Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile DEBITI DELLA P.A., CUNEO FISCALE E SOSTEGNO: TANTE CHIACCHIERE, NIENTE COPERTURE
A prendere per buone le parole pronunciate da Matteo Renzi in Senato, ci sarà da svuotare ogni tasca e rompere ogni salvadanaio ministeriale per reperire le risorse necessarie a mantenere le promesse del premier. E probabilmente non basterà .
Non c’è spending review o norma sul rientro di capitali che possa riuscire a saldare il conto salatissimo degli impegni presi nell’aula di Palazzo Madama dal presidente del Consiglio: quasi 100 miliardi di euro.
Come ordine di grandezza, l’Università Bocconi ha stimato a novembre il valore della somma di tutte le maggiori partecipazioni pubbliche.
In altre parole, quanto incasseremmo se vendessimo tutto: Eni, Terna, Snam, Rai, Finmeccanica, Ferrovie, Poste e così via.
Cedere tutto porterebbe nelle casse pubbliche circa 92 miliardi di euro, meno di quanto sarebbe necessario per finanziare l’”Agenda Renzi”.
Sono quattro le misure più importanti annunciate dal premier.
Il primo è un impegno concreto per uno “sblocco totale, dei debiti della pubblica amministrazione”. Che significa, visto che dei 91 miliardi stimati dalla Banca d’Italia il governo ha impegnato risorse — tra 2013 e 2014 — per 47 miliardi di euro, garantire anche i 44 mancanti, trascurando ovviamente i nuovi debiti accumulati.
Cifre pesantissime, che pur reperite attraverso l’emissione di titoli di Stato, rischiano di impattare inevitabilmente su deficit e debito.
Il premier ha ipotizzato già una possibile soluzione: l’utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti come possibile veicolo, cioè sgravare dai conti pubblici —almeno direttamente visto che la Cassa è partecipata in maggioranza dal Tesoro – il saldo dei debiti.
Una soluzione che, al di là degli annunci, va verificata considerati i limiti statutari della Cdp.
Ma la vera proposta shock del sindaco di Firenze, e che ha fatto sobbalzare gli osservatori, è l’impegno per un drastico taglio del costo del lavoro, una “riduzione a doppia cifra” attraverso “misure serie e irreversibili, non solo attraverso il taglio della spesa, per avere nel primo semestre del 2014 risultati immediati e completi”. L’obiettivo del premier è costruire una netta discontinuità con Enrico Letta, che malgrado notevoli sforzi è riuscito a inserire nella Legge di stabilità un riduzione molto modesta del cuneo fiscale, inferiore al punto percentuale.
Così come è stata annunciata — senza limiti al reddito e all’età dei lavoratori — l’operazione varrebbe diverse decine di miliardi, ma è più che plausibile immaginare che il premier opterà per una riduzione selettiva.
Uno studio de lavoce.info ha calcolato quanto costerebbe la riduzione di dieci punti per i soli lavoratori under40, almeno 27,5 miliardi.
Secondo Confartigianato, estendendo il taglio a tutti, la cifra lieviterebbe fino a 34-35 miliardi.
Senza entrare nel merito, Renzi ha ribadito un altro degli impegni più onerosi della propria azione di governo.
L’introduzione, attraverso il Jobs Act, di un sussidio universale di disoccupazione che allarghi il paracadute delle garanzie per chi perde il lavoro anche ai lavoratori autonomi.
Al di là degli annunci bisognerà attendere che il responsabile economico del partito democratico Filippo Taddei traduca le parole del presidente del Consiglio in cifre. Pagina99 ha provato a fare i conti in tasca del provvedimento così come è stato annunciato, e aspettando che venga definita con precisione la platea dei beneficiari, stimando in 18 miliardi la cifra necessaria.
Chiude la serie di promesse del governo, l’impegno per un “un piano per intervenire in modo concreto e puntuale sull’edilizia scolastica, un programma nell’ordine di qualche miliardo di euro”.
L’idea è quella di un piano di investimenti pubblici, ancora non quantificabile, ma che possa avere ricadute dirette sul comparto edilizio.
Un modo da un lato per sanare la situazione allarmante degli istituti- secondo Legambiente circa il 40% oggi sarebbe a rischio — dall’altro per dare una spinta alla crescita.
Come a dire: Quand le bà¢timent, tout va, “quando l’edilizia va, tutto — e quindi l’economia — va”. Un refrain carissimo a uno dei predecessori del premier.
Non Enrico Letta, nè Mario Monti: Silvio Berlusconi.
Quasi 50 miliardi per i debiti Pa, seppur attraverso la Cdp, 30 miliardi per la cura shock sul cuneo fiscale, 18 miliardi per il sostegno universale al reddito, 3-4 miliardi per l’edilizia.
