Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile CON UN TRUCCHETTO E’ PASSATA LA RIDUZIONE AL 18,7% DELLE TASSE SULLA BUSTA PAGA DI DEPUTATI E SENATORI
I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente.
L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali).
Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia
Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli.
Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento.
Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera).
Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio.
La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno.
Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa).
L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno).
Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa.
Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse.
La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza.
La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario.
La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno).
La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche.
Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro.
Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro.
Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento.
Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento).
L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco).
A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purchè l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi».
Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione.
Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte.
Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica.
Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917).
Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro.
Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta.
Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale.
Per capire meglio, prendiamo un caso concreto. Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita.
Non avviene così nel caso dei parlamentari.
Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato.
Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare.
Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse.
Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri – Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani)
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Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile PARLA MONTI: “NON HO DETTO NULLA DI NUOVO, TANTI IN QUEI GIORNI MI CHIESERO DISPONIBILITA'”
Il Comitato parlamentare per la messa in stato d’accusa ha votato per l’archiviazione della
richiesta di impeachment di Giorgio Napolitano presentata dal Movimento 5 Stelle.
L’istanza è stata ritenuta “manifestamente infondata” con 28 sì.
Per l’archiviazione hanno votato Pd, Ncd, Sel, Scelta Civica, Popolari per l’Italia e Socialisti. Contro i 5 stelle. Forza Italia, invece, non ha partecipato al voto.
Parla Monti
“Non ho detto assolutamente nulla di nuovo”. Così Mario Monti, a Omnibus su La7, torna sulle rivelazioni di ieri a proposito del suo arrivo a Palazzo Chigi.
“Il 2011- spiega il professore – è stata la meno segreta delle mie estati perchè tutti i giorni in quei mesi le cronache si occupavano della crisi finanziaria del paese e del ‘totogoverno’ che è un gioco nazionale. Ricordo persino che in questo paese svizzero nel quale ho passato una parte di quell’estate è arrivata una troupe del Tg5 per farmi delle domande su cosa pensavo sarebbe accaduto al governo e penso che nessuno sapesse di contatti con il presidente Napolitano”.
Poi il senatore a vita rievoca i contatti di quei giorni.
“Avevo avuto all’epoca, tra giugno e luglio 2011, colloqui con il Capo dello stato che mi aveva fatto capire che forse mi avrebbe chiesto una mia disponibilità in caso di bisogno. Io avrei considerato irresponsabile un Presidente della Repubblica che si mettesse nello studio del Quirinale a riflettere vediamo un pò chi può essere a guidare il governo il giorno dopo che il presidente del Consiglio uscente ha rassegnato le sue dimissioni. Questo mi sembrerebbe un modo irresponsabile di assolvere ai compiti di un capo dello stato”. E comunque, sottolinea Monti, “le persone che in quei mesi mi chiedevano se ero disposto a impegnarmi erano decine e decine”.
Sempre a La7 il leader di Sc dice di aver sentito ieri il presidente, con il quale si è chiarito sul tema. “Non credo di aver mancato ad alcun dovere di sensibilità e di riguardo. Sono sempre stato una tomba per quello che riguarda le conversazioni con il capo dello stato nel 2011. Al massimo ne avrò fatto cenno a mia moglie. E’ assurdo ritenere che io abbia detto a Carlo De Benedetti o a Romani Prodi i dettagli di mie conversazioni riservate con Giorgio Napolitano”.
Infine una conclusione ironica: “Tutta questa vicenda mi fa pensare a cosa non si faccia per vendere un libro”.
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Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile CHI GIOCA ALLO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: GRILLO E BERLUSCONI UNITI NELLA LOTTA E RADICI DELLO STESSO ALBERO
C’è un tratto di surrealismo pynchoniano, nella sindrome da complotto che accompagna da vent’anni le avventure di Berlusconi.
Una paranoia che ricorda «L’incanto del lotto 49», le manie ossessive di «Oedipa Mass», le trame oscure ordite dal «Tristero ».
