferdinando Casini.
“Il suo riferimento ad atteggiamenti da Dr. Jekyll e Mr Hyde tra prima e dopo le elezioni — diceva l’altro ieri l’ex finiano al leader Udc — suona decisamente autobiografico”.
E giù a ricordare i primi giorni del governo Letta, quando “Casini rivendicò per sè, dopo aver acquisito per l’Udc un ministro, un sottosegretario e un questore, la prestigiosa poltrona di presidente della Commissione Esteri di Palazzo Madama”, piuttosto che i bastoni tra le ruote messi alla corsa per il Quirinale di Annamaria Cancellieri e il posto inscalfibile del “tecnico” Moavero.
Rancori covati per mesi, affiorati nelle settimane del voto sulla decadenza di Berlusconi (Mauro e gli altri auspicavano clemenza), esplosi con la fine delle larghe intese.
Così, fa un certo effetto rileggere le cronache di un anno fa. Era gennaio, il professore aveva appena annunciato la “salita in politica” e pareva che l’avvento di Scelta Civica avrebbe cambiato le sorti del Paese.
Parole d’ordine: rigore, sobrietà , autorevolezza. “Bisogna abbandonare i particolarismi, gli odi che hanno caratterizzato la nostra vita politica, per unirsi in un grande sforzo”, diceva Andrea Riccardi convinto sarebbe stata una passeggiata in confronto alle missioni umanitarie di Sant’Egidio.
Montezemolo profetizzava il “cambiamento” e per evitare l’overdose di miele, il bocconiano chiosava: “Non sono democristiano, mi ritengo un rivoluzionario”.
Per la verità , Monti è ancora convinto che non tutto sia perduto: “Mi sono presentato alle elezioni per evitare all’Italia una pericolosa deriva — ha detto dieci giorni fa — e credo di esserci riuscito”.
Peccato che non sia riuscito ad evitare quella del suo partito, di deriva. Basta leggere le affettuosità  che i centristi si sono scambiati solo nel mese di dicembre, a scissione appena consumata.
Il deputato montiano Andrea Vecchio si rivolge così a Lorenzo Dellai, a inizio mese ancora capogruppo di Scelta Civica: “Se la maggioranza non ti vuole, devi andartene”. Qualche giorno dopo chiariva il concetto Pierferdinando Casini, spiegando perchè lui, Dellai, Mauro e altri se n’erano andati: “Non accettiamo la spocchia di chi si sente unto dal Signore ed usa atteggiamenti professionali. Quando si fa politica bisogna parlare alla gente”, il suo caloroso saluto a Mario Monti.
Il professore replicava qualche ora più tardi su RaiTre: “Credo che adesso Scelta Civica, avendo perso per strada una componente più flemmatica e attendista, prenderà  un accento più pressante e riformista”.
Insiste Dellai: “Stava diventando una sorta di partito di ottimati, senza che ci fosse un’abbondanza di ottimati. La nostra cultura, il popolarismo di matrice cattolico democratico, era visto come una cosa un po’ da sopportare”.
Ora sono tutti alle prese con il rimpasto. I montiani reclamano posti, i popolari dicono che ce li hanno già  e se mai spettano a loro.
Chiarisce Mariano Rabino (Scelta Civica): “Comprendo il fatto che i popolari non capiscano le richieste di Scelta Civica al governo, visto che loro, non avendo un progetto politico, di un ministro non sanno che farsene. Il loro obiettivo è vivacchiare in attesa del prossimo treno su cui salire per cercare di essere rieletti”.
Fuga gli ultimi dubbi Antimo Cesaro: Per l’Italia? “Una zattera appesantita da ministri, sottosegretari e presidenti vari, molti dei quali eletti sotto un altro simbolo e oggi militanti in un simulacro di partito, non menzionato nei sondaggi e che rappresenta la naturale evoluzione di Ccd, Udr e Udc, fino ad arrivare a PI: acronimo di Polemiche Inutili, ineffabile come il PI greco, sebbene non abbia l’utilità  e la tradizione culturale di quest’ultimo”. Auguri.

Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)

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AZIENDE IN CRISI, AL MINISTERO 159 VERTENZE, INCERTEZZA PER 120.000 LAVORATORI

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

DAGLI ELETTRODOMESTICI ALL’ACCIAIO E AL COMPARTO ELETTRONICA, ECCO I CASI ANCORA DA RISOLVERE

Gli elettrodomestici e il loro indotto, la siderurgia, il manifatturiero, le Tlc, le aziende che fanno componenti per auto e moto e il farmaceutico.
C’è ogni genere di prodotto nel novero dei settori maggiormente interessati dai “tavoli” aperti presso il Ministero dello Sviluppo economico e che riguardano imprese in crisi.
Il 2014 si apre infatti con 159 tavoli di confronto instaurati, ai quali nel corso dell’anno ormai passato si sono seduti per almeno due volte tutte le parti in causa: proprietà , lavoratori e istituzioni.
In totale il problema riguarda 120mila lavoratori, con un numero di esuberi che ammonta in media al 15% della forza lavoro delle singole imprese, diciotto delle quali (per 2.300 dipendenti) hanno dichiarato la cessazione di attività .
Nel 2013, ricorda il Ministero, sono stati sottoscritti 62 accordi che hanno consentito di evitare oltre 12mila riduzioni di organico.
I più conosciuti hanno riguardato: Natuzzi, Indesit, Bridgestone, Novelli, Richard Ginori, Micron (unità  di Avezzano), Vestas, Alcoa, Sixty, Candy, Ies-mol (Raffineria di Mantova), A C C, Berco, Valtur, Marangoni, Simpe, Plasmon, Filanto, Wind, Meraklon, Eurallumina.
Tra gennaio e novembre sono state richieste 990 milioni di ore di cassa integrazione e l’industria è il ramo di attività  che assorbe il maggior numero (a novembre su 110 milioni, 76 erano per l’industria).
Tra i tavoli di crisi che da gennaio vedranno impegnati ministero e sindacati vi sono aziende di grande rilievo e marchi storici per il Paese, in tutti i settori produttivi: dall’elettronica di Alcatel a Italtel, alle ceramiche di Ideal Standard; dal tessile di I Ti Erre alle energie rinnovabili di Marcegaglia (stabilimento di Taranto); dalla chimica di Akzo Nobel alla cantieristica di Fincantieri (stabilimenti di Palermo e Castellammare di Stabia).
Maggiormente interessati sono i settori nei quali hanno particolare incidenza sul costo totale di produzione, il costo del lavoro ed il costo per l’approvvigionamento di energia.

