Febbraio 1st, 2014 Riccardo Fucile
SALTO DI QUALITA’ NEGLI INSULTI CHE VIAGGIANO PER LA RETE
C’è chi dice che i toni della protesta del Movimento 5 Stelle siano un suicidio politico, perchè troppo
esasperati e in grado di spaventare l’elettorato.
C’è chi invece butta un occhio sui social media e intravede dietro quei toni un’abile strategia in vista delle elezioni Europee.
Su Twitter già da mercoledì sera gli onorevoli Di Battista, Di Maio, Di Vita, Tofalo non usavano mezzi termini per descrivere quel che succedeva: «fascisti!», «è una dittatura», «ora sarà guerra!».
«Cosa aspettiamo a fare la rivolta?» chiedeva un seguace alla grillina Di Vita (Flaiano avrebbe risposto che «a causa del cattivo tempo è stata rinviata a data da destinarsi»).
Al centro della protesta generalizzata non solo il merito del discusso decreto Imu-Bankitalia, ma, come sempre, l’odiata casta.
Cui ormai appartengono non solo i politici, ma anche i giornalisti e chi vota per i partiti avversi (o chi è sospettato di farlo).
Molto criticato il presidente della Repubblica, anche se, per dire, nel blog di Grillo qualcuno avanzava anche dubbi sulla richiesta di impeachment: «Si possono e si debbono fare mille critiche a Napolitano e chiederne le dimissioni. Ma l’impeachment non sta in piedi».
Ai giornalisti che facevano notare che le dittature sono un’altra cosa la risposta arrivava puntuale, fotocopiata: «Siete morti. Toglieremo il finanziamento ai giornali e chiuderete tutti», anche se, come è noto, solo alcuni giornali ricevono il finanziamento per l’editoria. Ma tant’è.
La protesta s’è mescolata con dosi massicce di insofferenza.
È stato un fiume in piena. Nel mirino è finita anche la presunta reticenza «dei media» nel denunciare la presunta manata dell’onorevole Dambruoso sul volto della deputata Lupo.
Non serve a nulla spiegare che tutto invece era spiegato e denunciato con tanto di foto in pagina: «Siete complici, nessun media ne ha parlato».
I commenti restano divisi in due: chi denuncia la violenta protesta, chi la violenta repressione (ovviamente la discussione è a sua volta violenta).
«Nemici» sul web. È la messa in atto di quella «guerra civile fredda» di cui si parla da qualche anno e che sembra prendere forma nei commenti di violenza pura
Alberto Infelise
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Febbraio 1st, 2014 Riccardo Fucile
E’ IL GIOCHETTO TIPICO DELLE MULTINAZIONALI PER PAGARE MENO TASSE
«Nulla di irregolare». È la voce del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, a rompere il silenzio sul trasferimento della Fiat all’estero, seguita da quella dello sceriffo delle tasse, Attilio Befera. «Verificheremo il pieno rispetto delle leggi fiscali italiane», ha ribadito più prudentemente il direttore dell’Agenzia delle Entrate.
Il modello di partenza che Sergio Marchionne ha in mente per fondere la Fiat Auto con la Chrysler è lo stesso utilizzato per le controllate che operano nella produzione di trattori e camion, l’italiana Fiat Industrial spa e la olandese Cnh Nv: la sede fiscale sarà nel Regno Unito, quella legale in Olanda.
Una fusione transfrontaliera, in cui una società italiana diventa olandese e stabilisce la sede fiscale in Inghilterra.
Per le tasse, lo scoglio da superare è dimostrare che «la sede centrale gestionale e organizzativa sia situata (in tutto o in parte) nel Regno Unito», scrive la Fiat nel prospetto informativo dell’operazione Cnh.
Le autorità fiscali olandesi e inglesi non hanno avuto nulla da dire e hanno subito accolto a braccia aperte un colosso mondiale del calibro di Fiat, mentre l’Agenzia delle Entrate non si è ancora espressa.
Ora la questione è raddoppiata perchè riguarderà anche la Fiat Auto.
Qualche grattacapo potrebbe arrivare dalla «struttura gestionale e organizzativa» del presidente John Elkann che rimarrà per il momento a Torino: «Il mio ufficio è questo, quello in cui mio nonno ha passato gli ultimi cinque anni della sua vita, e non si sposterà , resta qui, al Lingotto», ha spiegato in una intervista al quotidiano La Stampa.
