Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile MAGLIA NERA IN EUROPA: PERNOTTAMENTI SCESI DEL 4,6%
Vi pare possibile che «il Paese più bello del mondo» perda turisti nell’anno del boom mondiale del turismo?
Che vada sotto del 4,6 per cento (maglia nera europea) mentre perfino la Grecia recupera ossigeno crescendo dell’11?
Che ricavi dall’immenso tesoro d’arte e bellezza, unico a livello planetario, solo il 4,1 per cento del Pil?
Non sono campanelli d’allarme: sono campane assordanti.
Eppure troppi non le sentono. Come se si trattasse di un problema comunque minore…
Stavolta no, nessuno può attribuire tutto alla crisi mondiale, al crollo dei mercati, allo spostamento degli assi di certe produzioni industriali, all’emergere prepotente della Cina o dell’India. Niente alibi.
Perchè mai si erano visti, nella storia, tanti benestanti in vacanza quanti nel 2013.
Sono stati, spiegava nei giorni scorsi Unwto-World Tourism Barometer, 1.087 milioni.
Cioè oltre 52 milioni in più rispetto al 2012 quando, per la prima volta, il loro numero aveva superato di slancio il miliardo.
Nel non lontanissimo 1980 erano 280 milioni: siamo al quadruplo.
È la prova della bontà della tesi di Jeremy Rifkin: «L’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è il turismo globale: una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo».
Tesi confermata dalla Commissione europea: «Il turismo rappresenta la terza maggiore attività socioeconomica dell’Ue».
E chi potrebbe sfruttare l’occasione meglio di noi?
Abbiamo più siti Unesco (addirittura 49, e dovrebbero diventare 50 con le Langhe) di chiunque altro su tutto il pianeta.
Siamo nelle posizioni di testa delle classifiche del «Country Brand Index 2012-2013» che ha studiato i «brand-Paese» di 118 nazioni accertando che il «marchio Italia» tra i potenziali consumatori è primo per il cibo, primo per attrazioni culturali e terzo per lo shopping, insomma primo nei sogni dei viaggi che i cittadini del mondo vorrebbero fare.
Veniamo da una storia che nel 1979, come rivendicava il ministro del Turismo dell’epoca, Marcello di Falco, ci vedeva «secondi al mondo per attrezzatura ricettiva, primi per presenze estere, primi per incassi turistici, primi per saldo valutario».
Macchè: spiega l’ultimo dossier Unwto, l’organizzazione mondiale per il turismo, che restiamo sì al quinto posto per numero di arrivi ma per fatturato siamo scivolati già al sesto posto dietro Macao e siamo ormai tallonati dalla Germania che dal 2008 ha dimezzato il distacco di 6 miliardi di dollari riducendolo a 3.
Per non dire della classifica della competitività turistica (non basta avere la torre di Pisa, Pompei o l’Etna: devi offrire pure prezzi giusti, trasporti, organizzazione, sicurezza…), classifica che ci vede malinconicamente arrancare al 26 º posto nel mondo e al 17 º in Europa.
Spiega il rapporto 2013 di World Travel & Tourism Council, mostrando tutti gli indicatori (sei su sei) con la freccetta verso il basso, che il turismo in senso stretto col quale troppi si riempiono a sproposito la bocca («il nostro petrolio!») contribuisce al Pil italiano con appena il 4,1% e cioè una quota inferiore a quella che vari Paesi occidentali ricavano già da Internet.
Peggio: compreso l’indotto (per capirci: compresi i laboratori che sfornano croissant per le colazioni negli alberghi o le fabbrichette che fanno le divise dei camerieri) supera a malapena il 10,3%.
Lontanissimo da quel 18,5% immaginato nel 2010 dal «Piano strategico per il turismo» della Confindustria di Emma Marcegaglia.
E ancor più lontano dagli impegni di Silvio Berlusconi: «Ho dato come missione al ministro Brambilla di portare la quota di Pil del turismo dal 10 al 20%».
Non basta: senza una sterzata virtuosa gli economisti del Wttc prevedono che nei prossimi 10 anni solo nove Paesi su 181 monitorati cresceranno meno del nostro.
La tabella sui pernottamenti, diffusa giorni fa da Eurostat, ribadisce tutto.
L’Ungheria ha avuto nel 2013 un aumento del 5,0%, la Slovacchia del 5,5, la Bulgaria del 6,2, la Gran Bretagna (28 siti Unesco: poco più della metà dei nostri) del 6,5, la Lettonia del 7,3 e la Grecia, come dicevamo, addirittura dell’11 per cento.
Oro zecchino, per le esauste casse di Atene.
Certo, non siamo gli unici a essere andati male. Qualcosa hanno perso ad esempio anche il Belgio o la Danimarca.
Ma nessuno su 28 Paesi, come dicevamo, è andato male come noi.
Dalle tre cime di Lavaredo ai Faraglioni di Capri, dagli Uffizi al barocco di Noto, da San Gimignano ai trulli di Alberobello possiamo offrire più di tutti, sul pianeta. Eppure perdiamo 4,6 punti.
Con un’emorragia, come denunciava giorni fa Assohotel, di 1.808 imprese alberghiere. Nell’«anno magico» del turismo mondiale.
Colpa del crollo dei turisti interni, certo: gli italiani che possono permettersi una vacanza, purtroppo, sono sempre di meno. Tanto da pesare oggi, secondo una ricerca di Nomisma, meno degli stranieri. Come successe nel 1958.