Da sole le misure sfondano quota 100 miliardi.
La prima sfida del premier, conclusa l’abbuffata di promesse, sarà ora spiegare come pagare il conto.
(da Huffingtonpost”)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile L’ACCORDO DELL’ANCI CON LA DUCATI ENERGIA, BENEDETTO DAL MINISTERO DELL’AMBIENTE…ADERI’ ANCHE IL COMUNE DI FIRENZE DI RENZI
Quando era presidente dell’Associazione nazionale dei Comuni, non poteva certo
immaginare che da lì a poco più di due anni, Graziano Delrio, sarebbe diventato il sottosegretario alla presidenza del consiglio di un governo guidato da un altro sindaco, Matteo Renzi.
Ma i due potevano forse avere un po’ più di cautela nella scelta dei ministri, soprattutto in un dicastero chiave come quello dello Sviluppo, dove il pubblico si intreccia indissolubilmente con il privato, e per il quale è stata scelta Federica Guidi.
Delrio, già vicepresidente dell’Anci, arriva al vertice dell’Associazione dei Comuni il 5 ottobre 2011 e uno dei primi atti che firma, il 14 novembre, riguarda un accordo tra l’Anci stessa e l’azienda della famiglia Guidi, la Ducati Energia, con la benedizione del ministero dell’Ambiente, ai tempi sotto la gestione di Stefania Prestigiacomo, pidiellina, molto vicina a Silvio Berlusconi.
L’accordo promuove “la sperimentazione – recita il testo – presso i Comuni italiani del prototipo di bicicletta a pedalata assistita ad alto rendimento e ad emissioni zero sviluppato da Ducati Energia”.
Sono mille biciclette che i comuni con più di 30mila abitanti potevano ricevere in dotazione per combattere l’inquinamento atmosferico nell’ambito di un programma di mobilità urbana.
Il ministero ha stanziato 1,2 milioni di euro, vale a dire 1.200 euro a bicicletta, l’Anci ha veicolato l’accordo a tutti i Comuni, i quali hanno poi partecipato al bando per l’assegnazione.
Alla fine sono stati 42 gli enti, da Cremona a Catania a dividersi le mille biciclette dell’attuale ministro per lo Sviluppo.
Tra questi non poteva mancare la Firenze di Matteo Renzi.
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile “LA FAMIGLIA E’ PROPRIETARIA DI UN’AZIENDA CHE HA MOLTE COMMESSE PUBBLICHE”… “AL SUO DICASTERO ANCHE LE COMUNICAZIONI, PARE UN SEGNALE A BERLUSCONI”
Il «caso» Guidi pesa sul nuovo esecutivo come un macigno, e fa salire il termometro delle tensioni all’interno della maggioranza.
La figlia di una dinastia imprenditoriale piazzata al vertice dello Sviluppo economico è già di per sè un azzardo.
Quando poi si tratta di un’imprenditrice di sicura fede berlusconiana, diventa davvero troppo per un esecutivo a guida Pd.
Tanto che il sottosegretario Graziano Delrio è stato costretto a chiarire, specificare, rassicurare, parlando da Lucia Annunziata.
In buona sostanza ha detto due cose. Primo, che i dossier che potranno suscitare conflitti d’interesse, saranno seguiti direttamente dal premier (come se la cosa cambiasse, anzi… n.d.r.
Secondo, che nella scelta dei tecnici, non si è pensato alle loro inclinazioni politiche.
Questione chiusa? A sentire Stefano Fassina, importante esponente della minoranza Pd, pare proprio di no.
Anzi: la questione è più calda che mai.
Guidi si è dimessa dagli incarichi che aveva in azienda. Questo secondo lei supera il conflitto d’interessi?
«Assolutamente no, perchè lei e la sua famiglia restano proprietari di un’azienda che ha molte commesse dalla pubblica amministrazione. Qui non si tratta di un manager di una public company: le dimissioni sono irrilevanti rispetto al conflitto. Sarebbe utile che il premier affronti questo problema prima di chiedere la fiducia in Parlamento»
Delrio ha detto che il premier seguirà i dossier più esposti al conflitto.
«Immagino sia una battuta. Il conflitto non può essere evitato dall’intervento del premier, per il semplice fatto che l’azienda della Guidi ha molteplici rapporti con la pubblica amministrazione. Non si tratta di evitare singoli dossier: il conflitto si esplica nell’azione di diverse amministrazioni. Parliamoci chiaro: la presenza di Federica Guidi è inopportuna e per quanto mi riguarda inadeguata in un governo a guida Pd».
Si spieghi meglio: a cosa si riferisce?
