Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
SIAMO POVERI MA BELLI: PIU’ CHE UNA REALTA’, UN POTENZIALE PERCHE’ MANCA UNA POLITICA DI SVILUPPO
Non di sola industria vive un Paese, ma anche della ricchezza che può produrre la sua arte, la sua storia, il paesaggio.
Fonti di reddito che le agenzie di rating si guardano bene dal considerare, e sulle quali invece la Corte dei conti non intende più tacere.
Tanto che ha aperto un’istruttoria nei confronti di Standard & Poor’s e dell’«incauto» declassamento che l’agenzia ci ha propinato nel 2011.
Un crollo che ci ha fatto versare lacrime e sangue in termini di spread, pressione fiscale, fiato sul collo da parte di mezza Europa.
Cosa sarebbe successo invece se l’agenzia avesse tenuto conto del valore, materiale e non, del nostro patrimonio artistico e culturale? Voci non confermate dalla Corte dei conti stimano in 234 miliardi il danno subito.
Ma si può ridurre la cultura, nelle sue molteplici fonti, ad un numero da inserire in bilancio?
Ci ha provato uno studio realizzato dalla Fondazione Symbola e dall’Unioncamere (“Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”) che mettendo assieme gli incassi di mostre, musei, monumenti con le entrate garantite dall’indotto – dall’artigianato agli alberghi, alla filiera culturale portata alla sua massima espansione – stima in 214,2 miliardi di euro la ricchezza prodotta dall’ampio settore. Il 15,3 per cento del Pil, un vero e proprio tesoro accumulato nel “campo dei miracoli” del sistema cultura.
Dove un euro speso per visitare un museo ne genera altri due in termini di ricchezza per il territorio.
A sentire Federculture, l’associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore, più che di una realtà si tratta però di un potenziale.
«Siamo il Paese con la più alta densità e qualità di siti culturali e la Corte dei conti fa bene a chiedere che di questo patrimonio si tenga conto valutando il rating – precisa il presidente Roberto Grossi – ma essere belli non basta. Al di là dei tagli negli investimenti alla cultura, manca una politica di sviluppo e la capacità gestionale nel fornire offerta. Ancora non ci rendiamo conto che senza la tecnologia non si vada nessuna parte: dei 3.800 musei presenti sul territorio solo il 3 per cento ha una applicazione per lo smartphone, solo il 6 è dotato di audioguide o dispositivi digitali. La convivenza fra pubblico e privato non è scandalosa: è necessaria»
Essere belli, appunto, non basta. E di fatto negli indici di attrattività del Paese (Country brand index) se siamo stabili al primo posto per la voce cultura, tenendo conto della qualità della vita offerta, della sicurezza, delle infrastrutture scivoliamo, nell’indice globale, alla quindicesimo gradino.
Un dato rilevante, nell’iniziativa della Corte dei conti, lo scorge Paolo Leon, fra i padri fondatori delle discipline economiche che indagano le vicende culturali, direttore della rivistaEconomia della cultura (il Mulino): «È la prima volta che un organo pubblico di quel rango considera il patrimonio storico-artistico e di paesaggio come parte del capitale collettivo della nazione. In fondo lo Stato ha protetto, come ha potuto, i nostri beni, ma non ha mai riconosciuto il loro valore».
Valore: ma qual è il valore di un palazzo cinquecentesco o di una torre medievale?
È possibile attribuirgliene uno?
Annalisa Cicerchia, anche lei economista della cultura, la prende alla lontana: «Il valore non è fra le proprietà intrinseche di un bene.
È legato alla capacità di soddisfare bisogni.
Qual è il valore del paesaggio toscano, paesaggio simbolo del nostro paese? Da quando i primi inglesi hanno scoperto i casali abbandonati e li hanno comprati, sono arrivati tanti altri inglesi e i valori immobiliari sono cresciuti.
È cresciuto con loro il valore del paesaggio? Indirettamente sì.
Anche se è possibile quantificare solo l’incremento medio del costo a metro quadrato di un immobile».
Leon è affezionato all’idea che un bene culturale, conservato, tutelato e fruibile, assicuri effetti positivi a una comunità nel suo complesso e non solo alle sue tasche. In linea teorica valutazioni monetarie si possono compiere.
«Quantificare il valore del Colosseo è facilissimo, lo hanno già fatto. Più difficile è quantificare Dante Alighieri».
Ma ha senso la quantificazione, se nessuno può comprarlo l’Anfiteatro Flavio?
«Il problema è proprio questo», prosegue Leon. «È che alle agenzie di rating non interessa tanto il contributo della cultura al valore del patrimonio collettivo quanto il valore di mercato della fruibilità del bene».
Leon di valutazioni monetarie ne ha compiute nella sua carriera. È capitato con le mura di Ferrara disegnate da Biagio Rossetti fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento: «Abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto a una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura».
Ma si tratta di un valore ipotetico che, indicizzato nei secoli, serve ai cittadini di Ferrara, insieme alla sua bellezza intrinseca, per capire che importanza ha la cinta muraria e quanto conviene tutelarla al meglio.
Non essendoci compratori possibili, quel valore serve ad aumentare la consapevolezza civica. E se quel bene, per assurdo, fosse rimuovibile, esportabile?