Proprio per questo, però, spiccano i ritardi culturali e tecnologici che rendono più difficile l’aggancio di quei turisti esteri che potrebbero aiutare le nostre finanze.
Spiega uno studio di Mm-One Group su dati Eurostat che nonostante i passi avanti degli ultimissimi anni, dovuti proprio al tentativo sempre più angosciato di recuperare clienti superando le pigrizie del passato quando troppi erano convinti che «comunque vada, qui devono venire», l’Italia è ancora nettamente indietro rispetto agli altri Paesi europei.
Basti dire che il 30,1% degli alberghi, delle locande, dei bed & breakfast e insomma di tutte le attività ricettive non ha ancora una piattaforma dedicata alle ordinazioni.
Che meno della metà e cioè il 46,7% vende online.
Che mediamente i pernottamenti venduti sul web rappresentano solo il 12,5%. Uno su nove.
Nel resto dell’Europa, la quota di fatturato derivante dall’e-commerce è del 24% ma diversi Paesi stanno molto sopra: la Gran Bretagna è al 39%, l’Islanda al 35, l’Irlanda al 33, la Repubblica Ceca al 31, la Lituania al 30, l’Olanda al 29…
E mette malinconia vedere come noi, al 17%, siamo staccati dai nostri «concorrenti»: cinque punti sotto la Francia, sei sotto la Germania, dieci sotto la Spagna, ventidue sotto il Regno Unito.
Per questo resta stupefacente il silenzio che, salvo eccezioni, ha sempre accompagnato la diffusione di numeri sconfortanti come (fonte Wttc) la perdita di 4,3 miliardi di euro nel turismo straniero nel 2012 rispetto al 2006.
Silenzio degli uomini di governo. Silenzio dei partiti. Silenzio dei sindacati, che sembrano non accorgersi di come il settore abbia sette volte più addetti della chimica o addirittura ventisette volte quelli della siderurgia primaria.
Fu giusto, quando nacque il governo Letta, salutare come una svolta positiva l’accorpamento del ministero dei Beni culturali con quello del Turismo.
Anzi, sarebbe stato bene aggiungere anche l’Ambiente. Proprio perchè un ministro del nostro patrimonio dovrebbe poter pesare molto, in Consiglio dei ministri.
Perfino il passaggio delle funzioni a Massimo Bray, però, si è rivelato un percorso complicatissimo.
E la sterzata si è fatta sempre più urgente.
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile GLI ELVETICI NON AVRANNO VANTAGGI DAL TETTO AGLI IMMIGRATI… PER I FRONTALIERI LE CONSEGUENZE SARANNO NEGATIVE
La prima cosa da dire sul voto svizzero di oggi è che è stato un voto a sorpresa. 
Fino a qualche giorno fa i sondaggi (che evidentemente non sbagliano solo da noi) davano per certa, o per quasi certa, la vittoria del “no” alla proposta, avanzata dai nazionalisti dell’Udc e della Lega ticinese, di bloccare gli ingressi ai lavoratori stranieri.
Il fronte del “sì” aveva contro governo, imprenditori, sindacati, quasi tutti i partiti.
Perchè invece il “sì” ha rimontato e ha vinto?
È molto probabile che la prima risposta sia da cercare nella paura, che la crisi sta alimentando ovunque, anche in quell’eterno regno del Bengodi che è, o crede di essere, la Svizzera.
I promotori del “sì” hanno riconosciuto, durante la campagna referendaria, che il lavoro degli immigrati — in particolare quello degli italiani — fornisce agli svizzeri prestazioni di alta qualità a prezzo concorrenziale: ma aggiungendo poi che queste prestazioni potrebbero finire per privare molti svizzeri del posto di lavoro. È su questa paura che hanno vinto.
Si aggiunga poi — anche se molta ipocrisia preferirebbe sorvolare su questo punto — che noi italiani non godiamo di grandi simpatie in Svizzera, specialmente in quella più prossima: prova ne sia che, complessivamente, il referendum è passato con un minimo scarto (pochi decimi sopra il 50 per cento), ma nel Canton Ticino il “sì” ha vinto con il 68 per cento.
A molti, la presenza degli italiani non è gradita, anche se è «a ore»: non dimentichiamo infatti che i frontalieri in Svizzera ci stanno soltanto durante l’orario di lavoro, tornando a casa ogni sera, in Italia, appena finito il servizio.
Non ci si stupisca: basta leggere i racconti del luinese Piero Chiara, rifugiato oltre confine durante la guerra, per sapere che considerazione avevano di noi, già allora, oltre i valici di Fornasette, Ponte Tresa, Chia
Ha vinto dunque un voto di pancia, e come sempre succede ora la pancia dovrà fare i conti con la testa.
Che la Svizzera tragga benefici da questo blocco ai lavoratori stranieri, è molto difficile. Non prevedono vantaggi nè il mondo economico nè quello politico, il quale si troverà ora — fra l’altro – a dover fare i conti con le reazioni dell’Unione europea, visto che la vittoria del “sì” va contro le norme internazionali sulla libera circolazione dei lavoratori (oltre che, ci sia concesso dirlo, contro la storia).
Ma conseguenze ancora più negative, ahimè, avremo, già da subito, noi italiani.