Ecco di seguito le principali vertenze in corso.
SIDERURGIA
Ilva. E’ in attesa dell’applicazione dell’Aia e del piano industriale; nel mentre, sono in contratto di solidarietà  1.700 lavoratori. “Quello che ci preoccupa è che lo stabilimento ha prodotto 2 milioni di tonnellate di acciaio in meno di quanto previsto dall’Aia – afferma il segretario generale Uilm Rocco Palombella – Inoltre, Comune e provincia non hanno autorizzato i lavori per i parchi minerari e non sappiamo quando inizieranno”. “L’azienda è chiamata a fare investimenti e le banche non sono in grado di fornire le risorse necessarie – sottolinea Rosario Rappa della Fiom – intanto il piano industriale è slittato da dicembre a febbraio-marzo”.
Alcoa. La società  dell’alluminio è’ appesa alla verifica del piano industriale per la vendita a Klesh; il Mise ha fissato come data il 15 febbraio. L’attività  produttiva è ferma da due anni circa e i 490 lavoratori sono in cassa integrazione dal 22 dicembre scorso e hanno ottenuto la proroga fino al 31 dicembre 2014. A fine gennaio è fissato un incontro con i sindacati al Mise.
Lucchini. Lo storico gruppo siderurgico, passato alla Severstal di Alexei Mordashov, ha 4.500 lavoratori in vari stabilimenti di cui il principale è a Piombino, dove i dipendenti hanno contratti di solidarietà  fino a febbraio. A Trieste, dove è in corso una trattativa per l’affitto del ramo di attività , 485 persone rischiano la cassa integrazione da gennaio. Attesa per l’accordo di programma su Piombino e dell’apertura del bando di vendita. In ballo vi è l’ipotesi di costruire un cantiere di demolizioni (che potrebbe smaltire la Costa Concordia) ma i tempi sono stretti. A gennaio dovrebbe tenersi un incontro al Mise.
Ast di Terni. Ha 2.850 dipendenti che vanno in cassa integrazione a seconda dell’andamento del mercato. A gennaio dovrà  tenersi un incontro azienda-sindacati per capire quale sarà  il destino dello stabilimento, visto anche che deve ancora arrivare l’approvazione Ue al passaggio a Thyssenkrupp (che ha riacquistato da Outokumpu).
Pittini Trafilerie. Ha inviato 78 lettere di licenziamento alla vigilia di Natale ai dipendenti dello stabilimento di Celano.

ELETTRODOMESTICI
Electrolux. Ha deciso 500 esuberi che si aggiungono ai 1000 che derivano da precedenti accordi, affrontati con contratti di solidarietà . La società  ha avviato “un’investigazione” su tutti gli stabilimenti italiani, dove lavorano circa 4.000 persone, per verificare la sostenibilità  della produzione. Il governo ha convocato l’azienda e le regioni interessate per il 24 gennaio ma i sindacati chiedono un incontro prima di questa data.
Jp. Parte della ex Merloni, è bloccata in una complicata situazione giudiziaria: il Tribunale di Ancona ha annullato un ricorso presentato dalle banche sulla vendita ed essendoci un commissario straordinario la vicenda vede coinvolto il Mise.
Acc di Belluno. E’ in amministrazione controllata e rischiano il posto 600 persone, che in parte sono in cassa integrazione.

ELETTRONICA, TLC E INFORMATICA
Italtel. Ha 1.300 dipendenti circa in tutta Italia ma la maggioranza è nello stabilimento di Castelletto; 330 gli esuberi indicati dalla società , che vuole anche tagliare i costi del lavoro rivedendo il contratto aziendale. La azienda – riferiscono i sindacati – vuole arrivare ad un’intesa al Mise per uscite volontarie. L’8 gennaio è previsto un incontro presso l’Assolombarda.
Alcatel. Ha la cassa integrazione da tanti anni e il 17 gennaio è previsto un incontro al Mise; su circa 2.000 addetti sono stati dichiarati 585 esuberi. In ballo c’è il trasferimento negli Usa delle attività  di ricerca e sviluppo svolte da 350 addetti a Vimercate.
Micron. Ha annunciato 2-300 esuberi su 700 lavoratori di Catania e Agrate; a gennaio è previsto un incontro.
LFoundry. Ha 1400 lavoratori ex Micron in contratti di solidarietà  fino all’agosto 2014 ma secondo i sindacati non ha liquidità  e rischia di non avere le risorse per anticipare le competenze
Ciet. E’ in amministrazione controllata e rischia il fallimento; i lavoratori a rischio sono più di 300.
Aziende Appalti Telefonici. La principale è Sirti, dove si è già  chiusa la trattativa sugli esuberi con i contratti di solidarietà  ma resta aperta la partita sui contratti aziendali. Ad Alpitel sono a rischio di licenziamento collettivo 110 lavoratori.
Stm. La società  italo-francese, quotata in Borsa, vive una forte incertezza per l’ipotesi privatizzazione da parte del Tesoro dopo una serie di risultati economici negativi.
Jabil di Caserta. Ha intenzione di licenziare la metà  dei lavoratori, cioè 350, che già  sono in cassa integrazione; è stato aperto un tavolo al Mise ma ancora non si intravedono soluzioni.
Schneider di Rieti. E’ a rischio chiusura per la decisione della proprietà  di spostare la produzione in Bulgaria; nei primi mesi dell’anno i dipendenti dovrebbero lavorare dai 2 ai 3 giorni al mese.