«Tutto ciò che è esportabile ha valore», replica Leon, «ma ricordo il dibattito di alcuni anni fa quando qualcuno disse: perchè non vendiamo i tanti cocci che abbiamo nei depositi, che nessuno vede, che farebbero felici i musei americani e che ci farebbero incassare tanti soldi? Si scoprì che avremmo guadagnato pochissimo e qualcuno si rese conto che se si fosse aperta una breccia con i pezzi dei depositi, poi si sarebbe passati a vendere ben altro»
Il Colosseo non è vendibile, come non è vendibile l’area archeologica pompeiana. Non avendo mercato, non hanno un valore monetario.
Ma spunta un altro problema.
«In Italia abbiamo elenchi di musei e di aree archeologiche, ma non abbiamo un elenco del patrimonio immobiliare storico-artistico», insiste Cicerchia. «Lo rilevava anni fa l’economista Giacomo Vaciago, ci avevano provato a stilarne uno Franco Modigliani e Fiorella Kostoris, ma da allora nulla è cambiato: l’ultimo censimento risale alla Carta del rischio del 1996»
Senza un elenco non si può fare una stima complessiva. E non si può fissare un prezzo, sostengono all’unisono gli economisti che si occupano di cultura. Più percorribili sono altre strade di ricerca.
Una la indica Leon: «Non è possibile escludere la cultura, o l’ambiente, dagli indicatori di benessere di una comunità ». Cicerchia invita a seguire le linee fissate da economisti come Jean-Paul Fitoussi che spingeva ad andare “oltre il Pil”, una direzione intrapresa anche dall’Ocse, che ha sollecitato a includere il paesaggio e la partecipazione ad attività culturali fra i fattori che segnalano il benessere.
Leon: «Ne parlavamo molti anni fa con Renato Nicolini, allora assessore romano alla Cultura: non sarebbe meglio, dicevamo, se si smettesse di scaraventare ragazzini demotivati in giro per le città d’arte e invece si inserisse la visita a un museo come parte integrante del curriculum, intrecciandola con lo studio della storia, della geografia e della scienza e non abbandonandola al genere gita scolastica? Ne guadagneremmo tanto, in termini economici come paese, perchè formeremmo cittadini migliori e più profondi. Ecco qual è il valore dei beni culturali».
Francesco Erbani e Luisa Grion
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
LA SOCIETA’ E’ PIU’ AVANTI DEL DIBATITO POLITICO: SECONDO GLI ITALIANI DEVONO AVERE PIU’ DIRITTI E PARTECIPARE ALLA VITA DEL PAESE… PIU’ SFACCETTATE LE POSIZIONI SU CITTADINANZA ED ELEZIONI POLITICHE
Ci sono pratiche che rinviamo di esaminare perchè complicate da risolvere o sopraggiungono altre
priorità . Poste in fondo alla pila dei documenti, tuttavia periodicamente, e con non poco fastidio, rispuntano, ritornano al centro della nostra attenzione. Più perchè qualche evento le ripropone, che per scelta meditata.
Così è per il fenomeno migratorio nel nostro Paese. Una questione spinosa e complicata, che tendiamo ad affrontare quando diventa un’emergenza più che in modo progettuale: gli sbarchi lungo le nostre coste, i cori razzisti negli stadi, gli attacchi nei confronti del Ministro Cècile Kyenge.
Abbiamo difficoltà a mettere a fuoco il fenomeno migratorio in modo pragmatico, cogliendone sia gli aspetti positivi, sia quelli problematici: di conseguenza, il discorso pubblico e politico in Italia è segnato fortemente da un carattere ideologico. Eppure non stiamo più parlando di una questione nuova.
I flussi migratori in modo consistente e costante prendono avvio negli Anni 80, più di 30 anni fa. Non solo per la spinta ad emigrare delle popolazioni da aree povere del mondo, ma per la crescita economica dell’Italia in quegli anni e, in particolare, per la spirale avviata dal nostro calo demografico.
Da alcuni anni, com’è noto, non conosciamo crescita economica, ma il calo demografico non si è fermato. Di qui, una presenza di migranti che comunque è in crescita.
Nel 2008 gli stranieri regolari residenti erano il 4,5% degli italiani, nel 2013 hanno superato la soglia dei 4 milioni (7,4%). Guardando al futuro prossimo (2020, fra soli 6 anni), l’Istat stima che tali presenze saranno 7 milioni (11,4%).
La loro provenienza è da circa 167 Paesi. La nostra comunità è già un caleidoscopio di nazionalità , ma sembra che non vogliamo vederla e, soprattutto, ammetterla.
Siamo un melting pot inconsapevole. È evidente che non possiamo continuare a far finta di nulla pensando di chiudere i nostri confini o riponendo nelle sole espulsioni dei clandestini la soluzione dei problemi. Tuttavia, su questo argomento esistono due livelli distinti e distanti fra loro.
Da un lato, le forme di inte(g)razione sperimentate sui territori, pur faticose e complicate, che hanno fatto compiere comunque significativi passi avanti su questi versanti: all’interno delle scuole, nello sport, nelle parrocchie, i matrimoni misti, gli anziani con le badanti.
Forme di micro-integrazione che generano momenti di reciproca conoscenza e aiutano la convivenza.
Dall’altro, nel discorso pubblico e in particolare politico assistiamo a una regressione del linguaggio, come nel caso di alcuni dei nuovi esponenti leghisti o di espressioni a dir poco «colorite» enfatizzate dai mezzi comunicazione.
Così che appare un’Italia venata di orientamenti contrari ai migranti, quando non di razzismo o di xenofobia.
L’indagine LaST (Community Media Research e Questlab per La Stampa) ha affrontato un tema spinoso e complicato perchè tocca uno degli aspetti fondanti dell’integrazione: i diritti di cittadinanza per gli stranieri.