Le province che confinano con la Svizzera, in particolare quelle di Como e Varese, finora avevano retto alla crisi soprattutto grazie alla possibilità , per molti, di lavorare come frontalieri. Adesso sarà dura.
Michele Brambilla
(da “La Stampa“)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile PER I CONSIGLIERI SI FANNO GIA’ I CONTI, PER GLI IMPIEGATI NON CI SONO RISORSE
I tempi sono quelli dei precari in bolletta: richieste immediate per avere prima possibile la liquidazione della buonuscita.
Solo che i deputati regionali siciliani non sono esattamente dei normalissimi dipendenti a tempo determinato.
Eppure ben quarantuno dei novanta onorevoli che occupano un seggio a Palazzo dei Normanni hanno già chiesto all’amministrazione del Parlamento siciliano l’anticipo del Trattamento di fine rapporto.
Cifre variabili, dato che tra i richiedenti ci sono sia parlamentari alla prima elezione che veterani di lungo corso: a Palazzo dei Normanni stanno facendo i conti, basta pensare però che il Tfr di ogni deputato che ha alle spalle una legislatura è quantificabile in circa quarantamila euro.
“Una parte dei deputati regionali sta semplicemente cominciando a esercitare l’ovvio diritto, espressamente previsto dalla legge, alla restituzione di quanto versato per una finalità ora venuta meno, il cosiddetto assegno di solidarietà ” ha subito sottolineato l’amministrazione dell’Assemblea regionale siciliana.
Dal primo giorno del 2014, infatti, anche in Sicilia è entrata in vigore la legge sulla spending review, che ha cancellato anche il famigerato assegno di solidarietà : un tesoretto che nel dicembre del 2012 aveva costretto Palazzo dei Normanni a liquidare due milioni e duecentomila euro ai deputati non rieletti.
Dal primo gennaio dunque il rapporto contrattuale che lega i deputati al Parlamento è cambiato: e dato che il fondo destinato al Tfr è stato abolito, in molti hanno accelerato le pratiche per tornare in possesso della liquidazione accumulata nell’ultimo anno solare.
Una richiesta legittima che però ha fatto storcere il naso a parecchi.
Come per esempio quei dipendenti regionali che, come gli onorevoli, avevano da tempo chiesto un anticipo del Tfr, senza però avere mai avuto alcuna risposta.
“Se il politico dell’Ars ha il diritto a chiedere l’intera liquidazione perchè lo consente la legge e lo fa in una situazione finanziaria di estrema difficoltà per la Regione e per 30mila persone senza stipendio, vogliamo capire perchè centinaia di lavoratori regionali che vivono problemi di salute, in alcuni casi anche gravi, non possono attingere al proprio Tfr, esercitando un diritto sancito dalla legge. Non chiedono nè aumenti di salario nè premi, ma solo avere quello che gli spetta per potere pagare le spese sanitarie” scrivono in un comunicato Marcello Minio e Dario Matranga, rappresentanti sindacali di Cobas/Codir.
In Sicilia insomma la liquidazione del Tfr segue un doppio binario: uno, velocissimo, per i deputati, e un altro, praticamente fermo, per i semplici dipendenti.
Il 2014 però ha portato altre piacevoli sorprese agli onorevoli siciliani, atterriti dal fatto che il decreto Monti sembrava incombere come una scure sui loro stipendi.
E invece la prima busta paga dell’anno è quasi tutta salva: solo trecento euro netti in meno, rispetto ad un taglio lordo di quasi tremila euro.
Il quotidiano on-line livesicilia.it ha paragonato due buste paga del medesimo deputato: a novembre, cioè prima dell’approvazione del decreto Monti, percepiva 14.206 euro lordi che diventavano 8.667 euro netti, mentre a gennaio, dopo l’approvazione della spending review il lordo è stato tagliato fino a 11.100, ma nelle tasche del deputato finiscono comunque 8.315 euro al mese.
Sembra una vera e propria magia ma è solo merito del consiglio di presidenza dell’Ars, che oltre ad inventarsi una provvigione extra per i capigruppo, ha deciso di diminuire la parte dello stipendio sottoposta alle imposte: da 10.700 a 6.600: fatta la legge, trovato l’inganno.
E pensare che a Palazzo dei Normanni avevano addirittura creato una commissione speciale per recepire sull’isola il decreto varato dal governo di Mario Monti.
Una commissione che tra infuocate polemiche ha impiegato un intero anno per raggiungere l’agognato obbiettivo: trecento euro in meno per ogni parlamentare.
Giuseppe Pipitone
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile IL SEGRETARIO PREOCCUPATO DAI (SUOI) INDAGATI IN LISTA E DALLA CONCORRENZA A SINISTRA DELLA MURGIA… E NON PUà’ NEMMENO AFFONDARE SU CAPPELLACCI
Gli occhi esperti di Arturo Parisi, ultimo erede della nobile filiera politica Berlinguer-Segni-
Cossiga, leggono l’arrivo di Matteo Renzi al teatro Verdi di Sassari.
Per chi non sa la politica sarda la scena avrebbe dell’incredibile.
Il rottamatore arriva scortato da Gavino Manca, indagato per peculato aggravato nello scandalo dei fondi regionali, ma renziano della prima ora e perciò imposto nelle liste del Pd alle regionali.