FERROVIE
Ansaldo Breda. Ha forti perdite di bilancio e a rischio sono oltre 2.000 addetti dei quattro stabilimenti di Pistoia, Pomigliano, Reggio Calabria e Palermo (questi ultimi in cassa integrazione). I sindacati – spiega Enrico Azzaro della Uilm – si oppongono alle ipotesi di smembramento e chiedono la costituzione di una joint venture con Sts per l’acquisizione delle commesse.
Officine Ferroviarie Veronesi. Hanno avviato la procedura di amministrazione straordinaria; un commissario deve mettere l’azienda sul mercato. Oltre duecento i lavoratori a rischio.
Ferrosud, Firema, Keller. Sono altre aziende del settore che utilizzano gli ammortizzatori sociali.

AUTOMOTIVE E MOTOCICLI
Irisbus
. Ha chiuso l’attività  nel 2011 e ha ottenuto una proroga fino al 30 giugno 2014 della cassa integrazione in deroga per 400 lavoratori; è in corso una trattativa al Mise con un operatore economico nazionale in collaborazione con un gruppo straniero. Previsto un incontro a gennaio.
Termini Imerese. Ha chiuso l’attività  nel 2011 e fino al 30 giugno 2014 i circa mille lavoratori avranno la Cigs in deroga; i sindacati sono in attesa di un incontro al Mise a gennaio per definire l’interesse di alcune società  per la reindustrializzazione del sito; dovranno essere definiti i piani industriali che dovrebbero coprire l’occupazione per circa 500 lavoratori.
De Tomaso. Ha sottoscritto l’accordo per quattro mesi di cassa integrazione straordinaria, in scadenza il 4 gennaio, per i circa mille dipendenti, fra i quali i 129 lavoratori ex Delphi di Livorno; l’obiettivo è traghettare l’azienda verso i potenziali acquirenti.
Non sono stati aperti tavoli al Mise, ma i sindacati sono preoccupati per la situazione dei lavoratori di Piaggio (che ha firmato alla vigilia di Natale l’accordo per 1.000 contratti di solidarietà ); di Aprilia (che ha avviato la discussione sul piano industriale alla luce della scadenza dei contratti di solidarietà  negli stabilimenti di Scorzè (a febbraio) e Noale e di Fiat (che ha utilizzato la Cig in tutti gli stabilimenti ad eccezione di Maserati Modena; la Cig scade il 31 gennaio a Cassino, il 23 febbraio a Mirafiori presse e il 31 marzo a Pomigliano).

MECCANICA
Franco Tosi. Ha un commissario straordinario che sta cercando una società  che prenda in affitto prima ed acquisti poi l’azienda; 250 dei 396 lavoratori della storica fabbrica di turbine legnanese sono in cassa integrazione.
Om Bari. E’ ferma da oltre due anni, con i lavoratori in cig; a metà  gennaio si dovrebbe sapere se esiste un nuovo soggetto industriale interessato a rilevare lo stabilimento.
Miroglio di Ginosa. E’ alla ricerca di un nuovo proprietario e il ministero dovrebbe presto far sapere se le manifestazioni di interesse pervenute sono concrete.
Ritel di Rieti. E’ in attesa di conoscere le decisioni del gruppo Elco; dopo l’arrivo delle lettere di licenziamento e le mancate risposte sulla cassa integrazione gli ex dipendenti sperano che il ministero trovi una soluzione.