«Penso al suo orientamento di politica economica, al fatto che è favorevole al nucleare, ed è lontana dalla cultura dell’intervento pubblico in economia, che invece in questa fase è decisivo».
Delrio ha spiegato che, nel caso dei ministri tecnici, non hanno certo chiesto per chi votavano. Insomma, si è seguito un atteggiamento pragmatico.
«Ma siamo seri. Non era certamente necessario chiedere alla Guidi per chi vota, visto che da mesi compare sui giornali come uno dei volti nuovi che Silvio Berlusconi avrebbe voluto in FI».
E come si spiega allora questo incarico?
«Credo che il governo abbia voluto dare un messaggio chiaro a Berlusconi, scegliendo questa persona per un ministero che ha competenza anche sulle telecomunicazioni».
Lei crede alle ricostruzioni che indicano Verdini come regista dell’operazione?
«Io non credo a ricostruzioni, io sto ai fatti. E i fatti dicono che a capo del ministero con competenza sulle tlc c’è una persona vicina a Silvio Berlusconi».
Delrio ha anche annunciato una legge sul conflitto d’interessi.
«Una qualunque decente legge sul conflitto d’interessi renderebbe molto complicata la permanenza di Guidi a quel ministero. Per quell’incarico c’erano molti altri candidati con uno spessore e un orientamento di politica economica più adeguati»
Considera in conflitto d’interessi anche Giuliano Poletti, come dice qualcuno?
“Non mi pare che Poletti sia proprietario della Lega delle cooperative. Il caso è completamente diverso: sarebbe come dire che un esponente del sindacato o della Confindustria non può assumere l’incarico di ministro».
Per le riforme si parla di un accentramento a Palazzo Chigi. Lo ritiene possibile?
«Attenzione: il governo nazionale non è come una giunta comunale. Consiglierei di evitare questa scorciatoia, dato il livello di complessità tecnica e politica. Palazzo Chigi coordina, ma poi resta il protagonismo dei singoli ministri. Considero un errore molto grave aver eliminato il ministero per le politiche europee. Averlo accorpato agli Affari esteri ci fa tornare indietro di 50 anni, quando si considerava l’Europa aspetto della politica estera».
Come giudica la scaletta: legge elettorale, lavoro e fisco?
“Per me il lavoro è una priorità . Ma è anche vero che oggi non serve l’ennesimo intervento sulle regole del mercato del lavoro, ma una politica macroeconomica alternativa. Spero che il premier condivida questo punto del documento della minoranza Pd».
Sul fisco?
«Si dovrà approvare la delega già in Parlamento. Sulle rendite, in realtà sono redditi da capitale, spero ci sia un ripensamento perchè quell’operazione colpisce solo le famiglie e per più della metà conti correnti e depositi postali, per un maggior gettito che supererebbe di poco il miliardo»
Il sottosegretario a Palazzo Chigi ha anche detto che si rispetterà la soglia del 3%.
«Devo dire che Delrio mi stupisce. Avevo inteso che il governo Renzi avrebbe introdotto discontinuità . Noi abbiamo bisogno di andare oltre il deficit tendenziale di mezzo punto di Pil all’anno per aumentare gli investimenti, altrimenti rimarremo in stagnazione e con alta disoccupazione»
Si punta ad aumentare il taglio del cuneo fiscale. È davvero possibile?
«C’è la norma della legge di Stabilità che destina automaticamente a questo scopo le risorse provenienti dalla voluntary disclosure, cioè dall’emersione dei capitali illegalmente esportati. Quella è la strada per intervenire sul cuneo».
Bianca Di Giovanni
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile POVERA MINISTRA LANZETTA, RECUPERATA AL’ULTIMO MINUTO
Nella perenne disputa tra terronisti, e cioè tra italiani del Nord, del Centro e del Sud che
vivono di pregiudizi e rivendicazioni, chi ora rischia di più è proprio lei, l’ex sindaca anti ‘ndrangheta di Monasterace, nella Locride abbandonata.
Al governo non ci sono veneti e piemontesi, eppure chi si lamenta per questo non aggiunge al danno dell’esclusione anche la beffa dell’autoflagellazione.
Nel caso della neoministra, invece, le due cose si sommano.
Matteo Renzi, dicono i sudisti, la usa come alibi, come specchietto per le allodole.
Ma così dicendo, gli stessi inevitabilmente la gettano via, ne sottovalutano la presenza nell’esecutivo fino a ritenerla insignificante.
Cosa vuoi che sia averla ripescata all’ultimo minuto, probabilmente al posto di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria destinato alla Giustizia, per collocarla agli Affari regionali?
È pur vero che prima, con Massimo Bray, Nunzia de Girolamo e Gaetano Quagliariello, di ministri meridionali ce n’erano di più, ma è un fatto che, nella foga localistica, di Angelino Alfano, siciliano di Agrigento, quasi ci si dimentichi.