Il candidato governatore, l’economista Francesco Pigliaru, alle prese con la febbre a 39, salta la passerella con l’indagato e aspetta dentro il teatro.
Renzi sbarca in Sardegna per aiutare Pigliaru a battere il governatore uscente Ugo Cappellacci ma sceglie di picchiare duro soprattutto sulla scrittrice indipendentista Michela Murgia, accusata di sottrarre voti decisivi per liberare l’isola dal figlio del commercialista di Berlusconi.
Evidentemente i sondaggi dicono che ne prende tanti, perchè il colpo a effetto è ben studiato e ripetuto la mattina a Sassari e nel pomeriggio a Cagliari: “Votare Michela Murgia è una scelta radical chic che equivale a scegliere Cappellacci. Un voto che mette a posto la coscienza, ma votare Pigliaru mette a posto la Sardegna”.
Renzi aggiunge: “Tanta idealità senza concretezza significa fare il bar sport della politica”.
C’è qualcosa che stride. Renzi e Pigliaru fanno a gara a chi la dice più tosta su Cappellacci: incompetente, ignorante, cinico, indecente, un disastro per la Sardegna, e via insultando.
Ma il Rottamatore frena con stridore di gomme prima di dire la cosa più semplice: Cappellacci è rinviato a giudizio per abuso d’ufficio con l’accusa di aver agevolato gli affari sulle bonifiche delle aree industriali dismesse del clan del piduista Flavio Carboni.
Un ramo laterale del processo P3: tra gli indagati anche Marcello Dell’Utri, Nicola Cosentino e Denis Verdini, proprio lui, l’uomo che discute con Renzi i dettagli della nuova legge elettorale.
Non c’e’ quindi da sorprendersi se, mentre Renzi la tocca piano a Sassari, Cappellacci la tocca pianissimo ad Alghero, dove il riferimento a Francesca Barracciu, l’europarlamentare che dopo aver vinto le primarie è stata disarcionata perchè indagata nello stesso scandalo del suddetto Manca, si limita a un signorilissmo “quando ha avuto un problema”, agghindato dall’accusa di sessismo al Pd per aver candidato un maschio di specchiata reputazione al posto di una femmina indagata.
I più anziani qui ricordano che neppure Enrico Berlinguer era in grado di aver ragione degli arabeschi di potere dei satrapi del Pci sardo.
E chissà come è andata veramente a Renzi. Ha subito o imposto la candidatura degli indagati dopo l’eliminazione di Barracciu?
La verità vera probabilmente la sa solo Luca Lotti, il suo braccio destro fiorentino che da sempre tiene i contatti con l’opaca e litigiosa nomenklatura del Pd sardo, e che ieri non a caso ha scortato il capo nella difficile attraversata dell’isola.
Renzi dà messaggi un po’ in codice. Racconta compiaciuto che all’aeroporto un ragazzo gli ha detto “voto Pigliaru ma non il Pd”, poi ricorda che i vivaci infanti delle scuole fiorentine gli hanno detto che “i politici sono quelli che rubano”, e lui è stufo di sentirselo dire.
I testimoni più attenti ricordano uno scontro feroce, in notturna, tra Pigliaru e il segretario regionale Bachisio Silvio Lai (senatore, indagato anche lui per i fondi regionali).
Il professore, dopo averci messo la faccia, si aspettava un’operazione liste pulite. Invece gli hanno imposto la presenza in lista di tre indagati irrinunciabili, non solo il renziano Gavino Manca, ma anche Marco Espa (vicino a Barracciu) e Franco Sabatini.
Così non solo non si dice ai sardi che se votano Cappellacci rischiano di dover presto tornare alle urne causa eventuale condanna e conseguente decadenza, ma ci si infila in una scena ancora più strana, che si ripete identica a Sassari la mattina e a Cagliari la sera.
La reietta Barracciu, arriva, si siede in prima fila, e Renzi le rivolge dal palco un omaggio cortese: “Abbiamo donne intelligenti e capaci come Francesca in grado di fare un passo indietro per far vincere la squadra”.
Il passo indietro l’ha fatto dopo che non ha convinto i magistrati su quei 30 mila euro che ha speso, dice lei, in benzina per trasferte politiche nell’isola.
Renzi comunque giura che, dai sondaggi, Pigliaru ha già vinto ma che nessuno vuol dare al voto sardo carattere di test nazionale, e quindi non vuol mettere la faccia sulla eventuale sconfitta.
E a Cappellacci, che proprio ieri ha detto di aver “rullato” nel 2009 Veltroni e che adesso la stessa sorte toccherà a Renzi, risponde non senza ragione, che il problema di Cappellacci è di “aver nel frattempo rullato i sardi”.
Eppure qualcosa stona. Altri tempi quando il rottamatore incalzava gli avversari interni al grido di “cosa avete fatto al Monte dei Paschi?”.
Adesso sembra arrivato il momento dell’incertezza.
Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile VITTORIA DI MISURA: 50,3% CONTRO IL 49,7%… E’ LA VITTORIA DEI PICCOLI EGOISMI LOCALISTICI E LA FINE DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE
In Svizzera passa il referendum contro l’immigrazione di massa.
A rischio il lavoro dei frontalieri (anche italiani) e le relazioni tra Berna e Bruxelles.
