Gennaio 4th, 2014 Riccardo Fucile
NEL 2012 GLI INCONTRI NELLA CASA PATERNA “CAPTATI” DA UN DIRIGENTE DELL’ASL E FINITI NELLE CARTE DI UN’INCHIESTA SULLA SANITA’ CAMPANA
L’Asl di Benevento era cosa loro. Del ministro delle Politiche Agricole Nunzia De Girolamo e dei suoi fedelissimi.
L’allora semplice deputata Pdl, che è bene chiarire subito non è indagata per i fatti che racconteremo, convocava a casa del padre i vertici dell’azienda sanitaria locale e persone di stretta fiducia.
Con loro discuteva di come orientare l’affidamento milionario per il servizio 118, di dove ubicare presidi e strutture dell’Asl, ma anche di questioni spicciole come un sequestro di mozzarelle in un negozio di un “amico di Nunzia” o di come mandare “i controlli” negli ospedali guidati da persone non gradite alla parlamentare azzurra per far capire “che un minimo di comando ce l’abbiamo”.
Le riunioni sono state registrate di nascosto dall’ex direttore amministrativo dell’Asl Felice Pisapia (fu licenziato qualche mese dopo), e depositate nell’ambito di un’inchiesta per truffa e peculato per centinaia di migliaia di euro sottratti dalle casse dell’azienda sanitaria a favore di alcuni imprenditori, costata pochi giorni fa a Pisapia l’obbligo di dimora a Salerno.
Con quegli audio Pisapia vorrebbe dimostrare di essere solo un ingranaggio del sistema. Leggendone le trascrizioni, non si trovano riferimenti al merito e a come rendere più efficiente il funzionamento della macchina della sanità pubblica nel nome dell’interesse collettivo.
La preoccupazione principale pare invece quella di premiare gli amici e punire i nemici. E tramutare le decisioni in clientele e voti.
Vicende che assomigliano a quelle costate inchieste e processi a un altro potentato sannita, i Mastella.
Con una sostanziale differenza: secondo l’informativa della Guardia di finanza di Benevento al pm Giovanni Tartaglia Polcini, “allo stato non ci sono fattispecie penalmente rilevanti”.
Riavvolgiamo il nastro alle ore 19 e 15 del 30 luglio 2012.
La De Girolamo riceve Michele Rossi, manager dell’Asl di Benevento, Gelsomino Ventucci detto “Mino”, direttore sanitario, Pisapia, l’avvocato Giacomo Papa, molto vicino ai De Girolamo, Luigi Barone, storico portavoce di Nunzia, all’epoca vice direttore de Il Sannio Quotidiano e oggi a Roma con l’incarico di direttore del portale web del ministero delle Politiche Agricole.
È il “direttorio politico-partitico costituito al di fuori di ogni forma di legge” scrive il gip Flavio Cusani nell’ordinanza cautelare di Pisapia “che si occupava, in funzione di interessi privati e di ricerca del consenso elettorale, con modalità a dir poco deprimenti e indecorose, di ogni aspetto della gestione dell’Asl”.
La conversazione si protrae per quasi due ore.
Verso la fine cade sul Fatebenefratelli di Benevento, un ospedale religioso convenzionato.
La De Girolamo è arrabbiata con loro. Li chiama “stronzi”. Due volte.
Poi si rivolge a Rossi: “Michè, scusami, al Fatebenefratelli facciamo capire che un minimo di comando ce l’abbiamo. Altrimenti mi creano coppetielli con questa storia. Mandagli i controlli e vaffanculo!… Io non mi permetto di farlo, però ad essere presa per culo da Carrozza, quando poi gli ho dato tanta disponibilità ogni volta che mi hanno chiesto, Michè”.
Giovanni Carrozza, citato nel colloquio, è il direttore amministrativo del Fatebenefratelli. Per capirci, Michè, ovvero Michele Rossi, è molto riconoscente alla De Girolamo.