Secondo due prospettive: quella della partecipazione al voto e dell’assistenza sanitaria, e quella della cittadinanza.
Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, gli italiani non paiono avere dubbi al proposito.
Quasi la totalità degli interpellati (96,9%) ritiene che gli immigrati debbano averne diritto per sè e per i propri familiari, al pari dei conterranei italiani.
Va sottolineato il fatto che anche fra quanti manifestano un atteggiamento totalmente avverso ai migranti, ben i due terzi (63,8%) si dichiari d’accordo sull’attribuire loro questo diritto.
Il tema della salute, dunque, accomuna tutti in modo indistinto.
Diverso, ma con aspetti interessanti è la dimensione della partecipazione politica e della possibilità di esprimere una propria rappresentanza attraverso il voto.
Oltre 4 italiani su 5 (84,2%) ritiene opportuno che i migranti residenti regolarmente votino alle consultazioni locali, alle elezioni del proprio comune.
Chi più degli altri sostiene questa opzione sono le giovani generazioni (fino a 34 anni: 91,6%), gli abitanti del Nord Est (93,1%) e gli inattivi (casalinghe: 100,0%; studenti: 92,5%).
Dunque, la partecipazione al voto nelle comunità locali è ormai un aspetto largamente condiviso. È interessante osservare, poi, come confrontando quest’esito con quello emerso da una ricerca analoga compiuta nel 2007 (Demos&Pi), tale orientamento sia ulteriormente aumentato.
Allora il 75,1% della popolazione era già ben disposto a una simile scelta.
Ancorchè positivo, tuttavia è più tiepido l’orientamento nei confronti delle elezioni al parlamento nazionale.
In questo caso, i favorevoli scendono al 65,8%, con un sostegno più forte offerto dai giovani (meno di 24 anni: 81,1%), dai residenti nel Nord Est (74,3%), dagli inattivi (casalinghe: 92,6%; studenti: 78,1%), da chi ha un basso titolo di studio (81,1%).
Tale risultato è assolutamente simile a quello del 2007, quando i favorevoli a questa prospettiva erano il 64,5%. Così, da un lato aumenta ed è largamente maggioritaria la propensione a vedere i migranti parte integrante delle comunità locali.
Dall’altro, prevale un orientamento positivo alla partecipazione attiva a livello nazionale, ma con meno enfasi. Come se contasse di più l’identità locale, rispetto a quella nazionale.
Collegato a questi temi, e più di fondo, è il controverso tema dell’attribuzione della cittadinanza, di cui anche recentemente si è discusso dopo le proposte del Ministro per l’Integrazione. Controverso non solo nel dibattito pubblico, ma anche nell’opinione degli interpellati. Sono due le opzioni sulle quali gli italiani sostanzialmente si dividono.
Da un lato, prevalgono leggermente quanti sostengono un diritto di cittadinanza condizionato (45,6%).
Secondo questa opzione, il diritto di cittadinanza dev’essere assegnato su esplicita richiesta dell’interessato e in base ad alcune condizioni (regolarità di residenza da alcuni anni, conoscenza della storia e della lingua, e così via).
Chi più di altri evidenzia questa opzione sono le fasce d’età centrali (25-34enni: 53,6%), le persone in condizione attiva sul lavoro (imprenditori: 64,1%; operai: 56,6%; disoccupati: 55,0%), i residenti nel Nord Est (54,9%), i diplomati-laureati (53,2%), chi è avverso (56,5%) e ambivalente (67,2%) nei confronti dei migranti.
Secondo questa visione, la cittadinanza per i migranti non è un diritto tout court, ma è una scelta soggettiva e dipendente da alcune regole.
Una quota analoga, ma leggermente inferiore (42,1%) è sostenitore dello ius soli: la cittadinanza italiana va attribuita a tutti quelli che sono nati nel nostro Paese, indipendentemente da quella posseduta dai genitori.
I più favorevoli sono le ali anagrafiche estreme (meno di 24 anni: 62,1%; oltre 65: 65,4%), gli inattivi sul lavoro (pensionati: 53,8%; casalinghe: 80,8%; studenti: 53,5%), chi ha un basso titolo di studio (63,1%), quanti hanno un atteggiamento favorevole (53,2%) e accogliente (58,0%) verso i migranti.
Fra queste due posizioni, si colloca in misura marginale quella della cittadinanza secondo lo ius sanguinis. Solo il 12,3% ritiene che essa si debba attribuire a tutti i nati in Italia, purchè i loro genitori siano già in possesso di quella italiana.
Questi esiti dimostrano una volta di più come vi sia una differenza significativa fra quanto si discute nell’arena politica e gli orientamenti della popolazione, che sono più positivi di quanto non traspaia nel dibattito pubblico.
Ciò non di meno raccontano anche della presenza di posizioni dialettiche, se non divergenti nel modo d’intendere l’attribuzione dei diritti di cittadinanza.
Anche il tema migratorio è complesso e difficile, i processi di integrazione fra culture e stili di vita diversi sono problematici. Tuttavia, non possiamo continuare a ignorare il tema della cittadinanza e della partecipazione alla comunità nazionale di una parte consistente della popolazione.
Anche perchè, prima o poi, tali domande prenderanno forma: un quarto degli stranieri regolarmente residenti (23,4%) ha meno di 18 anni (gli italiani sono il 17,7%).
Il loro futuro è qui. E anche loro sono il nostro futuro. L’inte(g)razione va definita e gestita in modo pragmatico, non ideologico.