Sergio Marchionne, invece, ha già in mente cosa trasferire fin da subito all’estero: i dividendi, gli interessi e le royalties (marchi e brevetti), ovvero tutti quei beni delle società italiane che generano utili, lasciando in Italia soprattutto i costi.
Spostare i palazzi del resto è più difficile che spostare asset immateriali, ma col tempo anche le vere «strutture gestionali e organizzative » (dagli uffici direttivi alla ricerca del gruppo) dovranno cambiare sede per dare concretezza al via libera londinese e per non incorrere in qualche sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Il giochetto è semplice ed è all’ordine del giorno di qualsiasi multinazionale, da quelle della moda a Internet.
I benefici fiscali sono generati soprattutto dai rapporti intercompany tra la holding estera e le società operative con sede in Italia.
Se la Fiat incassasse i dividendi a Torino, pagherebbe l’1,375% di tasse, mentre in Inghilterra la tassazione è nulla.
Non si tratta di grandi cifre, anche se su numeri rilevanti il valore è tutt’altro che risibile.
I benefici aumentano per gli interessi e le royalties: nel primo caso la holding raccoglie i capitali a Londra, finanzia l’operativa e incassa gli interessi sul finanziamento.
Nel secondo caso, i marchi e i brevetti custoditi tra gli asset della holding estera vengono venduti all’operativa italiana che paga un corrispettivo.
È chiaro che in entrambi i casi i profitti finiscono in capo alla holding, mentre i costi in capo alla operativa italiana.
L’effetto è duplice: da una parte l’utile non viene tassato in Italia, ma in un Paese fiscalmente più morbido, dall’altra i costi (il corrispettivo versato per i marchi e gli interessi) abbattono i ricavi italiani contribuendo ad abbassare le tasse sugli utili residui che la società operativa produce in Italia
Non sarà difficile immaginare in un prossimo futuro una Fiat londinese che controllerà una Fiat spa o una semplice divisione italiana di Fiat svuotata dai marchi, dai brevetti e caricata di costi e interessi in modo tale da avere un monte utili su cui pagare una Ires (27,5%, in Uk è al 21%) più bassa possibile.
Lo Stato si consolerà con l’Irap (3,9%) che comunque quel che resta di Fiat dovrà sempre versare.
Per farla franca, Marchionne dovrà però dimostrare al Fisco che i brevetti e i marchi (come Ferrari e Maserati) non sono nati e pensati in Italia.
È una strada in salita, ma già intrapresa con la decisione di sostituire il vecchio marchio Fabbrica Italiana Automobili Torino con il più internazionale Fca (Fiat Chrysler Automobiles). Per esportare gli asset all’estero, Fiat non dovrà nemmeno sborsare la Exit tax. Prima del 2011, per trasferire la sede fuori dall’Italia, era necessario pagare subito le tasse sulle plusvalenze che il passaggio degli asset da una società a un’altra avrebbe generato.
Ora la tassazione è differita nel tempo e viene rimandata solo al momento della cessione vera e propria dell’asset.
La storia vuole che dal 2011 gli Agnelli hanno iniziato a pianificare le due operazioni Cnh e Fiat Auto.
Walter Gabbiati
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 1st, 2014 Riccardo Fucile
AL PROCESSO FINMECCANICA IL PM FUSCO MOSTRA LA LISTA DELLE PERSONE SU CUI FINMECCANICA VOLEVA FARE PRESSIONI: DAL BRACCIO DESTRO DI SONIA GANDHI AL PREMIER SINGH
Ecco la carta che potrebbe rendere incandescente la partita tra il governo indiano e l’Italia. 
Da un lato il destino dei nostri marò, Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Dall’altro lato, secondo un documento agli atti della Procura di Busto Arsizio, ci sono politici in India che hanno preso mazzette milionarie da Finmeccanica per la commessa degli elicotteri Agusta del 2010.
La lettera che potrebbe complicare le relazioni tra i due Paesi è stata trovata nella villa sul lago di Lugano del consulente italiano residente in Svizzera, Guido Ralph Haschke, imputato per corruzione insieme all’ex presidente di Finmeccanica Giusppe Orsi e ad altri consulenti e manager, con l’accusa di avere pagato 30 milioni di euro di mazzette a pubblici ufficiali indiani per favorire Agusta Westland nella gara per la commessa degli elicotteri AW101.