Appena una settimana prima, in un’analoga riunione, gli ha giurato fedeltà : “Nunzia, premesso che io non resterò un secondo su quell’Asl se non per te e con te, perchè io la nomina l’ho chiesta a te, tu me l’hai data ed è giusto che ci sia un riscontro…”.
Ora Michè ne ascolta le riflessioni sull’ubicazione di ufficio territoriale dell’Asl. “Dove dovremmo metterlo? — si chiede la De Girolamo — a Sant’Agata che Valentino (il sindaco, del Pd, ndr) è uno stronzo? Cioè, nemmeno è venuto da me”.
Rossi però le spiega che Valentino “ha incassato intelligentemente” i problemi da loro creati. Ad un certo punto Nunzia pone un veto sul collocare una struttura a Forchia: “No, Forchia no! Preferisco poi darlo ad uno del Pd che ci vado a chiedere 100 voti …”.
Qualche decina di minuti prima il “direttorio” aveva affrontato il caso del controllo in un negozio di latticini.
Parla Luigi Barone: “È l’amico di Nunzia e mio amico… vende le mozzarelle accanto al Maxim’s… è un bravo ragazzo, insomma!”.
Purtroppo per lui una funzionaria dell’Asl gli ha appena sequestrato “un bel po’ di roba — sottolinea Barone — tre, 4000 euro… più la sanzione”. Si stabilisce, quindi, di parlare con tale Tommaso.
Tutta da decrittare la lunga conversazione del 23 luglio 2012, incentrata quasi esclusivamente sul bando per il 118.
“In tutto questo si deve fare la gara?” chiede la De Girolamo. “Non la puoi fare senza?”
Si discute se è possibile fare un affidamento diretto breve o comunque, per usare le parole dell’avvocato Papa “bypassare la gara pubblica” perchè si è preoccupati del fatto che “tra poco ci commissariano e la gara pubblica se la fa la Regione”.
Abbiamo provato a contattare la De Girolamo per farle qualche domanda. Ci ha risposto con questo sms: “Chi vuole fare pulizia può essere ucciso con la pistola oppure con la parola. Alla fine viene sempre fuori la verità ”.
Vincenzo Iurillo
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Gennaio 4th, 2014 Riccardo Fucile
SU 30.700 DIPENDENTI, UN TERZO E’ IN CASSA INTEGRAZIONE
Passata l’euforia del primo momento per il successo di Marchionne, la vicenda Fiat-Chrysler lascia
spazio alla riflessione.
Sui principali giornali si leggono ancora cronache entusiastiche, ma i giudizi più interessanti provengono da ex manager Fiat come Paolo Fresco, intervistato da Repubblica e Cesare Romiti, sentito da Dagospia.
L’ex presidente della Fiat non lesina i complimenti a Sergio Marchionne. La sua intervista al quotidiano di Ezio Mauro, però, permette di ricordare un capitolo dell’avventura americana del Lingotto, quella dell’accordo con la General Motors. “Per la Fiat — ricorda Paolo Fresco — fu molto proficuo. Incassammo in tutto quasi 5 miliardi di dollari”.
Una parte, 2,4 miliardi, fu il prezzo pagato da General Motors per il 20% della Fiat ma in seguito, la Fiat utilizzò la clausola put per sciogliere l’intesa costringe GM a un accordo che costò a quest’ultima 2 miliardi.
Quell’accordo fu negoziato da Fresco ma concluso, nel 2004, da Marchionne. Con quei soldi si spiega il primo periodo della gestione del manager italo-canadese, generalmente molto apprezzata.
Di altro tenore le parole di Cesare Romiti, amministratore delegato nel 1980, l’uomo della “marcia dei 40 mila” e uno dei dirigenti di maggior esperienza in Fiat dopo l’era di Valletta. Anche Romiti fa i complimenti a Marchionne ma sembra più freddo. “Sarà meglio che presenti il piano industriale prima di aprile”, dice a Dagospia mostrando comprensione per “le preoccupazioni sugli stabilimenti in Italia”.
Una stoccata, poi, anche per Enrico Letta: “Quando noi trattammo con Lee Iacocca (il presidente Chrysler negli anni 90) fummo convocati dal governo”.