Stabilendo regole condivise e guardando a come siamo oggi e, ancor di più, al futuro. In modo consapevole.
Daniele Marini
Università di Padova
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO MOLTI NO RESTA IM BALLO UN UNICO CANDIDATO: IL CAPOGRUPPO IN REGIONE RUGGERI, IMPIEGATO ENI
C’era una volta quella poltrona. Bella e potente, ambita e combattuta, nascosta come uno scrigno in uno dei pochi palazzi storici della città , nella piazza del Comune.
Adesso sembra peggio di una sedia elettrica, pronta a fulminare ogni velleità politica.
POLTRONA
La poltrona è quella del sindaco di Livorno, città importante, la seconda della Toscana per numero di abitanti sino a quando i cinesi hanno fatto crescere Prato che ha scavalcato in classifica il porto toscano.
Che però, nonostante la crisi, che qui ha soffiato come un libeccio cattivo, resta un centro industriale importante, affacciato sul Tirreno e frontiera della Toscana.
Nessuno sembra aver più voglia (almeno senza una bella spinta del partito) di fare il sindaco come lo furono raffinati intellettuali quali Furio Diaz e Nicola Badaloni e, nel partito di maggioranza, il Pd, sono già sei le rinunce e i ritiri.
Tanto che probabilmente non si faranno neppure le primarie.
Il primo a dire gentilmente ma irrevocabilmente di «no» è stato l’avvocato Giuseppe Angella, già amministratore delegato del Tirreno e cariche importanti nel gruppo l’Espresso.
Poi ha declinato l’invito il professor Emanuele Rossi, giurista di fama internazionale e docente della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
E ancora, dopo una settimana di pensamenti e ripensamenti, non ha accettato di correre per primo cittadino il Signore dei Robot, alias Paolo Dario, professore di robotica alla Scuola Sant’Anna e «visit professor» in numerose università straniere.
I POSSIBILI CANDIDATI
Si è cercato anche un politico di lungo corso, quale l’assessore regionale Gianfranco Simoncini, già sindaco di Rosignano Marittimo, ma quando sembrava fatta Simoncini ha preferito fare diversi passi indietro e rimanere nella più sicura Firenze.
Sfumata, stavolta per un’accoglienza assai tiepidina del partito, anche la possibile candidatura della renziana Nicoletta Batini, un lavoro al Fondo monetario internazionale, un curriculum da 30 e lode e una simpatia passata per il Movimento 5 Stelle di Grillo.
Al capolinea sembra essere arrivata anche la candidatura di Luca Bussotti, ricercatore ed ex assessore, l’unico ad aver presentato con un certo entusiasmo la candidatura alle primarie. In lista, adesso, rimane un unico candidato. Marco Ruggeri, 39 anni, impiegato Eni, capogruppo del Pd in regione.
Non è un renziano, Ruggeri, ma ha votato Cuperlo. I suoi compagni di partito dicono che sia un cuperliano pentito ma, nonostante questo, non è salito sul carro di Matteo (come in molti ex accaniti bersaniani hanno fatto anche a Livorno) e continua a definirsi un uomo della sinistra del partito.
A dir la verità anche Ruggeri, se pur livornese doc, avrebbe fatto a meno di quella poltrona scomoda e, dicono i fedelissimi, ha accettato per amore della sua città e per dovere istituzionale.
PROBLEMI
Ma perchè tanta avversione alla carica di sindaco? Il segretario del Pd, Yari De Filicaia ammette che la situazione in città è «complicata e che la crisi ha reso le cose difficilissime».
E poi c’è chi la butta pure sullo stipendio: 4 mila euro al mese sono pochi per un lavoro da 14 ore al giorno soprattutto se il candidato è un professionista affermato.
L’attuale sindaco, Alessandro Cosimi, medico oncologo, persona intelligente e eticamente perfetta, è stato travolto dagli eventi.
Un giorno, durante uno sfogo, pare abbia detto che «il mestiere di sindaco è un mestiere di m…». Pochi giorni fa ha dovuto subire l’onta di un assalto al consiglio comunale da patte d’inferociti occupanti di case popolari e di strutture dell’Asl.
«Non accadeva dal tempo del fascismo», ha commentato amareggiato minacciando le dimissioni poi rientrate. La città dove nessuno vuole fare il sindaco è a un bivio.
Il Pd sta decidendo se fare le primarie di coalizione o meno e intanto si cerca di rendere meno elettrica quella poltrona ormai diventata una sedia al primo piano del Palazzo Municipale.
(da “il Corriere della Sera“)
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
L’ULTIMO SCIOPERO AL PORTO DI GENOVA
Hanno fatto due scioperi in 114 anni. Uno nel 1900. I giornali dell’epoca lo chiamarono «lo sciopero
nero». Nero perchè i lavoratori erano genovesi neri – neri sporchi di nero – come il carbone che tiravano su dalle stive delle navi in porto.
Il nero lo toglievano dalle navi, ma restava loro in faccia, nella pelle, nei polmoni.
Ma almeno la paga, datecela giusta, dicevano. Allora qualcosa hanno ottenuto. Un po’ più di paga e i polmoni marci lo stesso. Ma la famiglia campava.
Erano i lavoratori della Compagnia Pietro Chiesa.
Camalli-carbonai lavoratori del porto di Genova. Aristocrazia operaia.
Soltanto loro sapevano fare certi lavori di precisione, perfezione, organizzazione. Andavano nel Wisconsin, a Liverpool, in Australia a insegnare e a imparare.