Così come è un fatto che alla povera Maria Carmela Lanzetta, ieri icona da esibire, oggi nulla venga perdonato.
Perfino quel suo abbandonare la carica di sindaco per protesta contro l’immobilismo generale ora le si ritorce contro.
Eppure, ancora non molti mesi fa, la sua storia, raccolta da Goffredo Buccini in L’Italia quaggiù , riceveva applausi al limite della commozione.
Da sindaca, vestiva camicette di seta anni Settanta; da ministra, sabato al Quirinale era l’unica a indossare gli stivali e non i tacchi a spillo. Lei di certo non è cambiata
Mentre l’Italia leggera, oltre alla genovese Arisa, festeggia il salernitano Rocco Hunt, cantore della Terra dei fuochi, e lo difende dalle battute equivoche della Gialappa’s, l’Italia pesante dei sindacalismi territoriali torna a dividersi.
C’è poco Mezzogiorno nel governo, lamenta da Napoli a Bari. Vero o falso, l’assunto merita una premessa.
Pochi dibattiti si sono rivelati tanto noiosi quanto inconcludenti come quello sulla questione meridionale.
Se dunque Renzi volesse una volta tanto rispondere con i fatti e non con le teorie, perchè scoraggiarlo? Una riforma al mese, ha promesso.
E allora facciamo così: quella relativa al Mezzogiorno mettiamola in coda, a novembre o a dicembre, ma mettiamola.
Marco Demarco
(da “il Corriere della Sera“)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile UN PICCOLO ESERCITO DI ALTI FUNZIONARI E LEGULEI CHE CONTROLLANO E GESTISCONO LE NORME
La “smisurata ambizione” di Matteo Renzi potrebbe essere sgonfiata non solo dal “governicchio appena nato ma anche da quelle cinquanta persone, non elette, che nessuno conosce e che potrebbero avere il potere di vita o di morte sul suo governo.
Sono coloro che controllano e gestiscono la produzione di leggi, l’alta dirigenza di Stato, tutta di formazione giuridica, proveniente per lo più dal Consiglio di Stato o dalla Corte dei Conti, e che seleziona, seziona, amministra, taglia e censura.
Tra le economie più sviluppate del pianeta, l’Italia deve ancora fare i conti con un apparato legislativo e normativo di stampo borbonico.
Un groviglio di leggi, articoli e commi che solo una Casta super-selezionata può provare a governare, riservando per sè, e i propri “discepoli”, un potere decisivo nell’interpretazione delle leggi e nella produzione di quelle nuove.
Gli statali stanno a guardare
Quando si pensa alla burocrazia come organismo pensante che blocca l’attività dello Stato, quindi, non si deve volgere lo sguardo alla pubblica amministrazione il cui peso complessivo si riduce costantemente. Erano 3,5 milioni nel 2008 e sono diminuiti a 3,2 nel 2011 (dati Mef); costavano 172 miliardi nel 2010 per scendere a 165 miliardi nel 2012.
Non è dunque un problema di quantità . Semmai di qualità .
Nei ministeri del fu governo Letta giacciono, infatti, centinaia di decreti legislativi ancora da emanare la cui responsbilità non ricade sui dipendenti.
“Il nostro problema — spiega al Fatto Alessandro Fusacchia, consigliere per la diplomazia economica alla Farnesina e un curriculum di rispetto a Bruxelles — è fondamentalmente l’incertezza giuridica. Abbiamo migliaia di leggi e leggine che insistono sullo stesso argomento, ad esempio il lavoro, e nessuno sa esattamente quali siano le regole. In questo modo nessuno si assume dei rischi e tutto diventa lentissimo ”.
In questa incertezza si annida la rendita di posizione dei “giuristi” cioè i Capi di gabinetto e degli Uffici legislativi, i depositari del potere in ultima istanza.
“Stiamo parlando di circa 50 persone che controllano l’essenziale” spiega ancora Fusacchia. Prima di emanare un decreto legislativo — cioè l’atto che licenzia definitivamente una legge — si deve passare per quegli uffici. Ma anche prima del Consiglio dei ministri c’è sempre un pre-consiglio, la stanza di compensazione dei Capi del legislativo o di gabinetto, in cui si prepara il testo per l’esecutivo.
La Casta dei giuristi affina in quel momento il proprio potere confezionando leggi incomprenbili fino all’ultimo minuto, anche durante lo svolgimento del Consiglio dei ministri oppure mentre il ministro di turno annuncia il provvedimento in conferenza stampa.