Ogni disfatta del Cavaliere si spiega secondo la teoria del nemico esterno. Tutti complottano contro di lui, le toghe rosse, i mercati finanziari, le cancellerie europee. E naturalmente Giorgio Napolitano, «regista occulto » del ribaltone che nel novembre 2011 portò Mario Monti alla guida del governo.
Tra tutti i teoremi complottistici che ingombrano la mente del Cavaliere, quello che riguarda il presidente della Repubblica è, al tempo stesso, il più ridicolo e il più drammatico.
È il teorema più ridicolo, perchè le «clamorose rivelazioni» raccontate da Alan Friedman nel suo libro sono note da tre anni a qualunque italiano medio che abbia letto un giornale.
Nell’estate 2011 il governo Berlusconi è già alla frutta e la maggioranza che lo sostiene è già in frantumi. La caduta sembra imminente, già allora. Che in quella fase Monti sia uno dei possibili candidati alla premiership, contattato da numerosi esponenti dell’establishment politico ed economico, e che il Professore sia uno dei successori che lo stesso Berlusconi già allora teme di più, lo scrivono i quotidiani.
Solo «Repubblica», in ben due occasioni: il 4 e l’8 agosto, in altrettanti retroscena. Pochi giorni dopo, al cronista che gli chiede se «è pronto ad accettare una chiamata in caso di emergenza per l’economia italiana», lo stesso Monti replica testualmente: «L’emergenza spero venga presto superata, di chiamata spero proprio che non ci sia bisogno. Se avessi sentito imperativa dentro di me la vocazione di far parte di governi, avrei risposto di sì alla richiesta del centro sinistra, della Lega e del Presidente Scalfaro dopo il ribaltone di fine ’94… Allo stesso modo ho rifiutato l’offerta dello stesso Berlusconi di fare il ministro degli Esteri nel 2001 e di sostituire Tremonti all’economia nel 2004». Queste parole Monti le pronuncia l’8 agosto, e non in confessionale, ma al Tg5 di proprietà della casata di Arcore.
Dunque di cosa parliamo?
Quale «svolta» si nasconde, nei colloqui che in quei giorni Monti intrattiene con Prodi e con De Benedetti, per chiedere consiglio sulla prospettiva di una discesa in campo? E quale patetico «attentato alla costituzione» si configura, nell’incontro che lo stesso Monti intrattiene con il Capo dello Stato, fortemente preoccupato per la fragilità del governo del Cavaliere e giustamente interessato a capire la disponibilità del Professore a un eventuale esecutivo di «salute pubblica»?
È fin troppo facile, per il presidente della Repubblica, ricordare ora nella sua lettera il contesto nel quale matura quell’incontro.
C’è un’evidente emergenza politica: dallo strappo di Fini (che fonda Fli ed esce dalla maggioranza), alla faida tra ministri (che vede proprio Renato Brunetta, oggi fervido assertore della tesi complottarda, chiedere a più riprese la testa del nemico Giulio Tremonti).
C’è un’incombente emergenza economica: lo spread non viaggia ancora verso quota 500 (come avverrà a novembre) ma tra giugno e luglio la Legge di stabilità è un Vietnam, viene scritta e riscritta due volte su ordine della Ue, e il 5 agosto la Bce manda al Tesoro la famosa «lettera di messa in mora».
Non è abbastanza per immaginare che quell’armoniosa Costa Concordia si stia per schiantare sugli scogli, tanto più che il suo Comandante Schettino è già penosamente svillaneggiato agli occhi del mondo per i suoi processi, le sue comparsate a Casoria al compleanno di Noemi Letizia, le sue cene eleganti con la D’Addario e le sue telefonate in questura per Ruby Rubacuori?
Non è abbastanza per indurre il Capo dello Stato — rappresentante dell’unità nazionale — a usare i poteri formali che la Costituzione gli attribuisce e gli strumenti informali che la prassi costituzionale gli assegna, per immaginare una qualche «exit strategy» in caso di caduta del governo?
Fa ridere solo il pensiero che per tutto questo i falchi di Palazzo Grazioli, usciti improvvisamente dalle gabbie, partano all’attacco del Quirinale e si associno addirittura all’accusa di «alto tradimento» del Movimento 5Stelle.