Poi, trent’anni fa, un altro scioperetto contro il ministro Giovanni Prandini che voleva privatizzare tutto: anche l’acqua del mare.
Ma lì è stato facile per quei furboni della Compagnia dei carbonai dimostrare che l’acqua del mare – e dei porti – la conoscevano molto meglio del ministro nato a Calvisano, quindi in provincia di Brescia. E averla vinta.
Ora, di scioperi ne hanno fatto un altro.
Gli vogliono – semplicemente – togliere una fetta di lavoro per darlo a chi costa meno. Questa volta tutto è più difficile. È la contingenza, bellezza.
Si stanno rendendo conto, i carbonai, che lavorare bene non serve più.
Tanto c’è uno, sulla punta del molo – e adesso di moli ce ne sono tanti – che per meno euro fa il tuo stesso lavoro.
E chi se ne importa se tu sei più bravo. È la globalizzazione, amico.
E chi se ne importa se a voi – lavoratori specializzati della Compagnia Pietro Chiesa – un tipo intellettuale come Luigi Squarzina vi ha costruito addosso uno spettacolo teatral-cinematografico per dire: avete anche un significato storico, non siete solo degli insetti parassiti, siete un pezzo della spina dorsale di una città che campa di ricordi gloriosi.
Adesso arriva un nuovo padrone del Terminal. Nel 1900 i Carbonai del porto di Genova erano 3.500. Oggi sono una cinquantina.
Lo sciopero – è logico – ora è finito.
Ma, come dice Tirreno Bianchi, il capo degli illusi: «Non finisce qui…».
Francesco Cevasco
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO AVER IMPEDITO A SPERANZA DI ESERCITARE IL SUO MANDATO, IL CINQUESTELLE DI BATTISTA, FUTURO PREMIER DEL MONDO DI GAIA, RECITA LA PARTE DEL RIVOLUZIONARIO PER L’AUDIENCE: “SANZIONI? ME NE INFISCHIO, NON RICONOSCO QUESTO PSEUDO-TRIBUNALE”
“Pur sforzandomi non riesco a intravedere alcuna autorità in questo pseudo tribunale che ci sta giudicando. Per cui fate quello che volete, francamente me ne infischio”.
Si è conclusa con queste parole l’audizione del deputato grillino Alessando Di Battista davanti all’ufficio di presidenza della Camera chiamato a giudicare la sua “aggressione” (gli impedì di svolgere una conferenza stampa) ai danni del capogruppo del Pd Roberto Speranza.
Questa mattina sono iniziate infatti alla Camera le audizioni dei deputati del M5S che si sono resi protagonisti della bagarre in aula il giorno della ‘ghigliottina’ sul decreto legge Imu-Bankitalia.
Complessivamente l’ufficio di presidenza, capeggiato da Laura Boldrini, ha convocato una quindicina di parlamentari per valutare eventuali sanzioni dopo l’istruttoria dei questori, che hanno censurato anche il collega di Scelta civica Stefano Dambruoso per il colpo dato a Loredana Lupo.
Va ricordato che, in base alla relazione dei questori, i reati commessi rientrano tra quelli per cui gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi immediatamente all’autorità giudiziaria e non “giudicati” solo all’interno della Camera.
Trattandosi di fattispecie che prevedono fino a 5 anni di reclusione.
Dibba ha ragione a non riconoscere il tribunale interno, merita quello ordinario.
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
DISATTESO L’ANNUNCIO CHE SAREBBERO STATE RIMOSSE: CHE ASPETTA LA MAGISTRATURA A SIGILLARLO?… SE NON FOSSE IL BLOG DI GRILLO MA DI UN POVERO CRISTO LO AVREBBERO GIA’ CHIUSO
Eppure l’annuncio c’era stato, ed era sembrato definitivo, solenne. 
Un recupero del senso della misura e delle Istituzioni. Uno stop al vaffa a tutti i costi.
Primo febbraio, di sera. Dopo ventiquattro ore di follia collettiva, un giorno intero durante il quale il blog di Beppe Grillo diventa il ricettacolo di ogni tipo di offesa rivolta a Laura Boldrini – rea di aver “ghigliottinato” la discussione sul decreto Imu-Bankitalia – lo staff del MoVimento Cinque Stelle dirama una nota.
Si prendono le distanze dalle “offese sessiste”.
Si avanzano giustificazioni: “i commenti sono stati scritti di notte, quando non c’era controllo”.
E ne viene annunciata la rimozione. Immediata.
Ma a oggi, dopo quasi una settimana, molti di quei commenti sono ancora lì, ben visibili in calce al post #Boldriniacasa.
E si tratta di parole irripetibili. Pure e semplici istigazioni alla violenza, qualcosa che con la politica, con il dibattito pubblico anche acceso e senza sconti reciproci, non ha niente a che fare. Dopo una settimana e nonostante l’impegno ufficiale, sul blog del capo politico del MoVimento Cinque Stelle, si legge ancora che quelle del Presidente della Camera dei Deputati sono “braccia portate via alla prostituzione”, per esempio.
E ci si ferma qui: tenore e contenuto dei commenti non meritano di essere ripresi.
Certo, la giustificazione fornita il primo febbraio dallo staff dei Cinque Stelle vale ancora: “Chi ha scritto le minacce può essere querelato tranquillamente. La Rete e libera e deve rimanere libera ma ognuno si assume le sue responsabilità “.
E chi dice che queste sono “minacce dei grillini dice cose prive di senso”. Sarà .