“Il problema vero — ribadisce Giovanni Faverin, segretario della Funzione pubblica Cisl — è lo squilibrio tra un eccesso normativo, da un lato, e un continuo rinvio dei decreti attuativi delle riforme: mancano 852 decreti solo per rendere operative le norme dei governi Monti e Letta”. .
Un esercito di legulei
La dirigenza in questione è quasi tutta di provenienza giuridica: Consiglio di Stato, Avvocatura di Stato, Corte dei Conti. Basta guardare i curriculum dei Capi di gabinetto del governo uscente.
Prima di arrivare all’Economia, la laurea in giurisprudenza ha portato Daniele Cabras dagli Uffici studi della Camera a Capo di gabinetto a palazzo Chigi e al ministero della Salute. Alla Giustiza, Renato Finocchi Ghersi è un magistrato di alta professionalità , già assistente alla Corte costituzionale, Segretario generale aggiunto alla Procura della Cassazione e anch’egli già Capo di gabinetto al ministero della Salute.
Agli Interni la dottoressa Lamorgese ha percorso brillantemente la carriera prefettizia e, non a caso, è un avvocato. Goffredo Zaccardi, dello Sviluppo economico, ha presieduto una Sezione del Consiglio di Stato mentre dall’Avvocatura di Stato e dal Tar proviene il Capo di gabinetto delle Infrastrutture, Giacomo Aiello.
Al ministero Lavoro, invece, Francesco Tomasone, dopo essere stato capo dell’Ufficio legislativo, è stato nominato consigliere della Corte dei Conti mentre dal Tar proviene Mario Alberto di Nezza, capo di gabinetto alla Salute ma già capo dell’Ufficio legislativo del Miur e dello stesso ministero in cui si trova adesso.
Come si vede il meccanismo è circolare: dal Consiglio di Stato o dal Tar a un ministero per poi tornare indietro.
Il presidente di palazzo Spada, infatti, Giorgio Giovannini passa dall’Avvocatura dello Stato al Consiglio di Stato ma ha ricoperto anche l’incarico di Capo di Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri del Tesoro e delle Partecipazioni Statali.
L’avvocato Michele Giuseppe Dipace, presidente dell’Avvocatura di Stato, dopo la brillante carriera professionale ha svolto incarichi di Capo di gabinetto e Capo di uffici legislativi.
Il presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, è stato anche lui chiamato a “servire lo Stato”, come Capo del Servizio studi del Ministro per gli affari regionali, Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro per le politiche comunitarie, Capo di Gabinetto del Ministro per i beni e le attività culturali. Un circuito obbligato, tutto nelle mani di giuristi mentre in Europa, spiega Fusacchia, “dominano i policy makers” cioè personale politico di estrazione diversa non per forza specializzato in diritto.
“Ma da noi le leggi vanno interpretate, soppesate, non esistono leggi organiche o testi unici”. “Tuttavia, va detto, — continua ancora Faverin — che la durata a vita degli incarichi dirigenziali ha facilitato la formazione di un ceto di super-burocrati in grado di esercitare un ‘potere ombra’ anche rispetto alla politica”.
Servirebbe, secondo la Cisl, con meno dirigenti e più figure intermedie in grado di misurarsi con l’efficienza quotidiana anche con misure nuove: “Laddove manchi la disponibilità al cambiamento, sostiene Faverin, si deve prevedere il ricollocamento del dirigente nei ranghi del personale di comparto”.
Una Repubblica fondata sul comma
Il pallino torna così alla “politica” che non può certo cavarsela puntando il dito contro la grande burocrazia di Stato. La Repubblica dei “commi” infilati in questa o quella legge, spesso all’ultimo minuto, non ha scusanti.
Nell’ultima legge di Stabilità sono stati 749. In altre finanziarie anche di più. Il meccanismo è ampiamente conosciuto come “l’assalto alla diligenza” e di comma in comma si costruisce un mostro giuridico caratterizzato da quella che Fusacchia chiama “l’ambiguità costruttiva.
“Si fanno apposta delle leggi in grado di essere diversamente interpretate oppure di rinviare a decreti attuativi in modo da non esacerbare gli scontri politici”. In questo gioco nessuno è esente.
Il meccanismo del “comma”, dell’incertezza giuridica, del potere dei legulei, è servito a inondare la società italiana di sussidi e favori, di privilegi e misure ad hoc o ad personam. Il meccanismo è tutto politico, sistemico e attiene al modo in cui questo Paese è stato governato e si è fatto governare.