C’è poco da stupirsi: berlusconiani e grillini sono due radici dello stesso albero.
Da sempre i populismi crescono nutrendosi della stessa linfa.
Ma al di là del ridicolo, c’è un lato drammatico che colpisce, nel teorema complottistico costruito intorno al Colle.
Perchè, oggi, Forza Italia ricade nella sua rancorosa mania della cospirazione, e riporta l’attacco al cuore delle istituzioni?
Perchè, oggi, Berlusconi lascia che si gettino ombre così meschine sulla più alta carica dello Stato, proprio mentre su un altro piano finge di erigersi a «padre costituente» delle riforme insieme a Matteo Renzi?
Qui è racchiuso il dramma della fase.
Se questa offensiva berlusconiana è frutto di un calcolo politico, oltre che della «patafisica » del complotto, questo può voler dire solo una cosa.
Il Cavaliere si accinge a rompere il patto sulla legge elettorale e a buttare al macero l’Italicum, alla faccia del profilo da «statista» che ha finto in questi giorni.
E se fa questo è perchè al «quizzone» sul destino della legislatura proposto dal leader del Pd (Letta-bis, staffetta premier-sindaco, elezioni) ha già fatto la sua scommessa.
O all’opposizione di un governo Renzi, o alla competizione nel voto anticipato.
In tutti e due i casi, il Cavaliere torna a fare quello che gli è sempre riuscito meglio: gioca allo sfascio.
E lancia una minaccia preventiva a Napolitano: niente scherzi alla Scalfaro, niente «congiure di palazzo».
Una lezione utile per Renzi, sempre più tentato dalla scorciatoia che porta a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Andare al governo con Alfano sarebbe un azzardo numerico: non fai le grandi riforme di sistema con la manciata di voti che al Senato ti garantiscono Pd, Ncd e Scelta Civica.
Andare al governo con Berlusconi sarebbe un assurdo politico: non entri nella stanza dei bottoni con la messe di voti di una destra impresentabile, dopo aver giurato che vuoi farci un patto sulla legge elettorale oggi per non doverci più fare le Larghe Intese domani.
Massimo Giannini
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Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile LA LINEA E’ QUELLA DI TENERE ALTA LA TENSIONE, MA MEGLIO ELEZIONI TRA UN ANNO
«Se Renzi va davvero a Palazzo Chigi, come sembra voler fare, noi facciamo bingo perchè nel
giro di un anno si logora. E anche se Letta resta lì dov’è, con Renzi fuori a sostenerlo, cresceremmo ancor più nei consensi»
«È la conferma del complotto. Da questo momento scateniamo la campagna contro l’artefice del golpe ai miei danni, ma attenzione a non confonderci coi grillini». A Silvio Berlusconi scintillano gli occhi, raccontano, quando già domenica sera anticipa ai suoi commensali ad Arcore quel che ieri mattina avrebbe pubblicato il Corriere.
Al tavolo, siedono Giovanni Toti e la moglie, Alessandro Sallusti e Daniela Santanchè, Mariastella Gelmini e Michaela Biancofiore, Maria Rosaria Rossi, Licia Ronzulli e il capo dell’Esercito di Silvio, Simone Furlan, con un paio di imprenditori suoi amici.
Manca giusto Francesca Pascale, uscita con la sorella.
Il clima è conviviale, molte battute, ma poi il Cavaliere si fa serio ed entra nel vivo. Dice di aver letto il libro di Friedman, parla di quel che sta per essere pubblicato sull’estate 2011 e la presunta strategia per farlo fuori a beneficio di Monti. «Quell’anno un vero e proprio colpo di Stato, come vado ripetendo – ricorda ai suoi – Il tradimento di Fini, tutte quelle visite di Gianfranco al Quirinale in quei mesi adesso si spiegano, torna tutto». Daniela Santanchè è la più operativa, vuole passare all’azione: «Lo dico da tempo che Napolitano è il male di questo paese, a questo punto procediamo con l’impeachment».