Ma il punto è che sul blog ufficiale di Grillo, leader di una forza politica che raccoglie il consenso di oltre otto milioni e mezzo di cittadini italiani, si continuano ad ospitare e a dare visibilità a veri e propri professionisti dell’insulto.
C’e’ poi un piccolo dettaglio giuridico su cui si continua a glissare: il titolare del blog è responsabile anche dei commenti qualora costituiscano reato e non vengano rimossi in tempi rapidi.
Se non fosse il blog di Grillo, nsomma qualcosa sarebbe uscito di casa in manette, ma a lui tutto è permesso.
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
L’ITALICUM FAVORISCE FORZA ITALIA, RIMETTENDOLA IN GIOCO… IL PD E’ DEBOLE SULLE ALLEANZE, SOLO SE VA AL BALLOTTAGGIO PUO’ CONTARE SUI 2/3 DEI CINQUESTELLE
Tu chiamalo, se vuoi, il Forza Italicum.
Anche per i sondaggisti la nuova legge elettorale rischia di far vincere il partito di Arcore.
E sarebbe un bel guaio per il segretario Pd, che in tal caso la fossa se la sarebbe scavata da solo, concordando la legge elettorale direttamente con l’avversario. L’ultimo ad avvertirlo del rischio, in ordine di tempo, sembra sia stato un peso da novanta come Romano Prodi: “Attento Matteo, con l’Italicum rischi non solo di far rinascere il Cavaliere ma anche di farlo vincere”.
Boatos a sinistra, subitanee smentite da parte del professore, ma la frittata è fatta.
Ma è davvero così? Se non si fida degli amici, Renzi può sempre prestare l’orecchio ai nemici come Matteo Salvini (“Se c’è uno che può ridere è Berlusconi”).
E se anche questa campana non basta, restano appunto i sondaggi politici che, numeri alla mano, indicano che l’allarme a sinistra è più che giustificato: l’ottimismo da goldenboy di Renzi, che punta sul proprio gradiente personale e sull’autosufficienza del partito, è un fattore di altissimo rischio per il centrosinistra.
E di belle speranze per Berlusconi.
Certo è che la strategia del Pd sembra sorprendere anche gli osservatori più scaltri e avvezzi a individuare ragioni di calcolo elettorale.
Sulle mosse di Renzi in materia, a quanto pare, ci sono molti dubbi. “Le coalizioni sono praticamente alla pari al 36,5% e quella che vince rischia di passare al fotofinish, per qualche decimale” spiega Antonio Noto di Ipr Marketing.
“Il centrodestra, dunque, potrebbe essere avvantaggiato dalla legge elettorale che ha concordato con Renzi perchè ha una maggiore forza di aggregazione, come dimostra il repentino riposizionamento di Casini. Inoltre può contare su partiti satellite che su una forbice dell’1-2% possono fare la differenza”.
E dunque, perchè puntare tanto sul premio di coalizione?
“La speranza del centrosinistra, evidentemente, è di andare al ballottaggio dove potrebbe incassare i voti di 2/3 dei grillini e battere il centrodestra per dieci punti, il 55% contro il 45%”.
Renzi si sta scavando la tomba da solo?
“Diciamo che la sua strategia è un po’ alla Veltroni, come se bastasse solo il Pd. Mentre Berlusconi apre la coalizione in vista del premio, Renzi lancia messaggi opposti, al motto ‘non bisogna conquistare i leader ma i voti degli elettori’” continua Noto.
Sbaglia?
“Nel suo massimo exploit, Veltroni non era andato oltre il 33%. E’ vero che Renzi ha un forte gradimento, sicuro oltre il 50%. I dati ci dicono anzi che il suo consenso è superiore a quello del Pd, al punto che paradossalmente il partito per lui è una zavorra, ne imbriglia il potenziale elettorale. Molti moderati voterebbero lui ma non il Pd” è il parere del sondaggista di Ipr Marketing.
E quindi come si spiega la sua strategia?
“Dipende dal posizionamento che ha in mente. Se pensasse di fare un altro partito Renzi avrebbe azzeccato tutte le mosse, ma se pensa ancora di essere il candidato del Pd allora giocare sull’autosufficienza rischia di rivelarsi una strategia perdente per lui e vincente per Berlusconi”.
Anche secondo un altro sondaggio questo rischio è tutt’altro che remoto.
L’istituto Ixè di Trieste diretto da Roberto Weber ha misurato la forza dei leader registrando effettivamente una crescita dei consensi di tutto rispetto per il sindaco di Firenze: il 58% delle preferenze, praticamente il doppio del gradimento rispetto a tutti gli altri leader, da Berlusconi (24%) ad Alfano (23%) e fino a Grillo (32%).
Ma se si va a vedere l’effetto sul Pd non c’è trascinamento.
Il Partito Democratico si conferma il primo partito politico italiano con il 31,4% delle intenzioni, che salgono dello 0,3% rispetto alla precedente rilevazione ma ancora molto lontane dalla soglia del 37% che metterebbe il Pd al riparo dalla sconfitta (e dal rischio di aver regalato l’ennesima vittoria a Berlusconi).
Anche per Maurizio Pessato, presidente di Swg, non c’è automatismo che tenga: la nuova legge elettorale riapre più che mai giochi che sembravano chiusi.