Spezzare tutto questo costituirebbe una novità rilevante. Renzi ci spera ma oltre a quei cinquanta dovrà guardarsi anche dai 500 seduti alla Camera e al Senato che hanno già prenotato un posto sulla prossima diligenza.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile TANTI DETTAGLI SENZA UNA VISIONE D’INSIEME: RENZI FA UN DISCORSO SCONNESSO DOVE PROMETTE IL TAGLIO DEL CUNEO FISCALE DEL 10% E IL PAGAMENTO DEI DEBITI DELLA P.A…. CON CHE SOLDI NON LO DICE: TIEPIDO APPLAUSO PERSINO DAL PD
Molti dettagli, alcuni condivisibili, altri ragionevoli. Interventi sull’edilizia scolastica,
rammendare le periferie, dichiarazione dei redditi precompilata da inviare a casa, rifare gli argini…
Un discorso da sindaco ma non da statista.
Senza una visione complessiva che tiene insieme tutto.
Matteo Renzi ha parlato al braccio davanti al Senato a cui ha chiesto – si è augurato per l’ultima volta – la fiducia, e la spontaneità dell’intervento è forse andata a discapito della istituzionalità . Un discorso all’attacco (contro i M5s), ma non all’altezza e un po’ sconnesso, anche grammaticalmente.
Con molti pezzi ripresi da occasioni pubbliche come la Leopolda o recenti interventi da segretario del Pd (l’aneddoto della bambina a scuola immigrata..).
Sull’economia promesse importanti come lo sblocco totale dei debiti della Pubblica amministrazione e la riduzione a due cifre del cuneo fiscale, ma non è stato presentato nessun numero a sostegno di queste promesse, se non generici riferiment alla cassa Depositi e Prestiti diventata il pozzo di San Patrizio.
Siginificativi i commenti del sen. Compagna nelle orecchie di Manconi (Pd): “Sto Renzi è proprio un imbecille…” e di Matteoli (Pdl) a Sposetti del Pd: “Io posso anche farmi rottamare, ma non da questo qui! Portatecene un altro!”
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile NE BASTANO 161 SE TUTTI PRESENTI… SOTTO QUOTA 170 PER RENZI CI SAREBBE DA PREOCCUPARSI
169. I senatori che dovrebbero votare la fiducia a Matteo Renzi a prescindere da quel che dirà oggi a Palazzo Madama sono otto in più del numero minimo che occorrerebbe all’ex rottamatore per incassare il via libera dalla Camera alta.
Si raggiungono sommando i 107 del Pd (Pietro Grasso, per prassi, non parteciperà al voto), i 31 del Nuovo Centrodestra, i 12 delle Autonomie (compresi i senatori a vita Elena Cattaneo e Carlo Rubbia, che hanno perfezionato l’iscrizione a quel gruppo), gli 8 di Scelta Civica (che comprendono Mario Monti), e 11 di Per l’Italia, tutti tranne Maurizio Rossi, che ha annunciato la sua uscita dall’aula.
A questi si potrebbe aggiungere Carlo Azeglio Ciampi, anche se la sua presenza nell’emiciclo è molto incerta, mentre Renzo Piano quasi sicuramente non ci sarà , impegnato all’estero per impegni professionali.
Una maggioranza molto simile a quella sulla quale faceva affidamento l’esecutivo di Enrico Letta. Con l’incognita del gruppo dei popolari, guidato da Mario Mauro e da Andrea Olivero.
Proprio il capogruppo di PI la nostra ha rimarcato: La nostra fiducia fiducia non significherà che lo sosterremo su tutto.
Non essere stati chiamati a far parte della compagine di governo ci rende attenti e rigorosi nel valutare le scelte di Renzi”.
Nessuna partita sulle poltrone di sottogoverno, assicura, un voto positivo arriverà per il rapporto particolare che lega l’ex ministro della Difesa a Giorgio Napolitano.
Dunque per oggi da quel versante non dovrebbero arrivare sorprese per Renzi, che in futuro dovrà monitorare con attenzione le fibrillazioni dei centristi, senza i quali scenderebbe sotto la sopravvivenza dei 161 voti.
La maggioranza del nuovo esecutivo potrebbe essere rimpolpata da una manciata di voti provenienti dai fuoriusciti del Movimento 5 stelle e dal grppo Grandi autonomie e libertà .
Gli autonomisti sono sotto la lente d’ingrandimento. Tre di loro votavano regolarmente insieme alla compagine lettiana: Giuseppe Compagnone, Michelino Davico e Antonio Scavone.
Proprio quest’ultimo ha fatto parte della delegazione che ha incontrato negli scorsi giorni il presidente del Consiglio. “Il nostro voto dipenderà dalle sue dichiarazioni programmatiche”, spiega oggi.
Ma i segnali che manda non sono incoraggianti: “Gli ho portato personalmente un pamphlet dove segnalavo la necessità di mettere al centro dell’azione del governo l’emergenza Sud, come architrave di uns strategia nazionale per far fronte alla crisi. Finora non mi pare che si sia sentito nulla in tal senso, le nostre richieste non ci è sembrato che abbiano riscontrato grande attenzione, così come su questo versante eravamo già rimasti delusi da Letta e da Angelino Alfano”.