Ma Berlusconi a sorpresa la stoppa. «No, noi adesso questa pistola la teniamo sul tavolo, colpiamo duro, ogni giorno, come tu stai facendo, ma non possiamo confonderci coi grillini. I nostri elettori non capirebbero».
Detto questo, non finisce qui.
La trama inizia a essere tessuta in mattinata, quando il caso esplode e viene pompato dallo stato maggiore forzista. Viene concordata con Arcore la nota con cui i capigruppo Paolo Romani e Renato Brunetta pretendono un «chiarimento» dal Quirinale. A metà giornata è solo il senatore Augusto Minzolini a chiedere che venga valutata «sempre con maggiore attenzione» la richiesta di impeachment presentata dal M5s. Sarà l’unico a pronunciare quella parola. Berlusconi ha un’altra idea. Lui tace, non tocca l’argomento, ma manda all’attacco i pretoriani.
Ricominciare a battere fin da oggi sul processo Stato-mafia, per esempio, e sulla mancata testimonianza del capo dello Stato.
In Transatlantico già ieri pomeriggio nei capannelli forzisti si parlava di fantomatiche «carte su Napolitano vecchie di 40 anni ma molto interessanti» che adesso potrebbero essere tirate fuori. Veleni che chiamano altri veleni, la macchina del fango che si rimette in moto.
La linea è tenere alta la tensione. Forza Italia un asse coi 5 stelle lo stringe comunque nel Comitato per lo stato d’accusa riunito proprio ieri. E conferma con il senatore Lucio Malan che «non aderirà alla mozione per archiviare il procedimento di messa in stato d’accusa» dopo le ultime rivelazioni.
Si riprenderà oggi nell’organismo parlamentare, anche se i numeri non mettono a repentaglio certo il Colle.
Le cui motivazioni diffuse nel pomeriggio vengono bollate come «insufficienti». Così il consigliere politico Toti al Tg5, citandole: «C’è chi oggi parla di fumo, ma noi guardiamo all’arrosto». E poi giù con allusioni sempre più pesanti, «regia occulta ai danni del paese» (Giancarlo Galan), «se oggi al Colle ci fosse stato Berlusconi, sarebbero intervenuti i caschi blu» (Deborah Bergamini), «Napolitano non persuade e non chiarisce (Anna Maria Bernini), «è il regista della trama contro Napolitano» (Maria Stella Gelmini) un crescendo fino a Michaela Biancofiore che invoca la «class action contro il Quirinale».
Colle a parte, lo scenario politico muta in queste ore e Berlusconi lo tiene sotto osservazione.
Si dice preoccupato sulla tenuta di Renzi sulla legge elettorale, «i gruppi non lo seguono, vedrete che si potrebbe votare a maggio con la legge venuta fuori dalla sentenza della Consulta». Ovvero un proporzionale con sbarramento e senza premio. E lui si sente già in campagna elettorale.
Si scalderà venerdì in Sardegna chiudendo in vista delle regionali di domenica, prima di tuffarsi sulle Europee. Conferma di volersi candidare: «Chiederò la sospensiva. Non sono eleggibile ma sono candidabile e ci sarò», capolista, nonostante i servizi sociali.
Quanto alle Politiche, «se Renzi davvero va a Palazzo Chigi, come sembra voler fare, noi facciamo bingo perchè nel giro di un anno si logora con l’operazione di palazzo», ragionava a cena domenica sera e ha ripetuto ieri.
Convinto perciò che per Forza Italia se si votasse tra un anno sarebbe comunque meglio: «Anche se Letta resta lì dov’è, con Renzi fuori a sostenerlo, cresceremmo ancor più nei consensi. Ma siamo già in vantaggio di 3-4 punti e il voto a maggio non ci spaventa».
Certo poi ci sono i processi che incombono. Mentre oggi rientrerà a Roma, a Napoli si aprirà quello sulla compravendita dei senatori.
Una nuova spada di Damocle.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile L’INVOLUZIONE MEDIATICA DI RENZI
Forse deluso all’idea di non poter più rottamare nessuno, anche perchè son quasi tutti saliti sul suo carro, Matteo Renzi sta forse pensando a rottamare se stesso.