Quando nell’aprile del 2012 entrarono nella sua casa gli inquirenti italiani e svizzeri, Haschke finse un malore e si accasciò sul suo letto. Sotto c’era una valigia piena di documenti che il consulente di origini piemontesi aveva lasciato lì, convinto che la sua cittadinanza svizzera fosse uno schermo contro l’invadenza dei carabinieri del NOE guidati da Sergio De Caprio, alias Ultimo, e dei pm napoletani Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock.
Tra le carte della valigia c’era la lettera che, dopo il passaggio per competenza dell’indagine da Napoli a Busto Arsizio, il pm Eugenio Fusco ha studiato e saputo valorizzare al meglio, coordinandola con un appunto manoscritto dallo stesso Haschke, a suo dire sotto dettatura del suo coindagato Christian Mitchell, con una lista con le sigle dei ruoli o dei nomi dei beneficiari delle mazzette indiane.
Giovedi 9 era in corso il controesame di Haschke da parte delle difese e al termine il pm Fusco ha calato tre carte: la lettera, l’appunto manoscritto e una foto di Sonia Gandhi con il suo principale collaboratore Ahmed Patel.
Se il tris di Fusco era d’assi o di due di picche lo dirà solo il Tribunale al termine del giudizio.
La prima carta calata dal pm il 9 gennaio, è in inglese e suona così: “15 Marzo, 2008. All’attenzione di Mister Peter Hulett (responsabile vendite di Agusta Westland in India Ndr)
Caro Peter, poichè la Signora Gandhi è la forza trainante dietro i V.I.P. (cioè gli elicoitteri predisposti al trasporto delle autorità indiane che dovevano essere acquistati dal governo pagando ad Agusta 556 milioni Ndr), lei non volerà più con il MI-8 (il vecchio elicottero russo della flotta governativa che Sonia Gandhi usava e che usano tuttora alcune personalità indiane, Ndr). La Signora Gandhi e i suoi più stretti collaboratori sono le persone alle quali l’Alto Commissario (l’ambasciatore della Gran Bretagna: Agusta Westland è anche britannica, Ndr) dovrebbe mirare”. Dopo questo riferimento a Sonia Gandhi come “forza trainante” segue la lista delle personalità da mettere nel mirino diplomatico, su richiesta di Agusta.
La lettera non sarebbe imbarazzante se non fosse per il firmatario: Mitchell si è occupato, secondo i pm, del pagamento delle mazzette e ora sta tranquillo a Dubai. La lista è impressionante : 1) Manmonah Singh (premier dell’India, Ndr); 2) Ahmed Patel (segretario politico di Sonia Gandhi Ndr); 3) Pranab Mukherjee (presidente dell’India dal 2012, nel 2008 ministro degli esteri Ndr); 4) M. Veerappa Moily (ministro dell’energia, Ndr); 5) Oscar Fernandes (Ministro dei Trasporti, Ndr); 6) M.K. Narayanan (Governatore del Bengala, Ndr); 7) Vinay Singh (Capo delle Ferrovie indiane, Ndr). La lista delle personalità da suggerire all’ambasciatore si chiude con un brusco “saluti Christian” .
Il pm Fusco, dopo avere mostrato la lettera con il nome di Sonia Gandhi e di Ahmed Patel, suo collaboratore strettissimo, il 9 gennaio, ha calato la seconda carta: la lista delle mazzette, già emersa in una precedente udienza del dicembre scorso ma non collegata al secondo documento in quella sede (AP si pensava potesse essere Alleanza Popolare, nome del partito).
La lista, scitta a penna da Haschke, sotto dettatura di Mitchell stando al racconto del mediatore svizzero, si divide in quattro parti, ciascuna con una sigla corrispondente a una categoria di corrotti. AF sta per Air Force, 6 milioni; BUR, cioè burocrati ai quali vanno 8,4 milioni; poi i POL, cioè i politici, a cui vanno 6 milioni dei quali 3 milioni a un misterioso AP.
Fusco mette sotto il naso di Haschke i due documenti: “Dottor Haschke, ma secondo lei questo AP dei tre milioni a cui fa riferimento Mitchell nell’appunto manoscritto è Ahmed Patel della lettera?”.
Haschke risponde: “Anche io sarei arrivato alle sue stesse conclusioni ma a me Mitchell non lo ha detto e io non lo conosco”.
Il pm mostra una delle tante foto di Patel accanto a Sonia Gandhi. E richiede ad Haschke chi è Patel. L’italo-svizzero insiste: “Conosco solo Sonia Gandhi”. I rappresentanti legali del governo indiano presenti all’udienza sono saltati sulla sedia.