“Certo qualcosa il Pd ha recuperato rispetto all’autunno, al tempo di Bersani per capirci — spiega Pessato — Ma non bisogna confondere il gradimento personale del leader con quello del partito. Non dimentichiamoci che storicamente in Italia centrodestra e centrosinistra sono andati più volte alla pari e poi il primo ha mostrato una forza di recupero sul secondo inaspettata e dirompente. Poi c’è il M5S — continua il sondaggista — ma certo aver improntato la partita verso la vittoria tra due grandi coalizioni da una parte riduce il rischio del terzo incomodo, dall’altra rende l’esito delle sfida tra i primi due assai poco scontato. E Berlusconi, da questo punto di vista, torna in campo con grandi possibilità di vincere”.
Lo stesso scenario ipotizza un sondaggio Ipsos dei giorni scorsi, che ha subito “benedetto” il ritorno dei centristi nell’alveo del centrodestra.
L’istituto di Nando Pagnoncelli ha fatto sapere che l’alleanza tra Fi e Udc porterebbe il centrodestra ad ottenere il 37,9% dei consensi, affermandosi al primo turno e, con il premio di maggioranza, a conquistare 326 seggi.
Insomma, conferma il rischio che la legge elettorale partorita da Renzi e Berlusconi possa produrre uno scenario potenzialmente pericoloso per il Partito democratico.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
“INIZIATIVA SENZA PRECEDENTI, E’ UNA GRAVE REGRESSIONE DEMOCRATICA”
Landini, si aspettava l’iniziativa della Camusso?
«No perchè il compito di un segretario generale è quello di far applicare i principi dello statuto. In più di cento anni di vita, nella Cgil hanno sempre vissuto in maniera dialettica posizioni diverse. Il dissenso non si è mai risolto a colpi di ricorsi. Questa, invece, è una grave regressione democratica. Del resto, io nella riunione del Direttivo della Cgil l’avevo detto: l’accordo sulla rappresentanza deve essere sottoposto al voto dei lavoratori. E visto che Cisl e Uil non erano disponibili alla consultazione, ho chiesto di far votare gli iscritti alla Cgil, come stabilisce lo statuto della Cgil. Senza questo voto – l’ho detto e lo ripeto – non mi sento vincolato a rispettare quell’accordo».
Ma è la Fiom che si mette fuori dal momento che il Direttivo della Cgil ha approvato l’intesa sulla rappresentanza a larghissima maggioranza.
«Non è così. Il nostro statuto stabilisce che si consultino i lavoratori interessati. Lo statuto è chiaro e non ha bisogno di interpretazioni.È la nostra politica».
Eppure, sostiene la Camusso, gli iscritti alla Cgil che partecipano alle assemblee congressuali si esprimono anche sull’accordo. Non è una consultazione?
«Il congresso ha le sue regole. Il discussione congressuale riguarda la strategia della Cgil per i prossimi quattro anni. La consultazione su un accordo è un’altra cosa, tanto che la Fiom aveva proposto di sospendere il congresso per far votare i lavoratori sull’intesa. In più alle assemblee congressuali partecipano i lavoratori di tutti i settori, dalla scuola al commercio, mentre l’accordo sulla rappresentanza interessa i lavoratori delle imprese industriali aderenti a Confindustria».
Lei pensa che questo sia un accordo per imbrigliare la Fiom?
«Io penso che sia un accordo contro la contrattazione. Questo è un accordo che introduce per la prima volta le sanzioni a carico dei delegati e delle organizzazioni sindacali; che limita i diritti e introduce forme di arbitrato interconfederale che si sostituisce al ruolo delle categorie».
Però il Direttivo, che è l’organo più rappresentativo della Cgil, ha detto sì all’intesa. Perchè la Fiom non rispetta la posizione della maggioranza?
«Prendo atto del voto del Direttivo. Ma insisto: lo statuto prevede la consultazione. Solo il voto dei lavoratori è vincolante altrimenti cambia la natura della Cgil».
Oggi (ieri per chi legge, ndr) ha incontrato la Camusso all’assemblea del Nuovo Pignone. Cosa vi siete detti?
«Ciascuno è rimasto delle proprie opinioni»
Anche la Fiom si rivolgerà al Collegio statutario per chiedere se il Direttivo ha violato lo statuto?
«No. Conosciamo lo statuto e non abbiamo bisogno di interpretazioni. Ma possibile che con quello che sta accadendo nel nostro sistema industriale il segretario della Cgil non trovi di meglio che chiedere sanzioni per il segretario della Fiom?».
La Camusso ha precisato che non intende chiedere sanzioni nei suoi confronti.
«Lo ha chiesto esplicitamente, domandando se in caso di violazione dello statuto sono previste le sanzioni. E poi non è un iscritto qualsiasi: è il segretario generale della Cgil!».
Si aspetta di essere punito?
«Non mi aspetto niente. Ma penso che in un’organizzazione democratica le teste, per evitare che si rompano, vadano contate».
Sta pensando a una scissione?
«No, nel modo più assoluto. La Cgil siamo noi».
Oggi (sempre ieri per chi legge, ndr) ha anche incontrato Renzi. Si sta alleando con il segretario Pd per indebolire la Camusso?
«Ma no! La Fiom ha chiesto a tutti i partiti di potersi confrontare sulle politiche industriali e per il lavoro. Tutto qua».
Roberto Mania
(da “la Repubblica“)
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Febbraio 6th, 2014 Riccardo Fucile
CAMUSSO NEGA IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE, MA HA GIà€ FATTO IL PRIMO PASSO PER SANZIONARE IL LEADER DEI METALMECCANICI…. CHE PERà’ HA RENZI DALLA SUA PARTE
Per capire l’ampiezza del caos interno alla Cgil basta fotografare quanto avvenuto ieri mattina.