Una sorta di cupio dissolvi anticipata e forse inconsapevole. Le sue qualità mediatiche sono innegabili: dire niente ma dirlo bene.
Una volta conquistato il soglio della segreteria piddina, Renzi si è però sgonfiato. Sbagliando quasi tutto. Non solo politicamente, ma pure mediaticamente.
Delle sue ultime mosse, l’unica che tutti ricordano è la bravura denotata nel rimettere Berlusconi al centro della scena politica.
Renzi sta sbagliando comunicazione anche in Sardegna. Spara duro non sul rivale teorico Cappellacci, che pure è rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, ma su Michela Murgia. Sguaina la supercazzola e tuona: “Votare Murgia è un voto che mette a posto la coscienza, ma votare Pigliaru mette a posto la Sardegna”.
Poi, nel suo continuo overdose da tapioca prematurata, aggiunge: “Tanta idealità senza concretezza significa fare il bar sport della politica”. Che vuol dire? Niente.
Mentre vuol dire molto, ed è l’ennesimo harakiri mediatico, entrare al Teatro Verdi di Sassari scortato da Gavino Manca, renziano della prima ora e più che altro indagato per peculato aggravato nello scandalo dei fondi regionali.
Il Renzi post-Primarie, di colpo, ha perso le parole. Peggio di lui fanno groupies e apostoli, in equilibrio precario tra impreparato e fantozziano: chi sbaglia ministero (Madia), chi farfuglia in tivù (Morani), chi si vanta di aver firmato la mozione Giachetti senza poi votarla (Bonafè).
E chi, come lo strepitoso Nicodemo, non per nulla responsabile della non-comunicazione Pd, prima esorta su Twitter alla tolleranza (“Applicare le leggi e educare le persone al digitale. Non servono misure restrittive per la rete, ma educazione formazione cultura”) e un attimo dopo dileggia la Murgia come quasi un troll frustrato (“Secondo voi chi si lamenta di essersi svegliata alle 7.30 sarebbe in grado di guidare una Regione come la Sardegna?”).
Renzi rischia di ritrovarsi ora come condottiero di un’Armata Brancaleone sbilenca, capace giusto di generare hashtag da nerd democratici (“#cambiareverso, #cominciamoildomani e magari #comefosseantani).
L’involuzione mediatica di Renzi è palese nel rapporto con Letta.
Come intende agire, esattamente, il sindaco part time di Firenze? Non si sa. Probabilmente non lo sa neanche lui.
In una memorabile intervista a Repubblica di due giorni fa, Renzi ha sostenuto che adesso per il Pd ci sono tre strade: non una, tre. Un’analisi che va bene per uno statista da bar, non per il segretario del massimo (sulla carta) partito italiano. È come se Renzi credesse che la dialettica con Letta sia da equipararsi a una partita di calcio: “1” è Enrico, “2” è Matteo e “X” il Letta Bis.
Un giorno è conciliante con il Premier, quello dopo fa lo sbruffone (su Twitter; dal vivo un po’ meno).
Al mattino pare disponibile alla staffetta, al pomeriggio dice che il rimpasto gli fa venire le bolle e che non vuole finire come D’Alema nel ’98.
Al lunedì vaneggia di riforme del Senato, al martedì è dubbioso sull’esito finale dell’Italicum-Troiaium.
Al mercoledì vuole il voto anticipato, al giovedì torna fedele al partito. Poche idee, e questo è normale; ma confuse, e questo è più strano.
Qualcuno dica a Renzi che, in sala, il film è già cominciato. Anche se lui continua a restare nel foyer, mangiando popcorn e aspettando che qualcuno gli spieghi cosa fare e pensare.
Andrea Scanzi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 11th, 2014 Riccardo Fucile ECCO IL DOCUMENTO: “LEI NON PUO’ RESTARE INERTE, LEI HA IL DIRITTO-DOVERE DI NOMINARE UN NUOVO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO AL POSTO DI BERLUSCONI. UNA FIGURA DI PROFILO ISTITUZIONALE, NON LEGATA AI PARTITI, CON L’UNICO MANDATO DI EVITARE LA CATASTROFE ECONOMICA”
Oggi il Movimento 5 Stelle attacca il Presidente della Repubblica e ne chiede la messa in stato
d’accusa anche (e oggi soprattutto) per il ruolo svolto nella nascita del governo Monti.