Il 10 gennaio sui giornali indiani compaiono due notizie.
La prima, pubblicata per esempio dall’Indian Express che segue meglio dei media italiani il processo di Busto, era la cronaca dell’interrogatorio di Fusco sulle mazzette da 3 milioni, su AP, sul collaboratore di Sonia Gandhi e sulla lettera che la citava.
Lo stesso giorno compare sui giornali indiani la notizia che fredda le famiglie dei nostri fucilieri reclusi in India da due anni: “La decisione se applicare o meno la pena di morte sarà valutata dal governo indiano nel giro di due o tre giorni”, faceva filtrare proprio quel giorno il ministro dell’Interno indiano, Sushil Kamar Shinde.
I giornali italiani, come Libero, parlavano di “repentino cambio di scenario: solo ieri, giovedì 9 gennaio, il ministro degli Esteri, Salman Khurshid, aveva escluso ancora una volta l’applicazione della pena capitale ai due militari italiani, accusati dell’omicidio di due pescatori”.
La sensazione netta è che i due procedimenti penali, quello contro i marò in India e quello dal quale potrebbero emergere i rappresentanti (per ora sconosciuti) della politica indiana che avrebbero preso le mazzette, sono vicende incrociate.
Le stranezze delle due storie, se le si riguarda insieme, sembrano avere più senso.
Il governo indiano ha congelato la commessa che sarebbe stata vinta secondo il pm Fusco grazie alle mazzette da Agusta ma fa filtrare l’idea di un arbitrato, notoriamente il preludio a una chiusura morbida.
Anche sul fronte del processo ai marò si resta in un limbo giuridico. L’accusa non ha ancora formulato un capo di imputazione e una questione ormai chiusa, come quella della pena di morte, è stata riaperta a sorpresa il 10 gennaio, dopo l’interrogatorio di Fusco ad Haschke su Ahmed Patel, e ieri è stata nuovamente rimessa in un cassetto dal governo indiano. A primavera ci sono le elezioni in India, il partito di Sonia Gandhi potrebbe essere in difficoltà proprio per la vicenda degli elicotteri. E questa non è una buona notizia per i marò.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 1st, 2014 Riccardo Fucile
PARLA L’EREDE DI UN IMPERO IMMOBILIARE, ACCUSATA DI AVER NASCOSTO AL FISCO DUE MILIARDI DI EURO
Lunedì è corsa all’Agenzia delle Entrate. Martedì ha risposto alle domande del pubblico ministero.
Ora è seduta nell’ufficio del suo avvocato, nel cuore del quartiere romano dei Parioli. Alta, un cappotto scuro, un maglioncino grigio, gli orecchini di perle, è erede dell’impero immobiliare creato dal padre Renato dagli anni Sessanta, è accusata da un’inchiesta della Finanza di aver nascosto al Fisco circa 2 miliardi di euro e di non aver pagato Ici e Imu per 1.243 appartamenti a Roma.
Le accuse sono pesanti.
“Non posso aver nascosto al fisco un patrimonio di 2 miliardi di euro, perchè non ho simili ricchezze. È la Guardia di Finanza ad affermare che possiedo un patrimonio di circa 200 milioni di euro. Secondo la Finanza ogni anno, per dieci anni, avrei dovuto indicarlo nella mia dichiarazione, perchè le holding sono in Lussemburgo: quindi 200 milioni per dieci anni fa 2 miliardi. Quanto alle imposte, quelle locali, come tutte le altre imposte, le pagano le società , a me riferibili, proprietarie degli mmobili”.
Ma quante case possiede davvero a Roma: mille, diecimila, decine di migliaia?
“Sono titolare di quote in società immobiliari, che espongono in bilancio il patrimonio. Gli immobili non possono essere fantasmi. Le mie società hanno circa 1.200 appartamenti a Ostia, tre alberghi e qualche palazzo che ospita uffici”.
Si parla di capitali nei cosiddetti Paesi a fiscalità privilegiata, come Principato di Monaco, Lussemburgo, Bahamas.
“Dalla morte di mio padre ho ereditato la situazione più o meno a tutt’oggi esistente. Forse ho sbagliato a non modificarla. Però tutte le società a me riferibili hanno sempre avuto una sede secondaria in Italia: dichiarano i propri redditi in Italia e pagano in Italia le relative imposte. Non ho mai avuto altre ricchezze in paradisi fiscali “.