Nonostante le perplessità , i loro voti potrebbero far toccare quota 172 ai favorevoli. Escluso un ripensamento dei componenti di Gal finora schierati all’opposizione. “Non voteremo nel modo più assoluto la fiducia – spiega il vicepresidente Vincenzo D’Anna – Poichè non sono sorti fatti nuovi rispetto la precedente esperienza e nessuno ci ha contattato non vedo perchè dovremmo farlo”.
Divisa anche la pattuglia dei quattro fuoriusciti dal M5s.
“Voterò no”, spiega Paola De Pin. “Un no che non significa chiusura totale – aggiunge – sui provvedimenti mi aspetto molto, spero di rimanere favorevolmente colpita”.
Con lei Adele Gambaro, orientata sul no o sull’abbandono dell’aula.
Più incerta Fabiola Anitori (“È la più vicina al nostro gruppo”, spiegano i colleghi del Pd) e Marino Mastrangeli (“Dipenderà dal discorso di Renzi”).
Con loro l’asticella si alzerebbe fino a quota 174, oppure 176 se i due no si tramutassero in sì. Una soglia che metterebbe al sicuro il premier anche da eventuali colpi di testa dei Popolari (senza i loro dodici voti si arriverebbe comunque a 162).
Non sarà uno scenario utile a stare tranquilli, ma, come diceva uno che di queste cose qualcosa capiva, un voto di maggioranza è solo “un voto in più del necessario per governare”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile FINE DEL SECONDO SPOT DI RENZI: DA FIRENZE A ROMA CON L’AUTO BLU CON RELATIVA SCORTA
La campanella ha suonato, seppur la consegna di Enrico Letta non sia di buon auspicio per il
Partito democratico.
Oggi Matteo Renzi andrà al Senato per chiedere la fiducia, il discorso l’ha limato a Palazzo Chigi, dov’è rincasato (è la sua residenza romana) nel pomeriggio, ma il presidente deve già rimediare a un paio di topiche evidenti.
Il caso Nicola Gratteri non è archiviato, anche se il diretto interessato non vuole commentare: il segretario democratico, ormai i fatti sono noti, è salito al Colle con la casella Giustizia per il magistrato calabrese e ne è uscito con Andrea Orlando.
Il sottosegretario Graziano Delrio ha confessato che Gratteri potrebbe riapparire col ruolo di consulente: “Le porte sono aperte”, assicura a In Mezz’ora .
Le parole sono di Delrio, ma il pensiero è di Renzi. E così anche il ministro Orlando, catapultato in via Arenula per riparare al pasticcio, ha in agenda un appuntamento con Gratteri.
Delrio e Renzi vogliono recuperare il rapporto che Gratteri, assieme a Raffaele Cantone e un gruppo di togati e tecnici riuniti in una commissione di Palazzo Chigi, aveva consegnato a Enrico Letta.
Per il Consiglio dei ministri di febbraio, il governo di Enrico I aveva pronto un decreto legge, ma l’allora rampante segretario voleva il famoso patto 2014, e l’esecutivo fu costretto a galleggiare anche su questo punto.
La minoranza democratica fa notare con malizia: Renzi riparte da Letta, un cambio di verso (al passato).
Il presidente voleva offrire ai senatori una cronistoria, non essenziale, degli attriti e dei contatti con Letta prima di votare la sfiducia in direzione al Nazareno : farà un accenno, non di più.
Perchè i democratici si sono ricompattati, e anche il potenziale scissionista Pippo Civati è rientrato.
Per una particolare combinazione aritmetica, il sondaggio “governo sì o governo no” è finito in parità , ma l’ex compagno di rottamazione ha assicurato il sostegno a Renzi. Anche i Popolari per l’Italia di Mario Mauro e i centristi di Pier Ferdinando Casini, che s’aspettano una ricompensa fra i 47 viceministri e sottosegretari da nominare domani, vanno spediti per reggere il Renzi I.
I numeri di Palazzo Madama migliorano, ma il presidente deve manovrare in spazi stretti. Ancora Delrio rinnega qualsiasi ipotesi di patrimoniale — argomento che fa agitare Angelino Alfano e il drappello di Ncd — ma butta in mischia la tassa sui buoni ordinari del Tesoro (Bot): “A una signora anziana con 100 mila euro da parte — spiega a Lucia Annunziata — non accade nulla se ne sottrai 25 o 30, non avrà problemi di salute”.
I risparmiatori e le associazioni insorgono con rapido automatismo .
Coro di Forza Italia: “à‰ la solita sinistra”.