Il testo dell’iniziativa popolare proposta dall’Udc, il partito di ultradestra che da anni si spende in campagne anti-immigrazione e contro i lavoratori frontalieri, prevede infatti la rinegoziazione degli accordi sulla libera circolazione delle persone entro tre anni da oggi.
La novità che riguarda più da vicino i 65mila frontalieri italiani che lavorano ogni giorno in Svizzera è quella scritta nel terzo comma del nuovo articolo 121 della Costituzione Federale che prevede l’introduzione di “tetti massimi annuali e contingenti annuali per gli stranieri che esercitano un’attività lucrativa” sul territorio elvetico.
Tetti massimi che “devono essere stabiliti in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera e nel rispetto del principio di preferenza agli Svizzeri” e, come si legge: “Essi devono comprendere anche i frontalieri”.
I “sì” hanno ottenuto la doppia maggioranza necessaria, incassando sia il favore della maggioranza dei Cantoni, sia la maggioranza dei voti validi.
Il risultato è rimasto incerto sino all’ultimo minuto, in un continuo rincorrersi di dati e analisi.
Alla fine il conteggio si è fermato sul 50,3 a 49,7, con meno di 20mila voti di scarto.
Il referendum è passato nonostante il parere negativo del Consiglio federale (il governo elvetico) che si era espresso per una bocciatura della proposta, spiegando che “l’immigrazione contribuisce in misura considerevole al benessere della Svizzera” e che “l’introduzione di tetti massimi comporterebbe ingenti oneri burocratici per lo Stato e le imprese: l’iniziativa potrebbe segnare la fine della libera circolazione delle persone e degli altri accordi conclusi con l’Unione europea nel quadro degli accordi bilaterali”.
Insomma, sebbene il governo elvetico abbia messo in guardia i cittadini sul pericolo rappresentato da una vittoria dei sì, ha vinto la posizione di chi vuole rendere più difficili gli ingressi e regimentare scrupolosamente anche i permessi di lavoro.
Il no ha prevalso, con quote differenti, in tutti cantoni di lingua francese e nel canton Zurigo, in tutto il resto della Svizzera hanno vinto i sì.
La regione dove l’iniziativa ha riscosso maggior successo è proprio il Canton Ticino, quello di lingua italiana, meta quotidiana 59310 lavoratori frontalieri italiani (nel terzo trimestre 2013, secondo dati Ufficio statistico federale) attirati da salari più alti e un mercato toccato in misura minore dalla crisi.
Qui, dove i frontalieri italiani sono stati dipinti come dei ratti nelle campagne a sostegno del referendum, i Sì hanno letteralmente sbancato.
Si sono fermati poco sotto al 70% (al 68,17%, con uno scarto di oltre 45mila preferenze sui no), un successo determinante anche per la vittoria in campo nazionale. È il segno del peso della campagna denigratoria messa in campo dai sostenitori del referendum, che non si sono fatti scrupolo di fare leva sugli istinti più bassi per portare a casa il risultato.
Gli effetti non saranno immediati, ma entro tre anni il governo federale dovrà rinegoziare gli accordi bilaterali in essere con l’Unione Europea e introdurre il contingentamento dei posti di lavoro per i frontalieri.
Attualmente sono 65658 gli Italiani che lavorano regolarmente in Svizzera (dati terzo trimestre 2013, fonte Ufficio statistico federale), con un incremento del 4,7% rispetto all’anno scorso.
C’è da aspettarsi che in futuro il trend attuale subirà un’inversione di tendenza, portando ad una graduale diminuzione delle presenze straniere nella Confederazione.
Alessandro Madron
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile L’ANZIANO DC DI NUSCO, OGGI NELL’UDC, NON HA INTENZIONE DI SEGUIRE CASINI DA BERLUSCONI
Che nemesi. Molto più di Massimo D’Alema, che in questi giorni è il precedente più gettonato, è
Ciriaco De Mita l’emblema del bivio cruciale che sta stritolando Matteo Renzi.
De Mita, infatti, bruciò la sua parabola politica assommando, caso unico nel grande circo democristiano, le poltrone di premier e segretario politico.
E proprio De Mita, che il 2 febbraio ha festeggiato 86 anni, sta preparando in questo ore il suo clamoroso ritorno nel Pd.
Colpa di Casini e Berlusconi. Dopo la svolta a destra del capetto dell’Udc, l’ex presidente del Consiglio ha riunito i suoi fedelissimi e in una convention centrista a Napoli ha sparato a zero sulla mossa casiniana: “Tolta al Pdl la base popolare, resta il grillismo. Rimango sconcertato dal fatto che qualcuno possa pensare a un avvicinamento a Berlusconi, populista e antieuropeista. Stare con lui sarebbe irrazionale, è contro natura”.
Implacabile, De Mita rottama anche il patto sull’Italicum: “Casini dice che è una buona legge elettorale. Ma come fa a dirlo? È incostituzionale, nata da un patto tra banditi”.
Per De Mita questo è un fine settimana di incontri e riunioni a ripetizione.
In Irpinia, il suo ritorno nel Pd, ne uscì quattro anni fa per finire nell’Udc, tiene banco da una settimana.
Alcuni suoi amici, rimasti a sinistra, danno per scontato il ricongiungimento con il loro antico leader.