Significa che le tasse le paga all’estero e poi di nuovo in Italia?
“No, la società lussemburghese ha pagato soltanto per i redditi degli immobili posseduti in Italia. In Lussemburgo non sono tassati”.
Gli investigatori le contestano di aver anche spostato, dal 1999 al 2010, la sua residenza nel Principato di Monaco, mentre abitava all’Eur e poi in un palazzo del centro di Roma. È vero?
“In realtà mi sono trasferita a Montecarlo nel 1989 e non nel 1999, quando nacquero i miei figli che hanno frequentato lì tutte le scuole dell’obbligo. Non è vero che ho fissato la mia residenza all’estero per motivi fiscali, ma per motivi di sicurezza, avendo subito personalmente un tentativo di sequestro e mio padre un sequestro durato nove mesi. Alla fine ho dovuto scegliere e sono tornata definitivamente”.
I finanzieri le hanno disconosciuto dieci scudi fiscali presentati nel 2009.
“Sono una cittadina che ha aderito ad un condono fiscale e che ha pagato più di 6 milioni di euro per sanare la detenzione di partecipazioni in società lussemburghesi. La Finanza afferma che quegli scudi dovevano essere fatti in mio nome, e non dai trust. Il mio commercialista, diversamente dalla Finanza, disse che ero tenuta a scudare i trust. Non avevo allora e non ho oggi la competenza tecnica necessaria per giudicare”.
Lei è stata sempre molto vicina a suo padre, il costruttore che dal dopoguerra al 1993 – anno in cui è morto – ha edificato gran parte di tanti quartieri intensivi romani, dall’Aurelio alla Magliana, al tempo delle giunte Dc: che rapporti ha avuto la sua famiglia con la politica?
“C’è chi dice che se mio padre ha avuto i problemi che ha avuto, è stato proprio a causa della sua mancanza di relazioni politiche”.
È considerata una delle regine dei salotti romani. Quali sono i suoi rapporti con i politici della città ?
“Le regine dei salotti romani sono altre e fanno esclusivamente mondanità . Io lavoro, ho due figli e molti amici, che qualche volta ho avuto il piacere di ricevere. Null’altro”.
Il sindaco Marino ha dichiarato che il Comune chiederà di incassare Ici e Imu non pagati.
“Marino nei titoli dei giornali parla di 3,6 milioni. Ho già dato disposizione di regolare tutte le posizioni di tutte le società nei confronti del Comune, sebbene il Comune stesso sia debitore delle mie società immobiliari per importi addirittura superiori per indennità di esproprio, danni per abusi, occupazione e altro”.
Ma allora è vero che deve pagare Ici e Imu evase al Comune.
“No, il Comune manda gli avvisi bonari di pagamento che poi vengono inviati a Equitalia, alla quale risultano due milioni, che abbiamo già definito rateizzando. Il problema è che, come tutti gli imprenditori, vanto dal Comune crediti per 16 milioni non saldati “.
È vero che l’appartamento in cui abita, attico e superattico a palazzo Alberini, non è accatastato come “civile abitazione”?
“Abito in un immobile di proprietà di società riferibili a me, accatastato come ufficio: non mi risulta sia vietato. Altro problema è il benefit che mi viene contestato perchè non denunciato”.
Quando aveva 16 anni sfuggì ad un rapimento davanti al Santa Maria, la sua scuola, e poi ha assistito a quello di suo padre. Che cosa ricorda di questi drammi?
“Quando sono nati i miei figli non volevo che rimanessero a Roma, perchè avevo paura. Posso dire che, all’epoca, tanta gente, come me, decise di andarsene definitivamente dall’Italia. E non è gradevole, per chi ha le mie esperienze alle spalle, vedere in televisione la casa dove vivo. Spero non succeda niente, nè a me nè ai miei figli. E mi dispiace che tutto questo clamore abbia causato danno anche alle mie sorelle”.
Il suo ex compagno Bruno Tabacci, in un’intervista dove gli veniva chiesto di parlare del caso dell’inchiesta della Finanza su di lei, ha risposto che non voleva “sparare sulla Croce Rossa”.
“È stata una persona molto importante nella mia vita, per dieci anni. Ma sono fatti privati. Sono sicura che il senso delle sue parole, come nel caso della mia vicenda, sia stato travisato. Ha sempre dimostrato apprezzamento e rispetto per me e per le mie attività “.
Paolo Boccacci
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