Ieri il titolo Fiat ha avuto una fase di assestamento lasciando circa il 2% in una borsa molto positiva. Ma per Agnelli e soci sono giunti i positivi dati delle vendite Chrysler negli Usa, aumentate in dicembre del 6% a 161 mila unità .
“Si tratta del miglior dicembre dal 2007” specifica l’azienda e “il quarantacinquesimo mese consecutivo di crescita”.
A spiccare, il nuovo Jeep Cherokee e il Ram pickup, eletto “Truck of the Year” dalla rivista Motor Trend. Positive anche le vendite del marchio Fiat che hanno registrato un incremento dell’1% rispetto a dicembre 2012.
Se negli Usa si ride, però, in Italia si piange ancora.
Sul fronte delle autovetture, infatti, la Fiat si è fermata sotto le 400 mila unità , arrivando a 600 mila solo grazie ai veicoli commerciali.
Il “piano quinquennale” 2014-2018 sarà presentato ad aprile e lì si capiranno le prossime scelte. Intanto, su un totale di 30.700 occupati in Fiat auto (compresi i 3000 dipendenti della Ferrari e i 700 della Maserati), circa un terzo, 11 mila, sono in cassa integrazione più o meno parziale.
Tra questi, anche i 1800 operai di Termini Imerese, lo stabilimento siciliano chiuso nel 2011 e sul quale non si sa nulla.
Le cose non vanno meglio per quanto riguarda gli investimenti.
Quando lanciò “Fabbrica Italia”, Marchionne promise 20 miliardi di nuovi investimenti. Ad oggi è ferma a 4,5 miliardi.
Entrando nel dettaglio, lo stabilimento di Mirafiori, esclusa la direzione e il reparto Motori, impiega 5.300 dipendenti per i quali l’azienda ha chiesto un altro anno di cassa integrazione.
Le linee sono in corso di ristrutturazione per permettere la produzione di nuovi modelli al momento sconosciuti per i quali è stato impegnato un miliardo.
Stessa cifra è stata messa a disposizione della della ex Bertone di Grugliasco, dove è iniziata la produzione di due modelli Maserati, la Quattroporte e la Ghibli e in cui lavorano a pieno regime circa 1200 i dipendenti.
Grugliasco e Mirafiori dovranno rappresentare l’emblema del “polo del lusso” che rappresenta la strategia per il futuro.
Lavorano a pieno ritmo anche i 6200 dipendenti dello stabilimento Sevel di Atessa dove, in joint-venture con Peugeot-Citroà«n, si fabbrica il Ducato, furgone di successo europeo e sul quale Marchionne ha puntato altri 700 milioni. I 3800 operai di Cassino, invece, sono in cassa integrazione per quindici giorni al mese e non sanno cosa li attenderà domani.
Dei 4800 operai di Pomigliano, stabilimento ristrutturato con 800 milioni di investimento, circa 1800-2000, secondo la Fiom, sono in cassa integrazione.
E a casa per il prossimo anno starà anche la metà dei 5500 operai di Melfi in attesa che le linee di montaggio vengano ristrutturate per produrre due nuovi Suv: uno Jeep e l’altro 500. Anche qui, investimento da un miliardo.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 4th, 2014 Riccardo Fucile
PARLA L’UOMO AZIENDA PER 22 ANNI ALLA FIAT: “NEL 1990 CI TIRAMMO INDIETRO PER I TROPPI DEBITI DI IACOCCA”
«Fiat-Chrysler? Faccio i miei auguri al Lingotto. Quando trattammo l’avvocato Agnelli e io per comprare Detroit da Lee Iacocca nel 1990 ci tirammo indietro perchè i debiti della società Usa rischiavano di trascinare a fondo noi. Mi auguro che oggi i conti di Chrysler siano diversi… Ma, è ovvio, spero che tutto vada bene».
Cesare Romiti è rimasto al volante della Fiat per 22 anni, dal 1976 fino al 1998.