Ecco dal sito Orticalab Rosanna Repole, sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi che fa parte dell’assemblea nazionale del Pd: “Noi che veniamo dalla storia della sinistra di base siamo quello che siamo grazie all’esempio di una classe dirigente di cui il presidente De Mita è sempre stato il massimo riferimento. Dovremmo sempre ricordarcelo. Io non ho mai paura dell’intelligenza. Qualora dovesse accadere quel di cui stiamo discutendo il Pd ne guadagnerebbe”.
Ed ecco Alfredo Todisco del Pd di Avellino: “Qualora il ripensamento di De Mita dovesse trovare concretezza non potrei che accoglierlo con piacere perchè farebbe bene al Pd, soprattutto a quello irpino. Un’evoluzione di questo genere consentirebbe a tanti di oltrepassare l’antidemitismo miope e strumentale, toglierebbe il terreno sotto i piedi ai servi emancipati che in questi anni nulla hanno fatto se non vivere dell’odio e del rancore nei confronti del vecchio padrone”.
Nel Pd irpino la spaccatura però è profonda. Non tutti ammazzerebbero il vitello grasso per il ritorno del patriarca prodigo.
La polemica sfocia nell’analisi storica, vista l’età del personaggio.
Andrea Forgione è un altro dirigente dei democratici avellinesi. Ancora dall’informazione locale: “Il demitismo è una cultura politica basata sulla gestione del potere fine a se stesso. Questo fenomeno politico è durato 50 anni e ha visto la sua massima espressione nel secolo scorso”.
Conclusione: “Se il Pd dovesse accettare il ritorno fra le sue file del demitismo non aspetteremo un secondo a uscire dal Pd e a votare M5S”.
Chissà Renzi come gestirà quest’altro spinoso caso proveniente dalla Campania, dopo la conversione al renzismo del sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Per De Mita, il ritorno nel Pd significherebbe però la rassegnazione a un sistema bipolare, abiurando per il momento la fede nel centro, inteso come luogo dello spirito e dell’elaborazione politica.
È l’Italicum, bellezza.
O da una parte, o dall’altra.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile MENO TASSE SU FAMIGLIE E IMPRESE
Pur avendo poche carte in mano, il premier non intende farsi rosolare da Renzi a fuoco lento fino alla Direzione Pd del 20 febbraio.
«Non possiamo più aspettare – ha spiegato ieri ai suoi appena rientrato da Sochi – dobbiamo rilanciare subito con Impegno 2014».
Anche senza le proposte del Pd.
Così, dopo una domenica di riposo in famiglia, domani Letta aprirà un giro di consultazioni con i partiti della maggioranza per presentare ufficialmente il documento programmatico su cui puntare il suo rilancio.
Un piano in cinque punti: riduzione della tasse su famiglie e imprese, attacco contro la disoccupazione giovanile, rilancio degli investimenti pubblici, piano industriale per digitalizzare e internazionalizzare le piccole e medie imprese, semplificazioni e sburocratizzazioni.
Il documento in realtà è già pronto dal 27 di gennaio, visto che il 29 il premier avrebbe voluto sottoporlo all’esame della commissione europea.
«Ma Renzi – osservano con puntiglio da palazzo Chigi – ci chiese di aspettare le decisioni del Pd».
Adesso basta, Letta parte in contropiede. Il piano non è infatti un generico elenco di buone intenzioni, ma è stato redatto secondo i criteri dei programmi nazionali che i vari membri dell’Ue inviano a Bruxelles.
Quindi contiene provvedimenti concreti e scadenze certe da seguire.
Il premier ha compreso infatti, dopo lo schiaffo ricevuto giovedì in direzione, che lo spazio per la sua iniziativa politica si va restringendo ogni giorno di più e che Renzi punta decisamente a sostituirlo in corsa.
Gliel’hanno riferito gli «amici» del nuovo centrodestra, da Alfano in giù, avvicinati singolarmente in questi giorni da tre fedelissimi renziani: Dario Nardella, Graziano Delrio e Lorenzo Guerini.
Ogni ambasciatore renziano aveva una lista di persone da contattare e un’unica domanda: «Se le cose si mettessero male voi lo sosterreste un esecutivo a guida Renzi per andare avanti tutta la legislatura?».
Già , perchè è questa la novità allettante dell’offerta che i renziani vanno illustrando sia agli alleati di governo sia alle minoranze della sinistra Pd: se a palazzo Chigi arrivasse il segretario democratico, le elezioni ci sarebbero alla scadenza naturale, giugno 2018.
Mentre con Letta, come ha ricordato Renzi in direzione, «sono passati già dieci dei diciotto mesi che ci eravamo dati… ne restano otto».
Tic-tac, il conto alla rovescia è inesorabile.
Se l’aspetto programmatico è il primo che impegnerà Letta, sottotraccia prosegue l’esame delle (poche) opzioni sul tavolo per far ripartire il governo con un nuovo organigramma.
L’incontro tra Letta e Napolitano non è ancora fissato, l’idea è che ogni giorno è buono per salire sul Colle, a partire da martedì.
È saltato infatti il “gentlemen’s agreement” tra Letta e Renzi, caldeggiato da Dario Franceschini, che avrebbe dovuto garantire prima un passaggio tranquillo della legge elettorale alla Camera e soltanto dopo l’apertura della trattativa per il rimpasto. Adesso invece i due vagoni – rimpasto e modifica dell’Italicum – marceranno insieme, creando ulteriori problemi a Renzi nell’affrontare i ricatti dei partiti più piccoli.