Minacciato di un procedimento disciplinare da parte del segretario generale della Cgil, notizia resa pubblica dal Fatto ieri, il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha incontrato di primo mattino il segretario del Pd, Matteo Renzi.
Incontro definito positivo e utile a discutere di Jobs Act ma, allo stesso tempo, dal forte valore simbolico.
Da quando è segretario del partito “erede” della sinistra italiana, che nel sindacato ha ancora una roccaforte, Renzi si è incontrato più volte con il leader dei metalmeccanici e mai, che si sappia, con il segretario generale della Cgil.
Una figura che, ai tempi di Berlinguer, partecipava direttamente alla segreteria nazionale del partito e oggi, con Susanna Camusso, sostanzialmente ignorata.
La Cgil ieri ha cercato di smentire quanto rivelato dal Fatto bollandolo come “falsità ” e “notizia già smentita”.
In realtà , nel suo “Mattinale” quotidiano (la rassegna stampa a uso interno) non ha potuto negare la lettera inviata da Camusso al Collegio statutario (pubblicata integralmente dal nostro giornale) per chiedere come “sanzionare” l’eventuale violazione dello Statuto da parte di Landini.
Ma ha precisato che non si tratta di una “procedura di commissariamento della Fiom-Cgil nè alcun procedimento disciplinare nei confronti di qualsivoglia suo dirigente”.
Il Collegio statutario, continua la Cgil, “è l’equivalente di una suprema corte a cui chiedere l’interpretazione autentica delle norme statutarie, non un organo giudicante”.
Chi conosce la Cgil da trent’anni, però, spiega al Fatto un particolare: “È vero che la Commissione non fa sanzioni ma interpreta lo Statuto. Ora, la commissione di garanzia deve applicare lo stesso statuto e dopo la delibera interpretativa, che ha ammesso l’ipotesi di sanzioni, basterà che uno qualsiasi dei 6 milioni di iscritti faccia la denuncia e Landini, non appena si svincolerà dalla decisione assunta, potrà essere ‘condannato’ ”.
La crisi della Cgil si evince anche da quanto rileva lo stesso Mattinale e cioè l’esistenza di analoghi ricorsi allo stessoCollegio da parte di Maurizio Landini e di Giorgio Cremaschi.
Un sindacato in cui ci si confronta a colpi di ricorsi statutari qualche problema deve averlo.
Ieri da Corso Italia è stata diramata una nota in cui si invita a concentrarsi su “lavoro e diritti”. Il nodo dell’accordo sulla rappresentanza parla del tipo di sindacato che si ha in mente per il futuro.
Semplificando, si potrebbe dire che Susanna Camusso lavora per un sindacato “responsabile”, che si fa carico dei problemi del Paese, che firma accordi incaricandosi di farli rispettare.
Un sindacato più vicino alla Cisl e con alle spalle, sul piano generale, il “modello Napolitano”.
Maurizio Landini, invece, vuole un sindacato con le mani libere. Capace di scontrarsi per anni con la Fiat, e con Cisl e Uil, ma anche di tornare a sedersi al tavolo, un sindacato più di movimento.
Approccio vicino a quello che Matteo Renzi ha per il Pd.
Per questo non stupisce la relazione speciale tra i due leader che si sono riconosciuti politicamente sul tema del rinnovamento e della “rottamazione” anche del sindacato. “Il tema del rinnovamento è posto” dice un autorevole dirigente nazionale e il malumore che si registra, anche nella maggioranza, ne è la dimostrazione”.
Il rapporto privilegiato tra Renzi e Landini spiazza sempre di più la Cgil.
Camusso lo ha fatto presente ieri dicendo che quando si discute “di cassa integrazione e ammortizzatori sociali, il tema non riguarda solo la Fiom ma tutte le categorie” lasciando trapelare la propria irritazione per le trattative tra Renzi e Landini.
“Quando mi incontrerò io con Renzi? — ha aggiunto — Certamente, quando accadrà lo saprete”.
In altri tempi, lo scontro nel sindacato sarebbe stato interpretato come uno scontro tra maggioranza riformista e sinistra radicale.
Ora, invece, l’esponente “radicale”, Landini è vicino al “blairiano” Renzi mentre la “socialdemocratica” Camusso sembra aver perso “la copertura del partito”.
In queste condizioni, sembra più utile leggere lo scontro come una dialettica tra “continuità ” e “rinnovamento”.
Landini è un leader sindacale molto amato dalla base e che ha saputo dialogare anche con il mondo grillino.
Il suo nome viene costantemente agitato nell’agone politico dove, se si impegnasse, potrebbe mutare alcuni equilibri. È spesso evocato come possibile leader di una formazione di sinistra radicale affiancata al Pd di Renzi (che sarebbe preziosa con la nuova legge elettorale renziana). Camusso, invece, rappresenta il sindacato-istituzione, poco empatico e concentrato a regolare i conti interni. Ma, allo stesso tempo, desideroso di mantenere alcune posizioni classiche non fidandosi delle innovazioni renziane che sembrano un cedimento alla finanza e alle imprese.
Lo scontro è quindi ampio e riguarda profilo e destini della sinistra italiana.
I sindacati concorrenti, Cisl e Uil, si sono limitati a commentare dall’esterno.
“Se Renzi pensa che Landini sia un buon consulente del lavoro, mi verrebbe da dire ‘auguri’”, dice il cislino Raffaele Bonanni.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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