Il blitz americano di Marchionne — per lui che trent’anni fa fu a un passo dalla stessa acquisizione a stelle e strisce — è un deja-vu senza troppi rimpianti. E soprattutto — assicura — è un’operazione vitale per il gruppo torinese colpevole negli ultimi anni di «mancanza di coraggio sugli investimenti».
Come giudica l’operazione dottor Romiti?
«È indubbio che Marchionne sia stato un ottimo negoziatore. Ma non saprei dire chi ha salvato chi tra le due società . L’avvocato Agnelli e io siamo stati accusati anche negli ultimi giorni di esserci lasciati sfuggire la Chrysler negli anni ’90. Non è vero. Rinunciammo noi ad acquistarla, dopo molte riunioni e con dispiacere. Ma allora i conti non tornavano. Noi eravamo perplessi e Umberto Agnelli era addirittura profondamente contrario: i guai di Detroit rischiavano di affondare la Fiat. Spero ora abbiano fatto bene i conti e che i numeri siano cambiati. Se non fosse così, faccio i miei auguri…»
Non crede che oggi come oggi la Fiat senza Chrysler avrebbe rischiato di andare a fondo lo stesso?
«Non lo so. Di sicuro io imputo al Lingotto la mancanza di coraggio sugli investimenti degli ultimi anni. Da molto tempo non si vedono nuovi modelli e gli investimenti sulla produzione e nei paesi emergenti sono fatti con il contagocce. Facendo così si sono persi molti treni».
Non rischiavano di essere soldi buttati dalla finestra?
«No, è stato un errore. Noi nei periodi di crisi ne approfittavamo per investire di più. Buttavamo sul mercato nuove autovetture all’avanguardia, puntavamo sulla progettazione. Nel 1974 dopo la crisi petrolifera di soldi ce n’erano pochi. Ma abbiamo avuto il coraggio di costruire lo stabilimento di Belo Horizonte in Brasile che — me lo lasci dire con soddisfazione oggi — ha tenuto in piedi per tanti anni i conti della Fiat».
Il sindacato teme che ora Fiat trasferisca la produzione verso gli Usa a danno degli stabilimenti italiani. C’è davvero questo rischio?
«Non voglio entrare in campi che non mi competono. Qualche dubbio ce l’ho, ma preferisco tenerlo per me…».
Come giudica il ruolo della politica nella partita Fiat e più in generale della difesa del sistema manifatturiero tricolore?
«La politica non è intervenuta nè ha chiesto garanzie al Lingotto. Ormai scende in campo solo a cose fatte, quando c’è da sistemare le questioni sindacali. Per carità , anche quello è necessario. Ma i risultati di questalatitanza si vedono. Qualche anno fa l’Italia aveva cinque o sei grandi aziende di respiro mondiale. Oggi non ce ne sono più. Colpa di tutti, maggioranze e opposizioni. E ora rischiamo pure di perdere Telecom Italia».
Colpa solo della politica o c’è anche lo zampino di un’imprenditoria inadeguata alla sfida della globalizzazione?
«Di tutte e due. Di sicuro l’imprenditoria di casa nostra si è seduta sugli allori e non si è rinnovata in tempo. Ha fatto la scelta provinciale di non scommettere sull’estero preferendo la sicurezza del mercato domestico. E oggi paghiamo il conto».
Nostalgia della sua Mediobanca? Molti dicono che proprio il sistema un po’ asfittico dei salotti buoni e dei patti di sindacato sia una della cause principali del declino dell’Italia Spa…
«Mediobanca ha fatto un lavoro eccezionale. Ha rimesso in piedi il sistema nel dopoguerra e creato gruppi di dimensioni globali. Ma i tempi cambiano. Oggi non ci sono più un Raffaele Mattioli, una Banca Commerciale e un Enrico Cuccia, artefici di questo processo. E l’addio ai patti sindacato e al capitalismo di relazioni, in un mondo del tutto differente, è un fatto del tutto fisiologico».
Ettore Livini
(da “La Repubblica”)
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