Susanna Camusso (Cgil) avvia lo scontro con il sindacato rosso: “Segnale sbagliato. Il ceto medio ha già pagato”.
E per fortuna, attraverso Twitter, Renzi aveva ammonito: “Niente annunci spot”.
O peggio: voleva 24 ore di silenzio; i ministri, però, dichiarano ovunque (record per Stefania Giannini, Istruzione).
Ma Graziano Delrio, figura stanziale accanto a Renzi in questi giorni di mediazioni e trattative, prova a spaventare gli alleati-avversari: “O facciamo le riforme che servono o non abbiamo paura di andare al voto”.
Per Palazzo Madama, Renzi s’è appuntato quattro-cinque argomenti fondamentali col solito traguardo dei cento giorni di quiete di maggioranza: incentivi per l’occupazione, cioè meno pressione fiscale per le imprese; dieta per burocrazia e pubblica amministrazione; legge elettorale in pochi mesi; riorganizzazione per il sistema giustizia (c’è tempo, dopo la primavera).
Delrio ha precisato che non ci sarà la diarchia Palazzo Chigi-Tesoro, ma un piccolo cortocircuito va risolto: ieri sera Renzi, dopo una telefonata con la cancelleria Angela Merkel, ha incontrato Pier Carlo Padoan, titolare di via XX Settembre, che si ritrova un programma ancora prima di giurare.
Notizia sul Renzi style: ieri mattina è andato a messa senza scorta a Pontassieve con l’auto di famiglia, ma è tornato a Roma con l’auto blu.
I servizi segreti sono perentori: il presidente del Consiglio non può muoversi senza scorta.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 24th, 2014 Riccardo Fucile SONO 50 LE POLTRONE MESSE IN PALIO DA RENZI, META ANDRANNO AL PD , DIECI A NCD: SI VA VERSO LA CONFERMA DEI “VECCHI”
Con effetto immediato, la variopinta maggioranza s’appresta a votare il Renzi I.
E un attimo dopo aver schiacciato il tasto giusto, la fiducia al governo, i gruppi si riuniscono per stilare l’elenco di sottosegretari e viceministri: ballano 47 poltrone o persino 50.
Enrico Letta, beffardo, sostiene che la struttura di Palazzo Chigi non è cambiata.
E lo dimostra il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, che chiede, anzi pretende la conferma dei propri rappresentanti: dieci posti con qualche variazione.
Non sarà rimosso Luigi Casero al Tesoro, piuttosto verrà rafforzato con la presenza di Enrico Zanetti (Scelta Civica).
Inamovibile Gioacchino Alfano (Difesa, Ncd), Simona Vicari (Sviluppo, sempre Ncd, ex collaboratrice di Schifani) e i montiani Carlo Calenda (Sviluppo) e Ilaria Borletti Buitoni (Cultura).
Il giuslavorista Pietro Ichino e l’ex Italia Futura Irene Tinagli, coppia di Scelta Civica, si giocano il ministero per il Lavoro.
Su più fronti, in corsa anche Benedetto Della Vedova, montiano.
Scippati di un ministero a favore di Gianluca Galletti (Udc), i Popolari per l’Italia di Mario Mauro e Lorenzo Dellai saranno ricompensati con (almeno) quattro seggiole.
I nomi: Maurizio Rossi, Gea Schirò e l’uscente Mario Giro.
Ha ottime possibilità il nipote di Ciriaco De Mita, Giuseppe, vicecapo-gruppo dei Popolari per l’Italia in quota Udc: la ragione politica, fra casiniani e mauriani (da Mario Mauro), non è facile da spiegare, ma il deputato potrebbe riscoprirsi sottosegretario o addirittura viceministro.
Su 47 caselle disponibili, la metà sono riservate ai democratici.
Renzi non vuole sguarnire il fronte partito: dopo Marianna Madia e Maria Elena Boschi, soltanto Luca Lotti passerà al governo, esattamente a Palazzo Chigi.
Il responsabile organizzativo Pd, da un decennio vicinissimo al presidente, sarà sottosegretario a Palazzo Chigi e potrebbe ricevere la delicata delega per i servizi segreti, anche se Marco Minniti potrebbe restare dov’è.
Esclusa al Nazareno e al governo, Simona Bonafè potrebbe rientrare, ormai è quasi sicuro, in veste di sottosegretario.
La senatrice (e già sindacalista) Valeria Fedeli andrà al Lavoro; sarà richiamato a Roma il collega irpino Vincenzo De Luca, non eletto, e omonimo del sindaco di Salerno (che già prepara la candidatura per le regionali in Campani).
Coltiva speranze, per il momento un po’ flebili, l’ex bersaniana Alessandra Moretti.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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