Eppure in quell’estate del 2011 era proprio il comico genovese del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, a chiedere a Napolitano di intervenire in una lettera pubblicata sul suo blog il 30 luglio 2011.
Eccola:
«Spettabile presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quasi tutto ci divide, tranne il fatto di essere italiani e la preoccupazione per il futuro della nostra Nazione. L’Italia è vicina al default, i titoli di Stato, l’ossigeno (meglio sarebbe dire l’anidride carbonica) che mantiene in vita la nostra economia, che permette di pagare pensioni e stipendi pubblici e di garantire i servizi essenziali, richiedono un interesse sempre più alto per essere venduti sui mercati. Interesse che non saremo in grado di pagare senza aumentare le tasse, già molto elevate, tagliare la spesa sociale falcidiata da anni e avviare nuove privatizzazioni. Un’impresa impossibile senza una rivolta sociale. La Deutsche Bank ha venduto nel 2011 sette miliardi di euro dei nostri titoli».
«È più di un segnale: è una campana a martello che ha risvegliato persino Romano Prodi dal suo torpore. Il Governo è squalificato, ha perso ogni credibilità internazionale, non è in grado di affrontare la crisi che ha prima creato e poi negato fino alla prova dell’evidenza. Le banche italiane sono a rischio, hanno 200 miliardi di euro di titoli pubblici e 85 miliardi di sofferenze, spesso crediti inesigibili. Non sono più in grado di salvare il Tesoro con l’acquisto di altri miliardi di titoli, a iniziare dalla prossima asta di fine agosto. Ora devono pensare a salvare sè stesse».
«In questa situazione lei non può restare inerte. Lei ha il diritto-dovere di nominare un nuovo presidente del Consiglio al posto di quello attuale. Una figura di profilo istituzionale, non legata ai partiti, con un l’unico mandato di evitare la catastrofe economica e di incidere sulla carne viva degli sprechi».
«Ricordo, tra i tanti, l’abolizione delle Province, i finanziamenti pubblici ai partiti e all’editoria e le grandi opere inutili finanziate dai contribuenti, come la Tav in Val di Susa di 22 miliardi di euro. Gli italiani, io credo, sono pronti ad affrontare grandi sacrifici per uscire dal periodo che purtroppo li aspetta, ma solo a condizione che siano ripartiti con equità e che l’esempio sia dato per primi da coloro che li governano. Oggi non esiste purtroppo nessuna di queste due condizioni».
«In un altro mese di luglio, nel 1943, i fascisti del Gran Consiglio, ebbero il coraggio di sfiduciare il cavaliere Benito Mussolini, l’attuale cavaliere nessuno lo sfiducerà in questo Parlamento trasformato in un suk, nè i suoi sodali, nè i suoi falsi oppositori. Credo che lei concordi con me che con questo governo l’Italia è avviata al fallimento economico e sociale e non può aspettare le elezioni del 2013 per sperare in un cambiamento. In particolare con questa legge elettorale incostituzionale che impedisce al cittadino la scelta del candidato e la delega invece ai partiti. Queste cose le conosce meglio di me. Lei ha una grande responsabilità a cui non può più sottrarsi, ma anche un grande potere. L’articolo 88 della Costituzione le consente di sciogliere le Camere. Lo usi se necessario per imporre le sue scelte prima che sia troppo tardi.
Saluti.
Beppe Grillo».
Questi i fatti.
Il Presidente venne tirato in ballo, in quella difficilissima estate, proprio da chi oggi ne lamenta l’eccessivo protagonismo.
Per chi, anche a destra, ha simpatie per i Cinquestelle, questo è Beppe Grillo.
La “destra vera” detta la strada, non si accoda alle mode.
Basta avere la lungimiranza di individuarla e il coraggio di percorrerla .
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