Un particolare per cui il premier non si straccerà le vesti.
Il problema vero è come mettere mano alla squadra di governo. Perchè l’ipotesi di un rimpasto leggero, praticabile fino a un paio di settimane fa, rischia ormai di rivelarsi un boomerang: se il ritocco fosse considerato insufficiente, la direzione del Pd potrebbe darne un giudizio negativo e si ricomincerebbe daccapo.
D’altra parte anche l’opzione di un Letta bis è gravida di pericoli.
«Il premier dovrebbe dimettersi – ragiona un lettiano – e Napolitano sarebbe costretto ad aprire le consultazioni. A quel punto i segretari di maggioranza potrebbero indicare Renzi anzichè Letta».
Insomma, il Letta bis, che sarebbe la strada più lineare, può essere percorso solo con un solido patto tra i soci di maggioranza.
Per questo ieri Letta si è preoccupato anzitutto di stringere i bulloni dell’asse con il nuovo centrodestra. Un’operazione andata buon fine visto che prima Angelino Alfano, poi Maurizio Lupi, hanno ripetuto che «Ncd con responsabilità sostiene e sosterrà il governo Letta»
Il resto lo si deciderà al Colle, compresa la lista dei ministri che dovranno essere sostituiti. Il nuovo centrodestra è disponibile a dare una mano al premier, persino rinunciando al Viminale se dovesse servire a Letta per piazzare il renziano Graziano Delrio.
Ma in cambio gli alfaniani chiedono una vera svolta sulla politica economica, che li aiuti a superare il difficile test delle elezioni europee.
La testa che deve rotolare è molto pesante, visto che ha il pieno sostegno di Napolitano: si tratta del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile IL TIMORE CHE SI ARRIVI AL 2018 APRE NUOVE PROSPETTIVE
Sa benissimo di non avere la palla tra i piedi, ma sa anche che – se non va in pressing – rischia la goleada.
Per questo Silvio Berlusconi, dopo i giorni del tiepido interesse nei confronti della possibile nascita di un governo Renzi, sta maturando la convinzione che l’opzione scartata in pubblico appena pochi giorni fa – quella di un voto subito, appena possibile – sia invece da rispolverare e da privilegiare rispetto alle altre.
Siano esse un governo Letta rimpastato che si consuma, un Letta bis o un esecutivo Renzi che, se nascesse, in Forza Italia temono che «mirerebbe ad arrivare al 2018».
A sentire i fedelissimi, in verità , il Cavaliere non ha mai smesso di accarezzare l’idea di una campagna elettorale per le Politiche.
L’ultima probabilmente per lui, quella del «o la va o la spacca», come ha ammesso ieri tra le telefonate a meeting azzurri in Sardegna e ad Aquileia e la puntata a sorpresa alla riunione dei Club Forza Silvio di Milano.
E questo non solo perchè competere per vincere è quello che gli piace di più, ma anche perchè il momento gli sembra improvvisamente, e di nuovo, propizio.
Tornato com’è al centro della scena, decisivo per varare una legge elettorale che potrebbe favorirlo, forte nei sondaggi, polo d’attrazione per i moderati dispersi nei vari partiti e partitini, appassionato della sua nuova creatura, i Club, per i quali ha un’idea al giorno (una delle ultime, quella di farli diventare tramite con professionisti come «dentisti, avvocati» che potrebbero «mettersi a disposizione un giorno a settimana per dare una mano ai bisognosi travolti dalla crisi»).
Ma soprattutto, Berlusconi vede ancora un ruolo per sè, oggi molto più che in un futuro anche prossimo: l’ipotesi che le misure cautelari nei suoi confronti (servizi sociali o arresti domiciliari) scattino dopo le elezioni di maggio gli permetterebbe di fare ancora campagna elettorale, mentre in caso contrario i suoi evocano un «effetto Mandela» che comunque andrebbe sfruttato nel momento di massimo impatto emotivo.
Magari puntando sulla «carta Marina» che continua a essere privilegiata da chi frequenta Arcore: «Se fosse necessario, difficile che sua figlia si sottrarrebbe».
Insomma, il voto non sarebbe affatto un tabù.
E l’innalzamento dei toni di esponenti dell’area moderata come la Gelmini («le larghe intese hanno fallito, serve subito una legge elettorale»), la Bernini (che chiede un Letta «dimissionario al Quirinale»), l’avvertimento del Mattinale di Brunetta («stupisce il silenzio di Renzi sull’operato di Grasso»), l’attacco della Santanchè a Napolitano che «è stato parte attiva della scissione del Pdl», ma anche l’invito a unire subito e senza remore «tutti i moderati» avanzato da Fitto e Gasparri non rappresentano una prova, ma disseminano il campo di indizi.
Questo però, assicurano dall’entourage dell’ex premier, non significa che ci si chiami fuori dal patto con Renzi sulla legge elettorale: «Non dipende da noi, noi vogliamo fare le riforme. Ma se Renzi e Letta vogliono fare D’Alema e Prodi, che possiamo farci?..», allarga le braccia Giovanni Toti.
L’attenzione insomma è tutta a quello che avverrà in un Pd in cui lo scontro al vertice è aperto «a ogni esito», fin dal voto segreto sulla legge elettorale della prossima settimana.