ENERGIE RINNOVABILI
Marcegaglia Buildtech di Taranto
. Dal 2011 è impegnata nella costruzione di pannelli fotovoltaici, settore in profonda crisi e la proprietà  ha annunciato la cessazione dell’attività ; la cassa integrazione, in essere da un anno, è stata prorogata per i 132 lavoratori.

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PROVINCE, VIA I POLITICI MAI COSTI RESTANO

Gennaio 2nd, 2014 Riccardo Fucile

PER LA CORTE DEI CONTI L’ABOLIZIONE NON SERVIRA’ A TAGLIARE E SPESE

Il primo tweet, con cui il ministro Graziano Delrio festeggiava l’approvazione del suo disegno di legge alla Camera, era leggermente enfatico.
“Per la prima volta — annunciava il ministro degli Affari Regionali il 22 dicembre — non si va ad elezione per le Province e per ora rimarranno enti leggeri con poche funzioni e molto utili ai Comuni”.
L’abolizione delle Province però è tutt’altro che un fatto compiuto. Intanto perchè il testo di Delrio deve ancora passare al Senato, dove oltre all’opposizione, anche Pierferdinando Casini lo ha bollato come un gran pasticcio: “Se non cambia, non lo voterò” ha anticipato il leader dell’Udc.
Le perplessità  sul disegno di legge di Delrio, infatti, si sprecano.
Il primo e immediato effetto della riforma è il semplice commissariamento delle Province: via presidenti, giunte e consigli, dentro un funzionario di fiducia del Governo. “Questa riforma getterà  nel caos il Paese: vietando ai cittadini di votare chi li amministrerà  lede il diritto di voto libero, segreto, e non limitabile, sancito dall’articolo 48 della Costituzione” attacca Antonio Saitta, che da presidente dell’Unione province italiane è logicamente il primo oppositore del taglio degli enti intermedi.
Il caso Sicilia: dove possono rinascere le Province
Nel 2012 le Province commissariate sono state 11, compresa quella di Roma, orfana del dimissionario Nicola Zingaretti e affidata ad Umberto Postiglione che per alcuni mesi ha mantenuto contemporaneamente l’incarico di prefetto di Palermo.
Nell’anno appena trascorso invece i consigli provinciali non rieletti sono stati 9, più il caso delle altre 9 province commissariate in Sicilia dal governatore Rosario Crocetta.
E proprio la Sicilia, che doveva essere il simbolo di eliminazione degli enti inutili, rischia di diventare l’esempio (cattivo) che potrebbe essere replicato dal governo Letta su scala nazionale.
Nel marzo scorso Crocetta aveva annunciato il commissariamento degli enti intermedi, per poi abolirli definitivamente alla fine del 2013: il tempo è scaduto, ma non esiste ancora una legge che disciplini l’abolizione delle Province.
“Quello di Crocetta è un colpo di mano antidemocratico” ha attaccato il leader della Destra Nello Musumeci, che è riuscito a far bocciare all’Ars — con voto segreto — la proposta di Crocetta di prorogare per altri sei mesi i commissari: adesso il governo ha 45 giorni per istituire i liberi consorzi, in alternativa si andrà  nuovamente alle elezioni provinciali.
Altre 54 Province verso il commissariamento. Risparmi? Pochi
Un corto circuito che potrebbe estendersi anche a livello nazionale, dove il rischio è che la gestione dei commissari diventi la regola piuttosto che l’eccezione. Con l’approvazione del ddl del ministro Delrio nel 2014 altre 54 province verranno affidate a commissari nominati dal governo (spesso prefetti o generali), e retribuiti con un cifra che oscilla tra i 4mila e gli 8mila euro lordi al mese.
Una situazione, quella del commissariamento, che non garantisce rappresentatività  e che andrà  avanti finchè non saranno create le città  metropolitane e i consorzi dei Comuni.
Poi, secondo Delrio, il suo ddl entrerà  in funzione facendo risparmiare più di 2 miliardi di euro all’anno alle casse dello Stato.
Conti sbagliati secondo la Corte dei Conti, che nell’audizione dello scorso 6 novembre regala un’analisi meno ottimista di quella di Delrio: secondo i magistrati contabili, il disegno di legge approvato dalla Camera taglierà  al momento solo i costi degli organi politici, cioè 105 milioni per 1.774 amministratori provinciali, che però nel 2012 si erano già  ridotti la paga di 34 milioni.
Le spese fisse: personale e i “costi funzionali
Impossibile eliminare i 2 miliardi e 300 milioni di euro degli stipendi percepiti dagli oltre 55mila dipendenti provinciali ogni anno.
Impossibile eliminare anche altri 2 miliardi e mezzo di “costi funzionali”.
Secondo il parere della magistratura contabile, poi è tutto da dimostrare che il passaggio dalle Province alle città  metropolitane sia a costo zero.
“Dal punto di vista finanziario — spiega la Corte dei Conti — il disegno di legge si basa sull’assunto della invarianza degli oneri in quanto si tratterebbe di un passaggio di risorse e funzioni dalla Provincia ad agli altri enti territoriali. Una costruzione, questa, il cui presupposto appare però tutto da dimostrare nella sua piena sostenibilità . Infatti, non appaiono convincenti anzitutto la contemporaneità  tra la progressiva soppressione della Provincia (risparmi) e la istituzione della Città  metropolitana (oneri) e in secondo luogo il relativo parallelismo quantitativo”.
I servizi trasferiti ai Comuni possono costare di più. Un esempio? Le scuole
Un esempio efficace è la gestione delle scuole: dopo la riforma Delrio 5.179 edifici scolastici oggi gestiti dalle Province passerebbero nella competenza di 1.327 comuni.
E i costi di funzionamento per uno stesso bene non sono uguali: “In media nazionale i singoli Comuni spendono per il riscaldamento delle scuole da un minimo del 30% in più ad un massimo del 100% in più delle Province dal momento che le Province, grazie ad un unico contratto di servizio, spuntano prezzi nettamente inferiori rispetto a quelli dei singoli Comuni, con appalti sui singoli edifici” si legge in un dossier elaborato dall’Upi. Se quindi oggi la provincia di Milano spende 4,30 euro per ogni metro cubo che riscalda in un edificio scolastico, il Comune spenderà  6 euro per riscaldare lo stesso metro cubo dello stesso edificio che gli sarà  assegnato dopo la riforma.
Come dire che l’eliminazione delle Province porterà  ad un aumento nelle uscite nei bilanci dei comuni: si va per tagliare una spesa e ne spunta subito un’altra.
Altro punto focale è il futuro dei vari organismi partecipati dalle Province per la gestione dei servizi pubblici.
Tra Ato, Bim, comunità  montane e consorzi si tratta di più di 5mila enti che costano 7 milioni e mezzo di euro: dopo l’abolizione delle Pprovince continueranno ad esistere, a consumare fondi pubblici, ma a funzionare in maniera più caotica.
È proprio il momento di passaggio dal commissariamento all’eliminazione della Provincia a solleticare i maggiori dubbi.
“È evidente — scrivono sempre i magistrati contabili — che laddove la predicata transitorietà  dovesse dilatarsi eccessivamente o addirittura radicarsi in attesa di nuove iniziative si perpetuerebbe una situazione di confusione ordinamentale certamente produttiva di inefficienze”.
Più a lungo le Province saranno gestite dai commissari, più caotica sarà  l’amministrazione.
La gestione di strade, lavori pubblici, scuole appese al sottilissimo filo della riforma: e nel frattempo una cinquantina di commissari fedeli al governo sono già  pronti per andare ad amministrare altrettante Province.
Fino a quando, non è dato sapere.

Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano”)

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