Certo, c’è sempre la possibilità che alla fine il quadro cambi radicalmente, che Renzi approdi a Palazzo Chigi e che Forza Italia debba acconciarsi a un patto con lui dall’opposizione, ma a quel punto Berlusconi andrebbe a trattare le sue contropartite rispetto all’appoggio sulle riforme.
Per questo in tutta la giornata il Cavaliere ha evitato ogni accenno pubblico all’ipotesi di un nuovo governo, tenendo le carte ben coperte.
Ma mandando il messaggio chiaro che le urne non lo spaventano.
Tutt’altro.
(da “il Corriere della Sera“)
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Febbraio 9th, 2014 Riccardo Fucile IL CAVALIERE CREDEVA DI TELEFONARE A UDINE, INVECE AD ASCOLTARLO ERANO I SARDI
The Voice. In collegamento telefonico. Un classico delle tragicomiche berlusconiane. Una voce che
sembra provenire dal soffitto, non dal cielo, e tutti in piedi ad ascoltare. Una volta è pure capitato che parlasse a una platea di sedie vuote.
L’ultima esibizione di B. the Voi-ce supera però tutte le precedenti. Esilarante. Memorabile.
Berlusconi sbaglia comizio. Pensa di rivolgersi agli azzurri di Aquileia, in provincia di Udine. Invece è collegato con l’albergo Miramare di Alghero, dove è in corso una manifestazione con Ugo Cappellacci, governatore sardo che cerca il bis alle prossime regionali.
La gag-gaffe è andata avanti per quasi dieci minuti, nonostante i goffi tentativi dello stesso Cappellacci di avvisare “il Presidente” sotto forma di voce.
Mezzogiorno di abbagli ad Alghero.
In primo piano c’è la faccia di Cappellacci che attende ansioso la Voce dopo il tu-tu del telefonino che dà libero. “Presidente”.
Berlusconi: “Ciao a tutti. Un saluto a Franco, un saluto a Vittorio Covella che so essere l’anima dei club che stanno nascendo lì da voi e un saluto affettuosissimo a Franca che sta facendo benissimo al vostro comitato regionale”.
Cappellacci è spiazzato. Lui si chiama Ugo non Franco o Vittorio.
Il governatore pensa a un’altra boutade di B., tipo “Ugo merda” che cambia nome. Il Cavaliere va avanti: “Consentitemi un’osservazione preliminare: avete fatto apposta a scegliere un posto che si chiama ‘I Patriarchi’, vista la mia veneranda età ?”.
“I Patriarchi” è un albergo-ristorante di Aquileia. Gli ascoltatori-adepti della Voce si guardano in faccia in silenzio, attoniti.
Cappellacci, rigorosamente in piedi (la liturgia dei collegamenti prevede il massimo ossequio per la Voce), tenta di fermarlo. “Presidente, siamo al cinema Miramare di Alghero”.
Ma il “Presidente” non capisce: “Non sento, avvicinatevi al microfono, alla mia veneranda età mi è caduto pure l’udito”. Infatti.
Prosegue come se nulla fosse. Il tono è biascicato, tra l’ubriaco e la caramella in bocca. Berlusconi è convinto di rivolgersi a un club di Forza Silvio. Propala un pippone sul Parlamento anzichè sulle regionali sarde: “Avevamo perso il rapporto con le persone e in Parlamento c’erano i nominati. Questo fatto ha prodotto che i parlamentari non dovevano tornare a casa e occuparsi dei problemi locali e degli amici che dovevano votarli la prossima volta. Questo ha fatto perdere il contatto con i cittadini”.
La Voce dimentica che i nominati li ha voluti per interposta persona, Denis Verdini, anche nel nuovo Italicum, ma questa è un’altra storia.
Colpito dal silenzio della platea, che non accenna a reazioni, nè applausi nè risate, e forse avvisato da chi gli sta vicino ad Arcore, la Voce si blocca d’improvviso.
È ancora più impastata quando riprende a parlare: “Ma non siete il club di Aquileia?”. B. pronuncia club con un dittongo improbabile “claeb” e continua a interrogarsi al buio.
I presenti guardano il soffitto, in segno di rispetto, sperando che la Voce rinsavisca e torni in sè.
Finalmente B. si desta: “Ugo sei tu?”. “Ugo” sorride, annuisce e conferma: “Non ti preoccupare presidente, sei comunque tra amici. Sì, sono io e sei in collegamento con Alghero, siamo al Miramare”.
The Voice esorcizza la gaffe con un’altra battuta: “Hanno infiltrato qualcuno di sinistra anche nella mia segreteria”.
Segue un’apologia della Sardegna e dei relativi festini a Villa La Certosa: “Col mio programma di arrivare a 120 anni non potrò che trasferirmi presto in Sardegna, siete un popolo di ultracentenari. M’importa molto di questa isola che è la più bella del mondo. E potrei aggiungere, quando siamo a tu per tu, altre motivazioni”.
Poi, sulle prossime elezioni politiche: “O la va o la spacca”.
In serata, a Milano, B. si materializza a un’altra riunione e spiega il suo ultimo incidente domestico: “Ho messo un piede su una palla di Dudù e ho fatto un volo di quattro metri, sono planato sulle scale, per fortuna c’era la moquette e non mi sono fatto nulla”.
Ancora: “Stanotte ho finito di scrivere un instant-book sulla magistratura”.
Il berlusconismo è una comica infinita.
Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)
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